Approccio diagnostico e terapeutico alla degenerazione maculare

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Approccio diagnostico e terapeutico alla degenerazione maculare
JPH - Year 7, Volume 6, Number 2, Suppl. 3, 2009
ITALIAN
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Approccio diagnostico e terapeutico alla degenerazione maculare senile (AMD)
Chiara de Waure, Giuseppe La Torre, Walter Ricciardi
Approccio diagnostico ed end-point nello studio
del treatment outcome
L’approccio diagnostico alla AMD prevede la
valutazione dell’acuità visiva, l’esame del fundus
oculare e la fluorangiografia (FA) e la tomografia a
coerenza ottica (OCT) per la diagnosi definitiva e
la caratterizzazione delle lesioni [1]. In alcuni casi,
l’effettuazione di un test preliminare, il test di
Amsler, consente una rapida individuazione di un
problema maculare da sottoporre a successivo
approfondimento diagnostico. Il test di Amsler,
proprio in virtù della sua semplicità di esecuzione,
viene anche utilizzato nel follow up del
trattamento poiché permette allo stesso paziente
di rilevare facilmente cambiamenti del visus. A
completamento dell’iter diagnostico è prevista
anche la valutazione della sensibilità al contrasto.
Di seguito verranno descritti i dettagli di tali fasi
diagnostiche.
Acuità visiva
In base al tipo di stimoli visivi usati possiamo
riconoscere almeno quattro tipi fondamentali di
acuità visiva [2]:
1)l’acutezza di visibilità nella quale si tratta di
accertare o escludere la presenza di un oggetto;
2)l’acutezza di risoluzione nella quale si tratta di
percepire i dettagli di un oggetto;
3)l’acutezza di localizzazione nella quale si valuta
la localizzazione spaziale relativa di due oggetti;
4)l’acutezza di ricognizione o morfoscopica nella
quale si vanno a riconoscere le caratteristiche o
la forma di un oggetto.
L’acutezza visiva di risoluzione è il reciproco
dell’angolo minimo di risoluzione, espresso in
minuti primi, cioè sessantesimi di grado; l’angolo
minimo di risoluzione (Minimal Angle of
Resolution, MAR) è la più piccola distanza
angolare alla quale due punti o due linee possono
essere ancora percepiti come distinti [2].
L’acuità visiva è rilevata con gli ottotipi,
strumenti che possono essere raggruppati in
diverse categorie a seconda che impieghino le
lettere dell’alfabeto (come la tabella di Snellen o
l’ottotipo ETDRS) o i numeri, i simboli (E di
diverso tipo - Albini, Snellen,Tumbling, Pgluger -, C
landolt) o le griglie e le scacchiere [2].
Le le tte re mai us cole dell’alfabeto sono gli
elementi più diffusamente impiegati negli ottotipi.
L’acutezza visiva misurata con le lettere
rappresenta l’acuità di ricognizione, la quale si
fonda, oltre che sull’acutezza di visibilità, di
risoluzione, e di localizzazione, anche sul
concorso di altri fattori di carattere percettivo e
cognitivo. Le serie di lettere più usate sono le
lettere di SLOAN (S O C D K V R H N Z) e le lettere
definite dalle norme BS 4724 (D E H N F P R U V
Z) [2].
Alcuni ottotipi sfruttano le mire, ossia dei
simboli che non sono disegnati con la forma e
l’originalità dei caratteri di stampa, ma secondo un
criterio ben preciso per risultare inscritte in una
griglia 5x5 o 4x5. Le mire ottotipiche più
comunemente impiegate si rifanno a figure
astratte e sono gli Anelli o C di Landolt e le E di
Snellen o Albini [2].
Gli Anelli o C di Landolt sono mire di risoluzione
comuni, considerate di riferimento nelle norme
standardizzate. Gli anelli vengono presentati in 4 o
8 orientamenti e sono tali da non presentare i
difetti tipici delle lettere, pur risultando difficili da
impiegare nei bambini per problemi di
comprensione [2].
La E di Snellen o di Albini costituiscono una mira
a forma di E posizionata con vari orientamenti e
rappresentano una buona soluzione intermedia
tra la praticità dell’alfabeto e l’attendibilità di mire
di risoluzione. Questo tipo di figura è utilizzabile
anche con bambini non scolarizzati poiché è
sufficiente dare loro un modello e chiedere di
posizionarlo come la figura. Il principale problema
conseguente all’uso di tali ottotipi è che l’acuità
risulta leggermente sovrastimata [2].
Le tavole ottotipiche di più comune impiego
sono, comunque, la tabella classica di Snellen e
l’ottotipo ETDRS; nel contesto italiano, nonostante
la migliore accuratezza dell’ottotipo ETDRS, le
tavole
Snellen
continuano
a
essere
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frequentemente impiegate.
La tabella di Snellen (Figura 1) è stampata con
11 linee di acutezza e impiega le 9 lettere C, D, E,
F, L, O, P, T, Z [3]. La prima linea consiste in una
grande lettera E mentre, in ogni ulteriore linea, le
lettere aumentano in numero e diminuiscono in
dimensione. L’ultima linea che può essere letta
restituisce l'acutezza visiva in quell'occhio. In ogni
riga, l’ampiezza delle linee che compongono le
lettere sottende un angolo di un minuto di arco a
una specifica distanza: essa è pari a 60 m per la
lettera nella prima riga, 36 m per la seconda e via
via decrescente fino all’ultima riga. L’acuità visiva
è espressa come rapporto tra un numeratore che
indica la distanza alla quale solitamente il test
viene condotto (6 m in Europa, 20 piedi in USA) e
un denominatore che si riferisce alla grandezza
delle lettere dell’ultima riga chiaramente
distinguibile, misurata come distanza alla quale,
comunemente, tale lettera riesce a essere letta [4].
Tra i limiti di questo ottotipo ritroviamo il tipo
di progressione che, secondo la formula di Snellen,
è matematica o geometrica e la presenza di un
diverso numero di lettere per riga che determina
un affollamento incostante [4].
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equivalente acuità fino a 6 metri [2]. Essi
consentono uno scoring lettera per lettera
piuttosto che riga per riga, come nei classici
ottotipi di ricognizione, e, quindi, misurazioni più
accurate e ripetibili. Proprio per tale ragione gli
ottotipi ETDRS sono comunemente impiegati
nella valutazione del treatment outcome
nell’ambito degli studi clinici [3]. La rilevazione
dell’acuità visiva con ETDRS consente di definire
quante lettere il paziente ha perso o guadagnato
nel corso del trattamento.
I test di acuità visiva sono fondamentali per
valutare:
1.numero di lettere mantenute o perse rispetto al
baseline;
2.numero di lettere guadagnate rispetto al
baseline;
3.acuità visiva media;
4.cambiamento medio dell’acuità visiva.
Figura 2. Ottotipo ETDRS.
Figura 1. Tavola di Snellen.
G li ottoti pi d i r i cogniz ione ETDRS (Early
Treatment for Diabetic Retinopathy Study) (Figura
2) utilizzano le lettere SLOAN: ogni linea contiene
cinque lettere di uguale difficoltà visiva [2]. Esso
può essere fornito in schede di 62x64 cm e viene
utilizzato con il proprio dispositivo di retro
illuminazione, anche se esistono schede che
possono essere illuminate frontalmente. Il test
viene eseguito a una distanza variabile di 1, 2 o 4
metri, con tavola di conversione Snellen per
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Test di Amsler
Il test di Amsler (Figura 3) è un semplice test
che consente di sospettare precocemente l’AMD,
ma che viene anche impiegato nel follow up del
trattamento come precocemente indicativo di
eventuali peggioramenti del visus. L’esame si
esegue utilizzando un quadrilatero quadrettato,
posto alla distanza di 30 cm, e la correzione per
lettura. Dopo aver coperto con la mano un occhio,
il paziente deve fissare con l’occhio scoperto il
punto nero centrale del reticolo. Se le linee
appaiono ondulate, deformate o discontinue o se
il paziente constata una modifica della loro
percezione rispetto all’ultima volta in cui il test è
stato eseguito è necessario eseguire ulteriori
indagini al fine di diagnosticare la presenza o il
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Figura 3. Test di Amsler.
caratterizzare le lesioni e di valutare la loro
progressione.
Fluorangiografia
La fluorangiografia è, insieme all’OCT, l’esame
diagnostico fondamentale nella degenerazione
maculare legata all’età. La fluorangiografia viene
effettuata iniettando una sostanza fluorescente alla
luce blu (fluoresceina) capace di impregnare la
membrana neovascolare e, quindi, di evidenziare
aree di neovascolarizzazione che possono essere
chiaramente localizzabili (neovascolarizzazione
classica), oppure mal definite e solo sospettabili
(neovascolarizzazione occulta) [1]. Le lesioni
possono essere classificate in base alla loro
localizzazione in extrafoveali (distanza dalla fovea
maggiore di 200 µm), in iuxtafoveali (distanza
inferiore ai 200 µm) e in subfoveali quando
coinvolgono la fovea [6]. Secondo la classificazione
di Gass, le lesioni sono distinte in tipo I e II a seconda
che la crescita vascolare avvenga al di sotto o al di
sopra dell’epitelio pigmentato retinico [7]. In
fluorangiografia le lesioni di tipo 1 sono definite
come occulte e le lesioni di tipo 2 classiche; le lesioni
classiche subfoveali sono state ulteriormente
suddivise in classiche, prevalentemente classiche e
minimamente classiche qualora la componente
classica sia pari al 100%, interessi più del 50%
dell’intera lesione o meno del 50% rispettivamente
[6].
In presenza di neovascolarizzazione occulta si può
anche eseguire un esame angiografico con colorante
fluorescente all’infrarosso (verde di indocianina) in
grado di evidenziare circa il 60-70% dei neovasi
occulti [1]. L'angiografia con verde di indocianina
(ICGA), introdotta nel 1992, può anche facilitare il
riconoscimento di manifestazioni particolari del
processo
neovascolare
nell'ambito
della
degenerazione maculare, quali la vasculopatia
coroideale polipoide e la proliferazione angiomatosa
retinica [1].
Nell’ambito dello studio del treatment outcome, la
fluorangiografia consente, insieme all’OCT, di
OCT (Optical Coherence Tomography)
La tomografia a coerenza ottica, o OCT (Optical
Coherence Tomography), è una tecnica di imaging
non invasiva che fornisce immagini ad alta
risoluzione di sezioni della retina umana [8]. La
tecnica sfrutta una misurazione ottica, chiamata
interferometria a bassa coerenza, il cui principio di
funzionamento è simile a quello dell'ecografia,
differenziandosene per il fatto di sfruttare la
riflessione di onde luminose da parte delle diverse
strutture oculari piuttosto che la riflessione delle
onde acustiche. Tale tecnica consente la
misurazione di strutture a distanze dell'ordine di 10
µm, contro i 100-150 degli ultrasuoni [8]. Con
l'OCT si proietta sulla retina un fascio di lunghezza
d'onda di 820 nm, generato da un diodo
superluminescente, e si confrontano i tempi di
propagazione dell'eco della luce riflessa dalla retina
con quelli relativi allo stesso fascio di luce riflesso
da uno specchio di riferimento posto a distanza
nota. L'interferometro OCT rileva elettronicamente,
raccoglie, elabora e memorizza gli schemi di ritardo
dell'eco provenienti dalla retina; i tomogrammi
vengono quindi visualizzati in tempo reale
utilizzando una scala in falsi colori che rappresenta
il grado di reflettività dei tessuti posti a diversa
profondità (colori scuri (blu e nero): zone a minima
reflettività ottica; colori chiari (rosso e bianco):
zone molto riflettenti) e memorizzati per la
successiva elaborazione [8].
L'OCT è quindi un esame semplice, rapido, non
invasivo e altamente riproducibile.
Dal punto di vista qualitativo, su ogni scansione si
può effettuare un'analisi della morfologia e del
grado di reflettività degli strati retinici. Per quanto
riguarda la valutazione quantitativa, lo strumento
permette di misurare lo spessore della retina.
Nell'AMD essudativa l'OCT può essere associato
agli esami angiografici per avere ulteriori
informazioni sulle caratteristiche strutturali della
membrana neovascolare, sulla sua localizzazione e
sulla presenza di attività essudativa [6]. L'OCT fa
rilevare
eventuali
distacchi
dell’epitelio
pigmentato, associati alla neovascolarizzazione, ed
è particolarmente utile nel follow-up dopo terapia,
per confermare o no l'attività essudativa di una
lesione, quando la fluorangiografia lascia dubbi, e
per porre quindi le indicazioni a un ritrattamento
[8].
Nell’ambito dello studio del treatment outcome,
l’OCT consente, insieme alla fluorangiografia, di
caratterizzare le lesioni e di valutare la loro
progressione.
peggioramento della degenerazione maculare [5].
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Sensibilità al contrasto
La determinazione della sensibilità al contrasto
prevede che il paziente legga dei caratteri in color
nero-grigio via via più sfumato su uno sfondo con
illuminazione omogenea [9]. Essa misura la
capacità del sistema visivo di apprezzare il
contrasto fotometrico, cioè la differenza di
luminosità che presentano due zone adiacenti e si
misura come rapporto tra la differenza di
luminosità di due aree e la loro somma (metodo
CIE) definito anche come contrasto di Michelson
o di modulazione [9].
I test più frequentemente utilizzati per misurare
la sensibilità al contrasto sono il Vision Contrast
Test System (VCTS), o la sua versione evoluta, il
Functional Acuity Contrast Test (FACT), e il PelliRobson (PR) [4].
La tavola di Pelli-Robson determina la sensibilità
al contrasto impiegando lettere di dimensioni
identiche il cui contrasto varia di riga in riga
(Figura 4) [10].
Il test di contrasto dell’acuità funzionale
(FACT®) (Figura 5), sviluppato da Arthur P.
Ginsburg, permette spesso di determinare la
perdita precoce di capacità visiva offrendo una
misurazione più sensibile rispetto al test di acuità
di Snellen [10,11]. Il FACT valuta efficacemente la
capacità visiva su una gamma di dimensione e
contrasto che simula verosimilmente l'ambiente
normale. Esso testa la capacità del soggetto di
rilevare la presenza e l’orientamento del reticolo
in ciascuna delle 9 celle delle 5 righe di cui la
scheda si compone. Si chiede al paziente di
indicare l’orientamento dell’ultimo reticolo
visualizzato per ciascuna riga e si graficano i
risultati in una curva di sensibilità al contrasto che
consente la determinazione della soglia di
contrato [10,11].
Con tali test si va a valutare il cambiamento
Fotocoagulazione laser
Fino a pochi anni fa l’unica terapia disponibile,
diretta esclusivamente nei confronti della
degenerazione maculare di tipo umido, era la
fotocoagulazione laser, una terapia consistente
nella distruzione dell’area della macula coinvolta
dalla presenza della proliferazione fibrovascolare
[12]. Tale tipo di trattamento non era peraltro
applicabile in tutti i pazienti in quanto indicato
nei casi di vascolarizzazione in sedi anatomiche
distanti dalla fovea (extrafoveali) [12].
La fotocoagulazione laser dei neovasi determina
anche la distruzione dei fotorecettori della zona
irradiata;
ne
consegue
uno
scotoma,
corrispondente alla cicatrice retinica che si viene
a formare in conseguenza al trattamento [12]. Tale
trattamento è stato indagato dal Macular
Photocoagulation Study, un trial clinico
multicentrico e randomizzato, condotto negli anni
ottanta. Lo studio ha dimostrato che, a 5 anni, una
diminuzione dell’acuità visiva di 6 linee o più
aveva interessato il 46% dei trattati e il 64% dei
pazienti non trattati affetti da neovascola
rizzazione coroideale (CNV) extrafoveale [13]; un
grave deterioramento visivo, corrispondente
sempre alla perdita di 6 o più linee, aveva invece
colpito il 52% dei trattati e il 61% dei non trattati
con CNV iuxtafoveale [14]. Nei pazienti con
lesioni subfoveali, al primo trattamento con
Figura 4. Tavola di Pelli-Robson.
Figura 5. FACT.
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medio della soglia di contrasto nei pazienti affetti
da AMD.
Revisione dei trattamenti disponibili ad oggi per
la maculopatia degenerativa legata all’età
Attualmente le terapie a disposizione per l’AMD
neovascolare sono la fotocoagulazione laser, la
terapia fotodinamica con ver teporfina (PDT-V) e i
far maci antiangiogenici [1,12].
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fotocoagulazione laser e a 4 anni di follow up, il
22% degli occhi trattati rispetto al 47% degli occhi
non trattati avevano perso 6 o più linee di acuità
visiva [15].Attualmente questo tipo di trattamento
è, comunque, scarsamente impiegato, in virtù del
fatto che la maggior parte delle lesioni
neovascolari dell’AMD sono subfoveali.
Terapia fotodinamica con verteporfina (PDT-V)
La terapia fotodinamica con verteporfina (PDTV) ha rappresentato un grosso passo avanti nel
trattamento dei processi neovascolari sottoretinici
maculari ed è una tecnica minimamente invasiva
che viene eseguita in ambito ambulatoriale.
Questa terapia, introdotta alla fine degli anni '90,
ha ampliato notevolmente le possibilità di cura
per pazienti non altrimenti trattabili con il laser
convenzionale ed è ancora oggi indicata in alcuni
casi di degenerazione maculare di tipo
neovascolare [16].
Essa viene eseguita con raggi laser di lunghezza
d’onda e potenza ridotte (lunghezza d’onda di 689
± 3nm), senza applicazione di calore, dopo aver
provveduto all’iniezione endovena di una
sostanza colorante e fotosensibilizzante, la
verteporfina (Visudyne®) alla dose di 6 mg/m2 di
superficie corporea [12]. Una caratteristica
importante della verteporfina è la sua selettività
per i neovasi della coroide che gli consente di
agire sulla lesione neovascolare senza danneggiare
la neuroretina sovrastante [16]. In seguito
all'infusione endovenosa, la sostanza si accumula,
infatti, selettivamente a livello delle cellule
endoteliali dei neovasi grazie alla sua liposolubilità
e viene successivamente attivata dal laser a diodi
[14]. Una volta attivata, la sostanza determina un
danno ossidativo alle cellule endoteliali con
conseguente attivazione della trombosi e
occlusione vascolare. Nella maggior parte dei casi,
tuttavia, l’occlusione è transitoria, per cui è
indispensabile ripetere la PDT-V ogni 3 mesi circa
[12]. Il trattamento PDT-V, somministrato ogni 3
mesi, si è dimostrato sicuro ed efficace nei
seguenti studi: Treatment of Age-Related Macular
Degeneration with Photodynamic Therapy (TAP)
Investigation [17], Verteporfin in Photodynamic
Therapy (VIP) Trials [18] e Visudyne in Minimally
Classic (VIM) AMD Trial [19].
Il TAP è uno studio multicentrico, condotto in
22 centri europei e americani, che ha arruolato
complessivamente 609 persone con CNV
subfoveale prevalentemente e minimamente
classica e occulta, randomizzate a ricevere la PDTV rispetto al placebo in rapporto 2:1. Lo studio ha
dimostrato che il 53% dei soggetti trattati, rispetto
al 38% dei non trattati, aveva perso meno di 15
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lettere a 2 anni. Nei soggetti con lesioni
prevalentemente classiche, rispettivamente il 59%
e il 31% dei pazienti aveva perso meno di 15
lettere [17].
Il trial VIP si è occupato dei pazienti con CNV
occulta senza componente classica. I risultati a
due anni hanno dimostrato che il 54% dei pazienti
trattati, in confronto al 67% del gruppo placebo,
aveva subito una diminuzione dell’acuità visiva
uguale o superiore alle 15 lettere [18].
Nel trial VIM [19] sono stati inclusi pazienti con
CNV minimamente classica che sono stati
assegnati casualmente a tre gruppi (PDT-V con
fluenza standard, PDT-V con fluenza ridotta e
placebo). A due anni la proporzione di pazienti
che aveva perso almeno 15 lettere è risultata pari
al 26%, tra coloro trattati con PDT-V a fluenza
ridotta, al 53%, tra coloro trattati con fluenza
standard, e al 62%, tra i controlli.
La verteporfina è l’unico farmaco approvato nel
2000 dalla Food and Drug Administration (FDA) e
dalla Agenzia Europea di Valutazione dei
Medicinali (EMEA) per la terapia fotodinamica
oculare, ed è stata la prima molecola approvata
per il trattamento della CNV subfoveale
secondaria ad AMD. In Europa il trattamento PDTV è approvato per la terapia delle lesioni
subfoveali prevalentemente classiche [12].
Inibitori del Vascular Endothelial Growth Factor
(VEGF)
Il processo dell'angiogenesi è regolato da un
complesso insieme di fattori angiogenici e
antiangiogenici. L'ipossia
e
determinate
condizioni infiammatorie possono liberare fattori
angiogenici quali il VEGF, molecola di cui esistono
quattro isoforme in grado di legare tre diversi
recettori che sono stati ritrovati ad alte
concentrazioni sulle cellule endoteliali oculari. A
livello retinico le cellule in grado di liberare il
VEGF sono quelle che formano la parete dei
capillari (CE, periciti, e cellule muscolari lisce);
l’azione del VEGF si esplica poi sia a livello
retinico sia a livello irideo, previa diffusione verso
il segmento anteriore.
La terapia antiangiogenica dovrebbe mirare a
eliminare lo stimolo che causa la liberazione dei
fattori angiogenici. Un primo approccio
farmacologico è volto al blocco dei fattori
angiogenici come accade con i farmaci anti-VEGF,
che bloccano appunto l’azione del VEGF; un
secondo approccio può essere rappresentato
dall'inibizione della proliferazione delle cellule
endoteliali, raggiungibile con l'inibizione o delle
proteine di adesione delle cellule endoteliali, le
integrine, o di quelle della matrice extracellulare
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[20]. Un terzo approccio prevede invece la
riattivazione dei fattori locali antiangiogenici
preesistenti [20].
Il trattamento antiangiogenico si caratterizza
per essere un trattamento a lungo termine, della
durata di mesi o anni, non esente da effetti
collaterali, anche sistemici. La somministrazione
dei farmaci antiangiogenici per il trattamento
della AMD avviene per iniezione intravitreale con
una riduzione degli effetti collaterali sistemici. I
farmaci
antiangiogenici
oggi
disponibili
comprendono: pegaptanib, bevacizumab e
ranibizumab.
Pegaptanib (Macugen®)
Pegaptanib è un aptamero, cioè un piccolo
frammento di RNA sintetico che, legandosi al
VEGF 165, ne impedisce il legame con il proprio
recettore bloccando la conseguente formazione di
vasi anomali e l’aumento della permeabilità
vascolare [21]. Esso viene somministrato tramite
iniezione intravitreale (0,3 mg) ogni 6 settimane
per almeno due anni, previa anestesia locale.
Il pegaptanib sodium è stato il primo agente
anti-VEGF disponibile per uso oculare e anche il
primo aptamero terapeutico approvato dalla FDA
nel dicembre del 2004 [22]. La sicurezza e
l’efficacia del trattamento sono state valutate da 2
trial multicentrici, randomizzati, controllati e in
doppio cieco (VISION) che hanno reclutato 1186
pazienti affetti da CNV prevalentemente e
minimamente classica e occulta in 117 centri di
tutto il mondo [23, 24]. I risultati pubblicati dopo
12 mesi di terapia hanno evidenziato che circa il
70% dei pazienti trattati con pegaptanib (70% con
0,3 mg, 71% con 1 mg e 65% con 3 mg) aveva
manifestato un calo visivo inferiore a 15 lettere, in
confronto al 55% dei controlli [23]. A 102
settimane il 59% dei soggetti trattati aveva perso
meno di 15 lettere rispetto al 45% dei soggetti
trattati con placebo [24]. Sulla base di questi
risultati e della scarsità di eventi avversi, il
pegaptanib sodium è stato approvato per il
trattamento di tutti i tipi di CNV secondaria ad
AMD.
Bevacizumab (Avastin®)
Bevacizumab è un anticorpo monoclonale
umanizzato anti-VEGF, prodotto mediante la
tecnica del DNA ricombinante [21]. Il farmaco è
stato approvato dalla FDA per il trattamento del
cancro del colon metastatico nel 2004 e il suo
utilizzo intravitreale nella AMD è oggi off-label. Al
momento i risultati disponibili sull’efficacia del
farmaco si basano su osservazioni aneddotiche e
su dati preliminari di studi di limitata numerosità.
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Le possibili applicazioni del bevacizumab al di
fuori del campo oncologico riguardano la terapia
delle degenerazioni maculari di tipo neovascolare
e delle malattie vascolari della retina caratterizzate
da una marcata componente edematosa ed
essudativa, come la retinopatia diabetica e
l’occlusione della vena centrale della retina.
La terapia della AMD prevede l’iniezione
intraoculare della sostanza che, diffondendo nel
corpo vitreo e nello spessore della retina, giunge a
contatto con la CNV dove esercita i seguenti
effetti [25]: inibizione della crescita e
dell’estensione del processo neovascolare,
regressione
della
neovascolarizzazione,
stabilizzazione delle membrane endoteliali e
decremento del grado di permeabilità nel
microcircolo della CNV, riduzione dell’intensità di
diffusione delle molecole proteiche e lipidiche
negli spazi extravascolari e diminuzione
dell’edema e normalizzazione dello spessore
retinico maculare centrale.
Ranibizumab (Lucentis®)
Ranibizumab (RhuFab V2; Lucentis) è un
frammento umanizzato, nello specifico la catena
kappa, dell’anticorpo monoclonale IgG 1 diretto
contro il VEGF [21], destinato all’uso intravitreale.
Ranibizumab lega e blocca tutte le forme di
VEGF (VEGF165, VEGF121 e VEGF110),
prevenendo così il legame del VEGF ai suoi
recettori VEGFR-1 e VEGFR-2 e, di conseguenza, la
proliferazione delle cellule endoteliali, la
neovascolarizzazione
e
l’aumento
della
permeabilità vasale [26]. Rispetto al suo
precursore bevacizumab, ranibizumab è una
molecola più piccola con raggio e peso
molecolare inferiore (48 kD), caratteristiche che
giustificano la maggior capacità di penetrare tutti
gli strati della retina e, quindi, di diffondere nello
spazio sottoretinico dopo somministrazione
intravitreale. Ciò massimizza l’effetto inibitorio nei
confronti del VEGF nella retina minimizzando,
però, l’inibizione sistemica del VEGF [27].
Le più importanti evidenze scientifiche circa
l’efficacia di ranibizumab derivano da tre trial
clinici: lo
studio
MARINA
(Minimally
classic/occult trial of the Anti-VEGF antibody
Ranibizumab In the treatment of Neovascular
AMD) [28], lo studio ANCHOR (ANti-VEGF
Antibody for the Treatment of Predominantly
Classic CHORoidal Neovascularization in AMD)
[29] e lo studio PIER (Phase IIIb, Multicenter,
Randomized, Double-Masked, Sham InjectionControlled Study of the Efficacy and Safety of
Ranibizumab in Subjects with Subfoveal
Choroidal Neovasularization with or without
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Classic CNV Secondary to Age-Related Macular
Degeneration) [30].
Lo studio MARINA [28], condotto su 716
pazienti con AMD e CNV minimamente classica o
occulta randomizzati a ricevere o trattamento con
0,3 o 0,5 mg/mese di ranibizumab intravitreale o
placebo, ha dimostrato che, a 2 anni, il 92% e il
90% dei pazienti con AMD essudativa, trattati
rispettivamente con 0,3 mg e 0,5 mg di
ranibizumab, aveva un’acuità visiva migliorata o
stabile (perdita minore di 15 lettere), rispetto al
52,9% dei pazienti trattati con placebo. Il
trattamento si è inoltre dimostrato in grado di far
guadagnare un numero di lettere uguale o
superiore a 15 in circa il 25% e il 33% dei soggetti
trattati con 0,3 mg e 0,5 mg di ranibizumab
rispetto al 5% del gruppo di controllo.
Lo studio ANCHOR, che ha considerato soggetti
con AMD e CNV prevalentemente classica [29], a
24 mesi ha riportato che il 90% e l’89,9% dei
pazienti che avevano ricevuto, rispettivamente,
0,3 mg e 0,5 mg di ranibizumab avevano perso
meno di 15 lettere contro il 65,7% di coloro
trattati con PDT-V. Inoltre il 34,3% e il 41% dei
soggetti trattati con 0,3 o con 0,5 mg di
ranibizumab avevano guadagnato più di 15 lettere
rispetto al 6,3% di coloro trattati con PDT-V.
Lo studio PIER [30], condotto su 184 pazienti
con AMD e CNV di tutti i tipi, randomizzati a
ricevere 0,3 mg o 0,5 mg di ranibizumab
intravitreale o una sham injection ogni mese, per i
primi 3 mesi, e, successivamente, ogni 3 mesi per
2 anni, ha dimostrato che, a 12 mesi, l’83,3% e il
90,2% dei pazienti trattati con ranibizumab (0,3 e
0,5 mg rispettivamente) avevano perso meno di
15 lettere rispetto al 49,2% del gruppo di
controllo; l’11,7% e il 13,1% dei pazienti trattati
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HEALTH
con 0,3 mg e 0,5 mg di ranibizumab avevano
guadagnato 15 o più lettere rispetto al 9,5% dei
pazienti trattati con sham.
Maggiori dettagli sugli studi di efficacia del
ranibizumab verranno comunque descritti nel
capitolo successivo.
Nel 2006 e nel 2007, rispettivamente la FDA e la
EMEA hanno approvato l’utilizzo di questo
farmaco per la terapia dell’AMD neovascolare,
sulla base dei dati prodotti dalla ricerca scientifica
[31].
Compliance al trattamento
La compliance al trattamento costituisce un
elemento
che
potrebbe
potenzialmente
influenzare l’efficacia delle terapie descritte. Essa
dipende sia da aspetti legati alle modalità di
somministrazione del farmaco e alle precauzioni e
indicazioni da seguire prima, durante e dopo lo
svolgimento del trattamento, sia da aspetti più
strettamente correlati al paziente, di tipo
comportamentale e caratteriale.
Per la fotocoagulazione laser, gli elementi che
potrebbero influenzare la compliance sono
relativamente pochi. Infatti, il trattamento è
eseguito a livello ambulatoriale, previa dilatazione
pupillare e anestesia oculare con collirio, e ha una
durata di 15-20 minuti. Il trattamento è poco
doloroso e, nella maggioranza dei casi, è
immediatamente possibile riprendere le attività
quotidiane già dal giorno dopo. Le cure locali
post-operatorie si limitano all’instillazione di
gocce anti-infiammatorie [32].
Nella terapia fotodinamica, in considerazione
della natura fotosensibile della verteporfina,
occorre che il paziente eviti l’esposizione alla luce
solare diretta o alla luce artificiale intensa per 24-
Tabella 1. Protocolli di trattamento. Tempistica e indagini prescritte per il controllo del trattamento.
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48 ore dopo il trattamento [33].
Per quello che riguarda i farmaci
antiangiogenici, l’elemento più importante nella
determinazione della compliance è l’iniezione
intravitreale, previa anestesia locale mediante o il
solo utilizzo di colliri anestetici o un’iniezione
peribulbare o retrobulbare. Altri potenziali fattori
che potrebbero influenzare la compliance sono le
prescrizioni post-operatorie: il paziente deve,
infatti, instillare nell’occhio gocce antibiotiche e
aver cura di non esercitare forti pressioni
meccaniche sull’occhio operato, non fare sforzi
fisici eccessivi e non utilizzare macchinari o
strumenti pericolosi [34].
La compliance si è comunque dimostrata buona
nello studio MARINA in cui, a 24 mesi, l’89% dei
pazienti trattati e l’80% di coloro che avevano
ricevuto il placebo si sono resi disponibili alla
valutazione clinica.
Altri elementi da considerare nella valutazione
della compliance sono i controlli periodici a cui il
paziente deve sottoporsi nel corso del
trattamento. Riportiamo a tal proposito, in Tabella
1, la frequenza e la tipologia degli stessi per
ciascun tipo di trattamento [6].
La compliance è influenzata anche dai possibili
effetti avversi della terapia.
all'anestesia con iniezione) comprendono la
perforazione del bulbo oculare, con o senza
iniezione di anestetico nel bulbo oculare, la
lesione del nervo ottico, l’emorragia palpebrale
e/o perioculare e/o retrobulbare e la lesione dei
muscoli dell'occhio [34]. Tra le complicanze
intraoperatorie annoveriamo la lacerazione della
congiuntiva, la lesione del cristallino, l’emorragia
vitreale e l’emorragia coroideale [34]. Le
complicanze postoperatorie sono invece
rappresentate dalla lacerazione della retina e/o
distacco retinico, dal distacco di coroide,
dall’infezione oculare, dalle alterazioni della
macula, dall’emorragia retinica e/o vitreale, dalla
proliferazione vitreoretinica, dalla cataratta, dalla
rottura sclerale/scleromalacia, dall’ipertono, dalla
riduzione transitoria o permanente della
pressione oculare, dalla riduzione dell'acuità
visiva, dai difetti del campo visivo, dallo strabismo
e/o la diplopia, dalle miodesopsie, dalla ptosi,
dall’atrofia del nervo ottico e dal glaucoma [34].
Accanto a tale lista di effetti collaterali, comunque
rari, sono da considerare anche quelli sistemici
correlati alla somministrazione del farmaco e
descritti nel capitolo relativo agli aspetti
organizzativi al quale, quindi, si rimanda per un
approfondimento.
Effetti avversi
Per quanto riguarda la fotocoagulazione laser, i
principali eventi avversi sono rappresentati da
alterazioni del campo visivo e dalla riduzione
dell’acuità visiva [34]. Altre complicazioni meno
gravi e frequenti comprendono le cheratiti, le
infezioni corneo-congiuntivali, la midriasi
prolungata, crisi di glaucoma acuto [34].
Relativamente alla PDT-V, i possibili effetti
collaterali sono infrequenti e attribuibili in parte
alla procedura di fotocoagulazione e in parte alla
somministrazione del farmaco. Relativamente agli
effetti collaterali di primo tipo essi comprendono:
visione anomala o ridotta (di solito transitoria),
modificazioni del campo visivo ed emorragie
all’interno dell’occhio [33]. Dall’atro lato, la
cefalea, le variazioni della pressione sanguigna, le
lombalgie durante l’infusione, le vertigini, il
prurito, la nausea, le sincopi, le aritmie, le reazioni
di ipersensibilità e le reazioni nel sito di iniezione
possono risultare dalla somministrazione del
farmaco [33].
Gli effetti avversi da farmaci antiangiogenici si
espletano sia a carico delle strutture oculari sia a
livello sistemico. Le complicanze oculari, riferite
alla procedura di iniezione, si distinguono in
preoperatorie, intraoperatorie e postoperatorie
[34]. Le complicanze preoperatorie (legate
Conclusioni
Nell’ambito dell’approccio diagnostico alla
AMD, gli ottotipi per la rilevazione dell’acuità
visiva e la fluorangiografia/OCT costituiscono gli
strumenti fondamentali. Dal punto di vista della
valutazione dell’efficacia dei trattamenti
disponibili per la AMD, uno degli end-point di
primaria importanza è proprio l’acuità visiva,
rilevata con le tavole ETDRS; anche la
caratterizzazione delle lesioni e la valutazione
della loro progressione tramite fluorangi
ografia/OCT costituiscono un importante aspetto
dello studio del treatment outcome. Le terapie a
disposizione per la AMD neovascolare
comprendono la fotocoagulazione laser, la terapia
fotodinamica con verteporfina (PDT-V) e i farmaci
antiangiogenici. La fotocoagulazione laser riveste
oggi un ruolo ormai marginale, mentre la terapia
fotodinamica, eseguita con la somministrazione
endovena di una sostanza fotosensibilizzante, la
verteporfina, seguita dall’impiego di raggi laser di
lunghezza d’onda e potenza ridotte, trova ancora
indicazione in alcuni casi caratterizzati da lesioni
neovascolari
subfoveali
prevalentemente
classiche. Tra i farmaci antiangiogenici
annoveriamo il pegaptanib, il bevacizumab e il
ranibizumab. Il pegaptanib sodium è stato il primo
agente anti-VEGF disponibile per uso oculare; la
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usa efficacia è stata dimostrata dallo studio VISION
i cui risultati a 2 anni hanno mostrato che il 59%
dei soggetti trattati aveva perso meno di 15 lettere
rispetto al 45% dei soggetti trattati con placebo. Il
bevacizumab è un anticorpo monoclonale
approvato dalla FDA per il trattamento del cancro
del colon metastatico, il cui utilizzo intravitreale è
oggi off-label. Ranibizumab è un frammento
umanizzato dell’anticorpo monoclonale IgG 1
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HEALTH
anti-VEGF destinato all’uso intravitreale; la sua
efficacia è stata provata da tre diversi trial clinici
randomizzati (MARINA, PIER, ANCHOR) in base ai
quali è stato possibile stimare che una perdita in
acuità visiva inferiore a 15 lettere ha interessato
circa il 90% dei soggetti trattati con ranibizumab
contro il 50% dei soggetti trattati con placebo e il
66% dei soggetti trattati con terapia fotodinamica.
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