GIOVANE VECCHIO NESSUNO Ho creduto per
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GIOVANE VECCHIO NESSUNO Ho creduto per
GIOVANE VECCHIO NESSUNO Ho creduto per molto tempo che fossi destinato a un grande avvenire, io. Cosí non è stato, e quando ripenso ai miei sogni, provo una certa pena per me stesso; per averli avuti, non perché non si siano realizzati. Del resto, erano davvero i miei sogni, quelli? È facile fuorviare un adolescente: basta indirizzarlo sulla strada dei propri fallimenti... Ma perché non si può vivere tranquilli, anonimi, già rassegnati, senza dover passare attraverso esperienze che gli altri, senza eccezione, giudicheranno un giorno alla stregua di vergognose sconfitte? Io sono sereno, sto bene; vivo un eterno presente, sottratto alle comuni angosce, al manicomio della lotta per la sopravvivenza! E non crediate: non biasimo quelli che hanno convertito la vita in uno spettacolo, oh, no! So benissimo che sono loro i nuovi conquistatori, che saranno loro a tramandare i propri geni: ma io non voglio intrattenere nessuno! Forse esiste ancora chi troverebbe perfetto il mio stato: ho trentacinque anni, sono scapolo e disoccupato, non ho fede, non sono iscritto ad alcun partito, godo di buona salute. Non chiedo niente né ho debiti con nessuno; non faccio male a una mosca, anzi sono conciliante e tranquillo come pochi. Conduco una vita sana, al fumo e alle droghe preferisco le letture e qualche corsetta intorno alle verdi colline del mio paese. Abito coi miei genitori, e campo con la loro pensione. Ciò non mi crea alcun rimorso; non escludo di aver allungato i loro giorni, in questo modo. 7 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO Il futuro, non l’ho mai considerato; se me ne fossi preoccupato avrei agito diversamente, negli anni che mi sono lasciato alle spalle, e mi porrei problemi più pratici, per il presente. Invece, mi sento appagato; non perché sia arrivato ad avere quel che desideravo, ma perché i desideri mi mancano... Certo, il pensiero corre, a volte, al giorno in cui resterò solo. Ma lo sconforto dura un attimo; sono convinto che una qualche autorità, o delle persone caritatevoli, al momento del bisogno si muoveranno in mio soccorso; nessuno è mai morto di indigenza, qui in paese. Quando cerco di figurarmi questi futuri benefattori, mi auguro sempre che non si mettano a rivangare il mio passato. Nulla potrebbe nuocermi di più: mi rinfaccerebbero di aver sperperato i talenti, perché sono stato un ragazzo brillante, pieno di interessi. Ho fatto parte per molti anni della banda musicale, della schola cantorum, e della Protezione Civile, senza molta passione, a dire il vero, perché vivevo male le esperienze di gruppo: non si può andare d’accordo con chi pratica il volontariato col fervore di un posseduto. Non ero ancora maggiorenne e già scrivevo sull’unico giornale della zona. Mi chiesero di collaborare perché avevano saputo dal professore di italiano che facevo bei temi. Accettai pieno di entusiasmo, ma dovetti accorgermi ben presto che non avevo né la spregiudicatezza né la tenacia necessarie per diventare un buon giornalista. Ma soprattutto, l’ispirazione e la voglia mi abbandonarono presto. Preparando gli ultimi articoli, avevo di continuo la sensazione che fosse stato già tutto detto, tutto scritto. Chi potrà mai essere interessato a queste cose, mi chiedevo mentre scrivevo; se ho l’impressione che sia stato già detto, vuol dire che anche gli altri lo sanno... Per tacere di quando mi pareva di averla raggiunta, una certa originalità: un paio di giorni, e già gli eventi avevano relegato ogni cosa nel vecchio, nell’inessenziale... E chiedo anche a voi: ho torto? Si può ancora dire qualcosa di originale sull’amore? O sulle virtù e i difetti della televisione? Sulla distruttività della tecnica? E la cronaca? Se non riporta delitti più che aberranti, solo noia. Per non parlare della politica; io non avevo fegato per denunciare certe cose, e cosí ho smesso. Ma fatemi voi il nome di un giornalista politico coraggioso e super partes... Cialtroni! Parlano di libertà, ma sono i primi ad aggiogarsi al carro questi impotenti della verità, questi mistificatori per istinto! Perciò, affinché il direttore non travisasse il motivo per cui non riceveva più i miei contributi, gli comunicai dapprima che volevo prendermi un periodo di riposo, poi gli dissi la verità. Non batté ciglio, mi disse giustamente che certe cose bisogna sentirle, altrimenti è meglio rinunciare. Neppure i miei genitori se ne addolorarono troppo. Quasi all’unisono, si limitarono a dire: “Se però un giorno ti tornasse la voglia di scrivere, mandaglieli i tuoi articoli al Direttore. Li apprezzava cosí tanto!” Invece, diedi loro un profondo dispiacere quando decisi di abbandonare gli studi universitari. Se, tuttavia, la loro sofferenza non si protrasse a lungo, fu grazie a una studiata opera di persuasione, che fondai su diversi argomenti. In primis, gli dimostrai che avevo fatto una scelta sbagliata: un amante degli studi umanistici non avrebbe dovuto iscriversi al corso di laurea in Economia e Commercio, facoltà scientifica e piuttosto arida (né era possibile rimediare cambiando facoltà: sentivo di aver già speso inutilmente tutte le migliori energie). Connessa a questa, era la seconda giustificazione: lo studio, per quanto importante, non deve portare una persona ad ammalarsi, a rischiare un esaurimento nervoso. Io cominciavo a star male già dieci giorni prima della data fissata per l’esame, persino di quelli meno difficili, e arrivavo alla prova cosí esausto da non avere neppure la forza di gioire, quando riuscivo a superarla. 8 9 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO Infine, sottolineai che li avrei sollevati una volta per tutte dal pagamento delle tasse di iscrizione, le quali, essendo ormai un fuori corso cronico, erano diventate molto gravose. Qualche tempo dopo, feci passare in maniera quasi indolore la decisione di licenziarmi dalla ditta per la quale avevo lavorato cinque lunghi anni. Facevo il rappresentante di commercio, vendevo prodotti dolciari ai negozi di alimentari. Non nego che mi sentissi molto meglio a tirar fuori dalle tasche soldi miei, che fossi arrivato a conoscere ovunque tanta brava gente, che avessi conseguito una certa professionalità; ma l’impegno che mettevo nel lavoro mi sembrava sproporzionato alla provvigione che mi era stata accordata. Siccome, però, le leggi del mercato, come si affannò a dimostrare il direttore, mi davano torto, la mia insofferenza cominciò ad appuntarsi sui colleghi: quasi tutti trasandati, approssimativi, imbroglioni. Finí che fui costretto a chiedere un colloquio al datore di lavoro, e senza fare nomi, rappresentare la differenza. Con questo risultato: “È vero, tu sei bravo, preciso, tieni alto il nome della Ditta, e meriteresti di più”; e poi, come un pontefice con la corda intorno al collo: “Ma non possumus”. Infine, e questo fu il motivo principale per cui lasciai quel lavoro, il responsabile commerciale premeva continuamente perché allargassi l’area di vendita; non poteva sapere che quanto più mi allontanavo dai luoghi che mi sono cari, tanto più perdevo smalto e sicurezza, arrivando a sentirmi un inadeguato, uno straniero. Benché io tenda alla franchezza, non fu rivelandogli questa verità che mi congedai da lui. Volevo colpire io una volta tanto, fargli male, irrigidire in un’espressione di attonito dubbio i dondolamenti del capo coi quali sottolineava ogni volta le perplessità nei miei confronti. Lui, uomo del nord trapiantato “dove si lavora col bollettino meteorologico”, era di fianco al titolare, ma non era a que- st’ultimo che dirigevo lo sguardo quando dissi: “Forse nel lavoro non ho inventiva, ma nel parlare sí. Sapete qual è il destino di una pietra che precipita a valle? È raro che la sua corsa finisca in una pianura. Più spesso succede che si infranga contro qualcosa, mandandola in frantumi, o andando essa in frantumi! Ecco, voi siete come dei sassi che rotolano. E non ve ne accorgete, perché mentre precipitate, ogni cosa, intorno, diventa sfuggente, inafferrabile, appare sfuocata, priva di forma e bellezza, senza più un’identità, senza più nome. Bene, io non sarò mai quella pietra, non mi lascerò gettare dove non posso fermarmi!” Girai i tacchi con aria fiera e vittoriosa, ma già nell’uscire giuravo a me stesso che non avrei mai più vissuto un’emozione cosí intensa. Sapevo come fare: avrei accettato solo lavori temporanei e non troppo gravosi, in modo da non ingannare più nessuno, neppure me stesso. Una decisione meravigliosamente consapevole! Purtroppo, quando diventi uomo le persone ti cuciono addosso tutte le qualità che dell’uomo si dovrebbero avere: amore per il lavoro e per la famiglia, coraggio, serietà, virilità, obbedienza alle regole. E ti guardano male se non ce la fai a rispettarne qualcuna, se la tua soddisfazione, alla fine di ogni giornata, è solo quella di non aver fatto soffrire nessuno! Ma che cosa importa? Essere chiari non equivale forse a restringere il campo, in modo da vederla meglio, una cosa? Mai ho dovuto pentirmi di essere stato coerente con la mia decisione. Per un anno ho fatto il bidello nella scuola media locale, destando un’ottima impressione fra gli insegnanti. Il fatto è che dialogavo con loro alla pari e non di rado suggerivo iniziative che mostravano di apprezzare; allo stesso tempo, non mi negavo alla scrupolosa pulizia dei gabinetti. Dopo, sono stato chiamato a lavorare alla mensa scolastica come aiuto-cuoco, e questa occupazione, non so perché, mi piaceva tantissimo. Ero tenuto ad apparecchiare i lunghi 10 11 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO tavoli, affettare il pane, servire a tavola, lavare e asciugare le stoviglie e infine ripulire la cucina e la sala per la refezione. L’ho fatto per un paio di anni scolastici, con tale diligenza che Ginetta, la cuoca, mi ha detto che ero più bravo e ordinato di tutte le inservienti di sesso femminile capitate alle sue dipendenze. Di recente, mi ha assunto per il periodo estivo l’Amministrazione Comunale. Mi sono rivelato un impiegato solerte e preciso, solo un po’ preoccupato e nervoso quando il lavoro si faceva pesante. Allo sportello mi comportavo in modo gentile e paziente, e proprio il rapporto con la gente, che ho servito con umiltà, mi ha dato le maggiori soddisfazioni. “Saresti un buon addetto al servizio amministrativo,” ha commentato alla fine il Segretario Comunale. Ma io non ero d’accordo; l’applicato tornerei a farlo volentieri, ma l’impiegato amministrativo no, non lo farei, perché comporta troppe responsabilità, e potrei rimanerne schiacciato. Comunque, ormai sto per superare l’età massima per partecipare a qualunque concorso. Nessun ente pubblico mi vedrà mai nel suo organico, né, a maggior ragione, uno di quei voraci privati che ti succhiano il sangue senza che tu te ne accorga, e dei quali sei pure costretto a ben parlare perché qualsiasi commento, non si sa come, giunge immancabilmente alle loro orecchie, e qualsiasi critica, per tale motivo, viene seguita dalla convocazione in ufficio e da un rimbrotto che ha lo stesso sapore di quelli paterni! Ecco dunque come passo le mie giornate: al mattino resto in camera, ad ascoltare musica e leggere tutto ciò che mi piace. Se c’è necessità di accompagnare con la macchina qualcuno, genitori e parenti, o anche persone amiche, sono sempre disponibile, cosí come per fare la spesa o per una qualsiasi altra incombenza. Servire gli altri mi piace; come ha detto qualcuno, servire non è sempre un’azione da servo. Nel pomeriggio esco di casa, vado al Bar dello Sport a prendere il caffè, mi faccio una partitina a carte, e poi passeggio in piazza con chiunque abbia voglia di accompagnarmi. A giorni alterni, indosso tuta e scarpe da ginnastica, e vado a correre sul morbido terriccio dei sentieri della campagna; mi fa sentire bene come nessun’altra cosa, e non costa niente. Dopo la doccia, resto a casa, a guardare la televisione o ad aiutare i miei genitori in qualche faccenda domestica; spesso aiuto nello studio la mia nipotina, che frequenta le scuole elementari. Terminata la cena torno a leggere, o esco di nuovo. Non c’è niente di più bello che passeggiare insieme a un amico nelle fresche notti autunnali, o in quelle lattiginose, profumate ed eccitanti della primavera! Spesso rimaniamo a camminare e a discutere sino a tarda ora e, quando ci lasciamo, solo i cupi soffi del barbagianni e le note flautate del passero solitario rompono il silenzio dei vicoli immersi nella pace più profonda. Se si fa l’alba, poi! A poco a poco, ogni cosa emerge sempre più nitida, più familiare, e ti dà il buongiorno più caloroso e sincero! Allora penso quasi con orrore a quelli che pur stando in paese lo vivono come un dormitorio, proprio allo stesso modo degli abitanti di una grande città. Non sanno che cosa si perdono! Qui, le persone, le cose, tutto ha un’evidenza particolare, perché non conosci solo la forma, ma pure l’anima di quanto ti circonda: è questo il paese! È ancora possibile scegliere di non rinunciare a tutto ciò, di rimanere testimoni di eventi naturali che gran parte della gente vede solo dentro uno schermo, o di cui legge su qualche vecchio libro? E quante cose si scoprono conversando con gli altri! È riservato a chi ha ancora il tempo e la pazienza di ascoltare, il privilegio di raccogliere le gemme più autentiche che ognuno di noi tiene in serbo! Ma non c’è bisogno di arrivare a tanto. Persino la discussione di routine, persino il silenzio ha un che di confidenziale, quando accanto a te ci sono delle emozioni, oltre che delle facce. 12 13 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO È storia di ieri... Ho fatto le ore piccole con quel cuor d’oro di Giorgio, direttore della Cassa Rurale e Artigiana, che viene ogni tanto a cercarmi, più spesso finge di incontrarmi per caso, e inizia sempre il discorso da molto lontano, per arrivare infine a dirmi con un certo tatto: “Sii più pratico, però. Non sei uno qualunque, hai doti non comuni, e le puoi ancora sfruttare. Intanto, dovresti pensare a metterti al sicuro, non credi? Io ammetto qualsiasi filosofia di vita. Ma primum vivere, deinde philosophari.” Io ci metto un po’ a controbattere, tanti sono gli argomenti che si affastellano nella mia mente, compreso il più brutale, che mi guardo bene, però, dal pronunciare: “Sono io che vivo, voi lavorate e basta!” Comunque, la mia replica gira più o meno intorno a questo concetto: “Ma non credi che una filosofia di vita, come la chiami tu, possa iniziare prima, o andare oltre il limite che fissi con tanta precisione? Se io facessi come dici sarei come tutti gli altri. Ma tu sai che io non sono come sono per voler essere diverso dagli altri, oh, no! Non è una reazione, non è una protesta, la mia! Se organizzassi la mia giornata a favore di una banda di delinquenti, che cosa diresti? Perché ammetterai che ogni attività criminosa richiede ingegno, applicazione, sacrificio, e anche coraggio, tutte cose in sé apprezzabili. E c’è pure chi impegna il suo tempo cercando di adescare i bambini, e chi ne organizza la tratta...” “Allora non vuoi avere un tuo ruolo? E soprattutto, tu che hai ricevuto affetto e istruzione, vuoi paragonare la tua coscienza con quella di persone violente, malate? E poi, i tuoi genitori?” “Forse il mio ruolo è proprio quello che vivo, e d’altra parte la coscienza non mi rimorde. Forse rimorde a un delinquente, ma non siamo sicuri neppure di questo. Caro Giorgio, forse tu presupponi un modello, e la maggior parte della gente ci ricade in quel modello. Ma se aveste torto? Se avesse ragione l’unico, invece che l’imperativo categorico? E per favore, non parlarmi dei miei genitori. Se potessi, vorrei dire loro: non c’è giudice che non vi imputerebbe una buona dose di responsabilità per quella parte di me che non vi piace, e che vi fa soffrire. Smettetela di addolorarvi, non potete entrare nella mia testa e aggiustarne i fili. Se nonostante tutto mi considerate una persona buona, a modo, ebbene, accontentatevi. Io ho deluso le vostre speranze, ma quali erano i modelli che mi avete messo davanti agli occhi? Era giusto, dopo la pagella della quinta elementare, vedermi già ingegnere o dottore? Se invece aveste posto più attenzione, un’attenzione del resto possibile, alla mia ingenuità, alla mancanza di ambizione, all’invincibile paura di dover lasciare il suolo sacro del paese, non avreste nutrito inutili illusioni, e ora accettereste meglio una vita che mi si confà, che esprime quello che sono. Perché io non ho messo sottosopra i contenuti più autentici della vita!” “Va bene, ho capito, ognuno vive come gli dice la testa, e forse è vero che non siamo responsabili di tutto ciò che facciamo. Quindi, fa’ come ti pare, ozia, contempla, vivi leggero. Ma insomma, poiché un limite c’è, non pensi al tozzo di pane? Solo questo! Altrimenti devi sentirti sicuro che sarai disposto ad allungare la manina per strada, lo capisci?” In genere soffoco una risata dopo simili rampogne, che diventano sempre più stringenti e drammatiche, avendo Giorgio quasi esaurito gli eufemismi coi quali cerca di rendermele accette in modo indolore. Cosí ieri gli ho risposto come non si aspettava: “Sí, ci ho pensato, mi sono chiesto se ne sarei capace. Non lo so, è un bel duello quello tra l’orgoglio e la fame. Ma come corri! Se volessi, potrei passare dall’indigenza al benessere anche domattina. E senza neppure tanta fatica, anzi forse divertendomi.” 14 15 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO “E come?” ha replicato lui con un sorriso, dove si affacciavano la simpatia che si prova per i monelli e la speranza che avessi escogitato davvero qualcosa di prodigioso. “Conosci un dolce più buono della nostra pizza alla pala? È la più squisita pagnotta che si conosca. Non l’ho regalata una volta senza ricevere i migliori complimenti. E poi noi abbiamo anche un pane eccezionale; chi lo cuoce ancora nel forno a legna? Profuma come un biscotto, e rimane fragrante per ore. Se lo fai rapprendere è più buono di prima, lo puoi mangiare anche dopo una settimana. Bene, adesso compra ogni mattina una ventina di pagnotte e una decina di pizze, caricale su un furgone assieme a un tavolino, un coltello, qualche vasetto di cioccolata o marmellata, un buon salame, e, grazie a una semplicissima licenza di commercio ambulante, accomodati in una piazza di Roma. Solo un euro, non un centesimo di più a fetta, e in un paio d’ore sparisce tutto. Te ne torneresti a casa all’ora di pranzo con centinaia di euro in saccoccia, e senza aver detto signorsí a nessuno.” Dovevo averlo colpito, o forse era solo divertito da quanto avevo detto, perché mi diede una gran pacca sulle spalle, e sorrise a più riprese. Avevo tacitato per un momento la sua responsabilità di custode della mia salute mentale, compito di cui Giorgio si è autoinvestito e che prevede i periodici sondaggi cui mi sottopone. Sondaggi che, ho notato, svolge da un po’ di tempo con maggiore frequenza rispetto al passato, convinto com’è che la disoccupazione comincerà proprio ora, ora che è scoccata la mezza età, a produrre effetti nefasti sul mio comprendonio. Comunque avete visto come sia emersa, lo dico con gioia, una delle più importanti risorse di un paese degno di questo nome: un avvocato più o meno bravo – ma sempre molto compreso nel ruolo – per quasi ogni aspetto dell’esistenza. Oltre a Giorgio, il mio foro personale è composto dalle catechiste, che mi fanno gli occhi dolci perché non rifugga, almeno, dal conforto spirituale che Dio, se non lo si disconosce, non nega ad alcuna creatura. A esse, dò sempre delle risposte sincere, col risultato di farle spesso gridare allo scandalo. Lo faccio perché hanno tutti gli atteggiamenti delle religiose per forza, e probabilmente lo sono. Questo posso sopportarlo in un anziano ignorante o rimbambito, non in ragazze diplomate che rimuginano ogni giorno su testi religiosi e letture teologiche! L’ultima volta ho detto loro: “Tranquille, nonostante i pasticci che ha combinato, Dio tornerà ad avermi fra i suoi, un giorno o l’altro. O forse tornerò io ad averlo fra i miei, perché le gambe a un certo punto non ci reggono più, e c’è bisogno d’aiuto.” Hanno trattenuto il respiro – come se avessero visto il più strano mostro della terra – e poi si sono portate la mano sulla bocca e hanno iniziato a ridere come matte. In confronto al capo, non sono che delle dilettanti. Con tattica molto più ambigua e sottile, Don Valerio non cessa di spingermi a una “libera, liberissima partecipazione alla vita sociale”, consiglio che può apparire dei più spassionati e generosi, ma che cela l’ineliminabile volontà di proselitismo di ogni prete: non c’è associazione, in paese, che in un modo o nell’altro non faccia capo alla parrocchia! Mangiando la foglia, replico con vaghezza: “Ogni impegno con gli altri è prima di tutto un impegno con se stessi, ogni sí è una parte di noi che si incatena a qualcosa o, peggio, a qualcuno.” Non potrò mai parlargli più esplicitamente: è orgoglioso e vendicativo come molti preti. Ai miei rapporti con le donne ci pensa Alberto, duce incontrastato dei volenterosi pronubi che si adoperano a mio favore. È contento quando mi affaccio in piazza Maggiore, e mentre ancora scruto le facce della gente a passeggio, per decide- 16 17 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO re a chi unirmi, mi strattona da un lato, mi prende a braccetto, e ricomincia pazientemente la sua opera di sensale, fattasi in verità un po’ opprimente negli ultimi tempi, da quando gli è venuta la fissa di unire le mie sorti a quelle della donna più brava e costumata del paese, Rossella. Ecco che alcune sere fa Alberto diventa esplicito come mai: “Lascia perdere galline e polletti, parla coi cristiani. Ma non ce l’hai gli occhi? No, non ce l’hai, altrimenti, già te l’ho detto, li avresti messi addosso a Rossella, che, secondo me, non aspetta altro. È proprio vero, voi scapoli non siete allenati a riconoscere certe fortune! Fortune, sí, perché vedi, lascia giudicare la situazione a chi di matrimoni ne sa, e che non ha sbagliato una volta a indovinare le coppie scoppiate e quelle che filano d’amore e d’accordo. Perché devi sapere che ci sono donne fatte apposta per rovinare i mariti, e quelle che fanno la fortuna loro e di chi se le sposa. E Rossella è una di queste, te lo dice un fesso! E poi, brutta non è, anzi; basterebbero quelle due tette, guarda, che quando le stai vicino sembrano doverti scoppiare in faccia.” Non resistevo, ho iniziato a ridere di gusto. “Che ti ridi, stronzo? Si può rinunciare a tutto, non al bene più naturale, a una donna brava, assennata, che ti scalda la vita, e pure quel baccalà lesso che ti ritrovi là in mezzo! Ohé, single (pronunciato proprio cosí, single) del cavolo, svegliati, e ringrazia chi ti parla in questo modo! Ti dirò di più, non so neppure se gli stai bene, a lei! Perché lei non mi ha detto niente, te lo giuro; se me lo avesse detto ne sarei contento per te, ma allora forse non mi sarei neppure prestato a un compito del genere. Sono solo un amico che ti propone una... sfida, sí, una sfida che certi uomini ci si sono scannati! Non ti regalo niente, non preoccuparti. Ma misurati, cazzo! È una donna che vale quella, e non aspetta altro che un tipo che la faccia sentire una femmina! Nemmeno questo ti attira? Ma allora, amico mio, fattelo dire da uno che non s’è mai permesso di criticare altre scelte che hai fatto, se non ti stuzzica manco questo, ti chiedo solo: che cazzo campi a fare? Che senso dai al passaggio su questa terra, eh?” Non so perché, ma quell’espressione evangelica mi fece star male dalle risate. E siccome la consolidata struttura delle mie difese abbassa il ponte levatoio davanti al lato comico di certi discorsi, viene meno tutta la mia sincerità, e per l’ennesima volta non ce l’ho fatta a replicare, come avrei dovuto: “Rossella è brava, merita un buon marito, e glielo auguro con tutto il cuore. Ma non mi piace. Meglio, la ritengo una bella donna, ma c’è qualcosa in lei che non fa per me, certi tratti che sento di non poter sopportare. Quel collo corto e grosso, quei polpacci suini, e poi quell’alito pesante, la bocca sempre un po’ impastata; ci ho fatto caso più volte quando facevamo le prove con la schola cantorum, le fa difetto persino al mattino, dopo essersi appena lavata i denti.” Non sembrino civetterie, le mie. Mi facevano, tempo fa, il nome di Ivana. Ho fatto fatica a dire che non me la sentivo di passare una vita insieme a una donna cosí dinamica, cosí frenetica, capace di buttarti giù dal letto alle sei di mattina anche nei giorni di festa, di mandarti all’emporio fino a cinque volte al giorno, di farti raccogliere le castagne che gli altri hanno scartato per arricchire una dispensa già stracolma, perché “non si sa mai”. Forse esiste un modo col quale potrei chiudere ogni discorso con Alberto e il suo clan. Dovrei dire, secco e deciso: “Io cerebralizzo tutto, ormai. Lo so, è il peggior modo di interiorizzare l’immagine di una donna, ma che cosa posso farci? Finché non ne incontrerò una con la quale questo non mi succederà, non potrò far nulla. Non posso farmela piacere per forza.” Ma, come ho già detto, non ho alcuna voglia di privarmi delle sane, disinteressate parole di un amico. Tuttavia, non è per questo motivo che non ho mai confidato ad Alberto la 18 19 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO vicenda che potrebbe spegnere in un istante le sue premurose insistenze: la verità è che ho vergogna di confessargliela. L’unica altra depositaria di questo segreto è una donna fredda, determinata, instabile e anche intrigante, e che tuttavia, senza che io glielo abbia chiesto, ha saputo mantenere il silenzio su una circostanza che, se rivelata, l’avrebbe affrancata da molte critiche ingiuste. Questo fatto sconosciuto, che ormai non pesa più sul mio animo, neppure quando mi convinco che abbia a che fare più di ogni altro con l’accentuarsi della mia misoginia, costituisce la vera ragione per la quale, dopo quasi quattro anni di fidanzamento, e quando già parlavamo timidamente di matrimonio, io e Silvia ci siamo lasciati senza ripensamenti, senza rimorsi. Non è affatto importante, non serve ad appagare un rimpianto che non esiste, sapere che ancor oggi si dica: “A lui è andata bene. Lei ha sposato un altro, ma ha divorziato dopo soli due anni, poi se l’è fatta col primario dell’ospedale, e lasciato anche questo, con un medico fresco di matrimonio.” Chi può dire che sposando me sarebbe successo lo stesso, che io e Silvia non saremmo stati felici? Quegli uomini lei li conosceva appena, non venivano dalle stesse contrade, non amavano le cose che ama, non condividevano con lei nessun romantico passato: io sí. Le nostre nature erano diverse, ma io le facevo palpitare il cuore quando le parlavo dell’impercettibile sussurro notturno dei boschi, della purezza della nostra vita semplice e naturale, della gioia di perpetuare tradizioni antiche e suggestive. Le parlavo di queste cose sin dall’inizio del nostro amore, e lei mi ascoltava, si commuoveva, mi stringeva le mani e le baciava. Io sentivo di amarla, lei si stava appassionando a me, e già poche ore di lontanza cominciavano a pesarci e a insospettirci. Era stata lei a cominciare. Frequentavo da qualche mese una vecchia cantina che avevamo adattato a locale per appuntamenti galanti. Vi avevo già incontrato e sbaciucchiato alcu- ne ragazze, con una delle quali meditavo un rapporto più assiduo, perché non mi dispiaceva, quando un pomeriggio scorsi nel locale Silvia. Ne fui sorpreso, perché invitavamo a ballare quasi sempre ragazze più giovani. Lei, di un anno solo più piccola di me, non era mai venuta. Parlammo piacevolmente per molto tempo, prima di avvinghiarci in un ballo, e provammo subito una tale attrazione che ce ne stupimmo: le nostre case erano divise solo dalla piazza del Municipio, eppure ci eravamo sempre limitati ai saluti, o all’effimera complicità che si crea quando si addobba il rione, o quando succedono quegli eventi, come una disgrazia, capaci di riunire le persone e le generazioni più varie. La seconda volta che ci incontrammo lei aspettò che l’altra coppia presente si appartasse dietro un paravento, e di punto in bianco, mentre conversavamo, mi mise una mano sulla patta dei pantaloni. Ero tanto sorpreso quanto intimidito; intuivo che era di gran lunga più esperta e disinibita di me, e che avrebbe compreso sin da quella volta la necessità di contenere il suo slancio sessuale, perché bastò che mi strofinassi per qualche secondo contro il suo ventre per eiaculare immediatamente. “Non preoccuparti,” mi rassicurò, “all’inizio è cosí.” Era tanto sicura di sé che volli crederle, ricavandone una doppia gioia. Silvia, pensavo con grande conforto, mi avrebbe aiutato anche per quel difetto di cui cominciavo a prendere coscienza e a preoccuparmi per averlo già sperimentato con altre ragazze, e persino nel piacere solitario. Ma era più in generale che sentivo di poter contare su di lei, di poterne andare fiero; anche se proprio quella risolutezza, quel naturale senso pratico che avevo scoperto d’acchito, mi dissuadevano da un completo abbandono, ammonendomi che la diversità di carattere, che ora sembrava unirci, avrebbe potuto tramutarsi nel vero, implacabile nemico della nostra unione. 20 21 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO Ma lei diceva di amarmi, e quando mi rifugiavo nel suo abbraccio e le confessavo i timori per il futuro, mi rassicurava dicendo: “È meglio essere complementari. Con le persone che hanno lo stesso carattere è più facile entrare in conflitto. E poi te l’ho detto, a me vai bene cosí.” Purtroppo, i sintomi che giudichiamo con leggerezza all’inizio di ogni rapporto amoroso evolvono in malattie gravi, senza le cure opportune. Silvia non sembrava preoccupata della mia mancanza di iniziativa, di quella debolezza che giustificavo con argomenti che la portavano al riso, come succede quando siamo colpiti da eventi per i quali il rimedio è già in nostro possesso. Ma ci sono episodi della realtà che annunciano verità molto più grandi e profonde di quelle che possiamo conoscere dalle confessioni parziali e condizionate della persona che ci ama. La determinazione, la sicurezza nelle proprie possibilità, che Silvia possedeva sin da bambina, erano riflesse nel suo modo di vivere il sesso. Se di questo non mi stupivo, avendo sempre pensato alla donna – e non a Silvia in particolare – come alla vera padrona dell’atto sessuale, il timore per la mia scarsa virilità mi angustiava più di altre mie manchevolezze. Con me, Silvia era non solo impossibilitata a esprimere come avrebbe voluto le sue capacità erotiche, ma doveva addirittura limitarle, per non indurmi al piacere con anticipo ancora maggiore sul tempo, già breve, con cui concludevo l’accoppiamento. Era costretta ad accelerare il godimento in modo forzato e innaturale, e lo faceva per me, arrivando a sorridere al momento dell’orgasmo, come davanti a un doppio regalo: uno fatto a se stessa, come premio di quel sacrificio, l’altro alla persona cui voleva bene. Ma una sera, un istante dopo la conclusione di un brevissimo rapporto, mi disse: “Ti dispiace se continuo?” Dissi di no con tutto il cuore, anzi, avrei voluto accrescere quell’ulteriore piacere; ma io, a quel punto, non sentivo più niente, e se non trovai la forza di simulare, ero sincero quando, mentre si masturbava, la baciavo sulle guance come si fa con una cara persona di famiglia. Da quel giorno, ogni volta che facevamo l’amore lei prolungava il godimento da sola, né io avevo modo di sorprendermi o di aggiungere alcunché al suo piacere; sino alla sera in cui notai che stette a occhi chiusi per tutto il tempo della masturbazione, che durò più a lungo del solito e durante la quale diede l’impressione di doversi sforzare, per raggiungere il secondo orgasmo. Ma forse avevo bisogno di illudermi ancora un po’. Se mi capitava di sentire da persone sposate che il sesso – questo collante che funziona solo se i tessuti sono della stessa stoffa, e mai altrimenti – è la componente più importante di un matrimonio riuscito, io rigettavo l’applicabilità (non la sostanziale fondatezza) di tale assunto, con l’osservazione, non meno veritiera, della riuscita di matrimoni fra individui dalle personalità quasi opposte, di unioni andate a buon fine nonostante la rassegnata mediocrità di lui e la brillantezza di lei, differenze che, più o meno arbitrariamente, estendevo ai rapporti sessuali. Ma poiché nessuno potrà mai formulare una regola sulla corrispondenza fra carattere e sessualità, la mia rimaneva pur sempre un’illazione; nel mio caso, invece, si faceva strada la verità... E pensare, mi struggevo a volte, che in questo anonimo atomo dell’universo, nessuno, dico nessuno, minacciava la nostra unione. Proprio come se tutti avessero stretto un patto di questo genere – stiamo alla larga da Silvia, il suo legame ha già i suoi bravi problemi di compatibilità caratteriale, non gliene creiamo degli altri – lei non fu mai insidiata da alcun altro uomo, il nostro amore non soffrí mai di gelosie, né di sotterfugi o tradimenti. Ma le difficoltà, anzi, la difficoltà, quella che immiseriva l’ideale dell’amore fondato sul puro sentimento, veniva da me, non dagli altri. Mi lasciai convincere a tentare l’ultima possibilità. 22 23 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO “La colpa è anche sua signorina, lo sa?” mormorò suadente il terapeuta al quale ci rivolgemmo. Non credetti nemmeno per un attimo che avesse ragione: Silvia era una macchina da sesso perfetta, capace di adattarsi ai percorsi più vari, e alle più diverse andature. Sarà perché non mi ispirava una grande fiducia, ma i tentativi del meccanico di abbassare i giri del mio motore fallirono miseramente. E Silvia capí una volta per tutte: ormai ero preda di un’invincibile soggezione nei suoi confronti; e l’amore ha bisogno di coraggio, non di paura. L’intenzione di lasciarmi la fece trapelare a poco a poco, per attutire la mia sofferenza. Una sera, un’esplicita dichiarazione prese il posto di certi strani silenzi, delle mezze frasi, degli atteggiamenti di insoddisfazione. Eppure, Silvia doveva ancora farmi il dono più nobile e grande: questa donna, cui sarebbero stati indirizzati in futuro tanti vergognosi aggettivi, soffrí in silenzio le inevitabili critiche che seguirono il distacco, e mai disse una sola parola sulla causa prima della rottura della nostra unione. Il miracolo che, in un piccolo paese, nessuno sia venuto a conoscenza del mio difetto, lo devo a lei. Per parte mia, mi guardo bene dal rivelarlo anche adesso, a distanza di parecchi anni dalla fine del nostro amore, essendo rimasto, questo segreto, l’unica patetica soddisfazione ancora legata alla mia vicenda sentimentale con Silvia: da tempo, infatti, ho smesso di masturbarmi pensando a lei. Infine, ai miei premurosi agenti matrimoniali potrei dire: “Grazie per l’interessamento, ma sto bene vicino a mia madre. Sarà un atteggiamento sbagliato da parte di entrambi, ma per ora è questa la sistemazione che reputiamo migliore per me.” Non mento. È vero che ogni tanto lei mi sussurra: “Solo tu non hai trovato a far bene!” Ma lo dice timidamente, evasivamente, e chiunque vi riconoscerebbe la paura di una vera sollecitazione, alla quale teme, in fondo, che io possa replicare: “Ebbene, finalmente vi accontenterò. Ho trovato una ragazza, fra qualche giorno la conoscerete; presto ci sposeremo.” Cosí facendo non posso evitare che ogni tanto Alberto e tutti gli altri tornino prepotentemente alla carica. E io li lascio fare; è un’opera meritoria la loro, che va oltre lo scopo che si prefiggono. Infatti, l’ho già detto, con tutti questi consolatori ti prende una strana fiducia nel prossimo, nell’umanità intera, e, allo stesso modo in cui vedi le tue piccole fortune, cosí vedi i guai. Essi dipendono spesso dal prossimo, e proprio grazie al prossimo potremo risolverli! Ed è per questo che la mia condizione, che qualcuno definisce con aria commiserevole “disastrosa”, per me non è tale. Mi capita di incontrare parenti, o amici, o amici di amici, che sanno tutto, o anche solo l’essenziale di me, i quali, quando alla domanda: “Allora, come va?” rispondo “Benissimo”, sgranano tanto d’occhi. Forse immaginano che dica cosí perché non voglio umiliarmi davanti a loro, o perché abbia timore che inizi una discussione riguardante la mia inutile esistenza, o soltanto per pura timidezza. Quanto maggiore sarebbe la loro sorpresa se potessero credere che la risposta, invece, è sincera! Comunque, dopo l’inaspettata rassicurazione, mentre i più bonari annuiscono senza convinzione, e sviano uno sguardo impacciato, i più maligni – poiché di me, finché non chiederò loro un esplicito aiuto, in fondo non gliene importa nulla – non riescono a dominare uno schietto, ironico: “Meno male. Contento tu...” Col candore di uno dei miei eroi, un Idiota vissuto nell’Ottocento, non replico a certe ironie, come non corrispondo a chi si sforza di correggere la mia vita: è in questo modo che ho costruito la tomba entro cui ho seppellito, nel tempo, i resti del mio orgoglio. Mia alleata, in questa non facile battaglia, è una medicina universale, infallibile, un antidoto ai veleni della vita che ogni organismo introietta ogni giorno senza neppure accorgersene: l’abitudine. Grazie a lei, le corde del nostro cuore, che spesso gli altri si divertono a pizzicare violentemente, perdono rigidezza, si allentano, e non corrono più il rischio di spezzarsi a causa delle continue sollecitazioni. 24 25 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO Dunque, mi spiego perfettamente perché i colpi che ci sono stati inferti quando l’azione anestetizzante dell’abitudine non poteva smorzarli rimangono cosí vivi nella carne: chi può dimenticare le cocenti umiliazioni dell’infanzia, le amare sconfitte scolastiche, le prime, angosciose pene dell’adolescenza? Eppure, non è nell’età più verde che è stata infissa nel mio cuore la spina più acuta, quella che non ha mai smesso di tormentarmi, nonostante mai io abbia potuto sapere se colpirmi cosí dolorosamente fosse davvero lo scopo del mio feritore. Avevo, allora, vent’anni. Era una serata fresca e limpida del tardo autunno, mi trovavo proprio al centro della piazzetta S. Sebastiano, e discorrevo con Paolo, mio coetaneo e compagno di studi universitari. Improvvisamente, egli interruppe la conversazione, e fissò lo sguardo alle mie spalle. Mi voltai: su uno dei tetti di via del Palazzo, attorno a un tozzo comignolo, si accartocciavano intense vampate rossastre. “Ha preso fuoco il camino,” disse, “deve essere la casa di Enrico, o quella di Agata.” Avvicinatici alle abitazioni, vedemmo che era il comignolo della vecchia perpetua a bruciare. Paolo iniziò a bussare alla sua porta con forza: “È sorda,” osservò, “e vive sola.” Quando già ci preoccupavamo, la porta si aprí. Comparve una donna anziana, dal volto ancora liscio e roseo, cui faceva da cornice una tonda e candida capigliatura. Mostrava un sorriso beato, quasi innocente, e fu con tutta calma che disse: “Sta bruciando il camino, vero?” “Penso proprio di sí,” brontolò il mio amico, entrando senza indugio. La legna nel camino ardeva normalmente, ma la canna fumaria rombava sorda, alitando soffi infuocati verso l’alto, e fumo e cenere in basso. “Acqua! Serve acqua!” fece Paolo. “Pentole. Agata, dacci una pentola!” La donna strabuzzò gli occhi. “Una pentolaaa!” Senza rispondere, la perpetua si accostò a un vecchio armadio a muro e indicò un grosso paiolo. Paolo lo afferrò nervosamente e lo riempí d’acqua, che gettò a più riprese sul fuoco, spegnendolo in fretta. “Bene, e una,” commentò soddisfatto. “Adesso la canna fumaria, no?” feci io. “Sí, vediamo un po’.” “Si può arrivare sul tetto, da qualche parte?” domandai. Paolo annuí: “Ci vuole una scala. Una scalaaa!” La perpetua fece cenno di no con la testa. “Aspetta, la troverò, torno subito,” dissi. Uscendo, per poco non mi scontrai col vecchio Enrico, che entrava proprio in quel momento. “Hai una scala?” gli chiesi. “Scala?!” Mi tirò bruscamente da una parte, e si diresse a grandi passi verso la cucina. Guardatosi attorno, afferrò la spianatoia appesa di fianco alla dispensa, e appoggiandola contro gli stipiti del camino ne occluse l’apertura. “Agata,” urlò, “servono dei sacchi. Sacchiii!” La perpetua, annuendo, scese i gradini della cucina, e tornò sorreggendo dei puzzolenti sacchi di juta. Incastrandoli nello spazio residuo, il vecchio ostruí completamente la bocca del camino. Presto, il minaccioso rombo diminuí, per spegnersi del tutto in un paio di minuti. “Dovevamo togliergli l’aria, l’alimentazione, capito?” commentò. “Andate fuori, guardate se arde ancora.” Paolo uscí dalla casa. “Tutto a posto,” disse sorridente quando rientrò. Il vecchio ci guardò duro: “Che dovevate farci con la scala, ditemi un po’!” “Avevamo pensato,” risposi, “di gettare acqua dal comignolo. Avevamo già spento il fuoco nel camino.” 26 27 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO “Ma andate a farvi rimettere il cervello!” borbottò con faccia schifata. “Ma no, stai buono,” disse Agata (ricordo che mi sembrò strano che avesse udito), “sono stati bravi, bravissimi, si sono precipitati! Grazie, ragazzi. E adesso, permettete? Vi voglio offrire qualcosa, su. Vi faccio un caffè?” Dicemmo tutti di no. La donna, allora, aprí la dispensa e posò sul tavolo una scatola di latta decorata con delicati fiori vermigli. “Prendete, sono buoni,” disse mettendo su una salvietta dei sottili biscottini, candidi come le nuvole. “Sono siciliani, me li mandano i parenti di Don Francesco.” Erano davvero squisiti, ne mangiammo più di qualcuno a testa. Mentre ancora storceva la bocca per liberarsi dei residui di cibo, Enrico, con una smorfia ironica, ruppe il silenzio: “Insomma, volevate andare sul tetto e buttare acqua dal comignolo, eh? Poveri voi! Ma dico, non ce l’avete il camino?” Avvertivo qualcosa di minaccioso; tardavo volutamente a rispondere, e Paolo mi precedette: “Io ce l’ho, ma non m’è mai capitata una situazione del genere. È la verità. Nemmeno quello di mia nonna ha mai preso fuoco.” “A proposito, Agata,” riprese il vecchio alzando la voce, “fai ripulire la canna fumaria, e non buttarci la roba di plastica, nel fuoco. Quella non brucia bene, rimane sempre qualcosa, si mischia con altra robaccia e s’attacca alle pareti del camino. Poi arriva il giorno che prende fuoco. Capito?” Il vecchio deglutí, poi guardò me: “E tu, figlio di Umberto, tu ce l’hai il camino. Ma scommetto che il fuoco non sei capace di accenderlo...” Mi irrigidii, senza darlo a vedere; soprattutto, non ebbi la sfrontatezza di mentire: “È vero, lo fanno sempre i miei. Abbiamo la stufa a kerosene, non lo accendiamo tutti i giorni. Ma se fosse necessario, penso che...” Enrico mi fissò con uno sprezzo che non potrò mai dimenticare, i suoi occhi parvero trafiggermi: “Ma che fai, tu… tu non farai mai niente, te lo dico io!” Si voltò, salutò Agata, alzò un istante lo sguardo su di noi, e uscí. I rinnovati ringraziamenti della perpetua mi distolsero un istante dall’imbarazzo. Ma parlare di imbarazzo è improprio: ero al tempo stesso spaventato, ferito, umiliato. Non potevo nascondere quello stato, tantomeno a Paolo, che mi conosceva bene. Appena uscimmo, non potei fare a meno di interrogarlo: “Scusa Paolo, ma devo chiedertelo. Che voleva intendere? Parlava in generale o ce l’aveva proprio con me?” Paolo non riuscí a dissimulare quella recondita soddisfazione che, come hanno osservato tutti gli indagatori dell’animo umano, ricaviamo dalle disgrazie degli amici. Se ne uscí con un sorrisetto, la cui malizia cercò di sminuire dicendo: “È fatto cosí. Sono quelle persone capaci e laboriose che non riescono ad accettare quelli come noi, che non hanno né vera istruzione, né senso pratico.” “Allora parlava in generale...” “Non lo so, penso di sí. Perché avrebbe dovuto offenderti? Ah, ascolta. So... so di una vecchia inimicizia fra la tua famiglia e la sua, anche questo può aver influito. Comunque, lui può dire quello che vuole, quello che gli frulla per la testa, ma non ha mica il potere della divinazione!” Ripensai all’episodio per tutta la serata, poi, a cena, senza riferirlo, chiesi a mio padre se avessimo mai avuto seri motivi di contrasto con la famiglia del vecchio Enrico. “Non cosí importanti,” rispose. “So di un antico litigio fra lui e tuo nonno, per una questione di confini. Ma ci fu solo un po’ di ruggine. La cosa ha fatto il suo tempo.” “E lui, Enrico, che tipo è veramente?” 28 29 ARMANDO SANTARELLI GIOVANE VECCHIO NESSUNO “È stato sempre un gran lavoratore, un uomo capace, uno di quelli che riesce in tutto quello che fa. Certo, è un tipo difficile, scostante, sempre un po’ brusco.” Cosí disse mio padre, e io non tornai più sull’argomento. Enrico è morto qualche anno dopo quel fatto, e non può sapere che cosa sia stato della mia vita. Anche Agata, testimone dell’episodio, è morta da tempo. Quanto a Paolo, ho sempre sperato che non avesse dato importanza a un qualcosa che non lo riguardava, e che perciò sia arrivato a dimenticarlo. Se non è cosí, ha avuto l’accortezza di non ritornarci mai e, per quanto ne so, di non divulgarlo; né avrei potuto farlo io. Il dolore più grande della mia vita non risiede nei sogni andati perduti, nella pochezza delle mie aspirazioni, nelle invincibili omissioni quotidiane. Come ho già detto, non c’è travaglio per chi vive senza aspettare nulla e nessuno. No, il dolore sta nella frase di un anziano che stimavo, frase che la mia mente configurò all’istante come una terribile sentenza, termine improprio, dato che avevo una vita davanti a me; pronuncia che avrei dunque potuto ribaltare, e alla quale ho invece attribuito io stesso, in ultimo grado, effetti retroattivi. Ma rammento un’altra cosa: come primo tentativo di smorzare il penoso smarrimento seguito alle parole di Enrico, dopo che Paolo, rispondendo alla mia domanda, aveva fornito la sua interpretazione, io mi produssi in una nervosa risata di sufficienza, come a dire: “Ma guarda di quali offese insensate è capace certa gente ignorante!” Non era un sorriso sincero, quello, e tuttavia credo che non differisse molto dai sorrisi forti, ironici, che comparivano a quell’età sulla mia bocca. Sorrisi certamente diversi da quello solito stampato oggi sul mio volto. A qualcuno piace questo mio mite, soffuso sorriso, perché fa pensare a una persona senza problemi, a uno che sa accontentarsi, che vive la vita nonostante tutto. Altri dicono che è il sorriso di un vigliacco, del frustrato che tenta di mascherare i suoi inconfessabili travagli. Altri ancora, ho saputo, pensano che sia il sorriso di un parassita, che irride finemente chi si affanna, chi mostra i segni del duro lavoro; il sorriso di chi ha annullato ogni senso di vergogna per vivere in modo appena cosciente, come un animale. Sebbene le persone che mi giudicano con tanto malanimo mi facciano paura, se ho occasione di incontrarle non le evito, anzi ne approfitto per tentare di mitigare la loro intransigenza, per cercare di renderli meno animosi nei miei confronti. D’altra parte, quante persone invece – di alcune delle quali ho fatto il nome – mi riservano dolcezza e comprensione! Mi fanno pensare che alla prova dei fatti sapranno onorare i sentimenti di fraterna amicizia che mostrano nei miei confronti! E io, il mio calore, il valore di una giornata, lo trovo con loro, e con la mia unica alunna – cui mento dicendole che la storia ha un senso, cui parlo sinceramente quando le dico che la vita è bella e sacra – e con i miei poveri, buoni genitori, cui ho fatto credere anche le cose che non volevano credere, e che ricompenserò chiudendo io i loro occhi, invece dell’assistente di un ospizio o di un impresario delle pompe funebri. E poi... anche quando mi sento molto solo, quando penso che un giorno potrei essere abbandonato da tutti, e mi raffiguro come uno sterile verme... mi sembra che un’altra persona, un mio compagno di sempre, che tutto sa di me, e tutto mi perdona, mi aspetti nei vicoli scuri, nelle piazze vuote, nelle strade deserte del mio paese. Lo vedo da lontano questo angelo, lui vede me, e mi viene incontro sorridente, mi cinge le spalle con le sue ali, e con l’espressione dolce e sicura di un padre davanti al suo bambino mi sussurra: “Non aver paura, non sei solo, perché io sono sempre qui, accanto a te.” 30 31