Uccidere per onore: e la donna diventa vittima

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Uccidere per onore: e la donna diventa vittima
Uccidere per onore: e la donna diventa vittima
Da Occidente a Oriente, storie simili. Ma con una differenza
Sentendo l’espressione “delitto d’onore”, saranno in molti a pensare alla celebre commedia
Divorzio all’italiana, diretta da Pietro Germi nel 1961 e interpretata da un magistrale Marcello
Mastroianni. Il divertente film raccontava le avventure di Fefè (Mastroianni), spostato alla
opprimente Rosalia, donna ormai bruttina, e segretamente innamorato della giovanissima
cugina interpretata da una bellissima Stefania Sandrelli. In un’Italia in cui ancora non si poteva
divorziare, ma esisteva il “delitto d’onore” con benevole attenuanti, Fefè, desiderando amare
liberamente la giovane Sandrelli, cercava di indurre la moglie a tradirlo per poi ucciderla. Il
regista si scagliava contro l’anacronistico articolo 587 del nostro Codice penale che prevedeva
un’attenuazione della pena per i delitti motivati dalla preservazione dell’onore: «Chiunque
cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell´atto in cui ne scopre la illegittima
relazione carnale e nello stato d´ira determinato dall’offesa recata all´onor suo o della famiglia,
è punito con la reclusione da 3 a 7 anni». La norma, nonostante vari tentativi precedenti, fu
abolita solo con la legge numero 442 del 5 agosto 1981. E, dimenticando l’ambientazione
divertente e provocatoria del film di Germi, fu per molto tempo la base, la “giustificazione” di
delitti, che aspiravano a lavare col sangue l’offesa subita. La preservazione dell’onore.
Una motivazione che ha spinto ad uccidere. Una motivazione che molto spesso ha trovato
riscontro nel nostro paese, soprattutto al Sud. Basti pensare allo scultore Filippo Ciffariello, che
aveva sposato la bellissima diciottenne Maria de Brown e la sorprese con l’amante alla
pensione Mascotte di Posillipo. Sparò un solo colpo. Ebbe clemenza dalla corte, fu assolto per
avere vendicato lo sfregio. Era il 1905. O a Luigi Millefiorini, che uccise la moglie Giovanna a
Roma, in via Appia. La donna aveva una relazione con un certo Leone. In primo grado Leone
giurò di non avere mai sfiorato con un dito Giovanna e Luigi fu condannato a 3 anni e 6 mesi di
reclusione; in appello l’uomo confessò di essere l’amante e la condanna per Luigi scese a 7
mesi. Era il 1954. O al maresciallo di polizia Alfonso La Gala, che colpì la moglie Anna con un
tubo di ferro nella loro casa di Aversa. Lei aveva confessato di amare un altro. La condanna fu
di 2 anni di reclusione e la non menzione sul certificato penale. Era il 1978. Ancora. Tommaso,
uxoricida di Mazara del Vallo, al quale i giudici hanno spiegato che «il senso morale comune
non approva l’uccisione del coniuge che sia venuto meno al suo dovere di fedeltà».
Arrivando ai nostri giorni, Brunetta Morabito, 31 anni, colpita da diversi colpi di arma da fuoco
sparati dal fratello Giovanni, di 24 anni, che voleva punirla perché era rimasta incinta senza
essere sposata. Soli tre anni fa, in Sicilia. Storie di casa nostra. Storie che assomigliano ad altre
storie. Hina Salem, sgozzata a freddo, a Brescia, dopo un consiglio di famiglia, sepolta nell’orto
di casa con la testa rivolta alla Mecca e il corpo avvolto in un sudario. Aveva scelto di vivere
all’occidentale, frequentava un ragazzo italiano ed aveva rifiutato un matrimonio combinato. Nel
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2006. Sanaa Dafani, 18enne di origine marocchina, morta dissanguata in un boschetto di
Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone, uccisa dal padre perché amava un italiano, un
cattolico, perché aveva deciso di vivere il suo amore con lui. Solo pochi giorni fa. E poi Busra,
sgozzata nel giugno 2009 in Germania; Hatum, massacrata nel febbraio 2005 dal padre e da tre
fratelli a Berlino; Maja Bradaric, uccisa perché flirtava con un ragazzo su Internet; Sahjda Bibi,
accoltellata perché aveva rifiutato un matrimonio forzato. Hatin Surucu, giustiziata perché si
rifiutava di indossare il velo. Storie di casa nostra. In Italia. In Occidente.
Storie che assomigliano ad altre storie. Che assomigliano. Ma che non coincidono. Storie
apparentemente simili, dettate da quella stessa necessità impellente, la preservazione
dell’onore; eppure storie profondamente dissimili, che divergono là dove nasce la motivazione
che ti porta ad uccidere, la scelta che ti fa agire, il desiderio impellente che ti trasforma in un
criminale. Se a uno sguardo superficiale, epidermico, le tragiche vite spezzate di queste giovani
donne sembrerebbe risolversi tutte con uguali considerazioni e pari condanne, a una analisi più
approfondita la questione appare sotto una luce differente. Sotto un’altra prospettiva.
Nonostante la ferma e pesante condanna del gesto, a prescindere dalla motivazioni, a
prescindere dai bisogni. Senza voler affatto stabilire scale di dolore, scale di crudeltà, scale di
valori, quello che lascia sgomenti è l’obiettivo che spinge a compiere questi delitti avvenuti in
ambiti e culture differenti dalla nostra.
Se un marito geloso, un amante tradito uccide per rabbia, per orgoglio, spesso impulsivamente,
allo scopo di preservare la propria malsana mascolinità, il proprio malato egocentrismo, il
proprio onore, un padre islamico sgozza la propria figlia per dovere, per una precisa
disposizione della sharia. Non solo per una cultura primordiale e per un codice ancestrale, ma
per un preciso obbligo religioso, che vieta alle figlie il matrimonio con un uomo italiano o di fede
cristiana. Non solo per una indole maschilista, misogina e violenta, ma per un sacro dovere,
pena il venir meno della fedeltà all’islam e del rispetto alla propria tradizione. Sta qui
l’aggravante. Sta qui ciò che ci fa trasalire, che ci spaventa. E che rende ancora più difficile la
risoluzione del problema. Certo, la violenza sulle donne è da condannare, qualunque sia la
motivazione, qualunque sia l’obiettivo. Ma quando questa violenza deriva da un “ordine
impartito dall’alto”, da un preciso obbligo non solo morale ma soprattutto religioso, allora la
questione diventa più complicata. Più difficile da risolvere.
Se giovani mariti assassini, maschilisti e ignoranti uccidono perché malati e frustati, il padre
islamico che uccide la propria figlia perché glielo ordina la sharia con grande difficoltà capirà
l’efferatezza del delitto commesso. Prova ne sono i tanti casi di mancato pentimento e di
riaffermazione delle proprie azioni a mente totalmente lucida, anzi quando il dolore per l’atto
commesso dovrebbe far sopraggiungere una briciola di pietà. Il problema delle donne islamiche
che troppo spesso vivono nel nostro paese senza godere a pieno –a volte non ne godono
affatto – dei diritti che la nostra legge e le nostre tradizioni riconoscono a tutti, donne e uomini, è
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drammatico. Il tema dovrebbe occupare il centro dell’agenda politica, affiancando alla fermezza
nella condanna di tali atti la ricerca di una soluzione.
Il nostro paese dovrebbe affrontare il problema alla radice con moderazione e apertura, ma con
ferma determinazione nella difesa dei diritti umani e delle donne, in particolare. Un approccio
duro e allo stesso tempo moderato, che condanni con asprezza dove c’è da condannare e che
accolga con apertura e dialogo dove c’è da accogliere. Che punisca con violenza e che difenda
con decisione. Che integri. Perché solo così si potrà allontanare il marcio e prendere il buono. A
tutto vantaggio non solo nostro, ma principalmente di quelle donne islamiche che in silenzio e
con dolore subiscono e di quegli uomini che in tale estremismo non si riconoscono, che a tale
fondamentalismo non vogliono cedere. Di quegli islamici che tali atrocità vogliono combattere e
sconfiggere.
Tonia Garofano
29 settembre 2009
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