GIOVANE VECCHIO NESSUNO Ho creduto per

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GIOVANE VECCHIO NESSUNO Ho creduto per
GIOVANE VECCHIO NESSUNO
Ho creduto per molto tempo che fossi destinato a un grande avvenire, io.
Cosí non è stato, e quando ripenso ai miei sogni, provo una
certa pena per me stesso; per averli avuti, non perché non si
siano realizzati.
Del resto, erano davvero i miei sogni, quelli? È facile fuorviare un adolescente: basta indirizzarlo sulla strada dei propri
fallimenti... Ma perché non si può vivere tranquilli, anonimi,
già rassegnati, senza dover passare attraverso esperienze che
gli altri, senza eccezione, giudicheranno un giorno alla stregua
di vergognose sconfitte?
Io sono sereno, sto bene; vivo un eterno presente, sottratto
alle comuni angosce, al manicomio della lotta per la sopravvivenza! E non crediate: non biasimo quelli che hanno convertito la vita in uno spettacolo, oh, no! So benissimo che sono
loro i nuovi conquistatori, che saranno loro a tramandare i propri geni: ma io non voglio intrattenere nessuno!
Forse esiste ancora chi troverebbe perfetto il mio stato: ho
trentacinque anni, sono scapolo e disoccupato, non ho fede,
non sono iscritto ad alcun partito, godo di buona salute. Non
chiedo niente né ho debiti con nessuno; non faccio male a una
mosca, anzi sono conciliante e tranquillo come pochi.
Conduco una vita sana, al fumo e alle droghe preferisco le letture e qualche corsetta intorno alle verdi colline del mio paese.
Abito coi miei genitori, e campo con la loro pensione. Ciò
non mi crea alcun rimorso; non escludo di aver allungato i
loro giorni, in questo modo.
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Il futuro, non l’ho mai considerato; se me ne fossi preoccupato avrei agito diversamente, negli anni che mi sono
lasciato alle spalle, e mi porrei problemi più pratici, per il presente. Invece, mi sento appagato; non perché sia arrivato ad
avere quel che desideravo, ma perché i desideri mi mancano...
Certo, il pensiero corre, a volte, al giorno in cui resterò
solo. Ma lo sconforto dura un attimo; sono convinto che una
qualche autorità, o delle persone caritatevoli, al momento del
bisogno si muoveranno in mio soccorso; nessuno è mai morto
di indigenza, qui in paese.
Quando cerco di figurarmi questi futuri benefattori, mi
auguro sempre che non si mettano a rivangare il mio passato.
Nulla potrebbe nuocermi di più: mi rinfaccerebbero di aver
sperperato i talenti, perché sono stato un ragazzo brillante,
pieno di interessi.
Ho fatto parte per molti anni della banda musicale, della
schola cantorum, e della Protezione Civile, senza molta passione, a dire il vero, perché vivevo male le esperienze di gruppo: non si può andare d’accordo con chi pratica il volontariato col fervore di un posseduto.
Non ero ancora maggiorenne e già scrivevo sull’unico
giornale della zona. Mi chiesero di collaborare perché avevano saputo dal professore di italiano che facevo bei temi.
Accettai pieno di entusiasmo, ma dovetti accorgermi ben presto che non avevo né la spregiudicatezza né la tenacia necessarie per diventare un buon giornalista.
Ma soprattutto, l’ispirazione e la voglia mi abbandonarono
presto. Preparando gli ultimi articoli, avevo di continuo la sensazione che fosse stato già tutto detto, tutto scritto. Chi potrà mai
essere interessato a queste cose, mi chiedevo mentre scrivevo; se
ho l’impressione che sia stato già detto, vuol dire che anche gli
altri lo sanno... Per tacere di quando mi pareva di averla raggiunta, una certa originalità: un paio di giorni, e già gli eventi
avevano relegato ogni cosa nel vecchio, nell’inessenziale...
E chiedo anche a voi: ho torto? Si può ancora dire qualcosa di originale sull’amore? O sulle virtù e i difetti della televisione? Sulla distruttività della tecnica? E la cronaca? Se non
riporta delitti più che aberranti, solo noia. Per non parlare
della politica; io non avevo fegato per denunciare certe cose,
e cosí ho smesso. Ma fatemi voi il nome di un giornalista politico coraggioso e super partes... Cialtroni! Parlano di libertà,
ma sono i primi ad aggiogarsi al carro questi impotenti della
verità, questi mistificatori per istinto!
Perciò, affinché il direttore non travisasse il motivo per cui
non riceveva più i miei contributi, gli comunicai dapprima che
volevo prendermi un periodo di riposo, poi gli dissi la verità.
Non batté ciglio, mi disse giustamente che certe cose bisogna
sentirle, altrimenti è meglio rinunciare.
Neppure i miei genitori se ne addolorarono troppo. Quasi
all’unisono, si limitarono a dire: “Se però un giorno ti tornasse la voglia di scrivere, mandaglieli i tuoi articoli al Direttore.
Li apprezzava cosí tanto!”
Invece, diedi loro un profondo dispiacere quando decisi di
abbandonare gli studi universitari. Se, tuttavia, la loro sofferenza non si protrasse a lungo, fu grazie a una studiata opera
di persuasione, che fondai su diversi argomenti. In primis, gli
dimostrai che avevo fatto una scelta sbagliata: un amante degli
studi umanistici non avrebbe dovuto iscriversi al corso di laurea in Economia e Commercio, facoltà scientifica e piuttosto
arida (né era possibile rimediare cambiando facoltà: sentivo di
aver già speso inutilmente tutte le migliori energie).
Connessa a questa, era la seconda giustificazione: lo studio, per quanto importante, non deve portare una persona ad
ammalarsi, a rischiare un esaurimento nervoso. Io cominciavo
a star male già dieci giorni prima della data fissata per l’esame, persino di quelli meno difficili, e arrivavo alla prova cosí
esausto da non avere neppure la forza di gioire, quando riuscivo a superarla.
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Infine, sottolineai che li avrei sollevati una volta per tutte
dal pagamento delle tasse di iscrizione, le quali, essendo
ormai un fuori corso cronico, erano diventate molto gravose.
Qualche tempo dopo, feci passare in maniera quasi indolore la decisione di licenziarmi dalla ditta per la quale avevo
lavorato cinque lunghi anni. Facevo il rappresentante di commercio, vendevo prodotti dolciari ai negozi di alimentari. Non
nego che mi sentissi molto meglio a tirar fuori dalle tasche
soldi miei, che fossi arrivato a conoscere ovunque tanta brava
gente, che avessi conseguito una certa professionalità; ma
l’impegno che mettevo nel lavoro mi sembrava sproporzionato alla provvigione che mi era stata accordata.
Siccome, però, le leggi del mercato, come si affannò a
dimostrare il direttore, mi davano torto, la mia insofferenza
cominciò ad appuntarsi sui colleghi: quasi tutti trasandati,
approssimativi, imbroglioni. Finí che fui costretto a chiedere
un colloquio al datore di lavoro, e senza fare nomi, rappresentare la differenza. Con questo risultato: “È vero, tu sei bravo,
preciso, tieni alto il nome della Ditta, e meriteresti di più”; e
poi, come un pontefice con la corda intorno al collo: “Ma non
possumus”.
Infine, e questo fu il motivo principale per cui lasciai quel
lavoro, il responsabile commerciale premeva continuamente
perché allargassi l’area di vendita; non poteva sapere che
quanto più mi allontanavo dai luoghi che mi sono cari, tanto
più perdevo smalto e sicurezza, arrivando a sentirmi un inadeguato, uno straniero.
Benché io tenda alla franchezza, non fu rivelandogli questa verità che mi congedai da lui. Volevo colpire io una volta
tanto, fargli male, irrigidire in un’espressione di attonito dubbio i dondolamenti del capo coi quali sottolineava ogni volta
le perplessità nei miei confronti.
Lui, uomo del nord trapiantato “dove si lavora col bollettino meteorologico”, era di fianco al titolare, ma non era a que-
st’ultimo che dirigevo lo sguardo quando dissi: “Forse nel
lavoro non ho inventiva, ma nel parlare sí. Sapete qual è il
destino di una pietra che precipita a valle? È raro che la sua
corsa finisca in una pianura. Più spesso succede che si infranga contro qualcosa, mandandola in frantumi, o andando essa
in frantumi! Ecco, voi siete come dei sassi che rotolano. E non
ve ne accorgete, perché mentre precipitate, ogni cosa, intorno,
diventa sfuggente, inafferrabile, appare sfuocata, priva di
forma e bellezza, senza più un’identità, senza più nome. Bene,
io non sarò mai quella pietra, non mi lascerò gettare dove non
posso fermarmi!”
Girai i tacchi con aria fiera e vittoriosa, ma già nell’uscire
giuravo a me stesso che non avrei mai più vissuto un’emozione cosí intensa. Sapevo come fare: avrei accettato solo lavori
temporanei e non troppo gravosi, in modo da non ingannare
più nessuno, neppure me stesso. Una decisione meravigliosamente consapevole!
Purtroppo, quando diventi uomo le persone ti cuciono
addosso tutte le qualità che dell’uomo si dovrebbero avere:
amore per il lavoro e per la famiglia, coraggio, serietà, virilità, obbedienza alle regole. E ti guardano male se non ce la fai
a rispettarne qualcuna, se la tua soddisfazione, alla fine di ogni
giornata, è solo quella di non aver fatto soffrire nessuno!
Ma che cosa importa? Essere chiari non equivale forse a
restringere il campo, in modo da vederla meglio, una cosa?
Mai ho dovuto pentirmi di essere stato coerente con la mia
decisione. Per un anno ho fatto il bidello nella scuola media
locale, destando un’ottima impressione fra gli insegnanti. Il
fatto è che dialogavo con loro alla pari e non di rado suggerivo iniziative che mostravano di apprezzare; allo stesso tempo,
non mi negavo alla scrupolosa pulizia dei gabinetti.
Dopo, sono stato chiamato a lavorare alla mensa scolastica come aiuto-cuoco, e questa occupazione, non so perché,
mi piaceva tantissimo. Ero tenuto ad apparecchiare i lunghi
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tavoli, affettare il pane, servire a tavola, lavare e asciugare le
stoviglie e infine ripulire la cucina e la sala per la refezione.
L’ho fatto per un paio di anni scolastici, con tale diligenza
che Ginetta, la cuoca, mi ha detto che ero più bravo e ordinato di tutte le inservienti di sesso femminile capitate alle
sue dipendenze.
Di recente, mi ha assunto per il periodo estivo
l’Amministrazione Comunale. Mi sono rivelato un impiegato
solerte e preciso, solo un po’ preoccupato e nervoso quando il
lavoro si faceva pesante. Allo sportello mi comportavo in
modo gentile e paziente, e proprio il rapporto con la gente, che
ho servito con umiltà, mi ha dato le maggiori soddisfazioni.
“Saresti un buon addetto al servizio amministrativo,” ha
commentato alla fine il Segretario Comunale. Ma io non ero
d’accordo; l’applicato tornerei a farlo volentieri, ma l’impiegato amministrativo no, non lo farei, perché comporta troppe
responsabilità, e potrei rimanerne schiacciato.
Comunque, ormai sto per superare l’età massima per partecipare a qualunque concorso. Nessun ente pubblico mi vedrà
mai nel suo organico, né, a maggior ragione, uno di quei voraci privati che ti succhiano il sangue senza che tu te ne accorga, e dei quali sei pure costretto a ben parlare perché qualsiasi commento, non si sa come, giunge immancabilmente alle
loro orecchie, e qualsiasi critica, per tale motivo, viene seguita dalla convocazione in ufficio e da un rimbrotto che ha lo
stesso sapore di quelli paterni!
Ecco dunque come passo le mie giornate: al mattino resto
in camera, ad ascoltare musica e leggere tutto ciò che mi
piace. Se c’è necessità di accompagnare con la macchina qualcuno, genitori e parenti, o anche persone amiche, sono sempre
disponibile, cosí come per fare la spesa o per una qualsiasi
altra incombenza. Servire gli altri mi piace; come ha detto
qualcuno, servire non è sempre un’azione da servo.
Nel pomeriggio esco di casa, vado al Bar dello Sport a
prendere il caffè, mi faccio una partitina a carte, e poi passeggio in piazza con chiunque abbia voglia di accompagnarmi. A
giorni alterni, indosso tuta e scarpe da ginnastica, e vado a correre sul morbido terriccio dei sentieri della campagna; mi fa
sentire bene come nessun’altra cosa, e non costa niente. Dopo
la doccia, resto a casa, a guardare la televisione o ad aiutare i
miei genitori in qualche faccenda domestica; spesso aiuto nello
studio la mia nipotina, che frequenta le scuole elementari.
Terminata la cena torno a leggere, o esco di nuovo. Non
c’è niente di più bello che passeggiare insieme a un amico
nelle fresche notti autunnali, o in quelle lattiginose, profumate ed eccitanti della primavera! Spesso rimaniamo a camminare e a discutere sino a tarda ora e, quando ci lasciamo, solo
i cupi soffi del barbagianni e le note flautate del passero solitario rompono il silenzio dei vicoli immersi nella pace più profonda. Se si fa l’alba, poi! A poco a poco, ogni cosa emerge
sempre più nitida, più familiare, e ti dà il buongiorno più caloroso e sincero! Allora penso quasi con orrore a quelli che pur
stando in paese lo vivono come un dormitorio, proprio allo
stesso modo degli abitanti di una grande città. Non sanno che
cosa si perdono! Qui, le persone, le cose, tutto ha un’evidenza particolare, perché non conosci solo la forma, ma pure l’anima di quanto ti circonda: è questo il paese! È ancora possibile scegliere di non rinunciare a tutto ciò, di rimanere testimoni di eventi naturali che gran parte della gente vede solo
dentro uno schermo, o di cui legge su qualche vecchio libro?
E quante cose si scoprono conversando con gli altri! È
riservato a chi ha ancora il tempo e la pazienza di ascoltare, il
privilegio di raccogliere le gemme più autentiche che ognuno
di noi tiene in serbo! Ma non c’è bisogno di arrivare a tanto.
Persino la discussione di routine, persino il silenzio ha un che
di confidenziale, quando accanto a te ci sono delle emozioni,
oltre che delle facce.
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È storia di ieri... Ho fatto le ore piccole con quel cuor d’oro
di Giorgio, direttore della Cassa Rurale e Artigiana, che viene
ogni tanto a cercarmi, più spesso finge di incontrarmi per
caso, e inizia sempre il discorso da molto lontano, per arrivare infine a dirmi con un certo tatto: “Sii più pratico, però. Non
sei uno qualunque, hai doti non comuni, e le puoi ancora sfruttare. Intanto, dovresti pensare a metterti al sicuro, non credi?
Io ammetto qualsiasi filosofia di vita. Ma primum vivere, deinde philosophari.”
Io ci metto un po’ a controbattere, tanti sono gli argomenti che si affastellano nella mia mente, compreso il più brutale,
che mi guardo bene, però, dal pronunciare: “Sono io che vivo,
voi lavorate e basta!”
Comunque, la mia replica gira più o meno intorno a
questo concetto: “Ma non credi che una filosofia di vita,
come la chiami tu, possa iniziare prima, o andare oltre il
limite che fissi con tanta precisione? Se io facessi come
dici sarei come tutti gli altri. Ma tu sai che io non sono
come sono per voler essere diverso dagli altri, oh, no! Non
è una reazione, non è una protesta, la mia! Se organizzassi la mia giornata a favore di una banda di delinquenti, che
cosa diresti? Perché ammetterai che ogni attività criminosa richiede ingegno, applicazione, sacrificio, e anche
coraggio, tutte cose in sé apprezzabili. E c’è pure chi
impegna il suo tempo cercando di adescare i bambini, e chi
ne organizza la tratta...”
“Allora non vuoi avere un tuo ruolo? E soprattutto, tu che
hai ricevuto affetto e istruzione, vuoi paragonare la tua
coscienza con quella di persone violente, malate? E poi, i tuoi
genitori?”
“Forse il mio ruolo è proprio quello che vivo, e d’altra
parte la coscienza non mi rimorde. Forse rimorde a un delinquente, ma non siamo sicuri neppure di questo. Caro Giorgio,
forse tu presupponi un modello, e la maggior parte della gente
ci ricade in quel modello. Ma se aveste torto? Se avesse ragione l’unico, invece che l’imperativo categorico? E per favore,
non parlarmi dei miei genitori. Se potessi, vorrei dire loro: non
c’è giudice che non vi imputerebbe una buona dose di responsabilità per quella parte di me che non vi piace, e che vi fa soffrire. Smettetela di addolorarvi, non potete entrare nella mia
testa e aggiustarne i fili. Se nonostante tutto mi considerate
una persona buona, a modo, ebbene, accontentatevi. Io ho
deluso le vostre speranze, ma quali erano i modelli che mi
avete messo davanti agli occhi? Era giusto, dopo la pagella
della quinta elementare, vedermi già ingegnere o dottore? Se
invece aveste posto più attenzione, un’attenzione del resto
possibile, alla mia ingenuità, alla mancanza di ambizione,
all’invincibile paura di dover lasciare il suolo sacro del paese,
non avreste nutrito inutili illusioni, e ora accettereste meglio
una vita che mi si confà, che esprime quello che sono. Perché
io non ho messo sottosopra i contenuti più autentici della
vita!”
“Va bene, ho capito, ognuno vive come gli dice la testa, e
forse è vero che non siamo responsabili di tutto ciò che facciamo. Quindi, fa’ come ti pare, ozia, contempla, vivi leggero.
Ma insomma, poiché un limite c’è, non pensi al tozzo di pane?
Solo questo! Altrimenti devi sentirti sicuro che sarai disposto
ad allungare la manina per strada, lo capisci?”
In genere soffoco una risata dopo simili rampogne, che
diventano sempre più stringenti e drammatiche, avendo
Giorgio quasi esaurito gli eufemismi coi quali cerca di rendermele accette in modo indolore.
Cosí ieri gli ho risposto come non si aspettava: “Sí, ci
ho pensato, mi sono chiesto se ne sarei capace. Non lo so,
è un bel duello quello tra l’orgoglio e la fame. Ma come
corri! Se volessi, potrei passare dall’indigenza al benessere
anche domattina. E senza neppure tanta fatica, anzi forse
divertendomi.”
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“E come?” ha replicato lui con un sorriso, dove si affacciavano la simpatia che si prova per i monelli e la speranza che
avessi escogitato davvero qualcosa di prodigioso.
“Conosci un dolce più buono della nostra pizza alla
pala? È la più squisita pagnotta che si conosca. Non l’ho
regalata una volta senza ricevere i migliori complimenti. E
poi noi abbiamo anche un pane eccezionale; chi lo cuoce
ancora nel forno a legna? Profuma come un biscotto, e rimane fragrante per ore. Se lo fai rapprendere è più buono di
prima, lo puoi mangiare anche dopo una settimana. Bene,
adesso compra ogni mattina una ventina di pagnotte e una
decina di pizze, caricale su un furgone assieme a un tavolino, un coltello, qualche vasetto di cioccolata o marmellata,
un buon salame, e, grazie a una semplicissima licenza di
commercio ambulante, accomodati in una piazza di Roma.
Solo un euro, non un centesimo di più a fetta, e in un paio
d’ore sparisce tutto. Te ne torneresti a casa all’ora di pranzo
con centinaia di euro in saccoccia, e senza aver detto signorsí a nessuno.”
Dovevo averlo colpito, o forse era solo divertito da quanto
avevo detto, perché mi diede una gran pacca sulle spalle, e
sorrise a più riprese. Avevo tacitato per un momento la sua
responsabilità di custode della mia salute mentale, compito di
cui Giorgio si è autoinvestito e che prevede i periodici sondaggi cui mi sottopone. Sondaggi che, ho notato, svolge da un
po’ di tempo con maggiore frequenza rispetto al passato, convinto com’è che la disoccupazione comincerà proprio ora, ora
che è scoccata la mezza età, a produrre effetti nefasti sul mio
comprendonio.
Comunque avete visto come sia emersa, lo dico con
gioia, una delle più importanti risorse di un paese degno di
questo nome: un avvocato più o meno bravo – ma sempre
molto compreso nel ruolo – per quasi ogni aspetto dell’esistenza.
Oltre a Giorgio, il mio foro personale è composto dalle
catechiste, che mi fanno gli occhi dolci perché non rifugga,
almeno, dal conforto spirituale che Dio, se non lo si disconosce, non nega ad alcuna creatura. A esse, dò sempre delle
risposte sincere, col risultato di farle spesso gridare allo scandalo. Lo faccio perché hanno tutti gli atteggiamenti delle religiose per forza, e probabilmente lo sono. Questo posso sopportarlo in un anziano ignorante o rimbambito, non in ragazze diplomate che rimuginano ogni giorno su testi religiosi e
letture teologiche!
L’ultima volta ho detto loro: “Tranquille, nonostante i
pasticci che ha combinato, Dio tornerà ad avermi fra i suoi, un
giorno o l’altro. O forse tornerò io ad averlo fra i miei, perché
le gambe a un certo punto non ci reggono più, e c’è bisogno
d’aiuto.”
Hanno trattenuto il respiro – come se avessero visto il più
strano mostro della terra – e poi si sono portate la mano sulla
bocca e hanno iniziato a ridere come matte.
In confronto al capo, non sono che delle dilettanti. Con tattica molto più ambigua e sottile, Don Valerio non cessa di
spingermi a una “libera, liberissima partecipazione alla vita
sociale”, consiglio che può apparire dei più spassionati e generosi, ma che cela l’ineliminabile volontà di proselitismo di
ogni prete: non c’è associazione, in paese, che in un modo o
nell’altro non faccia capo alla parrocchia!
Mangiando la foglia, replico con vaghezza: “Ogni impegno con gli altri è prima di tutto un impegno con se stessi, ogni
sí è una parte di noi che si incatena a qualcosa o, peggio, a
qualcuno.” Non potrò mai parlargli più esplicitamente: è orgoglioso e vendicativo come molti preti.
Ai miei rapporti con le donne ci pensa Alberto, duce incontrastato dei volenterosi pronubi che si adoperano a mio favore. È contento quando mi affaccio in piazza Maggiore, e mentre ancora scruto le facce della gente a passeggio, per decide-
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re a chi unirmi, mi strattona da un lato, mi prende a braccetto,
e ricomincia pazientemente la sua opera di sensale, fattasi in
verità un po’ opprimente negli ultimi tempi, da quando gli è
venuta la fissa di unire le mie sorti a quelle della donna più
brava e costumata del paese, Rossella.
Ecco che alcune sere fa Alberto diventa esplicito come
mai: “Lascia perdere galline e polletti, parla coi cristiani. Ma
non ce l’hai gli occhi? No, non ce l’hai, altrimenti, già te l’ho
detto, li avresti messi addosso a Rossella, che, secondo me,
non aspetta altro. È proprio vero, voi scapoli non siete allenati a riconoscere certe fortune! Fortune, sí, perché vedi, lascia
giudicare la situazione a chi di matrimoni ne sa, e che non ha
sbagliato una volta a indovinare le coppie scoppiate e quelle
che filano d’amore e d’accordo. Perché devi sapere che ci
sono donne fatte apposta per rovinare i mariti, e quelle che
fanno la fortuna loro e di chi se le sposa. E Rossella è una di
queste, te lo dice un fesso! E poi, brutta non è, anzi; basterebbero quelle due tette, guarda, che quando le stai vicino sembrano doverti scoppiare in faccia.”
Non resistevo, ho iniziato a ridere di gusto.
“Che ti ridi, stronzo? Si può rinunciare a tutto, non al bene
più naturale, a una donna brava, assennata, che ti scalda la
vita, e pure quel baccalà lesso che ti ritrovi là in mezzo! Ohé,
single (pronunciato proprio cosí, single) del cavolo, svegliati,
e ringrazia chi ti parla in questo modo! Ti dirò di più, non so
neppure se gli stai bene, a lei! Perché lei non mi ha detto niente, te lo giuro; se me lo avesse detto ne sarei contento per te,
ma allora forse non mi sarei neppure prestato a un compito del
genere. Sono solo un amico che ti propone una... sfida, sí, una
sfida che certi uomini ci si sono scannati! Non ti regalo niente, non preoccuparti. Ma misurati, cazzo! È una donna che
vale quella, e non aspetta altro che un tipo che la faccia sentire una femmina! Nemmeno questo ti attira? Ma allora, amico
mio, fattelo dire da uno che non s’è mai permesso di criticare
altre scelte che hai fatto, se non ti stuzzica manco questo, ti
chiedo solo: che cazzo campi a fare? Che senso dai al passaggio su questa terra, eh?”
Non so perché, ma quell’espressione evangelica mi fece
star male dalle risate. E siccome la consolidata struttura delle
mie difese abbassa il ponte levatoio davanti al lato comico di
certi discorsi, viene meno tutta la mia sincerità, e per l’ennesima volta non ce l’ho fatta a replicare, come avrei dovuto:
“Rossella è brava, merita un buon marito, e glielo auguro con
tutto il cuore. Ma non mi piace. Meglio, la ritengo una bella
donna, ma c’è qualcosa in lei che non fa per me, certi tratti che
sento di non poter sopportare. Quel collo corto e grosso, quei
polpacci suini, e poi quell’alito pesante, la bocca sempre un
po’ impastata; ci ho fatto caso più volte quando facevamo le
prove con la schola cantorum, le fa difetto persino al mattino,
dopo essersi appena lavata i denti.”
Non sembrino civetterie, le mie. Mi facevano, tempo fa, il
nome di Ivana. Ho fatto fatica a dire che non me la sentivo di
passare una vita insieme a una donna cosí dinamica, cosí frenetica, capace di buttarti giù dal letto alle sei di mattina anche
nei giorni di festa, di mandarti all’emporio fino a cinque volte
al giorno, di farti raccogliere le castagne che gli altri hanno
scartato per arricchire una dispensa già stracolma, perché
“non si sa mai”.
Forse esiste un modo col quale potrei chiudere ogni discorso con Alberto e il suo clan. Dovrei dire, secco e deciso:
“Io cerebralizzo tutto, ormai. Lo so, è il peggior modo di interiorizzare l’immagine di una donna, ma che cosa posso farci?
Finché non ne incontrerò una con la quale questo non mi succederà, non potrò far nulla. Non posso farmela piacere per
forza.”
Ma, come ho già detto, non ho alcuna voglia di privarmi
delle sane, disinteressate parole di un amico. Tuttavia, non è
per questo motivo che non ho mai confidato ad Alberto la
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vicenda che potrebbe spegnere in un istante le sue premurose
insistenze: la verità è che ho vergogna di confessargliela.
L’unica altra depositaria di questo segreto è una donna fredda,
determinata, instabile e anche intrigante, e che tuttavia, senza
che io glielo abbia chiesto, ha saputo mantenere il silenzio su
una circostanza che, se rivelata, l’avrebbe affrancata da molte
critiche ingiuste.
Questo fatto sconosciuto, che ormai non pesa più sul mio
animo, neppure quando mi convinco che abbia a che fare più
di ogni altro con l’accentuarsi della mia misoginia, costituisce
la vera ragione per la quale, dopo quasi quattro anni di fidanzamento, e quando già parlavamo timidamente di matrimonio,
io e Silvia ci siamo lasciati senza ripensamenti, senza rimorsi.
Non è affatto importante, non serve ad appagare un rimpianto che non esiste, sapere che ancor oggi si dica: “A lui è
andata bene. Lei ha sposato un altro, ma ha divorziato dopo
soli due anni, poi se l’è fatta col primario dell’ospedale, e
lasciato anche questo, con un medico fresco di matrimonio.”
Chi può dire che sposando me sarebbe successo lo stesso,
che io e Silvia non saremmo stati felici? Quegli uomini lei li
conosceva appena, non venivano dalle stesse contrade, non
amavano le cose che ama, non condividevano con lei nessun
romantico passato: io sí. Le nostre nature erano diverse, ma io
le facevo palpitare il cuore quando le parlavo dell’impercettibile sussurro notturno dei boschi, della purezza della nostra
vita semplice e naturale, della gioia di perpetuare tradizioni
antiche e suggestive. Le parlavo di queste cose sin dall’inizio
del nostro amore, e lei mi ascoltava, si commuoveva, mi stringeva le mani e le baciava. Io sentivo di amarla, lei si stava
appassionando a me, e già poche ore di lontanza cominciavano a pesarci e a insospettirci.
Era stata lei a cominciare. Frequentavo da qualche mese
una vecchia cantina che avevamo adattato a locale per appuntamenti galanti. Vi avevo già incontrato e sbaciucchiato alcu-
ne ragazze, con una delle quali meditavo un rapporto più assiduo, perché non mi dispiaceva, quando un pomeriggio scorsi
nel locale Silvia. Ne fui sorpreso, perché invitavamo a ballare
quasi sempre ragazze più giovani. Lei, di un anno solo più piccola di me, non era mai venuta. Parlammo piacevolmente per
molto tempo, prima di avvinghiarci in un ballo, e provammo
subito una tale attrazione che ce ne stupimmo: le nostre case
erano divise solo dalla piazza del Municipio, eppure ci eravamo sempre limitati ai saluti, o all’effimera complicità che si
crea quando si addobba il rione, o quando succedono quegli
eventi, come una disgrazia, capaci di riunire le persone e le
generazioni più varie.
La seconda volta che ci incontrammo lei aspettò che l’altra coppia presente si appartasse dietro un paravento, e di
punto in bianco, mentre conversavamo, mi mise una mano
sulla patta dei pantaloni. Ero tanto sorpreso quanto intimidito; intuivo che era di gran lunga più esperta e disinibita di me,
e che avrebbe compreso sin da quella volta la necessità di
contenere il suo slancio sessuale, perché bastò che mi strofinassi per qualche secondo contro il suo ventre per eiaculare
immediatamente.
“Non preoccuparti,” mi rassicurò, “all’inizio è cosí.” Era
tanto sicura di sé che volli crederle, ricavandone una doppia
gioia. Silvia, pensavo con grande conforto, mi avrebbe aiutato anche per quel difetto di cui cominciavo a prendere
coscienza e a preoccuparmi per averlo già sperimentato con
altre ragazze, e persino nel piacere solitario. Ma era più in
generale che sentivo di poter contare su di lei, di poterne
andare fiero; anche se proprio quella risolutezza, quel naturale senso pratico che avevo scoperto d’acchito, mi dissuadevano da un completo abbandono, ammonendomi che la
diversità di carattere, che ora sembrava unirci, avrebbe
potuto tramutarsi nel vero, implacabile nemico della nostra
unione.
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Ma lei diceva di amarmi, e quando mi rifugiavo nel suo
abbraccio e le confessavo i timori per il futuro, mi rassicurava
dicendo: “È meglio essere complementari. Con le persone che
hanno lo stesso carattere è più facile entrare in conflitto. E poi
te l’ho detto, a me vai bene cosí.”
Purtroppo, i sintomi che giudichiamo con leggerezza
all’inizio di ogni rapporto amoroso evolvono in malattie
gravi, senza le cure opportune. Silvia non sembrava preoccupata della mia mancanza di iniziativa, di quella debolezza che
giustificavo con argomenti che la portavano al riso, come
succede quando siamo colpiti da eventi per i quali il rimedio
è già in nostro possesso. Ma ci sono episodi della realtà che
annunciano verità molto più grandi e profonde di quelle che
possiamo conoscere dalle confessioni parziali e condizionate
della persona che ci ama. La determinazione, la sicurezza
nelle proprie possibilità, che Silvia possedeva sin da bambina, erano riflesse nel suo modo di vivere il sesso. Se di questo non mi stupivo, avendo sempre pensato alla donna – e non
a Silvia in particolare – come alla vera padrona dell’atto sessuale, il timore per la mia scarsa virilità mi angustiava più di
altre mie manchevolezze. Con me, Silvia era non solo impossibilitata a esprimere come avrebbe voluto le sue capacità
erotiche, ma doveva addirittura limitarle, per non indurmi al
piacere con anticipo ancora maggiore sul tempo, già breve,
con cui concludevo l’accoppiamento. Era costretta ad accelerare il godimento in modo forzato e innaturale, e lo faceva per
me, arrivando a sorridere al momento dell’orgasmo, come
davanti a un doppio regalo: uno fatto a se stessa, come premio di quel sacrificio, l’altro alla persona cui voleva bene.
Ma una sera, un istante dopo la conclusione di un brevissimo
rapporto, mi disse: “Ti dispiace se continuo?” Dissi di no con
tutto il cuore, anzi, avrei voluto accrescere quell’ulteriore
piacere; ma io, a quel punto, non sentivo più niente, e se non
trovai la forza di simulare, ero sincero quando, mentre si
masturbava, la baciavo sulle guance come si fa con una cara
persona di famiglia.
Da quel giorno, ogni volta che facevamo l’amore lei prolungava il godimento da sola, né io avevo modo di sorprendermi o di aggiungere alcunché al suo piacere; sino alla sera
in cui notai che stette a occhi chiusi per tutto il tempo della
masturbazione, che durò più a lungo del solito e durante la
quale diede l’impressione di doversi sforzare, per raggiungere
il secondo orgasmo.
Ma forse avevo bisogno di illudermi ancora un po’. Se mi
capitava di sentire da persone sposate che il sesso – questo
collante che funziona solo se i tessuti sono della stessa stoffa,
e mai altrimenti – è la componente più importante di un matrimonio riuscito, io rigettavo l’applicabilità (non la sostanziale
fondatezza) di tale assunto, con l’osservazione, non meno
veritiera, della riuscita di matrimoni fra individui dalle personalità quasi opposte, di unioni andate a buon fine nonostante
la rassegnata mediocrità di lui e la brillantezza di lei, differenze che, più o meno arbitrariamente, estendevo ai rapporti sessuali. Ma poiché nessuno potrà mai formulare una regola sulla
corrispondenza fra carattere e sessualità, la mia rimaneva pur
sempre un’illazione; nel mio caso, invece, si faceva strada la
verità...
E pensare, mi struggevo a volte, che in questo anonimo
atomo dell’universo, nessuno, dico nessuno, minacciava la
nostra unione. Proprio come se tutti avessero stretto un patto
di questo genere – stiamo alla larga da Silvia, il suo legame ha
già i suoi bravi problemi di compatibilità caratteriale, non
gliene creiamo degli altri – lei non fu mai insidiata da alcun
altro uomo, il nostro amore non soffrí mai di gelosie, né di sotterfugi o tradimenti. Ma le difficoltà, anzi, la difficoltà, quella
che immiseriva l’ideale dell’amore fondato sul puro sentimento, veniva da me, non dagli altri.
Mi lasciai convincere a tentare l’ultima possibilità.
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“La colpa è anche sua signorina, lo sa?” mormorò suadente il terapeuta al quale ci rivolgemmo. Non credetti nemmeno
per un attimo che avesse ragione: Silvia era una macchina da
sesso perfetta, capace di adattarsi ai percorsi più vari, e alle
più diverse andature. Sarà perché non mi ispirava una grande
fiducia, ma i tentativi del meccanico di abbassare i giri del mio
motore fallirono miseramente. E Silvia capí una volta per
tutte: ormai ero preda di un’invincibile soggezione nei suoi
confronti; e l’amore ha bisogno di coraggio, non di paura.
L’intenzione di lasciarmi la fece trapelare a poco a poco, per
attutire la mia sofferenza. Una sera, un’esplicita dichiarazione
prese il posto di certi strani silenzi, delle mezze frasi, degli
atteggiamenti di insoddisfazione.
Eppure, Silvia doveva ancora farmi il dono più nobile e
grande: questa donna, cui sarebbero stati indirizzati in futuro
tanti vergognosi aggettivi, soffrí in silenzio le inevitabili critiche che seguirono il distacco, e mai disse una sola parola sulla
causa prima della rottura della nostra unione. Il miracolo che, in
un piccolo paese, nessuno sia venuto a conoscenza del mio
difetto, lo devo a lei. Per parte mia, mi guardo bene dal rivelarlo anche adesso, a distanza di parecchi anni dalla fine del nostro
amore, essendo rimasto, questo segreto, l’unica patetica soddisfazione ancora legata alla mia vicenda sentimentale con Silvia:
da tempo, infatti, ho smesso di masturbarmi pensando a lei.
Infine, ai miei premurosi agenti matrimoniali potrei dire:
“Grazie per l’interessamento, ma sto bene vicino a mia madre.
Sarà un atteggiamento sbagliato da parte di entrambi, ma per
ora è questa la sistemazione che reputiamo migliore per me.”
Non mento. È vero che ogni tanto lei mi sussurra: “Solo tu
non hai trovato a far bene!” Ma lo dice timidamente, evasivamente, e chiunque vi riconoscerebbe la paura di una vera sollecitazione, alla quale teme, in fondo, che io possa replicare:
“Ebbene, finalmente vi accontenterò. Ho trovato una ragazza,
fra qualche giorno la conoscerete; presto ci sposeremo.”
Cosí facendo non posso evitare che ogni tanto Alberto e
tutti gli altri tornino prepotentemente alla carica. E io li lascio
fare; è un’opera meritoria la loro, che va oltre lo scopo che si
prefiggono. Infatti, l’ho già detto, con tutti questi consolatori
ti prende una strana fiducia nel prossimo, nell’umanità intera,
e, allo stesso modo in cui vedi le tue piccole fortune, cosí vedi
i guai. Essi dipendono spesso dal prossimo, e proprio grazie al
prossimo potremo risolverli! Ed è per questo che la mia condizione, che qualcuno definisce con aria commiserevole “disastrosa”, per me non è tale. Mi capita di incontrare parenti, o
amici, o amici di amici, che sanno tutto, o anche solo l’essenziale di me, i quali, quando alla domanda: “Allora, come va?”
rispondo “Benissimo”, sgranano tanto d’occhi.
Forse immaginano che dica cosí perché non voglio umiliarmi davanti a loro, o perché abbia timore che inizi una discussione riguardante la mia inutile esistenza, o soltanto per
pura timidezza. Quanto maggiore sarebbe la loro sorpresa se
potessero credere che la risposta, invece, è sincera! Comunque,
dopo l’inaspettata rassicurazione, mentre i più bonari annuiscono senza convinzione, e sviano uno sguardo impacciato, i
più maligni – poiché di me, finché non chiederò loro un esplicito aiuto, in fondo non gliene importa nulla – non riescono a
dominare uno schietto, ironico: “Meno male. Contento tu...”
Col candore di uno dei miei eroi, un Idiota vissuto
nell’Ottocento, non replico a certe ironie, come non corrispondo a chi si sforza di correggere la mia vita: è in questo
modo che ho costruito la tomba entro cui ho seppellito, nel
tempo, i resti del mio orgoglio. Mia alleata, in questa non facile battaglia, è una medicina universale, infallibile, un antidoto
ai veleni della vita che ogni organismo introietta ogni giorno
senza neppure accorgersene: l’abitudine. Grazie a lei, le corde
del nostro cuore, che spesso gli altri si divertono a pizzicare
violentemente, perdono rigidezza, si allentano, e non corrono
più il rischio di spezzarsi a causa delle continue sollecitazioni.
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Dunque, mi spiego perfettamente perché i colpi che ci sono
stati inferti quando l’azione anestetizzante dell’abitudine non
poteva smorzarli rimangono cosí vivi nella carne: chi può
dimenticare le cocenti umiliazioni dell’infanzia, le amare sconfitte scolastiche, le prime, angosciose pene dell’adolescenza?
Eppure, non è nell’età più verde che è stata infissa nel mio
cuore la spina più acuta, quella che non ha mai smesso di tormentarmi, nonostante mai io abbia potuto sapere se colpirmi
cosí dolorosamente fosse davvero lo scopo del mio feritore.
Avevo, allora, vent’anni. Era una serata fresca e limpida
del tardo autunno, mi trovavo proprio al centro della piazzetta S. Sebastiano, e discorrevo con Paolo, mio coetaneo e compagno di studi universitari. Improvvisamente, egli interruppe
la conversazione, e fissò lo sguardo alle mie spalle. Mi voltai:
su uno dei tetti di via del Palazzo, attorno a un tozzo comignolo, si accartocciavano intense vampate rossastre.
“Ha preso fuoco il camino,” disse, “deve essere la casa di
Enrico, o quella di Agata.” Avvicinatici alle abitazioni,
vedemmo che era il comignolo della vecchia perpetua a bruciare. Paolo iniziò a bussare alla sua porta con forza: “È
sorda,” osservò, “e vive sola.”
Quando già ci preoccupavamo, la porta si aprí. Comparve
una donna anziana, dal volto ancora liscio e roseo, cui faceva
da cornice una tonda e candida capigliatura. Mostrava un sorriso beato, quasi innocente, e fu con tutta calma che disse: “Sta
bruciando il camino, vero?”
“Penso proprio di sí,” brontolò il mio amico, entrando senza
indugio.
La legna nel camino ardeva normalmente, ma la canna
fumaria rombava sorda, alitando soffi infuocati verso l’alto, e
fumo e cenere in basso.
“Acqua! Serve acqua!” fece Paolo. “Pentole. Agata, dacci
una pentola!”
La donna strabuzzò gli occhi.
“Una pentolaaa!”
Senza rispondere, la perpetua si accostò a un vecchio
armadio a muro e indicò un grosso paiolo. Paolo lo afferrò
nervosamente e lo riempí d’acqua, che gettò a più riprese sul
fuoco, spegnendolo in fretta.
“Bene, e una,” commentò soddisfatto.
“Adesso la canna fumaria, no?” feci io.
“Sí, vediamo un po’.”
“Si può arrivare sul tetto, da qualche parte?” domandai.
Paolo annuí: “Ci vuole una scala. Una scalaaa!”
La perpetua fece cenno di no con la testa.
“Aspetta, la troverò, torno subito,” dissi.
Uscendo, per poco non mi scontrai col vecchio Enrico, che
entrava proprio in quel momento.
“Hai una scala?” gli chiesi.
“Scala?!” Mi tirò bruscamente da una parte, e si diresse a
grandi passi verso la cucina.
Guardatosi attorno, afferrò la spianatoia appesa di fianco
alla dispensa, e appoggiandola contro gli stipiti del camino ne
occluse l’apertura.
“Agata,” urlò, “servono dei sacchi. Sacchiii!”
La perpetua, annuendo, scese i gradini della cucina, e tornò
sorreggendo dei puzzolenti sacchi di juta. Incastrandoli nello
spazio residuo, il vecchio ostruí completamente la bocca del
camino. Presto, il minaccioso rombo diminuí, per spegnersi
del tutto in un paio di minuti.
“Dovevamo togliergli l’aria, l’alimentazione, capito?”
commentò. “Andate fuori, guardate se arde ancora.”
Paolo uscí dalla casa. “Tutto a posto,” disse sorridente quando rientrò.
Il vecchio ci guardò duro: “Che dovevate farci con la scala,
ditemi un po’!”
“Avevamo pensato,” risposi, “di gettare acqua dal comignolo. Avevamo già spento il fuoco nel camino.”
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“Ma andate a farvi rimettere il cervello!” borbottò con faccia schifata.
“Ma no, stai buono,” disse Agata (ricordo che mi sembrò
strano che avesse udito), “sono stati bravi, bravissimi, si sono
precipitati! Grazie, ragazzi. E adesso, permettete? Vi voglio
offrire qualcosa, su. Vi faccio un caffè?”
Dicemmo tutti di no. La donna, allora, aprí la dispensa e posò
sul tavolo una scatola di latta decorata con delicati fiori vermigli.
“Prendete, sono buoni,” disse mettendo su una salvietta dei
sottili biscottini, candidi come le nuvole.
“Sono siciliani, me li mandano i parenti di Don
Francesco.”
Erano davvero squisiti, ne mangiammo più di qualcuno a
testa.
Mentre ancora storceva la bocca per liberarsi dei residui di
cibo, Enrico, con una smorfia ironica, ruppe il silenzio:
“Insomma, volevate andare sul tetto e buttare acqua dal comignolo, eh? Poveri voi! Ma dico, non ce l’avete il camino?”
Avvertivo qualcosa di minaccioso; tardavo volutamente a
rispondere, e Paolo mi precedette: “Io ce l’ho, ma non m’è
mai capitata una situazione del genere. È la verità. Nemmeno
quello di mia nonna ha mai preso fuoco.”
“A proposito, Agata,” riprese il vecchio alzando la voce,
“fai ripulire la canna fumaria, e non buttarci la roba di plastica, nel fuoco. Quella non brucia bene, rimane sempre qualcosa, si mischia con altra robaccia e s’attacca alle pareti del
camino. Poi arriva il giorno che prende fuoco. Capito?”
Il vecchio deglutí, poi guardò me: “E tu, figlio di Umberto,
tu ce l’hai il camino. Ma scommetto che il fuoco non sei capace di accenderlo...”
Mi irrigidii, senza darlo a vedere; soprattutto, non ebbi la
sfrontatezza di mentire: “È vero, lo fanno sempre i miei.
Abbiamo la stufa a kerosene, non lo accendiamo tutti i giorni.
Ma se fosse necessario, penso che...”
Enrico mi fissò con uno sprezzo che non potrò mai dimenticare, i suoi occhi parvero trafiggermi: “Ma che fai, tu… tu
non farai mai niente, te lo dico io!”
Si voltò, salutò Agata, alzò un istante lo sguardo su di noi,
e uscí.
I rinnovati ringraziamenti della perpetua mi distolsero un
istante dall’imbarazzo. Ma parlare di imbarazzo è improprio:
ero al tempo stesso spaventato, ferito, umiliato. Non potevo
nascondere quello stato, tantomeno a Paolo, che mi conosceva bene.
Appena uscimmo, non potei fare a meno di interrogarlo:
“Scusa Paolo, ma devo chiedertelo. Che voleva intendere?
Parlava in generale o ce l’aveva proprio con me?”
Paolo non riuscí a dissimulare quella recondita soddisfazione che, come hanno osservato tutti gli indagatori dell’animo umano, ricaviamo dalle disgrazie degli amici. Se ne uscí
con un sorrisetto, la cui malizia cercò di sminuire dicendo: “È
fatto cosí. Sono quelle persone capaci e laboriose che non
riescono ad accettare quelli come noi, che non hanno né vera
istruzione, né senso pratico.”
“Allora parlava in generale...”
“Non lo so, penso di sí. Perché avrebbe dovuto offenderti?
Ah, ascolta. So... so di una vecchia inimicizia fra la tua famiglia e la sua, anche questo può aver influito. Comunque, lui
può dire quello che vuole, quello che gli frulla per la testa, ma
non ha mica il potere della divinazione!”
Ripensai all’episodio per tutta la serata, poi, a cena,
senza riferirlo, chiesi a mio padre se avessimo mai avuto
seri motivi di contrasto con la famiglia del vecchio
Enrico.
“Non cosí importanti,” rispose. “So di un antico litigio fra
lui e tuo nonno, per una questione di confini. Ma ci fu solo un
po’ di ruggine. La cosa ha fatto il suo tempo.”
“E lui, Enrico, che tipo è veramente?”
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“È stato sempre un gran lavoratore, un uomo capace, uno
di quelli che riesce in tutto quello che fa. Certo, è un tipo difficile, scostante, sempre un po’ brusco.”
Cosí disse mio padre, e io non tornai più sull’argomento.
Enrico è morto qualche anno dopo quel fatto, e non può
sapere che cosa sia stato della mia vita. Anche Agata, testimone dell’episodio, è morta da tempo. Quanto a Paolo, ho sempre sperato che non avesse dato importanza a un qualcosa che
non lo riguardava, e che perciò sia arrivato a dimenticarlo. Se
non è cosí, ha avuto l’accortezza di non ritornarci mai e, per
quanto ne so, di non divulgarlo; né avrei potuto farlo io.
Il dolore più grande della mia vita non risiede nei sogni
andati perduti, nella pochezza delle mie aspirazioni, nelle
invincibili omissioni quotidiane. Come ho già detto, non c’è
travaglio per chi vive senza aspettare nulla e nessuno. No, il
dolore sta nella frase di un anziano che stimavo, frase che la
mia mente configurò all’istante come una terribile sentenza,
termine improprio, dato che avevo una vita davanti a me; pronuncia che avrei dunque potuto ribaltare, e alla quale ho invece attribuito io stesso, in ultimo grado, effetti retroattivi.
Ma rammento un’altra cosa: come primo tentativo di
smorzare il penoso smarrimento seguito alle parole di Enrico,
dopo che Paolo, rispondendo alla mia domanda, aveva fornito
la sua interpretazione, io mi produssi in una nervosa risata di
sufficienza, come a dire: “Ma guarda di quali offese insensate
è capace certa gente ignorante!”
Non era un sorriso sincero, quello, e tuttavia credo che non
differisse molto dai sorrisi forti, ironici, che comparivano a
quell’età sulla mia bocca. Sorrisi certamente diversi da quello
solito stampato oggi sul mio volto.
A qualcuno piace questo mio mite, soffuso sorriso, perché
fa pensare a una persona senza problemi, a uno che sa accontentarsi, che vive la vita nonostante tutto. Altri dicono che è il
sorriso di un vigliacco, del frustrato che tenta di mascherare i
suoi inconfessabili travagli. Altri ancora, ho saputo, pensano
che sia il sorriso di un parassita, che irride finemente chi si
affanna, chi mostra i segni del duro lavoro; il sorriso di chi ha
annullato ogni senso di vergogna per vivere in modo appena
cosciente, come un animale.
Sebbene le persone che mi giudicano con tanto malanimo
mi facciano paura, se ho occasione di incontrarle non le evito,
anzi ne approfitto per tentare di mitigare la loro intransigenza,
per cercare di renderli meno animosi nei miei confronti.
D’altra parte, quante persone invece – di alcune delle quali
ho fatto il nome – mi riservano dolcezza e comprensione! Mi
fanno pensare che alla prova dei fatti sapranno onorare i sentimenti di fraterna amicizia che mostrano nei miei confronti!
E io, il mio calore, il valore di una giornata, lo trovo con loro,
e con la mia unica alunna – cui mento dicendole che la storia
ha un senso, cui parlo sinceramente quando le dico che la vita
è bella e sacra – e con i miei poveri, buoni genitori, cui ho
fatto credere anche le cose che non volevano credere, e che
ricompenserò chiudendo io i loro occhi, invece dell’assistente
di un ospizio o di un impresario delle pompe funebri.
E poi... anche quando mi sento molto solo, quando penso
che un giorno potrei essere abbandonato da tutti, e mi raffiguro come uno sterile verme... mi sembra che un’altra persona,
un mio compagno di sempre, che tutto sa di me, e tutto mi perdona, mi aspetti nei vicoli scuri, nelle piazze vuote, nelle strade deserte del mio paese. Lo vedo da lontano questo angelo,
lui vede me, e mi viene incontro sorridente, mi cinge le spalle
con le sue ali, e con l’espressione dolce e sicura di un padre
davanti al suo bambino mi sussurra: “Non aver paura, non sei
solo, perché io sono sempre qui, accanto a te.”
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