Borsa, quando tutti vendono

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Borsa, quando tutti vendono
Borsa, quando tutti
vendono...
di Angelo Abbondio
Una correzione sorprendente
«Questa volta è diverso». È questo il leit motiv che circola ogni volta che i mercati azionari si trovano ad affrontare una situazione straordinaria come quella attuale. Effettivamente
ogni crisi è diversa da quelle precedenti, e questa in particolare è divampata in condizioni
anomale rispetto al passato: di solito i mercati scendono dopo essere saliti troppo, allo scoppio della cosiddetta “bolla speculativa”. Questa volta il mercato ha subito la crisi di un settore, quello finanziario, a sua volta contagiato dalla crisi dei mutui subprime.
Se un anno fa, prima dell’inizio della crisi, le valutazioni dei mercati azionari erano
generalmente corrette e in alcuni casi mostravano addirittura una sottovalutazione rispetto
al mercato obbligazionario, oggi ci troviamo di fronte a valori storicamente molto bassi.
La correzione intervenuta sui mercati azionari è infatti tanto più sorprendente se si
considerano i fondamentali che da sempre sono alla base delle valutazioni dei titoli quotati, ossia gli utili, le prospettive aziendali, i tassi di interesse, il premio per il rischio.
Analizzando i principali indicatori fondamentali relativi al nostro mercato ci troviamo
con un rapporto prezzo/utili per il 2007 pari a 12,5, contro un valore medio degli ultimi dieci
anni intorno a 20; un dividend yield pari al 4,5%, contro un valore medio nell’ultimo decennio del 3%; infine un inverted yield, ossia il confronto tra il rendimento azionario (considerato il rapporto utile per azione diviso prezzo) e il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni,
pari a 1,74, contro una media decennale intorno a 1. Quest’ultimo dato sta a indicare la
valutazione del mercato azionario rispetto al rendimento dei titoli di Stato: quando il primo
valore è più alto del secondo indica una sottovalutazione delle azioni.
La situazione del mercato azionario è quindi completamente diversa da quella del
2000, all’epoca del boom dei titoli del settore tecnologico, quando gli indicatori fondamentali segnalavano già da tempo una sopravvalutazione, che però non è stata presa in considerazione fino allo scoppio della “bolla”; la situazione odierna è più il frutto della paura che
della realtà economica oggi prevedibile, e la forte sottovalutazione dei mercati è speculare
ai livelli raggiunti allora da tanti titoli di società della cosiddetta new economy: oggi possiamo vedere i risultati prodotti da quella fase di rialzo anomalo e allora giustificato dalla convinzione di essere di fronte a una prospettiva nuova, tipo «questa volta è diverso».
Angelo Abbondio è
Presidente di
Symphonia SGR,
di cui è stato
fondatore.
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L’origine della crisi
Il ribasso in corso è stato innescato, dunque, dalla crisi dei mutui subprime e più in
generale dall’indebitamento delle famiglie americane, abituate da decenni a indebitarsi contando sul fatto che il bene dato a garanzia, generalmente la casa, aumentasse di valore in
misura più che proporzionale rispetto all’aumento del debito. La situazione è diventata insostenibile quando l’indebitamento, cui ha potuto accedere anche chi non era in grado di fornire le più elementari garanzie necessarie, è arrivato a livelli talmente elevati (130% del reddito annuo disponibile) da generare un’incapacità di rispettare le scadenze delle rate, nel
momento in cui tanti debitori si sono trovati a fronteggiare una frenata dell’economia, un
aumento dei tassi di interesse, un ribasso del mercato immobiliare.
A questo punto tanti proprietari di case, che erano ricorsi al finanziamento di un mutuo
ipotecario, sono diventati insolventi e l’ondata di svalutazioni che ha colpito i loro debiti si è
ben presto abbattuta sulle banche e sulle società finanziarie specializzate nelle erogazioni di
mutui, innescando una crisi finanziaria le cui dimensioni sono ancora da scoprire.
C’è la possibilità che le svalutazioni attuali possano rivelarsi nel tempo eccessive, dal
momento che le società di revisione sono oggi particolarmente severe nel richiedere che gli
attivi di bilancio siano valutati al prezzo corrente di mercato, prezzo penalizzato sia dall’attuale avversione al rischio che dalla necessità di alcuni operatori di vendere a qualunque
costo per ricostituire i margini erosi dal ribasso del valore dei beni dati in garanzia, in una
spirale che si autoalimenta e che potrà fermarsi solo quando l’indebitamento sarà ricondotto a livelli sostenibili.
Le reazioni del mercato
In questa situazione assistiamo al ripetersi del solito copione: quando la Borsa scende, scende tutto, i risparmiatori sono sempre più spaventati e disinvestono per la paura di
incorrere in perdite ancora più pesanti, senza fare distinzione tra i titoli del settore finanziario, che possono essere esposti a nuove svalutazioni, e società che continuano nella loro
crescita economica senza problemi.
Oggi gli operatori sono preoccupati perché non sono in grado di valutare l’entità delle
perdite latenti sugli investimenti dei gruppi bancari, assicurativi e finanziari, e non conoscono i tempi necessari perché venga assorbita la crisi finanziaria; manca la visibilità sulla
dimensione e sulla durata del rallentamento dell’economia Usa; non è chiaro in che misura
le difficoltà del mercato del credito potranno ripercuotersi su un’economia europea già appesantita dallo sfavorevole andamento del cambio.
La scarsa visibilità impedisce di individuare tanto la durata quanto la dimensione
della crisi in atto (chi parla di 200 miliardi di dollari di perdite, chi di 500, chi di 1.000);
una prima verifica potrà essere effettuata prossimamente, con le indicazioni che emergeranno dai dati del primo trimestre 2008, quando le società del settore finanziario dovranno
dar corso a ulteriori svalutazioni dei titoli in portafoglio e le società industriali inizieranno a
risentire del peggioramento del clima economico.
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Nel frattempo i dati che vengono continuamente sfornati sono sempre più motivo di
pessimismo: il dollaro che registra ogni giorno nuovi minimi storici sull’euro, la continua revisione al ribasso del rating da parte delle agenzie di valutazione, le voci allarmanti su imminenti crisi di liquidità di alcune tra le maggiori banche americane, la contrazione dell’indice manifatturiero, il declino dell’occupazione, il ribasso dei valori immobiliari, l’aumento
dell’inflazione, il continuo rialzo del prezzo del petrolio e delle derrate alimentari alimentano preoccupazioni sempre più diffuse sulla tenuta dell’economia e, nel clima di incertezza
e di paura che si è creato, il consumatore spende meno, mentre le aziende rinviano sia gli
investimenti che le nuove assunzioni di personale.
In questa situazione le due più importanti Banche centrali continuano a perseguire
obiettivi diversi: per la Banca centrale europea l’obiettivo principale è quello di mantenere
sotto controllo la stabilità dei prezzi più che di favorire la crescita dell’economia, mentre la
Federal Reserve è orientata a evitare i rischi di recessione.
L’investimento azionario
Ai prezzi attuali i mercati azionari scontano sia uno scenario di recessione per l’economia Usa che un significativo rallentamento dell’economia europea e dei Paesi emergenti,
con un conseguente ridimensionamento degli utili attesi. Dando quindi per scontato che la
crisi finanziaria non mancherà di avere ripercussioni sull’economia, le quotazioni attuali presentano un notevole potenziale di recupero: non si contano i titoli di società il cui dividendo offre rendimenti decisamente superiori a quelli dei titoli di Stato, sia
pure tenendo ben presente la preoccupazione circa il mantenimento di tali
dividendi. Il recente episodio Telecom non fa testo, in quanto per le esiNel nostro Paese
genze finanziarie degli azionisti di maggioranza degli ultimi dieci anni il
in particolare,
gruppo ha sempre distribuito l’intero ammontare degli utili, sacrificando
la disaffezione e
anche le esigenze di investimento aziendali. Gran parte delle società quola paura verso
tate distribuisce invece sotto forma di dividendo una percentuale intorno al
l’investimento
50% dell’utile generato.
Nel nostro Paese in particolare, la disaffezione e la paura verso l’inazionario partono
vestimento azionario partono da lontano e sono state generate da diverse
da lontano.
cause, tra cui un’informazione non sempre adeguata sui rischi che l’investimento comporta, un approccio speculativo di breve termine anziché una
corretta ottica di durata dell’investimento, l’ingresso sui mercati nei momenti di euforia,
quando i prezzi hanno raggiunto o superato il limite di convenienza, la mancanza di abitudine a considerare le azioni quale parte stabile in cui è investito il proprio patrimonio.
L’emorragia inarrestabile dei disinvestimenti nei Fondi comuni azionari ha intensificato il flusso in questi primi mesi del 2008, tanto che a tutt’oggi, sul patrimonio complessivo del sistema Fondi gestiti da Sgr (Società di gestione risparmio) domestiche, la percentuale rappresentata da azioni è di circa il 20%, e di questa solo poco più del 4% è costituita da azioni italiane, corrispondenti a meno del 2% della capitalizzazione di tutta la nostra
Borsa.
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Se si pensa che nel 1986 tale percentuale era arrivata a superare abbondantemente
il 10%, si vede quanto bassa sia oggi la presenza di azioni domestiche nei portafogli dei
fondi, e quindi dei risparmiatori che investono tramite questi strumenti.
Uno scenario più negativo della realtà
L’esodo dai Fondi azionari è indicativo anche dell’atteggiamento dei risparmiatori
verso l’investimento azionario operato direttamente, e l’aumento di velocità registrato in queste settimane segnala che siamo ormai prossimi alla conclusione della fase di disinvestimento, siamo cioè arrivati al momento in cui “tutti vendono”. Che le quotazioni di Borsa non
riflettano il valore reale delle società è tra l’altro testimoniato dai prezzi ai quali sono scambiate le società oggetto di offerta da parte di chi vuole acquisirne il controllo: agli azionisti
Yahoo è stato recentemente offerto un prezzo, da parte di Microsoft, più alto del 50% rispetto alle quotazioni precedenti.
Anche sul nostro mercato non mancano gli esempi: le banche che devono dismettere
parte dei loro sportelli trovano acquirenti a prezzi intorno a 10 milioni di euro a sportello: se
si valutassero con lo stesso criterio le banche quotate, considerando il valore del patrimonio
netto, si arriverebbe a valutazioni ben superiori a quelle attribuite in questo momento dal
mercato.
Un altro esempio riguarda tanti azionisti di maggioranza e società (ossia coloro che
meglio di tutti conoscono il valore e le prospettive delle società in cui investono) che stanno procedendo al riacquisto di azioni proprie, in quanto evidentemente non ritengono che la
situazione precipiti al punto da pregiudicare indefinitamente lo sviluppo delle loro attività.
La crisi finanziaria si è oggi trasformata nella più assoluta avversione al rischio, tanto
da estendersi ai mutui normali, ai debiti degli enti pubblici, ai debiti societari e ultimamente
anche ai titoli di Stato di alcuni Paesi all’interno dell’Unione Europea: i decennali italiani
offrono oggi un rendimento di oltre 60 punti base superiore ai Bund tedeschi, raggiungendo
una divaricazione mai raggiunta dal momento dell’introduzione della moneta unica.
Adesso che la crisi si è ormai trasmessa a tutti i settori del mercato finanziario si può
quindi ragionevolmente ritenere che tra non molto si potrà fare chiarezza sulle reali dimensioni del problema e quindi sulle reali perdite che dovranno essere assorbite. La mia convinzione è che lo scenario prospettato sia più negativo rispetto alla realtà, e non mi meraviglierei se ancora una volta dovessimo constatare che i mercati sono stati irrazionali, contagiati da fattori più emotivi che fondamentali, e dovessimo accorgerci che i prezzi raggiunti
avrebbero potuto rappresentare un’importante opportunità di investimento.
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