libro dei popoli - ISTITUTO MARCONI
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libro dei popoli - ISTITUTO MARCONI
LIBRO DEI POPOLI Indice Premessa............................................................................................................................................... 3 Introduzione..........................................................................................................................................4 Sezione Africa...................................................................................................................................... 5 Senegal.............................................................................................................................................6 Ghana............................................................................................................................................. 20 Nigeria............................................................................................................................................34 Sezione Europa................................................................................................................................... 51 Ucraina...........................................................................................................................................52 Moldavia........................................................................................................................................ 60 Sezione Asia....................................................................................................................................... 65 Filippine......................................................................................................................................... 66 Banghladesh...................................................................................................................................77 -2- Premessa Nel promuovere questa raccolta di storie, aneddoti, proverbi provenienti da tutto il mondo, la Rete Regionale per l’Immigrazione vuole mettere a disposizione dei suoi utenti una parte del ricco e multicolore patrimonio che sta raccogliendo nel territorio a contatto con tutti gli operatori regionali che si occupano di immigrazione e con le associazioni degli immigrati. Sono stati gli operatori territoriali della Rete, insieme ai soci delle associazioni degli stranieri a raccogliere il materiale per questa prima stesura del Libro dei Popoli che potrà arricchirsi dei contributi di tutti gli utenti che vorranno partecipare nei mesi successivi. Il nuovo sito Web della Rete Informativa e Osservatorio Regionale sull’Immigrazione, ristrutturato e dotato di nuovi strumenti, ci permette infatti di comunicare in rete fra tutti. La raccolta antologica che qui presentiamo è solo l’inizio del Libro dei Popoli, al quale si potranno aggiungere via, via tutte le storie, gli aneddoti, i proverbi, le notizie geografiche particolari, le ricette culinarie ecc. dei 173 paesi del mondo che sono rappresentati nella nostra Regione. Gli stili diversi in cui sono presentate le varie nazioni, riflettono sia lo spirito delle associazioni che hanno contribuito a scriverle che la personalità dell’operatore della Rete Regionale che le ha raccolte. Per dare inizio al Libro dei Popoli abbiamo scelto alcune delle nazioni maggiormente rappresentative delle etnie presenti in Veneto. La conoscenza storico-geografica delle nazioni d’origine degli immigrati presenti nel nostro territorio è uno strumento necessario, come ben sanno tutti gli operatori italiani che si occupano a vario titolo di immigrati. Questa conoscenza, unita a quella degli usi, dei costumi e dello spirito che caratterizza i popoli presenti nel nostro territorio, è a disposizione nel sito della Rete Informativa Regionale, un progetto della Giunta Regionale del Veneto, promosso dall'Assessorato ai Flussi Migratori. Stefania Paternò -3- Introduzione Questo lavoro riunisce esempi tratti dai patrimoni culturali degli immigrati extracomunitari attualmente presenti nel Veneto. Senza quasi che ce ne accorgessimo, la nostra regione ha accolto in questi ultimi anni i rappresentanti delle più diverse popolazioni dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa Orientale. Se fino ad ora l’integrazione culturale è stata quasi sempre intesa in modo unilaterale, ovvero come il puro e semplice adattarsi dell’immigrato e della sua famiglia alle nostre leggi, usi e costumi, oltre che, ovviamente, all’apprendimento della nostra lingua, è ormai tempo che si produca anche una nostra presa di coscienza e approfondimento se non delle svariate lingue dei nostri ospiti, almeno di parte delle loro culture originarie e originali. Si tratta di un processo reso sempre più necessario non solo dalla presenza ormai stabile di nuclei e comunità sempre più cospicui di immigrati appartenenti alle più diverse culture e religioni, con i quali ci incontriamo ormai noi ed i nostri figli nelle più diverse occasioni e situazioni quotidiane, dalla scuola al lavoro, dal mercato al condominio. Ma ancor più nell’interesse degli stessi immigrati che soffrono profondamente per il distacco dal proprio habitat naturale, che avvertono e misurano con giusto disagio le nostre incomprensioni grandi e piccole di quelli che per loro restano comunque dei valori e delle espressioni fondanti della loro vita e di quella dei loro figli, e che quindi rischiano di perdere gradualmente la loro identità. Mentre invece l’identità culturale e soprattutto religiosa, che si esprime nei racconti e nei frammenti di vita raccolti, è un bene che ogni comunità deve poter conservare e valorizzare anche vivendo fra noi, perché solo tale identità può garantire nel tempo la serenità e la sicurezza anche psicologica sia dell’immigrato che nostra. Il rapporto fra le culture, che esiste da quando esiste l’uomo, non è infatti di per sé causa di conflitto, bensì occasione sempre proficua di reciproco arricchimento, che lungi dall’intaccare o corrompere le rispettive identità, anzi le rafforza e le conferma consentendo di esprimersi liberamente l’una vicino all’altra. Formuliamo quindi l’augurio che anche questo piccolo ma significativo contributo possa costituire un mattone di quella casa comune di civiltà veneta che, come già avvenne nei secoli passati, ha sempre accolto con dignità ed onore lo straniero che viene in pace nelle nostre terre offrendoci il frutto del suo lavoro, della sua cultura e della sua spiritualità. Alessandro Grossato -4- Sezione Africa Senegal A cura di Giovanni Savini Ghana A cura di Camis Daguì Nigeria A cura di Camis Daguì Proverbi Tuareg Quando vedi la luna circondata da un alone, c'è un re che da qualche parte viaggia in quel chiarore. Chi corre sempre, saprà sempre meno cose di colui che resta calmo e riflette. -5- Senegal A colpo d'occhio • Nome completo del paese: Repubblica del Senegal • Superficie: 196.190 kmq • Popolazione: 10.852.147 abitanti (tasso di crescita demografica 2,52%) • Capitale: Dakar (2.613.700 abitanti) • Popoli: 43,3% wolof, 23,8% fulani, 14,7% sérer, 3,7% diola, 3% mandingo, 1,1% soninké, 1% europei e libanesi, 9,4% altri • Lingua: il francese è la lingua ufficiale del paese, ma si parlano anche il wolof, il pulaar, il diola, il sérer e il mandingo • Religione: 94% musulmana, 1% credenze e culti indigeni, 5% cristiana (prevalentemente cattolica) • Ordinamento dello stato: repubblica presidenziale • Capo dello stato: Abdoulaye Wade • Primo ministro: Macky Sall -6- In piroga col griot e il marabout, tra leoni e baobab. “Prima di partire si paga il prezzo” (proverbio senegalese) I proverbi sono una delle grandi ricchezze dell’ Africa. I proverbi sono “libri scritti nella memoria”, “cose per saggi”, sono specchi nei quali si riflettono le varie sfaccettature della vita individuale, familiare e sociale.Traducono in espressioni essenziali, ritmate, ricche di assonanze e facilmente memorizzabili i tesori che la saggezza popolare è andata accumulando lungo i secoli o millenni e che riprende e ripropone di continuo. I proverbi ritornano con insistenza nelle conversazioni della vita di ogni giorno, nelle circostanze più o meno ufficiali della vita comunitaria, nei discorsi dei politici e nelle opere degli scrittori. Essi sono senza dubbio la via di accesso più immediata e sicura alla conoscenza dell’ anima africana, essendo la via per la quale è stata trasmessa di generazione in generazione la saggezza acquisita mediante l’ esperienza. Il proverbio sopra citato quindi è senza dubbio significativo della consapevolezza tra i Senegalesi del valore del sacrificio e dell’impegno che comporta l’impresa migratoria. Ma perché il Sénégal tra tutti i Paesi dell’africa Subsahariana è forse quello maggiormente protagonista? Alcuni simboli e parole-chiave possono essere indicatori di un dinamismo particolarmente radicato, a partire forse dal nome del Paese. Tra le due possibili origini della parola Sénégal (da Sanadja i berberi mauri che spadroneggiavano nella regione del Fiume, oppure dalla lingua wolof sunu gal, che vuol dire la nostra piroga”) quella più verosimile sembra essere la prima. La seconda invece è piaciuta più nel clima presidenzialletterario ispirato da Senghor, come efficacia metafora per rappresentare la situazione del Paese: tutti sulla stessa barca, per un popolo in movimento e che nella piroga diretta verso un futuro di speranza ha effettivamente uno degli elementi più caratteristici e tipici. Il migrante senegalese per motivi economici è alla ricerca di ciò che egli definisce yokute, la “volontà di migliorare”. “Io sono invece convinto che il nome del mio Paese derivi dal riferimento alla piroga, è così presente nella nostra vita quotidiana da sempre nelle comunità di pescatori che è la cosa più naturale che sia stata una delle prime frasi dette ai berberi e ai Francesi”. (da un’intervista a Mathiaw ‘Ndiaye, Associazione Lavoratori Senegalesi di Schio) -7- La bandiera della Repubblica del Sénégal è a tre bande verticali di colore verde (con riferimento ai raccolti dell’agricoltura), giallo (riferimento al sole) e rosso (riferimento al sangue versato per l’indipendenza e libertà) con al centro una stella verde a cinque punte (riferimento all’Islam: verde è il colore sacro per questa religione, cinque punte è un richiamo ai “pilastri” o “comandamenti” (arkan) dell’Islam: in ordine, sono la shahada , la professione dell’unicità di Dio e che Maometto è il suo Profeta, la salat ,“preghiera”, il sawm , il digiuno del Ramadan), la zakat , la “elemosina” e il hajj , il pellegrinaggio). “Quando sale o scende davanti ad un edificio pubblico, i veicoli hanno l’obbligo di fermarsi in segno di rispetto. Sono previste multe per i distratti o gli irriverenti.” “Un solo popolo, un solo fine, una sola fede” Il motto nazionale è la vecchia parola d’ordine di Senghor, figura storica della cultura e politica moderna del Paese: primo insegnante africano di scuola secondaria in Francia, autore di poesie e promotore della cultura della “négritude” e padre spirituale e Primo presidente della Repubblica del Sénégal. “Di Senghor sono anche le parole dell’Inno: Pizzicate la kora, battete i balafons, il leone ha ruggito, il re della brousse con un salto si è lanciato, dissipando le tenebre. Sole sulle nostre paure, sole sulla nostra speranza. In piedi, fratelli ecco l’Africa riunita Fibre del mio cuore verde. Spalla contro spalla, miei più che fratelli, o Senegalesi, in piedi! Uniamo il mare e le sorgenti, uniamo la steppa e la foresta! Salve, madre Africa, salve, madre Africa! Da cantare con tono marziale, su un’aria da operetta. Il baobab, il leone, espressioni diverse di un’idea di maestosità, sono gli emblemi nazionali ufficiali, mentre l’onore, joom, la tolleranza, mun, la moderazione, kersa, l’ospitalità, teranga, sono considerati i pilastri etici della civiltà senegalese” (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli, 1994 Clupguide, Milano) -8- Il leone è considerato per le caratteristiche della forza e del coraggio, quest’ultimo considerato un carattere tipico dei Senegalesi, il baobab per le caratteristiche delle grosse dimensioni e della longevità è assunto a simbolo per esprimere la nobiltà d’animo che è continua e non occasionale o circostanziale. “E’ vero, il leone e il baobab sono i simboli più famosi del nostro Paese. Infatti come viene chiamata la nostra nazionale di calcio? Les lions du Sénégal! A me piace ricordare anche un altro simbolo misto tra storia e leggenda in Sénégal, ossia Malaw. Malaw è il cavallo bianco di Lat Dior, lo storico re wolof eroe della rivolta per l’indipendenza del Sénégal. E’ un cavallo bianco che lo ha accompagnato nella sua battaglia contro il colonialismo e contro la costruzione delle linea ferroviaria tra Dakar e Saint Louis che divideva il suo regno e quando Lat Dior fu ucciso dai coloni francesi, i Francesi vollero portare il cavallo Malaw per fare vedere al cavallo le ferrovie che il suo padrone si rifiutava di accettare e aveva strenuamente osteggiato dando molto filo da torcere ai coloni stessi. Quando era vicino ai binari il cavallo è morto per fedeltà al suo padrone e allo spirito di indipendenza del Sénégal senza dare la soddisfazione ai coloni di sentire vinta la sfida. Ora Malaw è diventato famoso simbolo che si vede alla fiera internazionale vicino all’aeroporto Léopold Sénghor di Dakar” (da un’intervista a Mathiaw ‘Ndiaye, Associazione Lavoratori Senegalesi di Schio) Guardando la carta geografica, il Senegal ricorda per la propria forma il profilo di una testa umana rivolta verso l’Oceano Atlantico, quasi a raffigurare anche geomorfologicamente una naturale tendenza al guardare oltre il proprio orizzonte, tratto caratteristico molto diffuso presso le popolazioni che vi abitano. Ex colonia francese, con molte di quelle difficoltà che sono tipiche dei Paesi africani che un tempo erano dominio di potenze europee, il Senegal e la sua società hanno incontrato i maggiori interessi da parte degli studiosi di sociologia delle migrazioni per il proprio dinamismo e la capacità di trovare un equilibrio tra modernità e tradizioni sociali. L’immigrazione senegalese in Europa e nel nostro territorio è una realtà molto particolare per vari aspetti, non riducibili alla diffusa “connotazione etnica” o stereotipo di essere solo venditori ambulanti non in regola con le licenze o i documenti. Secondo l’Istat a fine 2000 nel Veneto risultavano presenti 4.340 dei circa 40.000 Senegalesi -9- immigrati regolari in Italia, in prevalenza maschi (circa 92%, ma ora comincia ad esservi un graduale aumento della presenza femminile) giovani sotto i 30 anni, quasi tutti venuti esclusivamente per lavoro (la presenza immigrata senegalese è quella che tra i vari Paesi d’immigrazione registra la più alta percentuale assoluta di permessi di soggiorno per lavoro come motivo di ingresso nel nostro territorio: secondo il Dossier Caritas 2001 risulta pari al 94%). Altre fonti come il Dossier Caritas 2003 indicano a fine anno 2003 come soggiornanti in Italia circa 51.000 Senegalesi. In Veneto la maggior parte dei senegalesi dimostra una tendenziale preferenza per i piccoli e medi centri dove è più facile trovare casa e si è più vicini alle aree industriali nelle quali poi gli stessi spesso vanno a lavorare. La presenza Senegalese più numerosa è soprattutto nelle Province di Treviso e Vicenza. E’ necessario ricordare che il Sénégal è una ex colonia francese che ha occupato un posto centrale nella politica coloniale francese, essendo la capitale della A.O.F (Africa Occidentale Francese). L’antica presenza francese in Sénégal, anche precedente alla colonizzazione, ha fatto sì che il Sénégal ed i senegalesi siano stati usati dai francesi come intermediari nell’estensione dell’impero coloniale verso altri paesi africani. I Senegalesi che all’epoca avevano la cittadinanza francese erano quelli residenti nei famosi "4 Comuni": Saint-Louis, Dakar, Rufisque e Gorée. Negli altri paesi africani, questi cittadini dei 4 comuni venivano definiti "commis", per evidenziare il loro ruolo di intermediari, di ausiliari dell’amministrazione francese, ruolo che li portava ad essere, in effetti, i primi emigranti senegalesi, seppure all’interno dell’Africa stessa: possiamo così spiegarci l’attuale presenza di comunità senegalesi in Costa d’Avorio o nel Benin. Parallelamente a questo primo movimento migratorio dei commis, se ne è sviluppato un altro che ha interessato la popolazione dei Soninké, che occupa la zona a cavallo del fiume Sénégal, a nord-est. Diciamo, quindi, che i primi movimenti dei Senegalesi sono iniziati sotto la direzione francese e che, a partire dal 1945, dopo la seconda guerra mondiale, il fenomeno ha assunto una dimensione più importante, estendendosi anche all’etnia Halpular, e si è indirizzato verso l’esterno, cioè verso la Francia, che diventa il polo di attrazione principale dell’emigrazione senegalese, così come accade, in genere, per tutte le ex colonie rispetto ai paesi colonizzatori. Questo movimento è continuato fino al 1974, quando in Europa ha cominciato a delinearsi il problema dell’accettazione delle comunità immigrate. Ricordiamo che in questi anni si assiste ad una riaffermazione dei movimenti nazionalisti ed hanno inizio determinate politiche dell’Europa, partendo dagli accordi tra Francia e Germania fino al recente accordo di Schengen. Attualmente sono intervenuti dei mutamenti nell’orientamento dei flussi migratori che non - 10 - avvengono più verso le nazioni coloniali, ma più generalmente verso tutto l’Occidente, e, in particolare, l’Italia è divenuta meta dell’emigrazione senegalese in questi ultimi anni, intorno al 1982. Quella senegalese è dunque una immigrazione da noi cominciata soprattutto verso i primi anni ’90, dopo decenni di esperienze migratorie avute nella Francia. A quanto pare i primi Senegalesi che sono venuti nel nostro Paese non giungevano infatti esclusivamente dall’Africa ma, in consistente parte, dalla nostra “vicina di casa”, a seguito della ricerca di nuovi sbocchi lavorativi e dell’irrigidimento della normativa in materia immigratoria. Se inizialmente la migrazione era esclusivamente pensata come un’esperienza temporanea dei modou-modou (è questo il termine in lingua wolof che indica il migrante senegalese) con un rientro definitivo nel suo Paese di origine dopo tre – quattro anni, ora sono meno rari i casi di Senegalesi che si radicano nel territorio della Regione del Veneto e pensano di stabilirsi definitivamente, mentre sono ancora molti che continuano a mantenere un sistema di “famiglia transnazionale” divisa tra Veneto e Sénégal, anche se negli ultimi anni è sensibilmente aumentata la presenza femminile e la seconda generazione, favorendo una maggiore apertura e conoscenza tra le comunità alloctone e quella autoctona. I Senegalesi, per natura quasi sempre sorridenti, aperti e amichevoli, normalmente diventano ancor più disponibili e cordiali se viene loro dimostrato anche un semplice interesse circa il loro gruppo etnico e le tradizioni caratteristiche. Preparatevi in tal caso ad ascoltare lunghi ed interessanti racconti di feste, costumi e curiosità descritti con molto entusiasmo e partecipazione da parte loro. Oltre a usi e abitudini molto diffusi in quasi tutte le società e culture dell’Africa occidentale e subsahariana, i Senegalesi presentano elementi caratteristici sia relazione alla loro presenza sia alle modalità del loro vivere la esperienza migratoria in Paesi non africani. La società senegalese attuale non può essere descritta in termini di semplice contrasto tra tradizione e modernità. Le forme pure della società tradizionale, infatti, non esistono praticamente più, ma anche la formazione delle classi e degli strati sociali moderni è tuttora incompiuta. “Malgrado la comparsa dell’individualismo e una certa ‘razionalizzazione’ dei rapporti umani, conseguenza dell’istruzione, dell’urbanizzazione e della diffusione dell’economia monetaria e del commercio, la maggior parte dei senegalesi continua a centrare i propri rapporti sociali sulla parentela e sulla origine etnica. (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli, 1994 Clupguide, Milano, pagg. 76-77) “Un tempo (ma in parte è vero ancor oggi), in Sénégal, già dal cognome si poteva collocare professionalmente un individuo. Ogni cognome corrispondeva ad un determinato mestiere; ad es. coloro che si chiamavano Jum, Ciaam (o Thiam), e Jeç discendono da famiglie la cui attività tipica - 11 - era quella di fabbro, i Mbow sono invece discendenti di pellai e i Sow dei falegnami. Ora tali rigide divisioni non sono sentite così categoriche e anche l’esperienza migratoria determina cambiamenti nei ruoli sociolavorativi dei Senegalesi di diversa origine etnica o professionale. I Senegalesi sono in armonia l’uno accanto all’altro, i gruppi etnici che lo compongono non sono stati forzati alla convivenza e questo ha fatto sì che nell’epoca dell’indipendenza post-coloniale non conoscesse instabilità e guerre civili sanguinose come hanno conosciuto e stanno ancora vivendo molti altri Paesi africani. Anche se vi è stato un radicale mutamento delle organizzazioni istituzionali e della vita politica del Paese, rimangono ancora vivi e sentiti all’interno delle diverse comunità i ruoli carismatici coperti dai capi tradizionali. Come già accennato, spesso gli immigrati senegalesi, specie negli anni ’80 e primi anni ‘90, proprio in occasione dello shock culturale dello stabilirsi anche se pur provvisoriamente nei Paesi Europei, hanno dimostrato e dimostrano ancora oggi una riscoperta e valorizzazione delle proprie radici etniche più risalenti al punto di considerarsi, in virtù di differenze che risalgono in realtà a secoli addietro, distinti da altri connazionali, anche se con essi comunque stanno insieme pacificamente, salvo alcune rare eccezioni. E’ difficile tracciare le origini dei senegalesi nei tempi remoti. Emerge come ogni villaggio abbia una sua storia, all’interno di quella del continente africano e dei regni che furono presenti nelle epoche passate in Sénégal. E’ importante sottolineare la fortissima migrazione interna nello stato, oltre a quella internazionale che ha portato numerosi Senegalesi in Veneto. I vari gruppi etnici si trovano oggi a vivere mescolati, e le persone imparano a conoscere e rispettare oltre alla madre lingua e alla propria tradizione, anche le altre presenti in Sénégal. La trasmissione del sapere delle tradizioni di una comunità di un villaggio non sono più esclusiva dei griots, figure caratteristiche dell’Africa Occidentale simili a cantastorie, che conservavano canzoni e storie che tramandavano oralmente in incontri sotto l’arbre à palabre, il baobab che normalmente si trovava al centro del villaggio e costituiva il grande punto d’ombra e incontro del gruppo per ascoltare e conoscere la loro tradizione. Molti baobab antichi hanno delle cavità che sovente vengono usate per seppellire i griots particolarmente riveriti. Inevitabile ricordare il famoso proverbio africano “un anziano che muore è una biblioteca che brucia”, legato alla importanza della tradizione orale del sapere e delle tradizioni di questo continente. Secondo alcune testimonianze contenute in pubblicazioni tematiche, quanto si impara nell’educazione tradizionale senegalese ruota attorno a tre verbi: jàpp, (tenere in mano), fonk (avere considerazione per; stimare), begg (voler bene) ed a tre sostantivi: liggéey (lavoro), ngor (onestà), - 12 - diina (religione). “In wolof si dice ad esempio: “liggéey danuy koy jàpp”, letteralmente “il lavoro lo si deve tenere in mano”, ovvero il lavoro va rispettato; “ngor danuy koy fonk:” l’onestà va stimata; “diina danuy koy begg”: la religione va amata. L’educazione fa parte di una morale, ngor, che deriva da gore, essere onesto. Il termine dipende dal grado di jom che un individuo possiede. Il jom è l’essenza dell’educazione senegalese. Se uno la possiede si dice che può vivere ovunque, sarà molto richiesto come amico e chiunque sarà fiero di lui. Ecco i concetti che aiutano l’emigrato senegalese a realizzare i suoi sogni. Il ngor e il jom ricordano gli impegni nei confronti di chi è rimasto in patria. Il jom guida i cuori, i passi. Il ngor, invece, rende affidabili agli occhi di tutti.” (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye) Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg. 20-21) Parole che si richiamano a valori etici e modelli di comportamenti positivi abituali dei Senegalesi sono pure spesso i nomi di associazioni di immigrati provenienti da questo Paese e presenti in Veneto. “Il nome della nostra Associazione, DEGGO, non è casuale. Partendo dal senso etimologico proviene dal verbo degg, che vuol sentire capire, quindi esser capaci dio ascoltare e ricevere il messaggio, essere in grado di interpretare le parole che si ascoltano. Deggo è una derivazione di questa parola, in italiano potrebbe assumere il significato di “intesa”, “mettersi d’accordo”, “condivisione di una cosa comune fra tutti i membri di un gruppo”. E’ in contrapposizione a “fraintendimento” nel senso di mancanza di condivisione, mancanza di avere un comune senso di sentire e volere capire. Deggo vuole esprimere lo scambio di punti di vista per arrivare per arrivare allo spirito di gruppo condiviso e che mira ad obiettivi comuni che ci si impegna a raggiungere e condividere come membri di gruppo specie per esperienze quali la migrazione, con una idea di approcci mai unilaterali ma partecipati” (da un’intervista a Amadou Dia, presidente Associazione dei Senegalesi della Provincia di Venezia “Deggo”) “La nostra associazione si chiama Japoo. Significa abbracciarsi, mettersi insieme nel cammino, per lavorare e andare avanti assieme. La nostra associazione nelle tessere dei soci ha sia la bandiera italiana che quella senegalese e il simbolo delle due mani che si stringono, per significare la volontà di un percorso insieme anche agli italiani, perché è un valore che ci impegniamo a portare avanti” (da un’intervista a Pape Gueye, Associazione Japoo della Provincia di Padova) - 13 - “La associazione si chiama Teranga perché questa parola è un elemento tradizionale di noi Senegalesi, si può tradurre come ‘ospitalità’, ‘accoglienza’, e nostra intenzione è di trasmettere questo spirito di apertura e accoglienza anche in occasione della immigrazione” (da un’intervista ad Abu Faye, Associazione Teranga di Venezia) “Ande Dieuf significa ‘agire per uno scopo comune’, ‘insieme si può fare qualcosa’, è un’espressione molto nota e usata nel mio paese perché anche un partito ha questo nome, ma noi non abbiamo riferimenti politici ma solo esprimiamo lo scopo della associazione già dal suo stesso nome: volontà di integrarsi, aiutare a risolvere un po’ tutti i vari problemi che trova l’immigrato senegalese, dal lavoro all’apprendimento della lingua italiana al disagio abitativo” (da un’intervista a Moustapha ‘Ndiaye, Associazione Ande Dieuf) Il Senegal è risultato uno dei Paesi dell’Africa Occidentale che ha vissuto in modo meno drammatico e cruento di altri il passaggio da colonia a Stato autonomo senza peraltro perdere identità e tradizioni sopravvissute attraverso i secoli e i diversi domini subiti. La società del Senegal è composta da diversi gruppi etnici che nei secoli, in seguito agli spostamenti dai villaggi alle città e ai matrimoni misti sempre più frequenti, si sono relativamente amalgamati tra loro, pur rimanendo consapevoli delle proprie identità distinte. Una volta giunti in Italia i Senegalesi, in regola o meno, beneficiano di una potente rete di solidarietà. Si tratta, di solito, di aiuto offerto da parenti oppure da amici stretti o amici di amici o infine compaesani. La solidarietà è anche vista in funzione di aiuto per i più giovani ed inesperti nell’esperienza migratoria all’estero, proprio per non far perdere quei valori morali , jom e ngor, considerati come virtù fondamentali per ilo corretto cammino di vita. C’è un proverbio wolof che dice “mag moo mag yaay, moog mag baay”, ossia “Il/la fratello/sorella maggiore è più anziano della mamma e del papà”. Solitamente i Senegalesi sentono come prezioso patrimonio personale di ciascun individuo l’identità del proprio originario gruppo etnico che viene a contraddistinguerlo dai suoi connazionali. Solitamente questa componente non sembra costituire un elemento che li faccia allontanare tra di loro o che possa ostacolare le possibilità di convivenza e condivisione di esperienze comuni sia positive che negative (vi sono comunque eccezioni che verranno evidenziate qui in seguito e nella parte finale del presente lavoro). Qualche volta ad esempio è capitato di incontrare giovani appartenenti alla minoranza etnica senegalese Bambara, originaria e prevalentemente presente nel confinante stato del Mali, e notare - 14 - come in loro, pur se migrati da generazioni dal Mali nel Senegal e ora arrivati in Europa assieme ad altri gruppi, sia vivamente sentita la passata condizione dei propri antenati di popolazione regnante e “superiore” in un Impero che per secoli aveva dominato le altre (che, per esempio, dovevano pagare loro tributi o inginocchiarsi alla loro presenza in segno di riconoscimento di sottomissione) in un’ampia area del Sahara occidentale, al pari della minoranza senegalese Soninké (etnia dominante nell’antico Impero del Ghana, che non corrisponde affatto all’attuale Stato del Ghana! L’ Impero del Ghana, antico stato sudanese, nell’VIII° secolo comprendeva il Mali e parte della Mauritania, della Guinea e del Senegal. L’attuale stato del Ghana è situato nell’Africa occidentale, fra la Costa d’Avorio, il Burkina Faso e il Togo e nell’epoca coloniale era conosciuto come Costa d’Oro. Nell’attuale Ghana vive principalmente il gruppo etnico-linguistico Akan, del quale fanno parte i Fanti e i quasi leggendari Ashanti), ma senza che questa differenza di origini determini rivalità e contrasti diffusi con gli altri gruppi, anche se in certi casi sembra esistere (sul punto si parlerà più avanti). Tra i gruppi numericamente maggiori il primo posto va agli Wolof, la cui lingua, assieme al francese (rimasta anche dopo l’epoca coloniale lingua ufficiale delle Amministrazioni e degli Uffici e parlata con una certa disinvoltura da gran parte dei Senegalesi, anche nella sua forma semplificata, il français tirailleur) è la più diffusa nel Senegal, dove risultano esserne parlate circa 35, ed è utilizzata dall’80% circa della sua popolazione, anche se i Wolof costituiscono solo il 36% della popolazione senegalese. Questo ultimo aspetto è abbastanza significativo perché anche se la maggioranza di senegalesi immigrati nel nostro territorio parla Wolof (ad esempio l’assoluta maggioranza dei venditori ambulanti parla quasi esclusivamente solo questa lingua) non significa necessariamente che tutti questi siano di tale etnia. Il nome sembra derivare dal regno Djolof fondato secondo la tradizione popolare da Ndiadiane Ndiaye nel XIV secolo circa. Tale gruppo etnico in epoche passate aveva pure una propria aristocrazia ed un sistema gerarchico di caste, diversamente ad esempio dalla minoranza Diola (o Dyoula-Fogny). “L’aspetto degli Wolof, alti, tendenzialmente magri e dai lineamenti fini, è lo stereotipo della bellezza nera, e tali erano considerati dai colonizzatori. E’ questo un altro elemento che contribuisce a rafforzare negli Wolof una certa arroganza, che tuttavia è unita ad una effettiva forza di volontà e intraprendenza” (da “Senegal” di Papa Saer Sako, 1998 Pendragon Ed.) I Sérère costituiscono la seconda etnia del Paese (20% della popolazione, apparteneva a questa etnia anche il “padre” e primo Presidente del moderno Senegal, Léopold Senghor), risultano rispetto agli Wolof più legati alle tradizioni della loro terra, e assieme alla minoranza dei Diola sono l’etnia che - 15 - maggiormente ha aderito al cristianesimo, praticato ora solo dal 2% della popolazione senegalese, che per il 92% è musulmana (sul punto v. avanti) e per il rimanente 6% è animista (fonte: numero 17-Ottobre 2001 di “Cittadini Dappertutto”, contenete un servizio e reportage speciale sulla comunità senegalese nel Triveneto). Oltre ad altri gruppi tra i quali Toucouleur (terzo gruppo, circa 13% della popolazione), Mandingo, Bassari, vanno ricordati i Peul, diffusi in un po’ tutta l’Africa occidentale (ad esempio Mali, Nigeria, Ghana) anche come Fulfudes-Pulaar o Foulbé, i quali nel Senegal hanno fama di stregoni e per questo vengono tenuti in considerazione e talvolta temuti dagli appartenenti alle altre etnie, ed infine i Sarakholé, di carnagione abbastanza chiara, noti per il loro altruismo e per essere particolarmente dinamici ed intraprendenti al punto da costituire forse il maggiore gruppo etnico senegalese emigrato in Francia e, probabilmente, in un secondo tempo, da questo Paese poi emigrato anche in Italia. Quelle della solidarietà e della laboriosità sono in effetti caratteristiche pressoché costanti in tutti i gruppi etnici senegalesi e senza dubbio particolari risorse sulle quali in buona parte gli stessi fondano le proprie speranze di un successo nella esperienza migratoria. La spontanea tendenza al cercarsi e riunirsi è in primo luogo dettata dal desiderio di avere maggiore sicurezza attraverso l’unità del gruppo e dalla funzione dello stesso di costituire per ciascuno che vi fa parte, e soprattutto per ‘i nuovi venuti’, un punto di riferimento ed un aiuto nel proseguire il giusto e corretto percorso di vita. “Gli emigranti creano poi associazioni che raggruppano ad esempio persone provenienti dallo stesso villaggio, per mantenere vive le tradizioni. Tale sistema è erede delle associazioni nate in Africa in seguito all’esodo dalle campagne alle città (quando il sottoscritto studiava a Dakar, ad esempio, faceva parte dell’Association des Resortissants de Kougheul). Lo scopo delle strutture era (ed é9 di offrire aiuto agli aderenti, permettendo, ad esempio, di raccogliere denaro quando è in serie difficoltà economiche un membro o muore un membro e serve pagare le spese di rimpatrio della salma”. (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye)Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg. La tendenza all’associazionismo, più che essere rappresentata dalla circostanza del non apparire i Senegalesi quasi mai da soli per le vie e piazze di una nostra città, e non solo come venditori ambulanti, è quindi determinata da fattori tradizionali ed abituali delle loro usanze ed organizzazioni comunitarie praticate già nel loro Paese e dal diffuso e caratteristico sistema organizzativo e religioso delle confraternite, specie quelle muridi, basate sulle strutture delle scuole - 16 - di misticismo religioso musulmano specificamente senegalese (principalmente Wolof) e di matrice dichiaratamente tollerante e pacifista, capaci pertanto di essere “esportate” senza pericoli ma anzi con alcuni vantaggi sul piano sociale ed economico, nei termini di controllo del corretto ed.onesto comportamento dei fedeli e di sostegno economico alle comunità e confraternite in Sénégal. Secondo i dati ufficiali, il 94% dei Senegalesi è mussulmano, il 5% cristiano, mentre solo l’1% segue ancora una delle religioni tradizionali. Nella realtà un profondo processo di sincretismo ha reso meno definiti i confini tra i credi rendendo quindi queste cifre solo relativamente affidabili. [….] Il risultato dell’intreccio di influenze fra Islam e culti tradizionali è che in definitiva, per esempio, i mussulmani portino pagine del Corano come gris-gris (talismani), mentre gli animasti portano gris-gris fatti di pagine di Corano, oppure che i futuri iniziati si radunino davanti alla moschea prima di incamminarsi verso il bosco sacro. [….] Di fatto l’Islam vissuto ed interpretato secondo la tradizione senegalese è diventato, insieme ai valori culturali dell’etnia wolof, elemento portante della società senegalese e la chiave per capire il comportamento sociale, politico ed economico degli individui, dei gruppi e delle istituzioni” ” (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli, 1994 Clupguide, Milano, pagg. 81-82) L’Islam infatti si è distinto in scuole teologiche e in culti che hanno spesso solo un valore locale. In Sénégal, per restare nello specifico, il sufismo, la scuola ascetico-mistica, ha potuto introdurre elementi estranei alle forme dell’Islam elementi estranei alle forme dell’Islam primitivo, come sono, ad esempio, i talismani”spirituali”, il culto dei santi morti o viventi, il riconoscimento della loro possibilità di compiere miracoli e quell’istituzione di carattere socio-religioso chiamata “confraternita” , “daara” o “dahira”. Le confraternite sono associazioni di correligionari legati da una visione mistica comune, da una pratica di lavoro comunitario e da un’organizzazione che prevede alla sommità un califfo, discendente dal fondatore della confraternita, assistito da una gerarchia di marabouts (o tra Wolof, Sérére e Toucouleurs chiamati anche Sérigne) sotto i quali sta la base dei fedeli Queste ultime riflessioni sono validissime anche per meglio conoscere la realtà delle organizzazioni comunitarie e di solidarietà degli immigrati senegalesi presenti nella Regione del Veneto. Le confraternite (oltre a quella Muridiyya sono tipiche ma non esclusive de Senegal anche quella Tijanyya e quella Qadiriyya o quella dei Laiéne composta quasi esclusivamente dai Lebou, considerati da alcuni un sottogruppo etnico degli Wolof; esistono anche correnti interne o sottoconfraternite come i Baye Fall e i Niassénes) sono gruppi di mussulmani che aderiscono agli insegnamenti di un loro principale maestro spirituale e si trovano sotto la guida di un “saggio” locale che provvede ad inserire nel tessuto organizzativo sociale sia interno che esterno gli aderenti, specie se immigrati arrivati da poco tempo, con una filosofia di mutua assistenza e sopportazione - 17 - equamente distribuita degli svantaggi ed inconvenienti che il destino presenta loro. “La partenza, prescrivono le regole tradizionali del mio Paese, deve rimanere un segreto fino a quando i riti propiziatori non sono stati compiuti e fino a quando i marabouts non danno il loro parere favorevole, consultando gli spiriti. I marabouts scelgono anche il giorno in cui va lasciato il villaggio. L’emigrante compie innumerevoli riti;: dare elemosine con lo scopo di allontanare i problemi che potrebbero sorgere durante il viaggio e durante la vita all’estero, purificare il proprio corpo con lavaggi particolari; portare talismani per proteggersi dal potere dei bianchi e per attirare su di sé la fortuna. (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye)Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg. 5960) L’emigrato senegalese che giunge in Italia ha dunque normalmente già dei riferimenti, è munito di una lista di nomi di persone che si occuperanno del suo inserimento, sia per l’alloggio sia per i primi contatti lavorativi. La rete di solidarietà, talvolta spiegata come un gesto puramente gratuito, nasce da motivazioni più profonde: a volte è il capo religioso che, non solo organizza il viaggio ma fornisce gli indirizzi e mette in contatto il partente con un altro suo discepolo già residente in Italia. Perché ci sia un impegno comune. “Caratteristica della confraternita muride è il forte accento posto sul lavoro come mezzo per progredire nella vita religiosa e sulla solidarietà (anche) economica fra i suoi membri. Forse è proprio questo che spiega l’intraprendenza commerciale di molti senegalesi che vivono nel Nordest” (da “Cittadini Dappertutto” nr. 17 – Ottobre 2001, p. 15). Tali aspetti, anche a seguito del continuo sviluppo della rete di contatti interni ed esterni, si sono peraltro diffusi come modello di filosofia di vita collettiva anche in gruppi di connazionali non appartenenti a dette confraternite, diventando uno stile di organizzazione generalmente adattato e adottato dalla maggioranza degli immigrati senegalesi nel Mondo. Il mantenere anche nel Paese ospitante alcune abitudini e regole sociali secolari, quali ad esempio la divisione di compiti e ruoli nel contesto di una convivenza domestica in gruppo, il rispetto dell’autorità, del ruolo o dell’anzianità nei rapporti, la celebrazione di festività e ricorrenze tradizionali, quale quella del Grand Magal, celebrazione di ricordo del fondatore della confraternita Muridiyya Cheick Ahmadou Bamba, o il Gamou della confraternita Tijanyya o alle ricorrenze civili come la festa dell’indipendenza (4 Aprile), sono in effetti pratiche che hanno resistito al colonialismo e alle influenze esterne e che oggi sopravvivono anche al variare del luogo di permanenza dei Senegalesi. D’altra parte, come peraltro è avvenuto in gran parte di Paesi del Sud del Mondo, altri aspetti della società hanno subito vistosi cambiamenti nel corso degli anni, anche - 18 - per merito delle emigrazioni, e tra essi i più significativi sono stati la struttura familiare, il rapporto tra i sessi, la lingua, il modo di passare il tempo libero. Tali legami a pratiche e convenzioni non priva gli immigrati senegalesi dello spirito di adattamento necessario al loro inserimento in realtà lavorative diverse per organizzazione e per rapporti interpersonali, proprio perché sanno che loro valori e punti di riferimento tradizionali non vengono completamente sacrificati o persi. BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO • Senegal - Collana “L’arca”, Edizioni Pendragon, 1999, Bologna. • J. Ki-Zerbo, “Storia dell’Africa nera”, 1977, Einaudi, Torino • L. S. Amselle, “Logiche meticce – Antropologia dell’identità in Africa e altrove”, 1999, BollatiBoringeri, Torino • M. Diouf, “Sénégal les Ethnies et la Nation”, 1994, L’Harmattan, Paris • M. Gueye -L. Gambi -F. Bonatesta, “I Wolof del Senegal”, 1995, L’Harmattan Italia, Torino • E. H. A. Ndiaye, “La cultura dell’amico che viene da lontano – saggio sull’immigrazione senegalese in Italia”, 2000, L’Harmattan Italia, Torino • Autori Vari, “Nato in Senegal immigrato in Italia”, 1994, Edizioni Ambiente, Milano • L. Perrone (a cura di), “Tra due mondi. Forme e grado di adattamento della comunità senegalese”, in ‘Sociologia urbana e rurale’ n. 64/65, 2001, FrancoAngeli, Milano • O.Schmidt di Friedberg, “Islam, solidarietà e lavoro. I muridi senegalesi in Italia”, 1994, Ed. Fondazione Agnelli, Torino • “Fatti urbani innovativi e nuove centralità - gli immigrati e la loro immagine della città di Venezia” Tesi di Laurea all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia elaborata da Mirko Marzadro, Anno Accademico 2002/2003 - 19 - Ghana A colpo d'occhio • Nome completo del paese: Repubblica del Ghana • Superficie: 239.460 kmq • Popolazione: 20.757.032 abitanti (tasso di crescita demografica 1,4%) • Capitale: Accra (1.661.400 abitanti, 2.825.800 nell'area metropolitana) • Popoli: 44% akan, 16% moshi-dagomba, 13% ewé, 3% ga, 3% gurma, 1% yoruba, 1,5% guan, gonja, dagomba, europei • Lingua: inglese (lingua ufficiale), akan, moshi-dagomba, ewé, ga, twi • Religione: 63% cristiana, 16% musulmana, 21% animista • Ordinamento dello stato: repubblica presidenziale • Presidente: John Agyekum Kufuor • Vicepresidente: Alhaji Aliu Mahama - 20 - In piroga col griot e il marabout, tra leoni e baobab. “Prima di partire si paga il prezzo” (proverbio senegalese) I proverbi sono una delle grandi ricchezze dell’ Africa. I proverbi sono “libri scritti nella memoria”, “cose per saggi”, sono specchi nei quali si riflettono le varie sfaccettature della vita individuale, familiare e sociale.Traducono in espressioni essenziali, ritmate, ricche di assonanze e facilmente memorizzabili i tesori che la saggezza popolare è andata accumulando lungo i secoli o millenni e che riprende e ripropone di continuo. I proverbi ritornano con insistenza nelle conversazioni della vita di ogni giorno, nelle circostanze più o meno ufficiali della vita comunitaria, nei discorsi dei politici e nelle opere degli scrittori. Essi sono senza dubbio la via di accesso più immediata e sicura alla conoscenza dell’ anima africana, essendo la via per la quale è stata trasmessa di generazione in generazione la saggezza acquisita mediante l’ esperienza. Il proverbio sopra citato quindi è senza dubbio significativo della consapevolezza tra i Senegalesi del valore del sacrificio e dell’impegno che comporta l’impresa migratoria. Ma perché il Sénégal tra tutti i Paesi dell’africa Subsahariana è forse quello maggiormente protagonista? Alcuni simboli e parole-chiave possono essere indicatori di un dinamismo particolarmente radicato, a partire forse dal nome del Paese. Tra le due possibili origini della parola Sénégal (da Sanadja i berberi mauri che spadroneggiavano nella regione del Fiume, oppure dalla lingua wolof sunu gal, che vuol dire la nostra piroga”) quella più verosimile sembra essere la prima. La seconda invece è piaciuta più nel clima presidenzialletterario ispirato da Senghor, come efficacia metafora per rappresentare la situazione del Paese: tutti sulla stessa barca, per un popolo in movimento e che nella piroga diretta verso un futuro di speranza ha effettivamente uno degli elementi più caratteristici e tipici. Il migrante senegalese per motivi economici è alla ricerca di ciò che egli definisce yokute, la “volontà di migliorare”. “Io sono invece convinto che il nome del mio Paese derivi dal riferimento alla piroga, è così presente nella nostra vita quotidiana da sempre nelle comunità di pescatori che è la cosa più naturale che sia stata una delle prime frasi dette ai berberi e ai Francesi”. (da un’intervista a Mathiaw ‘Ndiaye, Associazione Lavoratori Senegalesi di Schio) - 21 - La bandiera della Repubblica del Sénégal è a tre bande verticali di colore verde (con riferimento ai raccolti dell’agricoltura), giallo (riferimento al sole) e rosso (riferimento al sangue versato per l’indipendenza e libertà) con al centro una stella verde a cinque punte (riferimento all’Islam: verde è il colore sacro per questa religione, cinque punte è un richiamo ai “pilastri” o “comandamenti” (arkan) dell’Islam: in ordine, sono la shahada , la professione dell’unicità di Dio e che Maometto è il suo Profeta, la salat ,“preghiera”, il sawm , il digiuno del Ramadan), la zakat , la “elemosina” e il hajj , il pellegrinaggio). “Quando sale o scende davanti ad un edificio pubblico, i veicoli hanno l’obbligo di fermarsi in segno di rispetto. Sono previste multe per i distratti o gli irriverenti.” “Un solo popolo, un solo fine, una sola fede” Il motto nazionale è la vecchia parola d’ordine di Senghor, figura storica della cultura e politica moderna del Paese: primo insegnante africano di scuola secondaria in Francia, autore di poesie e promotore della cultura della “négritude” e padre spirituale e Primo presidente della Repubblica del Sénégal. “Di Senghor sono anche le parole dell’Inno: Pizzicate la kora, battete i balafons, il leone ha ruggito, il re della brousse con un salto si è lanciato, dissipando le tenebre. Sole sulle nostre paure, sole sulla nostra speranza. In piedi, fratelli ecco l’Africa riunita Fibre del mio cuore verde. Spalla contro spalla, miei più che fratelli, o Senegalesi, in piedi! Uniamo il mare e le sorgenti, uniamo la steppa e la foresta! Salve, madre Africa, salve, madre Africa! Da cantare con tono marziale, su un’aria da operetta. Il baobab, il leone, espressioni diverse di un’idea di maestosità, sono gli emblemi nazionali ufficiali, mentre l’onore, joom, la tolleranza, mun, la moderazione, kersa, l’ospitalità, teranga, sono considerati i pilastri etici della civiltà senegalese” (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli, 1994 Clupguide, Milano) - 22 - Il leone è considerato per le caratteristiche della forza e del coraggio, quest’ultimo considerato un carattere tipico dei Senegalesi, il baobab per le caratteristiche delle grosse dimensioni e della longevità è assunto a simbolo per esprimere la nobiltà d’animo che è continua e non occasionale o circostanziale. “E’ vero, il leone e il baobab sono i simboli più famosi del nostro Paese. Infatti come viene chiamata la nostra nazionale di calcio? Les lions du Sénégal! A me piace ricordare anche un altro simbolo misto tra storia e leggenda in Sénégal, ossia Malaw. Malaw è il cavallo bianco di Lat Dior, lo storico re wolof eroe della rivolta per l’indipendenza del Sénégal. E’ un cavallo bianco che lo ha accompagnato nella sua battaglia contro il colonialismo e contro la costruzione delle linea ferroviaria tra Dakar e Saint Louis che divideva il suo regno e quando Lat Dior fu ucciso dai coloni francesi, i Francesi vollero portare il cavallo Malaw per fare vedere al cavallo le ferrovie che il suo padrone si rifiutava di accettare e aveva strenuamente osteggiato dando molto filo da torcere ai coloni stessi. Quando era vicino ai binari il cavallo è morto per fedeltà al suo padrone e allo spirito di indipendenza del Sénégal senza dare la soddisfazione ai coloni di sentire vinta la sfida. Ora Malaw è diventato famoso simbolo che si vede alla fiera internazionale vicino all’aeroporto Léopold Sénghor di Dakar” (da un’intervista a Mathiaw ‘Ndiaye, Associazione Lavoratori Senegalesi di Schio) Guardando la carta geografica, il Senegal ricorda per la propria forma il profilo di una testa umana rivolta verso l’Oceano Atlantico, quasi a raffigurare anche geomorfologicamente una naturale tendenza al guardare oltre il proprio orizzonte, tratto caratteristico molto diffuso presso le popolazioni che vi abitano. Ex colonia francese, con molte di quelle difficoltà che sono tipiche dei Paesi africani che un tempo erano dominio di potenze europee, il Senegal e la sua società hanno incontrato i maggiori interessi da parte degli studiosi di sociologia delle migrazioni per il proprio dinamismo e la capacità di trovare un equilibrio tra modernità e tradizioni sociali. L’immigrazione senegalese in Europa e nel nostro territorio è una realtà molto particolare per vari aspetti, non riducibili alla diffusa “connotazione etnica” o stereotipo di essere solo venditori ambulanti non in regola con le licenze o i documenti. Secondo l’Istat a fine 2000 nel Veneto risultavano presenti 4.340 dei circa 40.000 Senegalesi - 23 - immigrati regolari in Italia, in prevalenza maschi (circa 92%, ma ora comincia ad esservi un graduale aumento della presenza femminile) giovani sotto i 30 anni, quasi tutti venuti esclusivamente per lavoro (la presenza immigrata senegalese è quella che tra i vari Paesi d’immigrazione registra la più alta percentuale assoluta di permessi di soggiorno per lavoro come motivo di ingresso nel nostro territorio: secondo il Dossier Caritas 2001 risulta pari al 94%). Altre fonti come il Dossier Caritas 2003 indicano a fine anno 2003 come soggiornanti in Italia circa 51.000 Senegalesi. In Veneto la maggior parte dei senegalesi dimostra una tendenziale preferenza per i piccoli e medi centri dove è più facile trovare casa e si è più vicini alle aree industriali nelle quali poi gli stessi spesso vanno a lavorare. La presenza Senegalese più numerosa è soprattutto nelle Province di Treviso e Vicenza. E’ necessario ricordare che il Sénégal è una ex colonia francese che ha occupato un posto centrale nella politica coloniale francese, essendo la capitale della A.O.F (Africa Occidentale Francese). L’antica presenza francese in Sénégal, anche precedente alla colonizzazione, ha fatto sì che il Sénégal ed i senegalesi siano stati usati dai francesi come intermediari nell’estensione dell’impero coloniale verso altri paesi africani. I Senegalesi che all’epoca avevano la cittadinanza francese erano quelli residenti nei famosi "4 Comuni": Saint-Louis, Dakar, Rufisque e Gorée. Negli altri paesi africani, questi cittadini dei 4 comuni venivano definiti "commis", per evidenziare il loro ruolo di intermediari, di ausiliari dell’amministrazione francese, ruolo che li portava ad essere, in effetti, i primi emigranti senegalesi, seppure all’interno dell’Africa stessa: possiamo così spiegarci l’attuale presenza di comunità senegalesi in Costa d’Avorio o nel Benin. Parallelamente a questo primo movimento migratorio dei commis, se ne è sviluppato un altro che ha interessato la popolazione dei Soninké, che occupa la zona a cavallo del fiume Sénégal, a nord-est. Diciamo, quindi, che i primi movimenti dei Senegalesi sono iniziati sotto la direzione francese e che, a partire dal 1945, dopo la seconda guerra mondiale, il fenomeno ha assunto una dimensione più importante, estendendosi anche all’etnia Halpular, e si è indirizzato verso l’esterno, cioè verso la Francia, che diventa il polo di attrazione principale dell’emigrazione senegalese, così come accade, in genere, per tutte le ex colonie rispetto ai paesi colonizzatori. Questo movimento è continuato fino al 1974, quando in Europa ha cominciato a delinearsi il problema dell’accettazione delle comunità immigrate. Ricordiamo che in questi anni si assiste ad una riaffermazione dei movimenti nazionalisti ed hanno inizio determinate politiche dell’Europa, partendo dagli accordi tra Francia e Germania fino al recente accordo di Schengen. Attualmente sono intervenuti dei mutamenti nell’orientamento dei flussi migratori che non - 24 - avvengono più verso le nazioni coloniali, ma più generalmente verso tutto l’Occidente, e, in particolare, l’Italia è divenuta meta dell’emigrazione senegalese in questi ultimi anni, intorno al 1982. Quella senegalese è dunque una immigrazione da noi cominciata soprattutto verso i primi anni ’90, dopo decenni di esperienze migratorie avute nella Francia. A quanto pare i primi Senegalesi che sono venuti nel nostro Paese non giungevano infatti esclusivamente dall’Africa ma, in consistente parte, dalla nostra “vicina di casa”, a seguito della ricerca di nuovi sbocchi lavorativi e dell’irrigidimento della normativa in materia immigratoria. Se inizialmente la migrazione era esclusivamente pensata come un’esperienza temporanea dei modou-modou (è questo il termine in lingua wolof che indica il migrante senegalese) con un rientro definitivo nel suo Paese di origine dopo tre – quattro anni, ora sono meno rari i casi di Senegalesi che si radicano nel territorio della Regione del Veneto e pensano di stabilirsi definitivamente, mentre sono ancora molti che continuano a mantenere un sistema di “famiglia transnazionale” divisa tra Veneto e Sénégal, anche se negli ultimi anni è sensibilmente aumentata la presenza femminile e la seconda generazione, favorendo una maggiore apertura e conoscenza tra le comunità alloctone e quella autoctona. I Senegalesi, per natura quasi sempre sorridenti, aperti e amichevoli, normalmente diventano ancor più disponibili e cordiali se viene loro dimostrato anche un semplice interesse circa il loro gruppo etnico e le tradizioni caratteristiche. Preparatevi in tal caso ad ascoltare lunghi ed interessanti racconti di feste, costumi e curiosità descritti con molto entusiasmo e partecipazione da parte loro. Oltre a usi e abitudini molto diffusi in quasi tutte le società e culture dell’Africa occidentale e subsahariana, i Senegalesi presentano elementi caratteristici sia relazione alla loro presenza sia alle modalità del loro vivere la esperienza migratoria in Paesi non africani. La società senegalese attuale non può essere descritta in termini di semplice contrasto tra tradizione e modernità. Le forme pure della società tradizionale, infatti, non esistono praticamente più, ma anche la formazione delle classi e degli strati sociali moderni è tuttora incompiuta. “Malgrado la comparsa dell’individualismo e una certa ‘razionalizzazione’ dei rapporti umani, conseguenza dell’istruzione, dell’urbanizzazione e della diffusione dell’economia monetaria e del commercio, la maggior parte dei senegalesi continua a centrare i propri rapporti sociali sulla parentela e sulla origine etnica. (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli, 1994 Clupguide, Milano, pagg. 76-77) “Un tempo (ma in parte è vero ancor oggi), in Sénégal, già dal cognome si poteva collocare professionalmente un individuo. Ogni cognome corrispondeva ad un determinato mestiere; ad es. coloro che si chiamavano Jum, Ciaam (o Thiam), e Jeç discendono da famiglie la cui attività tipica - 25 - era quella di fabbro, i Mbow sono invece discendenti di pellai e i Sow dei falegnami. Ora tali rigide divisioni non sono sentite così categoriche e anche l’esperienza migratoria determina cambiamenti nei ruoli sociolavorativi dei Senegalesi di diversa origine etnica o professionale. I Senegalesi sono in armonia l’uno accanto all’altro, i gruppi etnici che lo compongono non sono stati forzati alla convivenza e questo ha fatto sì che nell’epoca dell’indipendenza post-coloniale non conoscesse instabilità e guerre civili sanguinose come hanno conosciuto e stanno ancora vivendo molti altri Paesi africani. Anche se vi è stato un radicale mutamento delle organizzazioni istituzionali e della vita politica del Paese, rimangono ancora vivi e sentiti all’interno delle diverse comunità i ruoli carismatici coperti dai capi tradizionali. Come già accennato, spesso gli immigrati senegalesi, specie negli anni ’80 e primi anni ‘90, proprio in occasione dello shock culturale dello stabilirsi anche se pur provvisoriamente nei Paesi Europei, hanno dimostrato e dimostrano ancora oggi una riscoperta e valorizzazione delle proprie radici etniche più risalenti al punto di considerarsi, in virtù di differenze che risalgono in realtà a secoli addietro, distinti da altri connazionali, anche se con essi comunque stanno insieme pacificamente, salvo alcune rare eccezioni. E’ difficile tracciare le origini dei senegalesi nei tempi remoti. Emerge come ogni villaggio abbia una sua storia, all’interno di quella del continente africano e dei regni che furono presenti nelle epoche passate in Sénégal. E’ importante sottolineare la fortissima migrazione interna nello stato, oltre a quella internazionale che ha portato numerosi Senegalesi in Veneto. I vari gruppi etnici si trovano oggi a vivere mescolati, e le persone imparano a conoscere e rispettare oltre alla madre lingua e alla propria tradizione, anche le altre presenti in Sénégal. La trasmissione del sapere delle tradizioni di una comunità di un villaggio non sono più esclusiva dei griots, figure caratteristiche dell’Africa Occidentale simili a cantastorie, che conservavano canzoni e storie che tramandavano oralmente in incontri sotto l’arbre à palabre, il baobab che normalmente si trovava al centro del villaggio e costituiva il grande punto d’ombra e incontro del gruppo per ascoltare e conoscere la loro tradizione. Molti baobab antichi hanno delle cavità che sovente vengono usate per seppellire i griots particolarmente riveriti. Inevitabile ricordare il famoso proverbio africano “un anziano che muore è una biblioteca che brucia”, legato alla importanza della tradizione orale del sapere e delle tradizioni di questo continente. Secondo alcune testimonianze contenute in pubblicazioni tematiche, quanto si impara nell’educazione tradizionale senegalese ruota attorno a tre verbi: jàpp, (tenere in mano), fonk (avere considerazione per; stimare), begg (voler bene) ed a tre sostantivi: liggéey (lavoro), ngor (onestà), - 26 - diina (religione). “In wolof si dice ad esempio: “liggéey danuy koy jàpp”, letteralmente “il lavoro lo si deve tenere in mano”, ovvero il lavoro va rispettato; “ngor danuy koy fonk:” l’onestà va stimata; “diina danuy koy begg”: la religione va amata. L’educazione fa parte di una morale, ngor, che deriva da gore, essere onesto. Il termine dipende dal grado di jom che un individuo possiede. Il jom è l’essenza dell’educazione senegalese. Se uno la possiede si dice che può vivere ovunque, sarà molto richiesto come amico e chiunque sarà fiero di lui. Ecco i concetti che aiutano l’emigrato senegalese a realizzare i suoi sogni. Il ngor e il jom ricordano gli impegni nei confronti di chi è rimasto in patria. Il jom guida i cuori, i passi. Il ngor, invece, rende affidabili agli occhi di tutti.” (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye) Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg. 20-21) Parole che si richiamano a valori etici e modelli di comportamenti positivi abituali dei Senegalesi sono pure spesso i nomi di associazioni di immigrati provenienti da questo Paese e presenti in Veneto. “Il nome della nostra Associazione, DEGGO, non è casuale. Partendo dal senso etimologico proviene dal verbo degg, che vuol sentire capire, quindi esser capaci dio ascoltare e ricevere il messaggio, essere in grado di interpretare le parole che si ascoltano. Deggo è una derivazione di questa parola, in italiano potrebbe assumere il significato di “intesa”, “mettersi d’accordo”, “condivisione di una cosa comune fra tutti i membri di un gruppo”. E’ in contrapposizione a “fraintendimento” nel senso di mancanza di condivisione, mancanza di avere un comune senso di sentire e volere capire. Deggo vuole esprimere lo scambio di punti di vista per arrivare per arrivare allo spirito di gruppo condiviso e che mira ad obiettivi comuni che ci si impegna a raggiungere e condividere come membri di gruppo specie per esperienze quali la migrazione, con una idea di approcci mai unilaterali ma partecipati” (da un’intervista a Amadou Dia, presidente Associazione dei Senegalesi della Provincia di Venezia “Deggo”) “La nostra associazione si chiama Japoo. Significa abbracciarsi, mettersi insieme nel cammino, per lavorare e andare avanti assieme. La nostra associazione nelle tessere dei soci ha sia la bandiera italiana che quella senegalese e il simbolo delle due mani che si stringono, per significare la volontà di un percorso insieme anche agli italiani, perché è un valore che ci impegniamo a portare avanti” (da un’intervista a Pape Gueye, Associazione Japoo della Provincia di Padova) - 27 - “La associazione si chiama Teranga perché questa parola è un elemento tradizionale di noi Senegalesi, si può tradurre come ‘ospitalità’, ‘accoglienza’, e nostra intenzione è di trasmettere questo spirito di apertura e accoglienza anche in occasione della immigrazione” (da un’intervista ad Abu Faye, Associazione Teranga di Venezia) “Ande Dieuf significa ‘agire per uno scopo comune’, ‘insieme si può fare qualcosa’, è un’espressione molto nota e usata nel mio paese perché anche un partito ha questo nome, ma noi non abbiamo riferimenti politici ma solo esprimiamo lo scopo della associazione già dal suo stesso nome: volontà di integrarsi, aiutare a risolvere un po’ tutti i vari problemi che trova l’immigrato senegalese, dal lavoro all’apprendimento della lingua italiana al disagio abitativo” (da un’intervista a Moustapha ‘Ndiaye, Associazione Ande Dieuf) Il Senegal è risultato uno dei Paesi dell’Africa Occidentale che ha vissuto in modo meno drammatico e cruento di altri il passaggio da colonia a Stato autonomo senza peraltro perdere identità e tradizioni sopravvissute attraverso i secoli e i diversi domini subiti. La società del Senegal è composta da diversi gruppi etnici che nei secoli, in seguito agli spostamenti dai villaggi alle città e ai matrimoni misti sempre più frequenti, si sono relativamente amalgamati tra loro, pur rimanendo consapevoli delle proprie identità distinte. Una volta giunti in Italia i Senegalesi, in regola o meno, beneficiano di una potente rete di solidarietà. Si tratta, di solito, di aiuto offerto da parenti oppure da amici stretti o amici di amici o infine compaesani. La solidarietà è anche vista in funzione di aiuto per i più giovani ed inesperti nell’esperienza migratoria all’estero, proprio per non far perdere quei valori morali , jom e ngor, considerati come virtù fondamentali per ilo corretto cammino di vita. C’è un proverbio wolof che dice “mag moo mag yaay, moog mag baay”, ossia “Il/la fratello/sorella maggiore è più anziano della mamma e del papà”. Solitamente i Senegalesi sentono come prezioso patrimonio personale di ciascun individuo l’identità del proprio originario gruppo etnico che viene a contraddistinguerlo dai suoi connazionali. Solitamente questa componente non sembra costituire un elemento che li faccia allontanare tra di loro o che possa ostacolare le possibilità di convivenza e condivisione di esperienze comuni sia positive che negative (vi sono comunque eccezioni che verranno evidenziate qui in seguito e nella parte finale del presente lavoro). Qualche volta ad esempio è capitato di incontrare giovani appartenenti alla minoranza etnica senegalese Bambara, originaria e prevalentemente presente nel confinante stato del Mali, e notare - 28 - come in loro, pur se migrati da generazioni dal Mali nel Senegal e ora arrivati in Europa assieme ad altri gruppi, sia vivamente sentita la passata condizione dei propri antenati di popolazione regnante e “superiore” in un Impero che per secoli aveva dominato le altre (che, per esempio, dovevano pagare loro tributi o inginocchiarsi alla loro presenza in segno di riconoscimento di sottomissione) in un’ampia area del Sahara occidentale, al pari della minoranza senegalese Soninké (etnia dominante nell’antico Impero del Ghana, che non corrisponde affatto all’attuale Stato del Ghana! L’ Impero del Ghana, antico stato sudanese, nell’VIII° secolo comprendeva il Mali e parte della Mauritania, della Guinea e del Senegal. L’attuale stato del Ghana è situato nell’Africa occidentale, fra la Costa d’Avorio, il Burkina Faso e il Togo e nell’epoca coloniale era conosciuto come Costa d’Oro. Nell’attuale Ghana vive principalmente il gruppo etnico-linguistico Akan, del quale fanno parte i Fanti e i quasi leggendari Ashanti), ma senza che questa differenza di origini determini rivalità e contrasti diffusi con gli altri gruppi, anche se in certi casi sembra esistere (sul punto si parlerà più avanti). Tra i gruppi numericamente maggiori il primo posto va agli Wolof, la cui lingua, assieme al francese (rimasta anche dopo l’epoca coloniale lingua ufficiale delle Amministrazioni e degli Uffici e parlata con una certa disinvoltura da gran parte dei Senegalesi, anche nella sua forma semplificata, il français tirailleur) è la più diffusa nel Senegal, dove risultano esserne parlate circa 35, ed è utilizzata dall’80% circa della sua popolazione, anche se i Wolof costituiscono solo il 36% della popolazione senegalese. Questo ultimo aspetto è abbastanza significativo perché anche se la maggioranza di senegalesi immigrati nel nostro territorio parla Wolof (ad esempio l’assoluta maggioranza dei venditori ambulanti parla quasi esclusivamente solo questa lingua) non significa necessariamente che tutti questi siano di tale etnia. Il nome sembra derivare dal regno Djolof fondato secondo la tradizione popolare da Ndiadiane Ndiaye nel XIV secolo circa. Tale gruppo etnico in epoche passate aveva pure una propria aristocrazia ed un sistema gerarchico di caste, diversamente ad esempio dalla minoranza Diola (o Dyoula-Fogny). “L’aspetto degli Wolof, alti, tendenzialmente magri e dai lineamenti fini, è lo stereotipo della bellezza nera, e tali erano considerati dai colonizzatori. E’ questo un altro elemento che contribuisce a rafforzare negli Wolof una certa arroganza, che tuttavia è unita ad una effettiva forza di volontà e intraprendenza” (da “Senegal” di Papa Saer Sako, 1998 Pendragon Ed.) I Sérère costituiscono la seconda etnia del Paese (20% della popolazione, apparteneva a questa etnia anche il “padre” e primo Presidente del moderno Senegal, Léopold Senghor), risultano rispetto agli Wolof più legati alle tradizioni della loro terra, e assieme alla minoranza dei Diola sono l’etnia che - 29 - maggiormente ha aderito al cristianesimo, praticato ora solo dal 2% della popolazione senegalese, che per il 92% è musulmana (sul punto v. avanti) e per il rimanente 6% è animista (fonte: numero 17-Ottobre 2001 di “Cittadini Dappertutto”, contenete un servizio e reportage speciale sulla comunità senegalese nel Triveneto). Oltre ad altri gruppi tra i quali Toucouleur (terzo gruppo, circa 13% della popolazione), Mandingo, Bassari, vanno ricordati i Peul, diffusi in un po’ tutta l’Africa occidentale (ad esempio Mali, Nigeria, Ghana) anche come Fulfudes-Pulaar o Foulbé, i quali nel Senegal hanno fama di stregoni e per questo vengono tenuti in considerazione e talvolta temuti dagli appartenenti alle altre etnie, ed infine i Sarakholé, di carnagione abbastanza chiara, noti per il loro altruismo e per essere particolarmente dinamici ed intraprendenti al punto da costituire forse il maggiore gruppo etnico senegalese emigrato in Francia e, probabilmente, in un secondo tempo, da questo Paese poi emigrato anche in Italia. Quelle della solidarietà e della laboriosità sono in effetti caratteristiche pressoché costanti in tutti i gruppi etnici senegalesi e senza dubbio particolari risorse sulle quali in buona parte gli stessi fondano le proprie speranze di un successo nella esperienza migratoria. La spontanea tendenza al cercarsi e riunirsi è in primo luogo dettata dal desiderio di avere maggiore sicurezza attraverso l’unità del gruppo e dalla funzione dello stesso di costituire per ciascuno che vi fa parte, e soprattutto per ‘i nuovi venuti’, un punto di riferimento ed un aiuto nel proseguire il giusto e corretto percorso di vita. “Gli emigranti creano poi associazioni che raggruppano ad esempio persone provenienti dallo stesso villaggio, per mantenere vive le tradizioni. Tale sistema è erede delle associazioni nate in Africa in seguito all’esodo dalle campagne alle città (quando il sottoscritto studiava a Dakar, ad esempio, faceva parte dell’Association des Resortissants de Kougheul). Lo scopo delle strutture era (ed é9 di offrire aiuto agli aderenti, permettendo, ad esempio, di raccogliere denaro quando è in serie difficoltà economiche un membro o muore un membro e serve pagare le spese di rimpatrio della salma”. (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye)Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg. La tendenza all’associazionismo, più che essere rappresentata dalla circostanza del non apparire i Senegalesi quasi mai da soli per le vie e piazze di una nostra città, e non solo come venditori ambulanti, è quindi determinata da fattori tradizionali ed abituali delle loro usanze ed organizzazioni comunitarie praticate già nel loro Paese e dal diffuso e caratteristico sistema organizzativo e religioso delle confraternite, specie quelle muridi, basate sulle strutture delle scuole - 30 - di misticismo religioso musulmano specificamente senegalese (principalmente Wolof) e di matrice dichiaratamente tollerante e pacifista, capaci pertanto di essere “esportate” senza pericoli ma anzi con alcuni vantaggi sul piano sociale ed economico, nei termini di controllo del corretto ed.onesto comportamento dei fedeli e di sostegno economico alle comunità e confraternite in Sénégal. Secondo i dati ufficiali, il 94% dei Senegalesi è mussulmano, il 5% cristiano, mentre solo l’1% segue ancora una delle religioni tradizionali. Nella realtà un profondo processo di sincretismo ha reso meno definiti i confini tra i credi rendendo quindi queste cifre solo relativamente affidabili. [….] Il risultato dell’intreccio di influenze fra Islam e culti tradizionali è che in definitiva, per esempio, i mussulmani portino pagine del Corano come gris-gris (talismani), mentre gli animasti portano gris-gris fatti di pagine di Corano, oppure che i futuri iniziati si radunino davanti alla moschea prima di incamminarsi verso il bosco sacro. [….] Di fatto l’Islam vissuto ed interpretato secondo la tradizione senegalese è diventato, insieme ai valori culturali dell’etnia wolof, elemento portante della società senegalese e la chiave per capire il comportamento sociale, politico ed economico degli individui, dei gruppi e delle istituzioni” ” (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli, 1994 Clupguide, Milano, pagg. 81-82) L’Islam infatti si è distinto in scuole teologiche e in culti che hanno spesso solo un valore locale. In Sénégal, per restare nello specifico, il sufismo, la scuola ascetico-mistica, ha potuto introdurre elementi estranei alle forme dell’Islam elementi estranei alle forme dell’Islam primitivo, come sono, ad esempio, i talismani”spirituali”, il culto dei santi morti o viventi, il riconoscimento della loro possibilità di compiere miracoli e quell’istituzione di carattere socio-religioso chiamata “confraternita” , “daara” o “dahira”. Le confraternite sono associazioni di correligionari legati da una visione mistica comune, da una pratica di lavoro comunitario e da un’organizzazione che prevede alla sommità un califfo, discendente dal fondatore della confraternita, assistito da una gerarchia di marabouts (o tra Wolof, Sérére e Toucouleurs chiamati anche Sérigne) sotto i quali sta la base dei fedeli Queste ultime riflessioni sono validissime anche per meglio conoscere la realtà delle organizzazioni comunitarie e di solidarietà degli immigrati senegalesi presenti nella Regione del Veneto. Le confraternite (oltre a quella Muridiyya sono tipiche ma non esclusive de Senegal anche quella Tijanyya e quella Qadiriyya o quella dei Laiéne composta quasi esclusivamente dai Lebou, considerati da alcuni un sottogruppo etnico degli Wolof; esistono anche correnti interne o sottoconfraternite come i Baye Fall e i Niassénes) sono gruppi di mussulmani che aderiscono agli insegnamenti di un loro principale maestro spirituale e si trovano sotto la guida di un “saggio” locale che provvede ad inserire nel tessuto organizzativo sociale sia interno che esterno gli aderenti, specie se immigrati arrivati da poco tempo, con una filosofia di mutua assistenza e sopportazione - 31 - equamente distribuita degli svantaggi ed inconvenienti che il destino presenta loro. “La partenza, prescrivono le regole tradizionali del mio Paese, deve rimanere un segreto fino a quando i riti propiziatori non sono stati compiuti e fino a quando i marabouts non danno il loro parere favorevole, consultando gli spiriti. I marabouts scelgono anche il giorno in cui va lasciato il villaggio. L’emigrante compie innumerevoli riti;: dare elemosine con lo scopo di allontanare i problemi che potrebbero sorgere durante il viaggio e durante la vita all’estero, purificare il proprio corpo con lavaggi particolari; portare talismani per proteggersi dal potere dei bianchi e per attirare su di sé la fortuna. (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye)Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg. 5960) L’emigrato senegalese che giunge in Italia ha dunque normalmente già dei riferimenti, è munito di una lista di nomi di persone che si occuperanno del suo inserimento, sia per l’alloggio sia per i primi contatti lavorativi. La rete di solidarietà, talvolta spiegata come un gesto puramente gratuito, nasce da motivazioni più profonde: a volte è il capo religioso che, non solo organizza il viaggio ma fornisce gli indirizzi e mette in contatto il partente con un altro suo discepolo già residente in Italia. Perché ci sia un impegno comune. “Caratteristica della confraternita muride è il forte accento posto sul lavoro come mezzo per progredire nella vita religiosa e sulla solidarietà (anche) economica fra i suoi membri. Forse è proprio questo che spiega l’intraprendenza commerciale di molti senegalesi che vivono nel Nordest” (da “Cittadini Dappertutto” nr. 17 – Ottobre 2001, p. 15). Tali aspetti, anche a seguito del continuo sviluppo della rete di contatti interni ed esterni, si sono peraltro diffusi come modello di filosofia di vita collettiva anche in gruppi di connazionali non appartenenti a dette confraternite, diventando uno stile di organizzazione generalmente adattato e adottato dalla maggioranza degli immigrati senegalesi nel Mondo. Il mantenere anche nel Paese ospitante alcune abitudini e regole sociali secolari, quali ad esempio la divisione di compiti e ruoli nel contesto di una convivenza domestica in gruppo, il rispetto dell’autorità, del ruolo o dell’anzianità nei rapporti, la celebrazione di festività e ricorrenze tradizionali, quale quella del Grand Magal, celebrazione di ricordo del fondatore della confraternita Muridiyya Cheick Ahmadou Bamba, o il Gamou della confraternita Tijanyya o alle ricorrenze civili come la festa dell’indipendenza (4 Aprile), sono in effetti pratiche che hanno resistito al colonialismo e alle influenze esterne e che oggi sopravvivono anche al variare del luogo di permanenza dei Senegalesi. D’altra parte, come peraltro è avvenuto in gran parte di Paesi del Sud del Mondo, altri aspetti della società hanno subito vistosi cambiamenti nel corso degli anni, anche - 32 - per merito delle emigrazioni, e tra essi i più significativi sono stati la struttura familiare, il rapporto tra i sessi, la lingua, il modo di passare il tempo libero. Tali legami a pratiche e convenzioni non priva gli immigrati senegalesi dello spirito di adattamento necessario al loro inserimento in realtà lavorative diverse per organizzazione e per rapporti interpersonali, proprio perché sanno che loro valori e punti di riferimento tradizionali non vengono completamente sacrificati o persi. BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO • Senegal - Collana “L’arca”, Edizioni Pendragon, 1999, Bologna. • J. Ki-Zerbo, “Storia dell’Africa nera”, 1977, Einaudi, Torino • L. S. Amselle, “Logiche meticce – Antropologia dell’identità in Africa e altrove”, 1999, BollatiBoringeri, Torino • M. Diouf, “Sénégal les Ethnies et la Nation”, 1994, L’Harmattan, Paris • M. Gueye -L. Gambi -F. Bonatesta, “I Wolof del Senegal”, 1995, L’Harmattan Italia, Torino • E. H. A. Ndiaye, “La cultura dell’amico che viene da lontano – saggio sull’immigrazione senegalese in Italia”, 2000, L’Harmattan Italia, Torino • Autori Vari, “Nato in Senegal immigrato in Italia”, 1994, Edizioni Ambiente, Milano • L. Perrone (a cura di), “Tra due mondi. Forme e grado di adattamento della comunità senegalese”, in ‘Sociologia urbana e rurale’ n. 64/65, 2001, FrancoAngeli, Milano • O.Schmidt di Friedberg, “Islam, solidarietà e lavoro. I muridi senegalesi in Italia”, 1994, Ed. Fondazione Agnelli, Torino • “Fatti urbani innovativi e nuove centralità - gli immigrati e la loro immagine della città di Venezia” Tesi di Laurea all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia elaborata da Mirko Marzadro, Anno Accademico 2002/2003 - 33 - Nigeria A colpo d'occhio • Nome completo del paese: Repubblica Federale della Nigeria Superficie: 923.768 kmq Popolazione: 137.253.133 abitanti (tasso di crescita demografica 2,5%) Capitale: Abuja (165.700 abitanti, 590.400 abitanti nell'area metropolitana) Popoli: 29% haussa e fulani, 21% yoruba, 18% ibo, 10% ijaw, 4% kanuri, 3,5% ibibio, 2,5% tiv; sono presenti 250 etnie Lingua: inglese (lingua ufficiale), haussa, yoruba, ibo, fulano Religione: 50% musulmana, 40% cristiana (cattolica tra gli ibo e protestante tra gli yoruba), 10% animista Ordinamento dello stato: repubblica federale • Presidente: Olusegun Obasanjo • • • • • • • - 34 - IL GIGANTE D’AFRICA IN GINOCCHIO Proposte da Camis Dagui: -appunti di Joseph Adediwura (Associazione Egbe Omo Yoruba) -Interviste con Osarò Ogbeide (pittore) -rivista Nigrizia; -inediti, reportages: Giornalista jean Léonard Touadi; INTRODUZIONE Nigeria (nome ufficiale Federal Republic of Nigeria; Repubblica Federale di Nigeria), stato dell'Africa occidentale, delimitato a nord dal Niger, a est dal Ciad e dal Camerun, a sud dal golfo di Guinea e a ovest dal Benin. Il paese ha una superficie complessiva di 923.768 km² e un’estensione costiera di 853 km. Il nome deriva da quello del suo fiume principale, il Niger. La capitale è Abuja, mentre Lagos è la maggiore città. Composta inizialmente da un insieme di regni e di stati basati sulle diverse etnie, l'area dell'attuale Nigeria passò sotto il dominio britannico nel 1906, e divenne stato indipendente, membro del Commonwealth britannico, il 1° ottobre 1960. In seguito a un periodo di tensioni tra i diversi gruppi etnici, specialmente gli yoruba del sud-ovest, gli ibo del sud-est, gli hausa e i fulani (o fulbe) del nord, la Nigeria è stata sottoposta a un governo militare dal 1966 al 1979, cui ha fatto seguito un breve periodo di governo civile (1979-1983), destituito da un colpo di stato militare. Tra il 1967 e il 1970 gli ibo cercarono, senza successo, di staccarsi dalla Nigeria costituendo la Repubblica del Biafra. La Nigeria rivendica la penisola di Bakassi, occupata dal Camerun e situata nel golfo di Guinea, in corrispondenza del confine tra i due paesi. TERRITORIO La Nigeria, formata da un altopiano attraversato dai fiumi Niger e Benue, è costituita da quattro regioni fisiche. Lungo la costa il paesaggio è caratterizzato da foreste di mangrovie e da paludi, che si estendono per alcuni chilometri nell'entroterra; nella regione del delta del Niger la fascia costiera raggiunge un'ampiezza di circa 100 km. Dalla costa penetrano verso l'interno le valli del Niger e del - 35 - Benue, lungo le quali alle pianure succede un'ampia zona collinare, boscosa, che gradualmente si innalza a formare gli altipiani rocciosi di Jos e di Bauchi. Oltre gli altipiani si stende la savana, una vasta pianura costellata da affioramenti granitici, che arriva fino alle zone semidesertiche del Sahel, nell'estremo nord, e che costituisce la principale area agricola del paese. A est, al confine con il Camerun, è situato il massiccio dell'Adamaoua (o Adamawa), ove si innalza il Dimlang (o Vogel Peak), la cima più elevata del paese (2.042 m). CLIMA In Nigeria si distinguono due zone climatiche: lungo la costa, la massa d'aria equatoriale marittima determina un clima caratterizzato da forte umidità e piogge persistenti; al nord la massa d'aria tropicale continentale, proveniente dal Sahara, porta venti secchi e carichi di sabbia (come l'harmattan); la temperatura e le piogge variano in modo considerevole secondo la stagione. La massima piovosità, concentrata soprattutto a sud del paese, si riscontra nei mesi che vanno da aprile a ottobre; la media delle precipitazioni va dai 2.497 mm di Port Harcourt, sul delta del Niger, agli 869 mm di Kano, nel nord del paese. POPOLAZIONE Con più di 250 gruppi etnici, la Nigeria costituisce un complesso mosaico linguistico, sociale e culturale. Più della metà della popolazione è formata dai gruppi degli hausa e dei fulani a nord, degli yoruba a sud-ovest e degli ibo nel sud-est. Tra gli altri gruppi etnici presenti nel paese si ricordano gli edo, gli ijaw e gli ibibio nel sud, i nupe e i tiv nella zona centrale del paese, e i kanuri nel nord-est. Sebbene la Nigeria sia riconosciuta come la nazione africana più popolosa, il numero esatto e la distribuzione dei suoi abitanti hanno costituito argomento di grandi controversie politiche all'interno del paese. Nel 2004 il paese contava 137.253.130 abitanti (di cui il 46% residente in aree urbane), con una densità media di 151 unità per km². LINGUA E RELIGIONE La lingua ufficiale è l'inglese. L'hausa, una lingua franca dell'Africa occidentale, è quella più largamente usata, soprattutto nel nord; sono diffuse anche le lingue yoruba, ibo, kanuri e tiv . - 36 - Circa il 48% degli abitanti segue la religione musulmana e vive nelle aree degli hausa, dei fulani e dei kanuri nel nord del paese. Tra i cristiani, circa il 34% della popolazione, i cattolici sono concentrati nel sud-est, mentre i metodisti e altri gruppi hanno un forte seguito sia nel sud-est che nel sud-ovest. ISTRUZIONE E CULTURA Entro i confini della moderna Nigeria sopravvivono alcune delle più antiche tradizioni culturali e artistiche dell'Africa occidentale, su cui si sono innestate, nel periodo coloniale, influenze europee. Il rinvenimento delle sculture in terracotta degli artisti Nok (500 a.C.) e dei magnifici bronzi del Benin (XIV-XV secolo) ha permesso di conoscerne e apprezzarne la ricchezza. Nel periodo postcoloniale le moderne tendenze artistiche, letterarie e cinematografiche hanno arricchito il patrimonio culturale tradizionale, in concomitanza con il tentativo di modernizzazione del paese, avviato dal governo federale, utilizzando gli introiti della vendita del petrolio grezzo per finanziare un sistema educativo di tipo occidentale. La letteratura orale tradizionale ha significativamente influenzato famosi scrittori nigeriani del XX secolo come Amos Tutuola, il premio Nobel, Wole Soyinka, Chinua Achebe e, più recentemente, Ben Okri. Fin dal 1830 i missionari introdussero un sistema educativo di tipo occidentale, che non riuscì tuttavia a soppiantare completamente le tradizionali scuole coraniche, presenti soprattutto a nord. Nonostante nel 1976 siano state istituite scuole elementari gratuite, le strutture scolastiche sono ancora insufficienti e il tasso di alfabetizzazione raggiunge l’69,4%. Secondo il nuovo piano di educazione, introdotto nel 1982, la scuola elementare (ufficialmente obbligatoria) ha una durata di sei anni, mentre la scuola secondaria è organizzata in due cicli di tre anni ciascuno. Istituti di istruzione superiore di tipo occidentale sono stati creati in tutto il paese fin dal 1948, anno di fondazione dell'Università di Ibadan. Tra le istituzioni culturali più importanti si citano il Museo nazionale di Lagos, che ospita una ricca collezione di oggetti artistici di tutte le epoche, la Biblioteca nazionale della Nigeria, sempre a Lagos, e l'Archivio nazionale di Ibadan. DIVISIONI AMMINISTRATIVE E CITTA’ PRINCIPALI 7-Il paese è suddiviso in trentasei stati federati oltre al Territorio della capitale federale (Federal Capital Territory). Lagos è la più grande città della Nigeria, il maggiore centro commerciale e il - 37 - principale porto del paese. Nel dicembre del 1991 la capitale federale venne trasferita da Lagos ad Abuja, nella zona centrale del paese. Altri centri urbani di rilievo sono Ibadan, Aba, Abeokuta, AdoEkiti, Ede, Enugu, Ife, Ila, Ilesha, Ilorin, Iwo, Kaduna, Kano, Maiduguri, Mushin, Ogbomosho, Onitsha, Oshogbo, Port Harcourt e Zaria. ECONOMIA 8-La Nigeria è un paese tradizionalmente agricolo, fino all’indipendenza in grado di soddisfare il fabbisogno alimentare interno e di esportare una discreta varietà di prodotti come olio di palma, cacao, caucciù e arachidi. Dagli anni Settanta l’economia del paese dipende principalmente dal petrolio, le cui esportazioni rappresentano la gran parte del prodotto interno lordo. Paradossalmente, gli idrocarburi costituiscono la prima voce sia delle esportazioni che delle importazioni, perché la carenza di impianti di raffinazione costringe il paese a importare benzina. Dopo il crollo del prezzo del greggio negli anni Ottanta, il governo ha cercato di sviluppare il comparto industriale, riuscendovi però solo in parte. Attività secondarie per l'economia del paese sono invece lo sfruttamento delle risorse forestali e la pesca, essenzialmente di tipo lacustre e fluviale. La drastica diminuzione delle entrate provenienti dal petrolio, insieme al rapido aumento della popolazione, hanno portato a un vistoso calo del PIL pro capite, passato dai 520 dollari USA della metà degli anni Ottanta ai 270 dollari del 1988. Nel 2002 il PIL del paese ammontava a 43.540 milioni di dollari USA, pari a un PIL pro capite di 330 dollari. AGRICOLTURA E ALLEVAMENTO L'agricoltura rappresenta circa un terzo del PIL e occupa la metà circa della popolazione attiva nigeriana. In massima parte è ancora un'attività di pura sussistenza, incentrata su piccole aziende a conduzione familiare. Nelle regioni del nord si coltivano principalmente sorgo, riso, arachidi, cotone e miglio e si allevano bovini, mentre il sud produce perlopiù granturco, patate dolci, palme da olio e cacao. L'allevamento di animali da cortile, ovini e caprini è diffuso in tutto il territorio, così come le coltivazioni di manioca, legumi, pomodori e soprattutto canna da zucchero e banane. Nel 2002 il comparto agricolo ha fornito il 37,4% del PIL del paese. RISORSE ENERGETICHE E MINERARIE Grandi giacimenti di petrolio e di gas naturale (destinato a uso interno per alimentare le centrali - 38 - elettriche, che soddisfano il 61,94% del fabbisogno energetico del paese) sono situati sul delta del fiume Niger e in mare aperto, nelle antistanti baie di Benin e Bonny, nel golfo di Guinea. Per quanto riguarda il greggio, che viene estratto dalle principali compagnie petrolifere internazionali in associazione con la compagnia di Stato NNPC (Nigerian National Petroleum Corporation), la Nigeria si colloca, con 2.261.156 barili al giorno (2001) tra i maggiori produttori mondiali. Il paese dispone inoltre di consistenti giacimenti di carbone, piombo e zinco e di modesti depositi di oro e uranio. Nella regione della savana vengono inoltre estratte piccole quantità di calcare, sale, lignite e minerali ferrosi, mentre nell'area dell'altopiano di Jos si trovano stagno e columbite. INDUSTRIA Dislocate in varie regioni del paese vi sono piccole industrie a conduzione familiare, la cui attività è basata soprattutto sulla lavorazione artigianale di ceramica, legno, tessuti, pellami, materiale da costruzione, granaglie e bevande. Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta il governo nigeriano avviò un programma di sviluppo industriale, che ha determinato la nascita di un’industria piuttosto diversificata: assemblaggio di motori automobilistici, raffinazione del greggio, lavorazione dell’alluminio e del legno, produzione di carta. Vi sono inoltre industrie siderurgiche, agroalimentari, tessili, chimiche e farmaceutiche. Il comparto industriale ha fornito, nel 2002, il 28,8% del PIL, impiegando il 7% della forza lavoro. COMMERCIO E FINANZA La moneta corrente è il naira, suddiviso in 100 kobo. La valuta e le attività bancarie sono controllate dalla Banca Centrale di Nigeria (fondata nel 1958). Il mercato interno della Nigeria è incentrato sulla vendita di generi alimentari e di beni di consumo, mentre le esportazioni si basano, per il 99,6%, sulla vendita del greggio. Vengono prevalentemente importati veicoli a motore e pezzi di ricambio, macchinari, prodotti industriali di base e generi alimentari. I principali partner commerciali sono Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Canada, Giappone. Nonostante la ricchezza prodotta dalla massiccia esportazione del petrolio, il paese è gravato da un elevatissimo debito pubblico, in continua ascesa. - 39 - ORDINAMENTO DELLO STATO La Nigeria è diventata indipendente, dopo un lungo periodo di colonizzazione, il 1° ottobre 1960. Da allora la sua vita politica è stata caratterizzata, oltre che dai continui interventi militari, dalle rivalità etnico-religiose tra il nord musulmano a maggioranza hausa e dai fulani, e il sud cristiano a maggioranza yoruba e ibo. Secondo la nuova Costituzione adottata nel 1999, la Nigeria è uno stato democratico e federale. Il paese è membro delle Nazioni Unite, dell'Unione africana, dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), della Comunità economica degli stati dell'Africa occidentale e di altre associazioni internazionali. POTERE ESECUTIVO Il capo dello stato, eletto a suffragio universale ogni quattro anni, è anche capo del governo e nomina il consiglio dei ministri; può restare in carica per due mandati consecutivi. POTERE LEGISLATIVO Il sistema legislativo è basato su un'Assemblea nazionale bicamerale, che consiste di un Senato di 109 membri (tre per ogni stato, eletti per quattro anni a suffragio universale) e di una Camera dei rappresentanti di 360 membri (eletti a loro volta a suffragio universale per un periodo di quattro anni). POTERE GIUDIZIARIO Il sistema giudiziario nigeriano si basa principalmente sulla Common Law britannica. Il tribunale di più alto grado è la Corte suprema federale, composta da un giudice di grado superiore e da altri quindici membri designati dal capo di stato. Di rango inferiore sono la Corte d'appello federale e le corti di ogni singolo stato. In alcuni stati della federazione vigono la shariah, la legge islamica e il diritto consuetudinario tribale. ISTITUZIONI PERIFERICHE Il paese è attualmente diviso in 36 stati più il distretto della capitale, ognuno dei quali dispone di un proprio Parlamento. - 40 - L'INDIPENDENZA Dopo la seconda guerra mondiale, anche la Nigeria, come il resto del continente africano, vide lo sviluppo del movimento anticolonialista, caratterizzato da forti demarcazioni etniche al suo interno. Nel nord del paese, tra gli hausa e i fulani, emerse il Congresso del popolo (NPC) del Nord di Ahmadou Bello; nel sudest, tra gli ibo, si affermò la Convenzione nazionale dei cittadini nigeriani (NCNC) di Nnamdi Azikiwe; tra gli yoruba del sudovest, infine, si affermò il Gruppo d’azione (AG) di Obafemi Awolowo. A causa di queste divisioni, fomentate peraltro dalla Gran Bretagna, il mondo politico nigeriano fu a lungo incerto se assegnare al nuovo stato una struttura federale, con forti istituzioni centrali, oppure una più duttile organizzazione confederale. Una prima Costituzione, concessa dalla Gran Bretagna nel 1947, istituì delle assemblee provinciali e dei governi scarsamente rappresentativi degli interessi della popolazione nera. Nel 1954 venne creata un’amministrazione federale, raccogliendo le provincie in tre regioni (Est, Ovest e Nord) dotate di una certa autonomia, seppur dipendenti da regole poste a protezione della federazione. Il 1° ottobre 1960 la Nigeria divenne stato indipendente nell'ambito del Commonwealth britannico e il 7 ottobre membro delle Nazioni Unite. Come primo ministro fu eletto Abubakar Tafawa Balewa, a capo di una coalizione governativa che rappresentava i principali partiti delle regioni settentrionale e orientale. Nnamdi Azikiwe diventò prima governatore generale e poi, il 1° ottobre 1963, quando fu adottata la repubblica, presidente del paese. Nel 1961, in seguito a referendum, la sezione settentrionale dell'ex Camerun britannico entrò a far parte della Nigeria, mentre i territori bamileke si riunirono al Camerun. IL GOVERNO CIVILE La Nigeria conobbe quindi alcuni anni di crescita economica, sostenuta dai crescenti profitti della vendita del petrolio, di cui il paese divenne il quinto produttore mondiale. Non cessò invece l'instabilità politica; Gowon fu rovesciato nel 1975 e l’anno successivo un nuovo colpo di stato portò al potere il generale Olusegun Obasanjo. Obasanjo si impegnò a ridare al paese un governo civile. Nel 1978 fu varata una nuova Costituzione e nel 1979 si svolsero le elezioni, in seguito alle quali Alhaji Shehu Shagari del Partito nazionale nigeriano, basato nel nord del paese, fu eletto alla presidenza. Il governo di Shagari avviò ambiziosi programmi di sviluppo e tentò di impostare una nuova politica agricola che permettesse al paese di attenuare la crescente dipendenza dalle importazioni di - 41 - prodotti alimentari. La crisi petrolifera dei primi anni Ottanta vanificò tuttavia gran parte di questi sforzi. Il calo dei proventi del petrolio, la cattiva gestione amministrativa e la corruzione dilagante condussero il paese a una grave recessione economica. Nel 1983, circa un milione di immigrati, principalmente ghanesi, vennero brutalmente accompagnati alle frontiere. Tra le popolazioni del nord musulmano, le più povere del paese, il malcontento causò la comparsa di sette fondamentaliste e lo scoppio di violente rivolte (Kano nel 1980, Yola nel 1984 e Gombe nel 1985), che furono represse nel sangue dall’esercito. Nell'agosto 1983 Shagari venne rieletto alla presidenza, ma a dicembre venne deposto da un colpo di stato guidato dal generale Muhammad Buhari. BREVE PRESENTAZIONE STORICA La Nigeria insieme con Zaire e Sud Africa sono i tre giganti sub-sahariani. Alcuni studiosi di cose africane pensano che lo sviluppo dell'Africa sub-sahariana avverrà un po’ come una specie di sviluppo a tenaglia che partirà per quanto riguarda l'Africa australe dal Sud Africa; riguardo al centro dal Congo-Democratico (ex Zaire), e per quanto riguarda la parte occidentale dalla Nigeria L’attualità politica di questi ultimi mesi ci dimostra, in effetti, sono i tre paesi che hanno racchiuso in questo momento i più grandi problemi di tutta l'Africa: quello economico con la presenza nel loro suolo e sottosuolo d’immense ricchezze sfruttate dalle multinazionali con la complicità dell’élite al potere senza e senza ricaduta benefica sulle popolazioni che ne subiscono i danni ambientali; quello della convivenza tra comunità diverse (etnie e culture differenti per la Nigeria e il Congo, diverse comunità razziali per il Sudafrica); quello di trovare una loro posizione geopolitica all'interno dei nuovi equilibri che si stanno delineando alla fine del sistema bipolare, dopo l'abbattimento del muro di Berlino. Sudafrica, Congo, Nigeria, come specchi dei problemi, delle difficoltà ma anche delle speranze di questo continente africano che si affaccia al terzo millennio. Le difficoltà attuali e le enormi problemi affrontati da questi paesi spingono alcuni osservatori a disegnare scenari catastrofici per il futuro dell’Africa. Occorre, anche qui, andare fino in fondo e compiere un’analisi più approfondita. Occorre, in altre parole, passare dalla contemplazione acritica di certe fotografie che su questi paesi girano in Europa all’osservazione delle correnti profonde e della radiografica dell'Africa che una volta fatta evidenzia certo delle zone d'ombra, di negatività, di sofferenze ma anche dei motivi di speranza, di luce che bisogna rilevare soprattutto per chi intende svolgere un’attenzione operativa verso quei paesi. - 42 - La Nigeria dal punto di vista politico sin dal momento della sua indipendenza è stata una colonia britannica e ha conseguito la sua indipendenza nel '60 insieme a tutti gli altri paesi del continente africano sia di colonizzazione francese sia di colonizzazione inglese. La Nigeria insieme con la Gold Cost, diventata Ghana poi al momento dell'indipendenza, è state due colonie britanniche in questa fascia dell'Africa occidentale quasi interamente francofona. La Nigeria insieme con il Ghana, ma insieme anche a Sierra Leone e Liberia, sono le uniche isole anglofone di quella zona. Dalla sua indipendenza all'inizio degli anni 60, la Nigeria è quasi subito entrata in una fase di gran turbolenza. Questo crogiolo di popoli, di nazioni, di realtà diverse tenute insieme in qualche modo dall'impero britannico, al momento dell'indipendenza si vide sparire il cemento unitario della lotta anticoloniale che aveva quantomeno livellato le differenze. Nel momento invece in cui il nemico storico non c'è più, scoppiano le contraddizioni, le divergenze. Si parla addirittura di più di 250 etnie all'interno di questo paese. I grandi gruppi però in qualche modo sono quelli al nord, gli hausà che alcuni dicono siano i discendenti dei conquistatori che sono venuti quindi dall'ex Regno del Sudan, quindi dalla zona del Mali del Senegal. Questi si sono insediati nel nord della Nigeria, e soprattutto verso il 19' secolo grazie all'Islam si sono insediati in quelle zone, quindi rappresenta il primo gran gruppo diciamo della Nigeria. Nella parte sud-ovest, invece, abbiamo l'etnia degli Yoruba molto interessante e molto numerosa; è un gruppo molto attivo con una cultura molto brillante dal passato e anche se volete mitico questo popolo degli Yoruba è una etnia di vecchie tradizioni. Se un giorno avrete la curiosità di conoscere la Nigeria, v’imbatterete sicuramente in tutta una letteratura orale ed anche scritta di gente molto brillante, parlo di Ben-Okri ma potrei citarne altri. “La via della fame”(di Ben-Okri) e altri libri ancora, che vi restituiscono proprio la bellezza, la complessità ma anche se volete il carattere luminoso di questa cultura Yoruba. Abbiamo poi nel sud-est l'etnia degli Ibos che sono definiti come cristiani, in realtà sono anche loro molto radicati in una tradizione culturale africana molto ricca. L’anima di questa tradizione sono i culti animisti che informano profondamente le modalità della vita dove rito e culto si mescolano ai gesti più semplici e banali della vita. Questo radicamento della cultura di cui parleremo più avanti è una delle cose molto importanti della Nigeria. E' infatti un popolo molto attaccato al suo patrimonio culturale e nello stesso tempo aperto - 43 - a una specie di modernità con dei problemi che spero riuscirò a farvi capire. Questi tre grandi gruppi nella loro compattezza sono poi affiancati verso il delta del Niger cioè nella parte sud del paese, da centinaia di piccole etnie minoritarie tra cui gli Ogoni che sono venuti alla ribalta nell'occasione purtroppo dell'uccisione del leader Ogoni Ken- Saro Wiwa nel 1993 insieme a otto suoi amici che lottavano proprio per i diritti del popolo ogoni, in una zona molto bella e molto ricca, devastata dalle compagnie petrolifere, dalla Shell, dalla Elf ma anche dalla nostra brava Agip. E' quindi un popolo dal punto di vista etnico-culturale molto variegato, molto ricco, veramente un micro cosmo dentro il quale bisognerebbe entrare. La letteratura nigeriana può così rappresentare una chiave molto interessante per entrare all'interno di questa ricchissima, interessantissima e avvolgente, se volete, cultura antica sia quella del nord, sia quella degli Yoruba sia quella degli Ibos. Quest’ultimi hanno lasciato delle tracce molto profonde nella storia contemporanea della Nigeria a causa della secessione del Biafra che è scoppiata nel 1967. I più anziani tra voi ricorderanno bene questo periodo, i più giovani invece che erano nei banchi di scuola ricorderanno le collette che si facevano all'epoca per mandare degli aiuti nel Biafra devastato della guerra civile. Questa guerra civile scoppiata proprio nel 66, quando nell'interminabile ciclo dei colpi di stato che hanno caratterizzano un Po la situazione politica in Nigeria. Nel '66 il governo venne rovesciato dai militari e proprio in quell'anno il colonnello Ojukwu proclama la secessione del Biafra, anche qui con lo zampino delle potenze occidentali, delle multinazionali del petrolio, interessate ad approfittare dalla confusione secondo la vecchia e mai tramontata politica del dividere per regnare. Pensavano di giocare questa carta della divisione della Nigeria per impadronirsi delle immense ricchezze di questo paese che ricordo fa parte uno dei rari paesi africani membro della potente organizzazione dei paesi produttori del petrolio perché proprio in questo paese il petrolio sgorga a fiumi. Sono migliaia e migliaia di barili che dal suolo nigeriano vengono estratti e questo paradossalmente è la fortuna e la sfortuna di questo paese. Ricordo un titolo di un economista africano degli anni '60 - '70 Albert Tévodjéré, che diceva “la povertà è la ricchezza dei popoli”, nel caso della Nigeria la sua ricchezza in qualche modo è stata anche all'origine di tutti i suoi guai. Vi do alcuni dati velocissimi per darvi un idea di che cosa sia questo gigante: “115 milioni di persone nell’anno 1998” su una superficie tre volte l'Italia, si dice che un africano su quattro è nigeriano per cui potete capire anche l'interesse che tutta l'Africa rivolge verso questo paese perché i fallimenti e i successi della Nigeria non mancano mai di avere dei riflessi non solo sulla regione dove la Nigeria è collocata ma anche in generale sull'andamento dell'Africa. Sul ruolo geopolitico e strategico della Nigeria spero di accennare nella parte finale di questa mia - 44 - piccola presentazione, nonostante questa immensa ricchezza che prima degli anni '60 l'economia era basata soprattutto sui prodotti agricoli come cacao e arachide, successivamente invece la Nigeria ha cominciato a produrre petrolio. Il petrolio come in tutti gli altri paesi africani ha sostituito tutti gli altri prodotti dell'agricoltura. Nonostante questa ricchezza il prodotto lordo pro capite rimane comunque abbastanza basso cioè 370 dollari. Anche qui le cifre vanno manipolate con delicatezza e come il famoso pollo per cui, secondo le statistiche, tutti hanno mangiato mezzo pollo invece c'è chi ha mangiato due cosce di pollo e chi ne ha mangiato solo le magre zampe. Proprio perché paese produttore di petrolio quindi con tanta valuta estera che entrava in questo paese, negli anni in cui tutti prestavano soldi all'Africa, ai paesi più ricchi dell'Africa è stato prestato anche tanto, per cui il debito estero della Nigeria in questo momento supera i 30 miliardi di dollari. Ora non ho fatto il conto, però se facciamo il conto arriviamo alla fine ad un debito che pesa proprio come un macigno sulle spalle di ognuno degli abitanti incolpevoli. Per quanto riguarda lo sviluppo economico del paese, proprio a causa del debito che abbiamo evocato, con la politica del fondo monetario internazionale e della banca mondiale, tutto quello che può entrare in Nigeria come valuta estera, ritorna nelle banche occidentali sotto forma di pagamento degli interessi derivati da questo debito. E’ quindi una spirale infernale, che non permette a questo paese di sviluppare le sue infrastrutture sociali, quelle scolastiche e quelle in generale stradali e ferroviarie. Tutte quelle leve, insomma, che insieme alla risorsa umana e la risorsa infrastrutturale fanno lo sviluppo di un paese. Si calcola che, seguendo i dati della banca mondiale, 34 milioni di nigeriani ossia un terzo di essi vivono in condizioni economiche definite precarie. Anche qui si usa un eufemismo perché anche quando si va a guardare la realtà delle singole persone, delle singole famiglie questa supera a volte supera l'indecenza di queste cifre; la realtà è molto peggiore e ciò non può che sbalordire e scandalizzare di fronte alla grandissima ricchezza nominale di questo paese. Proprio grazie ai proventi del petrolio la Nigeria ha investito molto, nei primi anni d’indipendenza in infrastrutture scolastiche, in ospedali, in trasporti pubblici, in rete idriche per approvvigionare d'acqua potabile le popolazioni. Da un po' di tempo a questa parte e più precisamente dal 1980 questi investimenti per le infrastrutture sociali hanno segnato il passo, un po' per il crollo delle quotazioni di greggio in rapida ascesa dopo lo shock petrolifero e successivamente crollate e dall’allora in cronica instabilità; ma soprattutto a causa anche di una politica economica dissennata, della corruzione endemica di - 45 - questo sistema, di una classe dirigente che a tutto pensa e ha pensato, tranne che a sviluppare questo paese. Questi gruppi di potere formati dai militari e anche dai grandi gruppi industriali e commerciali in collaborazione stretta, hanno saccheggiato questo paese dalle enormi potenzialità di sviluppo. Quindi quando poi si parla di problemi di instabilità politica, di democrazia in qualche modo che non avanza, le ragioni sono nelle complessità interna del paese, nella difficile articolazione degli interessi degli uni e degli altri. I problemi però vanno anche ricercati nei poderosi interessi delle multinazionali occidentali in questo paese, per cui le pressioni, per esempio economiche, di tutta la comunità internazionale per far sì che il regime totalitario di Sani Abacha possa subire delle pressioni economiche, sono rimaste inapplicate. Quanto meno per quanto riguarda i proventi del petrolio non hanno mai dato esito positivo anche nel periodo più difficile e repressivo del regime. Quando poi sono stati assassinati questi militanti Ogoni nell'indignazione della comunità internazionale dell’ONU e di tutte le cancellerie occidentali, davanti all'interesse petrolifero tutti si sono fermati. Il petrolio l'hanno ricominciato a pompare più che mai, con ritmi sempre più sfrenati di prima perché comunque 'business is business'. Queste parole non sono mie, sono del premio Nobel della letteratura, che durante un intervista che mi ha rilasciato per conto della rivista mensile Nigrizia dichiarava questo. “Nel paese, ha spiegato Wole Soyinka, mancano le condizioni minime per una vita dignitosa, servizi sociali, scolastici, sanitari e sono all'ordine del giorno carcerazioni arbitrarie, torture, uccisioni extra giudiziarie e sparizioni. La giunta militare di Sani Abacha, l’ex dittatore morto a giugno del 1998, aveva sistematicamente eliminato ogni spazio di vita democratica, ogni spazio libero, ogni libertà di stampa, ogni minimo rispetto dei diritti umani in questo paese. La sua scomparsa del Generale Sani Abacha e la sua sostituzione con un altro militare cosiddetto moderato ha riaperto le speranze di aprire una nuova fase di democratizzazione e di riconciliazione dell’organizzazione politico e sociale del paese. La liberazione di numerosi detenuti per motivi d’opinione e la ritrovata libertà d’azione dei partiti politici e delle associazioni dei diritti umani sono segnali incoraggianti. Un calendario elettorale è stato annunciato dal generale che ha promesso solennemente il ritorno del gigante d’Africa alla democrazia con il potere riconsegnato ai civili in seguito a consultazioni elettorali trasparenti e controllate dalla Comunità internazionale. Resta la resistenza della giunta militare per un periodo di transizione che dovrebbe aprire spazi di dialogo con l’opposizione politica e con la società civile che ha aspramente combattuto, spesso a rischio - 46 - della vita, contro al feroce dittatura di Sani Abacha. Nel frattempo, l’apertura di credito garantito al nuovo uomo forte d’Abuja, la capitale della Nigeria, ha permesso al paese di riconquistare il suo posto di rilievo nello scacchiere diplomatico africano e mondiale. Sarebbe auspicabile dosare questo ritorno ai progressi compiuti nel ristabilimento di strutture politiche democratiche e rispettose dei diritti della persona. Dal punto di vista internazionale e politico, gli Stati Uniti che prima erano molto severi con la Nigeria hanno capito che tutto sommato nonostante le condanne teoriche nessuno ha pensato di esercitare vere e proprie pressioni su questo potere perché comunque si pensa che è un elemento di stabilità. Molto strano però è questo, nella regione la Nigeria è una potenza, è l'unica potenza che può militarmente organizzare un esercito e mandarla il Liberia o in Sierra Leone, per ristabilire le condizioni 'di pace' e ristabilire la democrazia. Paradossalmente colui che negava al suo popolo i diritti umani, la libertà, la democrazia era paradossalmente colui che si faceva paladino della difesa degli stessi diritti di democrazia nei paesi vicini. Il caso recente è quello della Sierra Leone, dove con l'appoggio determinante dell'esercito nigeriano il presidente democraticamente eletto che era stato spodestato è tornato al potere, quindi gli Stati Uniti sono passati da un atteggiamento molto fermo sui diritti umani a un atteggiamento che loro considerano di impegno costruttivo. Cosa vuol dire impegno costruttivo? Bisogna chiederlo al presidente degli Stati uniti e alla sua amministrazione. A questa domanda però Bill Clinton e tutte le multinazionali non hanno ancora risposto L'opposizione nigeriana comunque nonostante queste condizioni difficili nelle quali opera, continua a essere molto attiva nel chiedere la democratizzazione del paese e quindi c'è tutto un movimento di opposizione organizzato all'estero che porta avanti questo discorso di pressioni sulla comunità internazionale e sui decisori politici per indurre questo paese a ritornare a una dialettica democratica a una maggiore trasparenza nella gestione delle ricchezze e nella gestione del potere e così via dicendo. Segnalo qui l'opera importante anche di Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura che vive, in esilio e che ha rischiato la vita. Vive negli Stati Uniti ma instancabilmente direi ore dopo ore sta lottando per ristabilire nel suo paese condizioni di dignità democratica, di una dignità civile per tutti. La Nigeria non fa eccezione rispetto agli altri paesi africani, c'è questa vistosa e anche drammatica polarizzazione sociale tra i pochissimi che usufruiscono delle ricchezze per cui vivono a un ritmo che è 10, 15, 20 volte dal punto di vista economico e sociale più elevato della stragrande - 47 - maggioranza della popolazione e se volete le contraddizioni che trovate nelle città tra le immense ricchezze, macchine, infrastrutture radio satellitari, tutti i gadget del benessere moderno e invece la stragrande maggioranza deve fare i conti con la sopravvivenza non dico mese dopo mese ma quasi giorno dopo giorno. Queste vistosissime contraddizioni che sono palesi in tutti i paesi, in Nigeria proprio per il suo carattere di paese sterminato dal punto di vista territoriale con una popolazione molto grande assume delle dimensioni che nessun cronista, anche il più scrupoloso potrà mai raccontare. Condizioni di vita infra-umane che gridano vendetta davanti a tutto: sul piano morale per i beni della terra appartengono a tutti i cittadini e andrebbero condivisi equamente; dal punto di vista politico perché un’infima minoranza ha confiscato la “res pubblica” a beneficio esclusivo dei loro interessi particolari senza la possibilità di nessun controllo e di nessuna sanzione; dal punto di vista delle “logiche” che guidano i processi economici escludendo dall’economia la stragrande maggioranza della popolazione promuovendo attività che servono interessi eterogenei Sul piano culturale invece si potrebbe dire che la Nigeria è proprio come dicevo all'inizio uno specchio d'Africa, nel senso che proprio 250 etnie dalle grandi tradizioni molto ancestrali e molto radicate e se volete anche vissute con un certo orgoglio. La Nigeria quindi esprime più di ogni altro paese africano questa doppia appartenenza; da un lato un forte radicamento nella tradizione che si esprime nelle lingue, nella mitologia, nella letteratura e nell'apertura a una modernità che potrei chiamare ambigua, assunta in modo acritico a volte, anche nei suoi aspetti più deleteri e se volete consumistici. Spesso il modello al quale guarda molto la Nigeria non è più tanto l'Inghilterra, ma è singolare come camminando per le strade di Lagos, d’Abusha i giovani tra i 15 e i 20 anni in qualche modo assomigliano ai giovani che s’incontrano a Brooklyn, a San Francisco e a Harlem. E' veramente impressionante. Ciò significa semplicemente che grazie ai mezzi di comunicazione, alla televisione e alle sue antenne paraboliche in qualche modo il modello verso il quale questi giovani guardano è il modello americano. Il peggiore, se volete, poi del modello americano, della “Coca Cola way of life” rendendo irreversibile la contaminazione di quel fenomeno che alcuni sociologi chiamano la macdonalizzazione del mondo. La crescente macdonalizzazione del mondo ha raggiunto e raggiunge pezzi sempre più consistente d’Africa. Si tratta di una colonizzazione senza armi letali ma che colpisce in profondità perché aggredisce la cultura, l’anima di un popolo. Se qualcuno ha dei dubbi su queste cose potrebbe andare a vedere i “Torino Boys”, un cortometraggio realizzato da alcuni registi italiani che vi offre allo spettatore in modo immediato e se volete drammatico il tessuto di aspirazioni, di illusioni traditi, di sogni rubati, e di valori traviati - 48 - che nutre questa gioventù dell’estrema periferia delle città africane. Tutto quanto, poi, all'interno di una tradizione mai morta, anzi molto viva soprattutto nelle campagne abbandonate dai giovani sedotti dal miraggio strangolatore delle città. Siccome non abbiamo tempo per quelli che sono interessati un pò a cogliere in un'opera solo quello che è, questa ambivalenza culturale della Nigera, lo invito ad andare a leggere il libro di Wole Soyinka ,“Gli Interpreti”, che secondo me più di ogni altro libro dà la misura di questa divaricazione, di questa continua ricerca, di questa identità doppia, sofferta, lacerata. Tra una tradizione mai morta e una modernità di cui ancora non possiedono veramente le leve, il cieco mimetismo e l'iniziativa e che quindi viene vissuta nei suoi aspetti più deleteri. La speranza è che propio grazie alla brillantezza degli elementi che questa cultura ha espresso sia nel campo del cinema, della letteratura, gente come Ben-okri e come Amos Tutuola che è morto da poco, circa un anno, fino a Chinua Achebe che hanno scritto dei libri di una straordinaria ricchezza, che pongono dei problemi che non sono solo problemi della Nigeria o dell'Africa, ma sono problemi universali. Questa ansia di cercare se stesso, di cercare la propria identità, diventerà un domani forse il problema dell' Italia in questa Europa che si sta unendo. Questi scrittori hanno espresso in un modo anche molto creativo questo problema e alcuni di questi libri se li inizierete a leggere non vi fermerete più per quanto sono belli. Mi avvio a conlcudere con una domanda, dove va la Nigeria, dove possiamo cogliere i segni, i motivi della speranza per questo paese la cui situazione in questo momento sembra bloccata? Ma proprio da questa ricchezza umana da questa cultura mai morta, ma che continua a vivere in modo molto vitale; e non ho parlato della musica e del ruolo che ha avuto non solo per la Nigeria ma tutta per tutta l'Africa. Fela Anikulapo Kuti è stato il profeta più grande della grande stagione musicale nigeriana ed africa degli ‘70-80. La protesta ch’egli ha incarnato, questa protesta, questa sete di libertà, questo ritorno alle origini, alla propia identità che lui ha espresso in modo estremo ma anche stravagante, perchè era uno stravagante, ma che ha messo in risalto i problemi veri dell'Africa. Tutto sommato questa ricerca questa identità e questa necessaria apertura a una modernità che non abbiamo voluto ma che ci è stata imposta dall'arrivo di Vasco de Gama1 è ormai un fatto col quale dobbiamo fare i conti in 1 Il 7 aprile 1998 abbiamo celebrato i 500 anni dell'arrivo di Vasco de Gama sulle coste africane e più precisamente sulle coste orientali dell'Africa a Mombasa. Questa data è considerata da tutti come l'inizio ufficiale dell'impresa coloniale che tanto peso avrebbe avuto nella storia dell’Africa. 500 anni sono tanti, ma l'Africa ha 500 anni ? Leggendo alcuni libri di storia sembrerebbe di si. L’impressione che si ricava da questi libri è che la storia dell’Africa cominciasse con l’arrivo del primo europeo sulle coste del continente. L’eurocentrismo storiografico ha bollato tutto ciò che il continente ha vissuto prima dell’arrivo dei coloni. In mancanza di documenti scritti, si è cancellato semplicemente secoli di storia tramandata di generazioni in generazioni attraverso l’oralità. Eppure, occorre riaffermare con forza che prima dell'approdo di Vasco de Gama a Mombassa l'Africa aveva una sua storia, una sua modalità specifica di vivere la nostra comune umanità, e inoltre aveva anche un suo percorso economico e sociale. Tutte realtà che sono state travolte da questa irruzione di Vasco de Gama sulle coste orientali africane. Una presenza che ha portato nel continente africano la “tratta degli schiavi” più lunga nel tempo e maggiormente - 49 - Nigeria e in Africa. Gli scrittori nigeriani o gli uomini di cultura della Nigeria in qualche modo danno delle risposte, pongono dei problemi in modo giusto e la speranza della Nigeria risiede in fondo nella sua cultura e nei suoi uomini, che non possono essere confusi né con la giunta militare al potere né con gli aspetti più negativi della Nigeria, cioè la crisi economico/politica e dei valori che ci ha portato sui marciapiedi della prostituzione migliaia di giovani donne. Esse sono immolate, vittime sacrificali, sull’altare del sogno dell’Africa e del suo gigante che non riescono a trovare, dopo quattro decenni di indipendenza, il modo di fare brillare la luce della democrazia e del benessere per tutti. organizzata con circa 15 a 20 milioni di pezzi di “merce umana” deportati nelle Americhe. In tutto, gli storici calcolano che la tratta, durata ben tre secoli, ha coinvolto circa 100 milioni di persone tra quelli che sono effettivamente arrivati nelle Americhe, quelli che sono finiti nei fondali dell'oceano, quelli che invece essendo malati non sono riusciti ad imbarcare. Questa è stata abolita, almeno per quanto riguarda le colonie francesi nel 1848. Il 27 aprile 1998, si è celebrata a Gorèe in Senegal all'Isola degli Schiavi questo anniversario dell’abolizione ufficiale della schiavitù. - 50 - Sezione Europa Ucraina A cura di Luca Mazzocco Moldavia A cura di Luca Mazzocco Proverbi Si può viaggiare non per fuggire da se stessi, cosa impossibile, ma per ritrovarsi. La vita è sentire la potenza della natura e il richiamo degli uomini. Un viaggio, aperto al sogno, al ritmo lento del tempo intensamente vissuto - 51 - Ucraina A colpo d'occhio • Nome completo del paese: Ucraina • Superficie: 603.700 kmq • Popolazione: 47.732.079 abitanti (tasso di crescita demografica -0,72%) • Capitale: Kiev (2.588.400 abitanti, 3.296.100 abitanti nell'area metropolitana) • Popoli: 73% ucraini, 22% russi, 1% ebrei, 4% altri • Lingua: ucraino, russo, rumeno, polacco, ungherese • Religione: ortodossa ucraina (patriarcato di Mosca, patriarcato di Kiev), cattolica di rito greco (uniate), protestante, mennonita, ebraica • Ordinamento dello stato: repubblica presidenziale • Presidente: Leonid Danylovych Kuchma • Primo ministro: Viktor Fedorovych Yanukovych - 52 - Storia La storia dell'Ucraina è iniziata con il rumore degli zoccoli dei cavalli, quando gli sciiti che dominavano le steppe a nord del Mar Nero, dal VII al IV secolo a.C., diedero inizio a secoli di dominazione politica e culturale straniera. Nel Monastero delle Grotte di Kiev, è possibile trovare alcune testimonianze della cultura sciita: qui, infatti, ci sono tombe che contengono bellissimi oggetti in oro che raffigurano animali e uomini. Dopo gli sciti, altre ondate d'invasori (tra cui ostrogoti, unni e i kazari turco-iraniani) occuparono le terre che costituiscono l'attuale Ucraina. I primi che riuscirono a unificare e a controllare la zona per un lungo periodo furono gli scandinavi, noti con il nome di rus. Conquistarono Kiev nell'882 d.C. e, alla fine del X secolo, la città divenne il centro di uno stato unitario chiamato Rus' di Kiev, che si estendeva dal Volga a ovest del Danubio e verso sud in direzione del Baltico. Nel 988, il capo della Rus' di Kiev, Volodymyr, accolse il cristianesimo da Costantinopoli, dando così inizio a un lungo periodo d'influenza bizantina sulla politica e sulla cultura dell'Ucraina. Nel 1520, l'impero ottomano controllava tutta la zona costiera dell'Ucraina. Alla fine del XV secolo, la guerra e la peste avevano decimato la popolazione dell'Ucraina; in questo periodo, la regione venne occupata da schiavi in fuga e da rifugiati ortodossi che scappavano dalle regioni vicine, dove i controlli erano molto più severi. Tutte queste persone vennero definite kazaks (cosacchi), un termine turco che significa fuorilegge, avventuriero o predone. I cosacchi dell'Ucraina con il passare del tempo diedero vita a uno stato che, anche se ufficialmente era sotto la dominazione dapprima della Polonia e poi della Russia, godeva di una grande autonomia. Vent'anni più tardi, però, questo stato venne diviso fra Polonia e Russia. Il nazionalismo ucraino che fiorì negli anni intorno al 1840, spinse i russi a proibire l'uso della lingua ucraina nelle scuole, sui giornali e sui libri. Dopo la prima guerra mondiale e la caduta dello zar, l'Ucraina ebbe la possibilità di guadagnarsi l'indipendenza, ma nessuna delle diverse fazioni del paese riuscì a ottenere il sostegno decisivo. Ebbe così inizio una guerra civile e il paese si ritrovò ben presto in una situazione di anarchia, con sei eserciti che si contendevano il potere e Kiev che cambiava governo cinque volte l'anno. Dopo una lunga serie di battaglie che coinvolsero anche la Russia, la Polonia e diverse fazioni etniche e politiche dell'Ucraina, la Polonia si appropriò di alcune zone dell'Ucraina occidentale e i sovietici ottennero il resto del paese. Nel 1922, l'Ucraina entrò a far parte ufficialmente dell'URSS. Nel corso degli anni '20, mentre la leadership di Mosca diventava sempre più palese, si ebbe una ripresa del nazionalismo ucraino. Tuttavia, quando salì al potere nel 1927, Stalin utilizzò l'Ucraina - 53 - come prova per le sue idee sul nazionalismo 'pericoloso'. Nel 1932-33 macchinò una carestia che uccise almeno 7 milioni di ucraini. Il paese fu ulteriormente decimato, a causa di deportazioni ed esecuzioni d'intellettuali. Stalin combatté anche i principali simboli religiosi del paese, distruggendo più di 250 tra chiese e cattedrali. Durante l'epurazione del 1937-39, milioni di ucraini vennero assassinati o deportati nei campi di concentramento sovietici. La seconda guerra mondiale portò ulteriore devastazione e morte: 6 milioni di persone persero la vita nelle battaglie tra l'Armata Rossa e l'esercito tedesco. È stato calcolato che, nella prima metà del XX secolo, la guerra, la carestia e le epurazioni causarono la morte di più della metà della popolazione maschile e di circa un quarto di quella femminile dell'Ucraina. Il disastro di Chernobyl, avvenuto in Ucraina nel 1986, e l'angosciosa lentezza della risposta ufficiale sovietica provocarono malcontento in tutto il paese; due anni dopo, la chiesa uniate emerse dall'isolamento. Il Movimento del Popolo Ucraino per la Ricostruzione, un movimento nazionalista fondato a Kiev da intellettuali e scrittori, si diffuse in tutto il paese nel 1990. Nel luglio dello stesso anno, il parlamento ucraino proclamò la sovranità della repubblica (ma non la secessione), dichiarazione che non ebbe molto effetto. Poco dopo il fallito colpo di stato sovietico dell'agosto del 1991, il Partito Comunista Ucraino (CPU) venne dichiarato fuori legge e in dicembre la popolazione votò all'unanimità per l'indipendenza. Leonid Kravchuk, ex-presidente del CPU, fu eletto primo presidente dell'Ucraina. La divisione in diverse fazioni costrinse il governo a rassegnare le dimissioni nel settembre del 1992; inoltre, la disputa con la Russia, in merito alla riserva di armi nucleari dell'Ucraina e al controllo della flotta del Mar Nero (che si trovava presso il porto di Sebastopoli in Crimea), rese ancora più tesi i rapporti tra i due paesi. Nel frattempo, un'inflazione altissima, la mancanza di riserve energetiche e un potere d'acquisto sempre più basso ridussero in miseria il paese ed esacerbarono le differenze etniche e regionali. Leonid Kuchma, un riformatore a favore dei russi, sconfisse Kravchuk nelle elezioni presidenziali del 1994. Il CPU trasse vantaggio dalla confusione politica ed economica e, nelle elezioni del 1994, riuscì a ottenere una sostanziosa maggioranza di seggi in parlamento. Alla fine degli anni '90, sorsero nuovi motivi di tensione tra la Russia e l'Ucraina, a causa degli stretti rapporti di quest'ultima con la NATO. Alla fine di aprile del 2001, la destituzione del primo ministro Viktor Yushchenko ha messo a repentaglio la stabilità politica del paese. Il 29 maggio 2001 la carica di primo ministro è stata affidata ad Anatoliy Kinakh, che ha governato per quasi un anno e mezzo. Dal 21 novembre 2002 il nuovo primo ministro è Viktor Fedorovych Yanukovych, nominato per decreto dal presidente. L'opposizione, dal 16 settembre, chiede la destituzione del presidente Kuchma e sta cercando il sostegno dell'opinione pubblica. - 54 - Dopo essersi allargata da quindici a venticinque membri, con il vertice di Atene, la Commissione europea si è adoperata per instaurare un dialogo di cooperazione e avvicinamento con tutti i suoi vicini, dai Balcani alla Russia, dall'Islanda all'Ucraina. Il giorno dopo la storica firma dei trattati di adesione, l'Unione Europea ha organizzato un incontrato tra i rappresentanti dei quindici paesi con l’obiettivo di avviare rapporti di stretta collaborazione, avendo tutto in comune, tranne le istituzioni, come ha spiegato il presidente della Commissione europea Romano Prodi. L'intento finale è promuovere politiche di riavvicinamento e graduale integrazione nelle strutture sociali ed economiche tra l'UE allargata e i suoi vicini, mentre si tende ad accelerare il dinamismo politico, economico e culturale del continente europeo e oltre. Cultura Per anni, il mondo occidentale ha considerato l'Ucraina semplicemente come una parte della Russia. Ma il bortsch, le uova dipinte e molte delle più famose canzoni cosacche e delle danze tradizionali hanno avuto origine in Ucraina. Gli ucraini occidentali si considerano ucraini al 100% e difendono la loro cultura, parlando la loro lingua e sbandierando il loro nazionalismo. A est, dove vivono più di 10 milioni di russi, il nazionalismo è meno sentito e la maggior parte della popolazione parla russo. L'ucraino, come il russo e il bielorusso, è una lingua slava orientale. Molto probabilmente è la più vicina delle tre allo slavo originale del IX secolo parlato a Kiev prima dell'introduzione, nel X secolo, del più formale slavo ecclesiastico originario della Bulgaria, diffusosi insieme con il cristianesimo. Nonostante sia stato messo in secondo piano dal russo e dal polacco e addirittura vietato dallo zar Alessandro II nel 1876, l'ucraino ha resistito e attualmente si sta diffondendo sempre di più. Nel 1990 fu adottato come lingua ufficiale del paese, anche se il russo è compreso praticamente da tutti. Le origini della letteratura nazionale ucraina risalgono alle cronache slave medievali, come per esempio lo Slovo o polku Ihrevim (The Tale of Ihor's Armament), del XII secolo. Gli inizi della letteratura ucraina moderna si devono al filosofo errante della metà del XVIII secolo, Hryhorii Skovoroda, il 'Socrate ucraino'. Skovoroda scrisse poemi e trattati filosofici in ucraino, destinati alla gente comune piuttosto che all'élite. Taras Shevchenko, un fervente nazionalista nato come schiavo nel 1814 e poi diventato un eroe nazionale, fu il primo scrittore di lingua ucraina di una certa importanza. Le sue opere contribuirono alla nascita di un periodo d'oro per la letteratura ucraina. Il migliore e più produttivo scrittore dell'inizio del XX secolo fu Ivan Franko, le cui opere - 55 - comprendono racconti di fantasia, poesie, opere teatrali, trattati filosofici e racconti per bambini. Molti scrittori trattarono l'argomento dell'occupazione sovietica e molti furono perseguitati per questo motivo. Le opere di Vasyl Stus, Winter Trees (1968) e Candle in the Mirror (1977) diedero inizio all'agonia dei poeti dissidenti; Stus venne ucciso in un campo di concentramento sovietico. L'Unione degli Scrittori Ucraini di Kiev ebbe un ruolo molto importante per quanto riguarda l'indipendenza dall'URSS ottenuta nel 1991. La musica ucraina trae ispirazione dalle antiche tradizioni orali dei bylyny (poemi narrativi epici) e delle dumas, lunghe ballate liriche che celebravano la gloria dei cosacchi. La musica popolare ucraina affonda le sue radici nei leggendari kozbar, i menestrelli erranti del XVI e del XVII secolo, le cui canzoni, che narravano episodi eroici, erano accompagnate dal kozba, uno strumento simile al liuto. La bandura, uno strumento più grande che poteva avere fino a 45 corde, sostituì il kozba nel XVIII secolo. I cori di bandura si diffusero nell'arco di poco tempo e la bandura divenne il simbolo della nazione. Oggi, il Coro di Bandura Ucraino di Kiev si esibisce in tutto il mondo. Mykola Lysenko è probabilmente il compositore classico ucraino più conosciuto e famoso, perché ha arrangiato le sue composizioni per pianoforte, basandosi su canzoni popolari ucraine. Fra i musicisti contemporanei famosi segnaliamo il gruppo punk Plach Yeremiyi e la cantautrice Nina Matvienko che trae spunto dalle tradizioni popolari ucraine. Il cristianesimo giunse in Ucraina alla fine del X secolo. La chiesa cattolica e la chiesa ortodossa si divisero nel 1054 e quella ortodossa si divise a sua volta in tre filoni principali, ognuno dei quali aveva un rapporto diverso con l'ortodossia russa controllata da Mosca e con il cattolicesimo romano. L'architettura ucraina è dominata da chiese. Un genere molto particolare è quello delle chiese di legno caratterizzate da cupole a strati costituite da asticelle in legno, il tutto tenuto insieme da un sistema complesso che non prevede l'uso di chiodi. Nell'intento di distruggere l'identità e il nazionalismo ucraini, negli anni '30 i sovietici demolirono centinaia di edifici sacri, tra cui quattro cattedrali del XII secolo. Anche la pittura affonda le sue origini nelle tematiche religiose. Fino al XVII secolo, la forma di espressione più diffusa era l'icona, una piccola immagine di Cristo, della Vergine Maria, degli angeli o dei santi dipinta su un pannello di legno alla quale erano attribuiti poteri curativi e spirituali. Insieme alle icone, nelle chiese si diffusero anche i dipinti murali, i mosaici e gli affreschi. L'ascesa al potere dei cosacchi nel XVII secolo favorì lo sviluppo di nuove scuole di pittura secolare con tematiche nazionalistiche. Dopo anni di freddo Realismo Sovietico, in questo momento la sperimentazione stilistica e le tematiche nazionalistiche sono nuovamente in auge. La cucina ucraina si basa su piatti di origine contadina che utilizzano in particolare cereali e verdure di base quali patate, cavoli, barbabietole e funghi. La carne in genere viene bollita, fritta o stufata. - 56 - Normalmente i dolci sono ricoperti di miele e frutta, in particolare ciliegie e prugne; i dolci più diffusi sono i panini dolci. Lo snack ucraino più diffuso è costituito dai varenyky, piccole pallottole di pasta, mentre il piatto tipico principale è il salo, il grasso di maiale. Il consumo di salo risale a molti secoli fa e l'attenzione riservatagli dagli ucraini è la stessa che i francesi riservano al vino. Il bortsch affonda le sue origini in Ucraina ed è ancora oggi la zuppa tipica del paese, un brodo di barbabietole e verdura mista che viene in genere servito con la panna. Strano ma vero, in Ucraina è difficile trovare del buon cibo ucraino, dal momento che la maggior parte dei ristoranti di livello elevato propongono la cucina internazionale, che va molto di moda. La migliore cucina ucraina si trova nelle case private: se siete invitati a pranzo o a cena da qualcuno, accettate senza riserve. Le bevande alcoliche sono molto diffuse, in particolare la vodka, un distillato chiaro di frumento, segale e qualche volta patate. Il nome deriva da voda (acqua) e può essere approssimativamente tradotto con 'un goccino'. 'Motto: "Volia, Zlahoda, Dobro" ( in ucraino: Libertà, Consenso, Bontà) Inno nazionale: shche ne vmerla Ucraina (L’Ucraina non è ancora morta) Eventi Celebrazione del natale ortodosso il 7 gennaio. La capitale Kiev celebra i Kiev Days l’ultima settimana di maggio. Il 28 agosto i pellegrini religiosi si ritrovano in Pochayiv per la festa dell’Assunzione. Cittadini e città festeggiano il giorno dell’indipendenza il 24 agosto con manifestazioni speciali. Per Capodanno, gli ucraini intonano canti natalizi e mettono i doni sotto l'abete. Il 7 gennaio si festeggia il Natale ortodosso. Pashka (Pasqua) è la festa religiosa più importante del calendario ortodosso: inizia con una celebrazione religiosa a mezzanotte e prosegue con processioni presso le diverse chiese dei villaggi di tutto il paese. A Lviv, il Virtuoso Nazionale occupa tutto il mese di maggio con spettacoli teatrali e musicali ispirati a tematiche nazionali. La capitale festeggia la primavera con le Giornate di Kiev, che si svolgono durante l'ultimo fine settimana di maggio. In agosto, la Crimea si autocelebra con le Stelle di Crimea di Yalta. Il 28 agosto, numerosi fedeli si recano in pellegrinaggio presso il monastero di Pochayiv per la Festa dell'Assunzione. Il 24 agosto - 57 - in tutte le città si svolgono i festeggiamenti per la Giornata dell'Indipendenza, che comprendono spettacoli ed eventi speciali. Le Koljadki di Natale in Ukraina Le koljadki sono certi canti della vigilia del Natale. A colui che li canta, il padrone, o la padrona di casa, usa sempre gettare nel sacco un salame, o un pane o una moneta; ciascuno a seconda di quel che puo'. Sembra che un tempo, vi fosse un idolo detto Koljada , considerato una divinita', e che da lui prendessero nome le koljadki. In Ucraina li chiamano Pysanky. La parola deriva da "pysatj", cioe' dipingere, decorare, scrivere. Ogni uovo e' dipinto a mano e riflette la fantasia dell'autore. Le uova si possono' comprare nei negozi di souvenir, e fortunamente non solamente durante Pasqua. Alcuni preti affermavano che andare in giro per le masserie a cantar le koljadki si compiaceva il diavolo... Chi puo' dirlo? A dire il vero, non c’è una sola parola nelle kojadki, che ricordi Koljada. Spesso vi si canta del Natale di Cristo e, alla chiusura, si rivolge un augurio di buona salute al padrone di casa e a tutta la sua parentela. "L'ultimo giorno prima di Natale era passato. Era discesa una notte chiara, d'inverno; si erano affacciate le stelle; la luna si era innalzata maestosamente nel cielo a far lume alla brava gente e al mondo intero, affinche tutti cantassero le koljadki e lodassero Cristo in letizia. Gelava piu' intensamente che al mattino; in compenso vi era un tale silenzio che lo scricchiolio del ghiaccio sotto i passi si udiva a distanza di mezza versta. Non si era ancor fatta viva alcuna brigata di giovanotti sotto le finestre delle capanne; soltanto la luna le guardava con la coda dell'occhio, quasi ad invitare le ragazze vestite da festa ad uscire al piu' presto sulla neve crepitante'. Cosi descrive la notte di Natale Gogol' nelle sue Veglie ad una fattoria presso Dikan'ka Filastrocca per bambini Secchio e secchietto, Date un pasticetto, d'orzo un pugnettino, Una fetta di salamino! - 58 - Natale a tavola La cena di Natale in Ukraina inizia con la immancabile kutja. La kutja deve essere molto ricca e anche buona. Secondo la credenza popolare, questo dovrebbe garantire a tutta la famiglia in salute e felicita' per l’anno che verrà... Le casalinghe ukraine si impegnano moltissimo per realizzare la kutja piu' gustosa: le ricette variano da un villaggio all'altro, ma gli ingredienti principali sono il grano bollito (o riso),i semi di papavero, il miele, la frutta secca, le noci tritate e gli altri ingredienti "segreti" della padrona di casa. Materiale tratto da www.edt.it - it.wikipedia.org - www.guida.supereva.it - 59 - Moldavia A colpo d'occhio • Nome completo del paese: Repubblica di Moldavia • Superficie: 33.843 kmq • Popolazione: 4.446.400 abitanti (tasso di crescita demografica 0,09%) • Capitale: Chisinau (709.900 abitanti, 772.500 abitanti nell'area metropolitana) • Popoli: 64,5% moldavo-rumeni, 13,8 % ucraini, 13% russi, 1,5% ebrei, 2% bulgari, 5,2% gagauzi, bielorussi, altri • Lingua: moldavo (praticamente identico al rumeno), russo, gagauzi (un dialetto turco) • Religione: 98,5% ortodossa orientale, 1,5% ebraica, battista (1.000 membri) • Ordinamento dello stato: repubblica presidenziale - 60 - • Presidente: Vladimir Voronin • Primo ministro: Vasile Tarlev Storia In origine la Moldavia faceva parte di una più vasta regione che aveva lo stesso nome, ma per gran parte della sua storia ha avuto a che fare con i più potenti vicini. Situato tra l'incudine russa e il martello rumeno, questo paese si è da sempre trovato al centro di dispute di confine e di politiche espansioniste. Prima della sua inconsistente unificazione, la Moldavia era stata invasa, divisa, riunita, conquistata, annessa, ribattezzata e riconquistata molte più volte di quante si possa immaginare. Il passaggio dal principato di Moldavia alla repubblica di Moldavia è stato lungo e sanguinoso e sembra appropriato che la bandiera comprenda una banda rossa a ricordo del sangue versato per difendere il paese. I moldavi discendono dai daci che furono sconfitti dai romani nel 100 d.C. Alla conquista romana seguì un millennio d'instabilità e cambiamenti, durante il quale la regione subì le invasioni dei paesi confinanti e divenne un punto focale della diaspora dei magiari, degli slavi e dei bulgari nell'Europa orientale. Divenne anche un punto di riferimento per i mercanti bizantini, italiani e greci. All'inizio del Medioevo, quando il flusso migratorio si era ormai quasi esaurito ed era iniziato a emergere uno stato organizzato, la Moldavia (allora parte della Romania) era già diventata un pot-pourri di razze e culture. A metà del XIV secolo, sotto il governo di Stefan cel Mare (Stefano il Grande), il principato di Moldavia raggiunse il massimo splendore, ma poco dopo, quando a Stefan successe il figlio, l'esercito turco era ormai diventato una forza inarrestabile e la Moldavia finì sotto il controllo dell'impero ottomano. Rimase sotto la sovranità turca fino al 1711, quando i russi fecero la loro prima comparsa ai confini moldavi. L'esercito russo fu inizialmente respinto, ma i decenni successivi videro la Russia e la Turchia affrontarsi con grande impeto. Annessioni, spartizioni, scaramucce, invasioni e guerre erano all'ordine del giorno e la Moldavia cambiò padrone più volte di una banconota. Nel 1774 l'Austria ottenne la Moldavia settentrionale, che ribattezzò Bucovina, grazie al ruolo di mediatrice nel trattato di pace tra i russi e i turchi. Nel 1812 le ostilità tra Turchia e Russia furono temporaneamente sospese dopo la firma del Trattato di Bucarest, che consegnò la metà orientale della Moldavia ai russi (che ribattezzarono la regione Bessarabia) e il resto della Moldavia e della Valacchia alla Romania. La Russia cercò ostinatamente di acquisire il controllo delle zone strategiche della Romania ricorrendo a giochi di mano e cavilli e, nel 1878, stipulò un paio di patti segreti con le altre superpotenze per estendere i confini della Bessarabia all'interno del territorio rumeno. La Bessarabia rimase nelle mani dei russi - 61 - fino alla rivoluzione bolscevica del 1917, quando l'ideologia dell'autodeterminazione tornò a essere all'ordine del giorno. La Bessarabia reagì a questa svolta radicale della storia dichiarandosi repubblica autonoma, ma, dopo che l'Ucraina iniziò a volgere sguardi interessati sui suoi confini privi di difese, decise di ricongiungersi alla Romania come misura precauzionale. L'autonomia concessa da Lenin era una cosa, ma la riunificazione con un antico nemico era una cosa completamente diversa. Tale riunione, pertanto, non fu mai riconosciuta o perdonata dall'Unione Sovietica e, nel 1924, un gruppo di contadini fedeli a Lenin formò la secessionista Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Moldava, che in seguito sarebbe diventata la repubblica della Transdnestria. Nel 1939 il patto Molotov-Ribbentrop (l'accordo tedesco-sovietico sulla divisione dell'Europa orientale), riconsegnò la Bessarabia all'URSS, che annesse la regione autonoma alla più grande regione della Bessarabia e ribattezzò l'intero territorio Repubblica Socialista Sovietica Moldava. L'area fu nuovamente occupata dalle forze rumene tra il 1941 e il 1944, periodo durante il quale migliaia di ebrei della Bessarabia furono deportati ad Auschwitz. Nel 1944 i rumeni furono costretti ad allentare la loro presa sulla zona e le autorità sovietiche tornarono a prenderne il controllo. Il conseguente processo di sovietizzazione della Moldavia comportò la deportazione di oltre 25.000 moldavi in Siberia e nel Kazakhistan, la chiusura delle sinagoghe ebraiche, la messa al bando delle cerimonie religiose e l'imposizione dell'alfabeto cirillico al posto di quello rumeno, basato sul latino. Come sempre accade quando si cerca di imporre un ordine innaturale a un popolo assoggettato, si procedette anche alla costruzione di monumenti e di statue, all'assegnazione di nuovi nomi alle strade e alla consacrazione di piazze a personaggi illustri. Con il collasso del comunismo a metà degli anni '80 e la politica di glasnost e perestroika inaugurata da Gorbaciov, il Fronte Popolare nazionalista moldavo finalmente ebbe la possibilità di far sentire le proprie ragioni. Seguirono diversi anni di riforme e consultazioni. Nel 1989 l'alfabeto latino tornò a essere quello ufficiale; nel 1990 fu introdotta la bandiera moldava e venne approvata una dichiarazione di sovranità moldava. Infine, l'anno successivo, la Moldavia proclamò la sua piena indipendenza. Il primo presidente eletto democraticamente fu il comunista Mircea Snegur. L'indipendenza non ha tuttavia risolto i problemi del paese e ne ha in realtà creati di nuovi. Le minoranze slave della Transdnestria sono desiderose di mantenere i loro legami culturali e sociali con la Russia, mentre al sud la minoranza dei gagauzi di lingua turca è preoccupata per la possibile riunificazione con la Romania. Non appena la Moldavia ha tagliato il cordone ombelicale e si è dichiarata una repubblica indipendente, le autorità della Transdnestria si sono separate dalla nuova entità, riaffermando la lealtà della loro terra alla Russia. La situazione si è ulteriormente complicata quando i gagauzi hanno iniziato a ipotizzare una propria repubblica nel sud-est. La neonata repubblica moldava sembrava restringersi di minuto in minuto. Alla fine i gagauzi hanno moderato la loro posizione - 62 - dopo avere ottenuto la promessa di una più netta autonomia regionale e di una maggiore rappresentanza parlamentare, ma la Transdnestria si è ostinatamente rifiutata di unirsi alla Moldavia. Un precario compromesso è stato raggiunto con l'insediamento nell'area di una forza di pace trilaterale di Russia, Transdnestria e Moldavia, ma si verificano ancora sporadici disordini tra i ribelli separatisti e le forze militari moldave e vi sono costanti richieste di un riconoscimento ufficiale dell'indipendenza della repubblica della Transdnestria da parte dei secessionisti intransigenti. Le elezioni svoltesi il 25 febbraio 2001 hanno fatto tornare i comunisti alla guida del paese, per reazione a un decennio di liberismo filo-occidentale che aveva portato il Pil, nel periodo 1991-2000, a ridursi di un terzo, provocando una massiccia emigrazione. La maggiore presenza dello stato nell'economia, la lotta alla corruzione dilagante, una più mirata riscossione delle imposte, l'integrazione economica e commerciale con le repubbliche ex sovietiche e con Mosca, hanno permesso di potenziare lo sviluppo della produzione industriale e dell'agricoltura. L'avvicinamento economico alla Russia sta comportando anche significative ricerche d'intesa con le autorità filorusse della Transdnestria, anche se la crisi è ancora lontana Cultura Se, come spiega P. J. O'Rourke, "La Russia è un rebus, circondato da un mistero, all'interno di un enigma, annodato in un fazzoletto, avvolto in una coperta e chiuso in una scatola piena di palline di polistirolo ", allora la Moldavia, con i suoi legami culturali con la Russia, la Romania e la Turchia, è un rompicapo ancora più complicato. Essa è sorta dalle rovine del socialismo sovietico per diventare una repubblica democratica divisa in due, con un'area controllata dal governo e un'altra da ribelli separatisti fedeli alla madre Russia. Ha poche città, ma è uno dei paesi più densamente popolati. Saltuariamente si ripresenta la questione della riunificazione con la Romania, il paese a essa più vicino, eppure la Moldavia ha più cose in comune con altri paesi dell'ex Unione Sovietica. La lingua ufficiale, il moldavo, è identica al rumeno dal punto di vista fonetico, ma nelle scuole e nelle università della Transdnestria si continua a usare il russo per l'insegnamento. Il governo incoraggia attivamente il dinamismo imprenditoriale e legami più stretti con le economie occidentali, ma l'economia del paese resta ancorata al rublo russo. Il paese possiede tutte le qualità per avere un'industria del turismo di successo, ma le strutture sono meno sviluppate che in altri paesi dell'Europa orientale. I moldavi sono persone socievoli, ma il personale alberghiero è tra i più scontrosi del mondo. Tutto in Moldavia ha una reazione uguale e contraria, il che ne fa allo stesso tempo uno dei paesi più equilibrati o uno dei più disorientanti. La guerra e la religione giocano un - 63 - ruolo importante nella mentalità dei moldavi e a dimostrarlo vi sono una manciata di monasteri, antiche fortezze, chiese di legno e monumenti di guerra. Questi monumenti architettonici e culturali sono completati da affreschi medievali di madonne, principi, croci, anonime figure religiose e una varietà di iconografie dorate che fanno immediatamente pensare alla Russia. Anche la letteratura, l'arte, la musica e la danza hanno un ruolo di primo piano nella cultura del paese. Le danze popolari sono simili a quelle di altri paesi dell'Europa dell'Est: danzatori con indosso gonnelloni, cappellini e tuniche minuziosamente ricamate si muovono in coppia in cerchi o in linee sinuose al suono di cornamuse, flauti, zampogne e violini. Oltre alle opere religiose e alle danze, la Moldavia offre alcuni dei migliori e più grandi vigneti dell'Europa orientale. Il vino e le degustazioni costituiscono una parte integrante della vita del paese. È una fortuna che il vino sia così buono, perché la Moldavia ha ereditato la scarsa propensione culinaria della Russia: carne cotta fino a diventare grigia e verdure bollite trasformatesi in una poltiglia acquosa. L'onnipresente mamaliga rumena (una morbida polenta di farina di granturco) appare nella maggior parte dei menu, insieme con specialità turche come saslik, kebab e baclava. Tra i piatti migliori vi sono gli gnocchi russi in salsa di funghi e i nutrienti stufati della tradizione ebraica. Una specialità squisitamente moldava è la tochitura moldoveneasca, ossia maiale fritto in padella con una piccante salsa al pepe che viene servito accompagnato da mamaliga e sormontato da un uovo fritto. Se possedete uno stomaco di ferro e vi sentite particolarmente temerari forse vorrete assaggiare alcuni dei piatti del Cactus Cafe, nel centro di Chisinau, dove, per risparmiare tempo, servono le portate principali e i dessert su un unico piatto. Potreste trovarvi a mangiare pollo al cioccolato o tacchino con banane Feste In Moldavia si celebrano pochissime festività, principalmente perché si tratta di una repubblica appena nata che deve affrontare dolorosi problemi di assestamento. Ha avuto a malapena il tempo di sbarazzarsi delle macerie rimaste dalla distruzione di tutte le vecchie statue di Lenin, ancor meno per organizzare festeggiamenti di qualsiasi genere. L'unica ricorrenza completamente moldava è il Giorno dell'Indipendenza, che si celebra il 27 agosto. Per la gente della Transdnestria questo giorno rappresenta l'equivalente del drappo rosso per i tori, dunque i festeggiamenti vengono solitamente boicottati da coloro che vivono a est del Fiume Dnestr Materiale tratto da www.edy.it - it.wikipedia.org – www.nbts.it - 64 - Sezione Asia Filippine A cura di Giovanni Savini Bangladesh A cura di Giovanni Savini Proverbi Chi beve l'acqua di una terra straniera deve seguirne usi e costumi. Soltanto le montagne stanno feerme; gli uomini si incontrano. - 65 - Filippine A colpo d'occhio • Nome completo del paese: Repubblica delle Filippine • Superficie: 300.000 kmq • Popolazione: 86.241.697 abitanti (tasso di crescita demografica 1,88%) • Capitale: Manila (10.232.900 abitanti; 13.790.900 abitanti nell'area metropolitana, Metro Manila) • Popoli: 91,5% malesi cristiani, 4% malesi musulmani, 1,5% cinesi, 3% meticci (filippinospagnoli o filippino-americani) • Lingua: filippino (basato sul tagalog) e inglese sono le lingue ufficiali; vi sono 8 dialetti principali: tagalog, cebuano, ilocano, hiligyinon (o ilonggo), bicol, waray, pampango e panpasinese • Religione: 83% cattolica, 9% protestante, 5% musulmana, 3% buddhista e altre religioni • Ordinamento dello stato: repubblica parlamentare • Presidente: Gloria Macapagal Arroyo - 66 - I FIORI DI MAGGIO IN GONDOLA TRA PAKIKISAMA E SUPERSTIZIONI Le Filippine disegnano, da nord a sud, una linea di circa 7mila isole al largo delle coste vietnamite e a nord dell'Indonesia Fra i miti delle creazione del mondo e della fondazione delle Filippine ve ne sono alcuni molto suggestivi e riportati in varie pubblicazioni su storia e cultura di questo Paese. Uno di questi racconta così la “genesi”: “Tanto tempo fa, non esisteva la terra ma esisteva solamente il cielo, il mare ed un uccello volante. A quel tempo il cielo era talmente basso che quasi toccava il mare. L’uccello volava e volava. Ad un certo punto si sentì stremato. Allora cercò disperatamente attorno a sé un luogo dove fermarsi a riposare, ma inutilmente. Essendo un uccello saggio, provocò una lite tra il cielo e il mare. Il mare lanciò rabbioso grandi onde contro il cielo e questo per non bagnarsi si ritrasse in alto, ma ancora il mare infuriato riuscì a toccarlo, così il cielo si levò ancora più in alto, e la sua furia aumentò a tal punto che fece piovere tantissime rocce, le quali calmarono l’impeto del mare. Da queste rocce ebbe origine la prima terra, compreso l’arcipelago delle Filippine” Cime di una catena montuosa parzialmente sommersa, le Filippine contano 47 vulcani dei quali molti attivi. Il clima é caratterizzato dalla presenza del monsone estivo (giugno-ottobre) che soffia da sud-ovest sulle isole circa 15 cicloni all'anno. Un alto grado di sismicità scatena inoltre numerosi terremoti distruttivi. I disastri naturali sono molto frequenti e minacciano periodicamente la sopravvivenza delle popolazioni più disagiate, le più esposte alle conseguenze di terremoti e alluvioni. Che il mare e il cielo continuino a litigare ancora a causa delle ire scatenate dal volatile? Il mito prosegue poi narrando la nascita del popolo filippino: “Tanto, tanto tempo fa, dopo che la terra nacque come risultato della lotta tra il cielo e il mare, l’uccello saggio, che era stato la causa di questa lotta, volò sulla terraferma. Arrivato qui, si posò su una pianta di bambù per riposare, ma mentre si riposava beccò il bambù. Improvvisamente il ramo si spezzò in due, nel senso della lunghezza, e dalla prima metà scaturì un uomo, mentre dalla seconda una donna. L’uomo si chiamò Lalake e fu il primo uomo del mondo. La donna chiamata Babae fu anch’essa la prima donna. Insieme generarono molti figli e da questi figli ebbero origine i Filippini”. (da “Filippine” di V. Reyes, 1998 Ed,. Pendragon Bologna, pag. 79) - 67 - La geografia e la storia delle Filippine hanno entrambe contribuito a creare una molteplicità di lingue: in tutto ci sono circa 80 dialetti. Il concetto di lingua nazionale iniziò a sorgere dopo la guerra ispano-americana del 1898 e nel 1936 fu dichiarato lingua nazionale il tagalog, scelto tra un gruppo di varie altre lingue candidate tra cui il cebuano, l'hiligaynon e l'ilocano. Con un compromesso raggiunto nel 1973 si è scelto come idioma nazionale il pilipino, che si basa sul tagalog ma contiene anche elementi di altre lingue filippine e una originale combinazione di parole spagnole e inglesi. Ciononostante l'inglese continua a essere la lingua dei commerci e della politica. Il dominio spagnolo, esercitato dal XVI a tutto il XIX secolo, ha fatto sì che le massicce conversioni al Cattolicesimo, attraverso l’opera di alcuni ordini religiosi, parzialmente strumentali al processo di consolidamento del colonialismo spagnolo, ponessero le solide fondamenta di una comunità nazionale filippina, unita da un elemento proveniente dall’esterno, ovvero la quasi totale omogeneizzazione religiosa distinta da quelle presenti nei Paesi più vicini all’arcipelago (Taiwan, Cina, Borneo). Come ha osservato poi l’Ambasciatore Benito Italo Volpi (nel numero di Marzo-Aprile del periodico “Acque e terre”), “al successivo colonialismo americano si deve poi, a partire dal 1900, un trapianto del sistema educativo USA nella società filippina, con l’uso dell’inglese quale canale linguistico privilegiato anche rispetto al tagalog (lingua filippina “ufficiale” derivata dal dialetto dell’isola di Luzon) che solo nel 1974 assurse alla dignità di lingua nazionale, e allo spagnolo dei primi colonizzatori, lingua quest’ultima parzialmente utilizzata nell’ordinamento scolastico fino al 1980. Ne è conseguita una alfabetizzazione di massa che si ritiene raggiunga il 90 per cento della popolazione totale (circa 77 milioni), il possesso di un canale di comunicazione, l’inglese, di primaria importanza nel mondo contemporaneo, ma anche quella forma mentis di estraneità storicoculturale all’Asia, quello snaturamento dovuto peraltro anche alla fede religiosa (i Filippini sono per il 90 per cento cristiani, dei quali l’80 per cento cattolici, il solo Paese asiatico dell’estremo oriente a prevalente popolazione cristiana ed ufficialmente cattolica) introdotta dagli spagnoli e consolidata nel tempo”. Come sopra accennato, il carattere dei Filippini -o Pinoys, come si definiscono quelli emigrati, mentre Balikbayan sono quelli poi ritornati in patria- ha subito varie influenze da componenti culturali malesi, indonesiane, cinesi, ma anche arabe, spagnole e americane. Questa combinazione di elementi ha dato luogo a caratteristiche e convenzioni sociali ritenute non troppo frequenti nel Sud-Est asiatico, tanto che i Filippini vengono spesso definiti “i meno orientali tra gli orientali”. Dalla passata presenza spagnola i Filippini conservano i nomi e spesso i cognomi di chiara - 68 - derivazione ispanica e l’abitudine, ad esempio, di contare in spagnolo (ma anche talvolta in inglese) anziché in tagalog o nel dialetto proprio di ciascuna isola o in inglese. La cultura delle Filippine nasce dalla mescolanza delle influenze straniere con gli elementi indigeni. Oggi i musulmani e alcune delle tribù isolate sono gli unici abitanti la cui cultura non sia stata alterata dai contatti con gli Spagnoli e gli Americani. Circa il 10% dei Filippini (ossia i cosiddetti gruppi culturali minoritari o Filippini tribali) ha mantenuto la propria cultura tradizionale. Esistono una sessantina di gruppi etnici tra cui i nomadi Badjao, i nomadi marittimi dell'arcipelago di Sulu e i Kalinga, cacciatori di teste del nord di Bontoc. Le Filippine sono l'unico paese cristiano dell'Asia: più del 90% della popolazione sostiene di praticare la fede cristiana. La principale religione minoritaria è quella islamica, praticata soprattutto a Mindanao e nell'arcipelago di Sulu. Ci sono anche una Chiesa Indipendente Filippina, alcuni buddhisti e un piccolo gruppo di animisti. La quasi totalità dei Filippini in Veneto è di religione cristiana, sono rarissimi i casi di filippini islamici in Italia, preferendo questi altre destinazioni di migrazione, come Paesi mussulmani asiatici più vicini o Stati arabi. Il fenomeno dell’emigrazione filippina ha pochi eguali nel mondo, per entità e complessità. Stime ufficiali riguardo questo fenomeno parlano di circa nove milioni di filippini attualmente impegnati all’estero, procedendo al ritmo di circa 700.000 migranti l’anno. L’emigrazione ha un alto valore economico dato che le rimesse costituiscono il maggiore introito di valuta estera del Paese, stimato quasi il 18% del PIL filippino. Essa rappresenta per il Governo filippino, inoltre, la valvola di sfogo di una popolazione in crescita in una nazione che vede ancora una diffusa povertà e un’ampia sottoccupazione. I Filippini presenti in Veneto arrivano quasi tutti dall’isola di Luzon, dove si trova la capitale, Manila, e in numero minore da quelle di Cebu e Mindoro. Questo fatto avvalora anche due tesi sui processi migratori, reti etniche e associazionismo. La prima riguarda il fatto che ad emigrare non sono generalmente persone che si trovano in uno stato di indigenza estrema. La seconda tesi riguarda l’importanza delle reti familiari ed etniche nei processi migratori, per cui chi parte ha sempre un contatto al quale fare riferimento una volta giunto a destinazione e mai sceglierebbe una meta senza prima assicurarsi l’aiuto di un amico o parente in loco, forse eccezione fatta per il caso di rifugiati e richiedenti asilo. La comunità filippina in Italia è di circa 75.000 persone, i minorenni sono almeno il 23%, e la maggioranza dei Filippini presenti nelle Province venete si concentra nel Comune capoluogo. Questo è dovuto quasi sicuramente all’inserimento nel mercato del lavoro dei servizi: alla persona, alla famiglia, o in generale in ristoranti ed alberghi, quindi attività che si trovano di solito in centri - 69 - urbani grandi e medi e località turistiche di carattere non stagionale. Sembra infatti che non vi siano in ambito regionale numeri significativi di Filippini impiegati nell’agricoltura o nell’industria o in mansioni collegate a questi settori, o anche nella cantieristica navale che invece richiama numerosi immigrati del Bangladesh, come già ricordato, o nell’edilizia, che interessa gran parte di Albanesi, Macedoni, Romeni e Slavi. Tale comunità non è particolarmente visibile sulla scena pubblica e questo dipende sia da fattori culturali che dal lavoro svolto dalla maggior parte degli immigrati originari delle Filippine. Un fatto psicologico e culturale assolutamente fondamentale è lo hiya, che letteralmente significa “vergogna”, “pudore”. Esso genera timidezza, distanza, sottomissione e gradualità nella costruzione dei rapporti. “Bahala na”, ovvero “sia come deve essere”, tipica espressione filippina che indica rassegnazione e quindi rinuncia di fronte all’impossibilità di compiere una cera azione oppure, al contrario, mostra l’assoluta fiducia nel divino di fronte ai propri limiti e l’impegno a fare il possibile per riuscire. Ciononostante la vita comunitaria dei filippini in Veneto è davvero vivace anche se in molte occasioni ancora poco aperta. “Un’immagine dell’immigrazione filippina in Veneto? A me piace ricordare la festa di Flores de Mayo che abbiamo fatto a Venezia nel 1988 o 1989, non ricordo con precisione. Questa celebrazione è una tradizione filippina che gradualmente sta scomparendo, e l’abbiamo organizzata a Venezia per la atmosfera romantica che trasmette, c’erano associazioni comunità filippine delle altre città venete e sono venuti anche gruppi di filippini dalla Germania e dall’Austria, alcuni consoli, l’Ambasciatore in quell’occasione è venuto prima da noi a Treviso e poi a Venezia, le ragazze erano con nostri abiti tradizionali in gondola, un bell’effetto di incontro tra stili e culture! Io all’epoca ero la referente ufficiale della comunità associazione filippina di Treviso che non era ancora formalmente costituita e registrata, ho aiutato anche per l’organizzazione dei pernottamenti a Venezia e Treviso dei vari partecipanti ed è stata una bella esperienza di ritrovo qui in Veneto. Un’altra esperienza legata alla migrazione filippina in veneto che voglio ricordare è quella della mia partecipazione ad un corso, tenuto a Roma con l’Ambasciata, per tutti i responsabili delle comunità filippine, io rappresentavo tutta l’area del Nord-Est Italia, e non so come dalla Ambasciata mi abbiano conosciuto e deciso di farmi partecipare! Ho ancora l’attestato di partecipazione firmata dall’Ambasciatore, datata 1989! C’erano referenti da comunità filippine da un po’ tutte le Regioni di Italia, che esperienza! Ho avuto inoltre occasione di partecipare ad un bellissimo convegno europeo tenutosi a Barcellona - 70 - per le rappresentanti di donne filippine in Europa. Io rappresentavo anche in questa occasione il Nord-Est Italia, mi hanno dato l’invito tramite la Ambasciata di Roma e il meeting è durato 5 giorni. Il tema era “Empowerment of the Filipino women in Europe”, si incoraggiava a costituire forum di donne filippine per organizzare un confronto su varie tematiche che all’epoca l’Italia non era ancora preparata e non conosceva come le organizzazioni sindacalizzate del lavoro domestico femminile migrante, l’associazionismo di donne straniere immigrate, modalità di organizzazione di comunità femminili con contatti con l’Ambasciata a Roma, mi avevano anche chiesto di trasferirmi a Roma per sviluppare lì attività di associazionismo, ma ho preferito rimanere a Treviso. Mi piacerebbe una maturazione delle associazioni filippine nel Veneto, che non si limitino più solo alle feste per loro e non siano ridotte nel loro potenziale per sola ignoranza o mancanza di intraprendenza e desiderio di essere maggiormente protagoniste nelle realtà cittadine dove sono presenti. Qui a Treviso siamo l’unica associazione che ha cominciato e concluso un torneo di basket, le altre comunità non riuscivano a terminarli perché si interrompevano a causa di litigi è disaccordi, anche se tra i filippini c’è il valore del pakikisama. Ora anche altre comunità filippine nel Veneto cercano di organizzare e concludere iniziative di tornei sportivi come è successo qui a Treviso. Quello filippino è effettivamente un popolo che potrei definire cantante, praticamente in ogni comunità filippina c’è un gruppo canoro, anche perché le comunità e associazioni filippine sono “figlie di parrocchie” qui in Italia, a Treviso si fa eccezione e anche per questo ….si è un po’ fuori dal coro! Il coro è sentito un po’ come vetrina del talento, a molti filippine/i giovanissime/i piace intrattenere un po’ esibirsi e dare spettacoli, anche se per un po’ tutto il resto effettivamente c’è la cultura del hiye, che non è esattamente traducibile con “vergogna” ma l’idea di non perdere la faccia”. (da un’intervista a Rosette Buenaventura, associazione comunità filippina a Treviso) Oltre i Flores de Mayo nelle Filippine ci sono molte altre festività, la maggior parte a carattere locale e legate a ricorrenze religiose cristiane, a livello nazionale si festeggiano le principali date del calendario cattolico (natale, Pasqua e settimana santa) con processioni e fiestas neele strade e nelle piazze, la più importante festa civile è il 12 Giugno, il giorno dell’indipendenza. Il Veneto ha cominciato a diventare meta di Filippini a metà degli anni Ottanta. A quell’epoca arrivavano quasi esclusivamente donne che trovavano lavoro come colf a tempo pieno presso famiglie benestanti che fornivano loro oltre allo stipendio anche vitto e alloggio. Le donne filippine che si stabilivano in Veneto spesso erano già presenti in Italia da qualche tempo nei grandi centri - 71 - metropolitani, Milano Roma, soprattutto. Già dai primi anni ’90 si assiste ad un cambiamento piuttosto significativo che vede i Filippini iniziare a lavorare negli hotel e nei ristoranti e conseguentemente a cercare alloggi indipendenti. L’inserimento dei Filippini nei servizi al turismo è continuato per tutto il decennio e ha provocato un riequilibrio del rapporto fra uomini e donne (che rimangono ancora la maggioranza), talvolta con nuclei familiari che comprendono tre generazioni, probabilmente l’unica realtà dell’immigrazione con tale caratteristica assieme ad alcune famiglie cinesi. Formatasi in tale senso la popolazione immigrata filippina in Veneto, fin dalla fine degli anni ’80 è via via cresciuta la vita comunitaria con proprie caratteristiche e modalità di vita collettiva influenzate sia da fattori culturali che dai legami instaurati con le parrocchie locali per la importanza dell’elemento religioso cattolico dato come fattore aggregativo e di coesione degli immigrati filippini. Le attività principali sono infatti legate a momenti di festa o incontro all’interno delle sedi parrocchiali e al più vi è informale passaparola su possibilità di lavoro e promozione dei diritti di cittadinanza. Il ruolo aggregativi dato dalla Chiesa e dalla religione è evidente e significativo in considerazione pure del fatto che all’interno della comunità filippina esistono alcuni gruppi religiosi di preghiera. Nel 1985 è nato a Manila il gruppo carismatico El Shaddai (uno dei nomi dell’Antico Testamento) autodefinito ecumenico per il desiderio di superare le divisioni tra cristiani e da qualche anno proposto come esclusivamente cattolico, fondato dall’uomo d’affari e costruttore edile Mike Velarde. In Italia vi sono 5 gruppi di preghiera riconosciuti di cui uno a Venezia. Un altro gruppo di preghiera di organizzazione filippina si chiama “Couples for Christ”. La religiosità cristiana delle comunità filippine acquista un dato di ulteriore singolarità per il fatto che le medesime sono anche legate a moltissime superstizioni e credenze anche locali. Un libro sulla cultura filippina scritto da due autori di Manila tra superstizioni legate a eventi che potrebbero presagire morte, malattia, sfortuna o fortuna in amore, fortuna o sfortuna col denaro, rapporti con amici e con gli spiriti di antenati ne elenca ben 280! Vale la pena per curiosità qui citare alcune di queste superstizioni • Se una farfalla nera si ferma attorno d una persona, significa che un suo parente è appena morto • Nessuno dovrebbe uscire prima di avere pulito e messo via le posate usate per mangiare, altrimenti un membro della famiglia morirà - 72 - • Mentre la madre sta partorendo ogni ingresso e fessura della casa deve essere coperto o chiuso altrimenti potrebbero entrare spiriti malvagi e uccidere il neonato • Una persona non dovrebbe decorare un abito con perle perché significa che spargerà lacrime • Una persona non dovrebbe pagare o dare soldi attraverso una finestra perché lo renderà povero • Se si porta via il piatto ad una donna nubile mentre sta ancora mangiando, questa resterà zitella tutta la vita • Se la mano sente un improvviso forte prurito senza particolare ragione, presto riceverà denaro • Se un bambino piange durante il battesimo, avrà lunga vita • Dormire con i capelli bagnati causa cecità • Una persona starà male se farà il bagno di Venerdì • Se una persona regala ad un’atra come dono un paio di scarpe, diventeranno nemici • Non si spazza il pavimento della propria casa dopo le sei di serao di notte perché sic unifica buttare via fortuna e ricchezza • Se una coppia riceve un crocifisso come dono di nozze avrà vita armoniosa e pacifica • Se sono sparse lacrime sopra la bara del morto la sua anima non avrà vera pace • Sono giorni sfortunati il 18 marzo, il 18 agosto e il 18 Settembre (da “Understandig the Filippino” di T. D. Andres e P. B. Ilada – Andres, 2001 New Day Publishers, Quezon City; Philippines) Il supporto e appoggio delle chiese locali diventa spesso punto logistico di riferimento e aggregazione per la principale modalità di vita associativa, anche per il valore dato al fattore tradizionale de pakikisama, comportamento sociale traducibile con l’espressione “vivere e stare assieme d’accordo in armonia” la cui esistenza non richiede la veste giuridica di un’associazione riconosciuta ma al più di un luogo accettato da tutti come da punto d’incontro e alcuni portavoce – promotori. Pakikisama significa secondo molti Filippini “considerazione”, comportarsi in modo da ottenere considerazione e ammirazione dagli altri. E’ collegato all’utang na loob. Ha a che fare con quello che le persone si aspettano come comportamento nelle relazioni sociali. “Utang na loob vuol dire reciprocità. Letteralmente significa ‘debito (utang) del cuore’ (loob). Uno che ha aiutato qualcuno e si aspetta di esserne ripagato in futuro. Non con i soldi, ma con una reciprocità sicura, che si mantiene nel tempo. Utang na loob resiste ancora nelle Filippine, è molto - 73 - importante. In Italia meno, specie tra i ragazzi, che non sanno più cos’è utang na loob, non tra loro, almeno. Nelle Filippine è molto importante. Ad esempio, io ho aiutato un mio capogruppo (della comunità) a trovare un lavoro in ospedale. Non ci conoscevamo bene, non ci frequentavamo tanto ma lui sa di essere in debito con me. Si crea un legame che non si chiude mai. E’ su questa reciprocità che si basa la solidarietà dei Filippini. Utang na loob è come una religione, dipende dal carattere morale della persona. Nelle Filippine è una cosa fortissima, qui è forte tra gli adulti ma tra i loro figli è debole. E’ un debito che non si estingue mai del tutto. In famiglia, utang na loob è un modo di garantire la continuità familiare: ecco perché dipende dai genitori trasmettere questa cosa ai figli. Io, ai miei figli, ogni volta che andiamo a tavola spiego loro queste cose della vita. Ma la maggior parte dei ragazzi filippini che crescono qui diventano troppo italiani. Tra i ragazzi che sono qui da poco, invece, questa cosa resiste ancora. Utang na loob non è diverso fuori e dentro la famiglia, è su questa reciprocità che si basa la solidarietà. Ma gli italiani sono poco sensibili a questa cosa. D.: cosa succede a chi non rispetta l’utang na loob? E’ un bastardo, uno che non capisce le cose della vita. E’ un makasarili, un egoista, uno che pensa solo a se stesso. [….]. Makasarili è un termine molto brutto per noi” (tesimone privilegiato, figura leader della comunità agostiniana, organizzatore di eventi e attività per giovani Filippini, da “Asia a Milano”, pag. 187) Un principale aspetto rilevato da molti sociologi è dato dal particolare riguardo che viene attribuito in ogni situazione all’approccio interpersonale e ai valori che regolano anche le più semplici relazioni fra le persone come ad esempio i saluti e i convenevoli, così da porre come elemento prioritario l’insieme delle Buone Relazioni Interpersonali (Smooth Iterpersonal Relationships). Con tale definizione i sociologi intendono indicare il fatto che i Filippini abitualmente adottano un linguaggio di cortesia e di gentilezza molto formale, a prescindere dalla esistenza di possibili ordini gerarchici o altri rapporti di subordinazione determinati dall’esterno (lavoro, istituzioni…), non tanto o non solo per evitare a sé stessi e agli interlocutori la manifestazione esteriore dei propri sentimenti e stati d’animo, come succede ad esempio nella società giapponese, ma piuttosto per un quasi naturale e spontaneo atteggiamento di disponibilità quale espressione di rispetto nei confronti dell’interlocutore ed una intima sicurezza di tranquillità nelle relazioni interpersonali. Un esempio può essere offerto dall’atteggiamento indicato con l’espressione difficilmente traducibile hele-hele bago quiere, consistente nell’usanza nei rapporti privati -normalmente quindi estranei all’ambiente lavorativo- di rifiutare inizialmente un’offerta, anche se gradita e accertarla solo in un momento successivo, se vi è insistenza da parte dell’offerente, oppure ancora l’utang na - 74 - loob, ossia “debito di gratitudine”, secondo il quale i favori ricevuti anche da molto tempo non vanno dimenticati e dovranno essere comunque resi in futura occasione, e il mancato rispetto può portare a grande biasimo o l’emarginazione dal gruppo. Questa naturale propensione all’atteggiamento sereno, beneducato ed altruistico è determinato non esclusivamente dalla morale cattolica, che valorizza il prestare aiuto a chi ne ha bisogno, ma piuttosto dall’alto valore che i Filippini riconoscono e attribuiscono al pakikisama, concetto il cui significato può essere tradotto con la espressione “sentirsi d’accordo”, “mantenere buoni rapporti”, “agire in armonia”. In tal senso è facile osservare che all’interno del proprio gruppo o nel contesto di un ambiente di lavoro dove è alta l’interazione personale i Filippini considerano fondamentale evitare aperti conflitti o disaccordi e sono propensi ad adeguarsi alla volontà della maggioranza con la idea del valore positivo dell’agire per un bene comune. Abituati a porre il proprio comportamento in relazione se non anche in funzione strumentale ai desideri e alle aspettative espresse dalla collettività a sacrificio della volontà reale individuale secondo i parametri del pakikisama, il vedere disapprovato e posto come cattivo esempio il proprio agire perché deludente o negativo crea nel Filippino la impressione di avere commesso un atto di particolare gravità che difficilmente può venire riparato in tempi brevi e tale da avere irrimediabilmente compromesso il pakikisama esistente nell’ambito dove ha agito (famiglia, lavoro, comunità religiosa, rapporti tra singolo e istituzioni). Strettamente connesso al concetto di hiya nelle dinamiche relazionali filippine è infatti il concetto di porma, la “faccia”, che condiziona il comportamento delle famiglie filippine adeguandolo alle regole della comunità, ingenerando forme di conformismo diffuso. La tranquillità sociale e la capacità di inserirsi nel mercato del lavoro e nel contesto sociale senza creare tensioni forse anche a causa di questi loro fattori culturali non deve far pensare ad una migrazione del tutto priva di potenziali problematicità. “Il fenomeno di gran lunga più importante per il processo d’integrazione degli immigrati filippini [….] è il forte sviluppo che ha avuto la sua componente minorile. Mentre il sistema delle rimesse, che disincentiva gli adulti rispetto allo sviluppo di strategie di inserimento economico diverse da quelle attuali (l’avvio di attività imprenditoriali comporterebbe l’assunzione di costi e rischi iniziali che la maggior parte dei primomigranti non si sentiva – né si sente tuttora – in grado di sostenere), tende a chiudere la collettività filippina nelle proprie nicchie occupazionali, l’avvento di una seconda generazione nata e cresciuta in Italia potrebbe aprire la collettività filippina a nuovi orizzonti di opportunità. Le condizioni di lavoro degli adulti (quasi sempre al lavoro da soli in case o in uffici vuoti o in attività di backstage di alberghi e ristoranti) non consentono di apprendere - 75 - facilmente la lingua italiana, e il fatto che molte persone alternino lavori diversi nell’arco della giornata riduce di molto le possibilità di frequentare corsi di lingua italiana” (da “Asia a Milano, pag. 47) Nasa taong matapat ang huling halakhak (ride bene chi ride ultimo) BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI RIFERIMENTO • “Fatti urbani innovativi e nuove centralità – gli immigrati e la loro immagine della città di Venezia” Tesi di Laurea all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia elaborata da Mirko Marzadro, Anno Accademico 2002/2003 • "ASIA A MILANO - Famiglie, ambienti e lavori delle popolazioni asiatiche! a cura di D. Cologna, Ed. Abitare Segesta Cataloghi, Milano 2003 • Filippine, Collana “L’arca”, Edizioni Pendragon, Bologna • S. Vecchia e G. Licini (a cura di), “Le Filippine. L’arcipelago dei contrasti”, 1998, Il segno dei Gabrielli ed., Verona • T. D. Andres / P. B. Ilada-Andres, “Understanding the Filipino”, 2001, New Day Publishers, Philippines • M. La Rosa e L. Zanfrini (a cura di): “Percorsi migratori tra reti etniche, istituzioni emercato del lavoro”, Fondazione ISMU – FrancoAngeli Editore, 2003 - 76 - Banghladesh A colpo d'occhio • Nome completo del paese: Repubblica Popolare del Bangladesh • Superficie: 144.000 kmq • Popolazione: 141.340.476 abitanti (tasso di crescita demografica 2,08%) • Capitale: Dhaka (8.942.300 abitanti, 10.356.500 abitanti nell'area metropolitana) • Popoli: 98% bengali, 250.000 bihari, altre popolazioni indigene • Lingua: bengali, inglese • Religione: 83% musulmana, 16% induista, 1% buddhista, cristiana, altre religioni • Ordinamento dello stato: repubblica parlamentare • Primo ministro: Khaleda Zia • Presidente: Iajuddin Ahmed - 77 - Le migrazioni dal Bangladesh La realtà delle migrazioni di massa dal Bangladesh è un elemento legato alla storia stessa del Paese. Il Bangladesh è un Paese di recente creazione ma di lunga storia. In passato era una regione dell'India, facente parte del Bengala. "Bangladesh" significa infatti "stato del Bengala". “Bengalese”, “Bangladeshi”, “Bangla” o “Bangladese”? “Si è preferita la dizione “bengalese” a quella “Bangladeshi” (cittadino del Bangladesh), vocabolo in lingua bengali (impiegato anche nella lingua inglese), che, sebbene più corretta, nella lingua italiana non è di uso corrente. Il termine “Bengalese” in questo capitolo si intende dunque riferito soltanto ai cittadini del Bangladesh e non a tutti coloro che per lingua, etnia, tradizioni o residenza geografica possono essere riconosciuti come appartenenti all’entità culturale, linguistica e territoriale del Bengala. Tale territorio risulta oggi diviso dalla linea di confine tra l’Unione Indiana (che annovera tra i propri Stati il Bengala occidentale e dunque conta milioni di “bengalesi” tra i propri cittadini) ed il Bangladesh (che incorpora il territorio che al tempo dell’ultimo Raj britannico era noto come Bengala occidentale” (da "Asia a Milano", Abitare Segesta, Milano, 2003, pag. 42) “Bengalese riso e pesce”, così si dice nel Sud dell’Asia a proposito degli abitanti del Bangladesh. Ed in effetti i tre elementi delle persone, della terra coltivata e dell’acqua sono presenti in quantità veramente abbondante in questo Paese. Ampio quanto circa metà dell’Italia, ma con una popolazione superiore al doppio di quella italiana (intorno ai 140 milioni), caratterizzato da un’immensità di corsi d’acqua dei delta del Gange e del Brahmaputra che sfociano nel Golfo del Bengala, il Bangladesh possiede un territorio pianeggiante intensamente coltivato ed aree con rigogliosa vegetazione selvaggia quale ad esempio la più grande foresta di mangrovie del mondo, foreste subtropicali e giungle. In Bangladesh ci sono 6 stagioni, di due mesi ciascuna. Il nome delle stagioni è primavera, estate, stagione della pioggia, autunno, inverno. Il Bangladesh è uno Stato giovane, anche se ricco di storia e tradizioni quanto l’India stessa, sorto da sofferte vicissitudini e che ancora soffre per episodici tumulti interni o catastrofi naturali. Il senso del territorio, la fierezza, il sangue versato molti anni fa ricordare per associazione di idee l’animale più noto di questa parte del mondo: la tigre del Bengala. Dopo la indipendenza dell'India dal colonialismo della Gran Bretagna nell’immediato dopoguerra, - 78 - nel 1948, questa regione ha i subito l’esperienza della separazione dall’India, pur essendone stata parte per due millenni come regno del Bengala, per costituire il Pakistan orientale, amministrato dal Pakistan occidentale (l’attuale Pakistan). Tale fatto ha determinato una grossa migrazione di famiglie dalla area che diventava Pakistan orientale alla area del Bengala che rimaneva parte dell'India. Nel 1971, a seguito di una sanguinosa guerra civile d’indipendenza, è diventata l’attuale Repubblica Popolare del Bangladesh, unificata dalla lingua e dalla tradizione bengalese e dalla religione musulmana (è il terzo Paese musulmano al mondo in termini di popolazione). Gli effetti della dominazione coloniale e del post-colonialismo e della indipendenza sono stati subito evidenti e pesanti: molte risorse sono state ancora gestite dalla Gran Bretagna che aveva esclusive commerciali e aveva pesantemente condizionato l'assetto produttivo monopolizzando la creazione e import-export di eleganti e costosi muslim sari e aveva imposto il sistema di "permanent settlement", inoltre la inesperienza del Governo indipendente non ha favorito un rapido sviluppo e la ricchezza che si desiderava, causando disordini e per molti il bisogno di cercare benessere per sé e le propria numerose famiglie all'estero. Sorto da una violenta rivoluzione costata migliaia di vite umane, il Bangladesh spese i primi dieci anni di esistenza come stato indipendente nel tentativo di ricostruire le forze duramente colpite dalla guerra e dalla carestia che seguì negli anni 1973-74. Il secondo decennio fu caratterizzato dalla crisi petrolifera aggravata dalle inondazioni degli anni 1987-88. Gli anni '90, invece, hanno visto la devastazione dei cicloni nella zona sud-orientale del paese, mentre le zone a nord furono colpite da violente alluvioni. Già dagli anni '70 sono cominciati alcuni movimenti migratori con specifiche aree di partenza e destinazioni: vi sono stati molti immigrati che partivano dalla regione della provincia di Sylhet verso la metropoli londinese e in generale la Gran Bretagna per merito di facilitazioni di ingresso per studi e lavoro per la condizione di ex-coloni, con poi successivi ricongiungimenti familiari, mentre da un po' tutto il Paese tra gli anni ’70 e ‘80 si muovevano migranti per lavoro temporaneo nella penisola araba; Malaysia, Corea del Sud e Singapore per attività nelle industrie e nei servizi, e dopo anche in Giappone, Stati Uniti (soprattutto New York) e Canada. Dagli anni '90 sono comparsi immigrati provenienti dal Bangladesh anche nel resto di Europa, ed in particolare in Italia. "Sviluppatasi a partire dal 1990, l'immigrazione dal Bangladesh all'Italia rappresenta oggi la più importante corrente migratoria diretta da quel Paese all'Europa continentale, e la collettività bengalese presente in Italia (oltre 20.000 persone secondo il Dossier Caritas di Roma 2002) è la seconda in Europa dopo quella stabilitasi nel Regno Unito. Fino alla sanatoria del 1990 (la - 79 - cosiddetta "Legge Martelli") l'Italia non aveva rappresentato una meta importante per i Bengalesi. Alla fine degli anni '90 i bengalesi residenti all'estero erano ufficialmente circa tre milioni, (poco più del 2% della popolazione ). [... ] L'Italia emerse come destinazione importante in conseguenza della crescente chiusura nei confronti degli emigranti e rifugiati (il 1989 è l'anno del crollo del muro di Berlino e la Germania si troverà presto a dover rendere più severe le procedure delle richieste di asilo) dei Paesi del Nord e Centro Europa, e i bengalesi che vi giunsero attratti dalla Legge Martelli nel 1990 furono molto abili nell'auto-organizzarsi per agevolare il processo di regolarizzazione per i propri connazionali. C’è un termine specifico in lingua bengali e diffuso e di uso comune per i cittadini di Bangladesh emigrati per esprimere il percorso e le catene migratorie e di solidarietà che si impegnano a creare un percorso che passi dalla irregolarità ad una stabile regolarità dei migranti. Questa espressione è “adam bepari”, traffico di migranti, inizialmente legato all’idea di illegalità e ora progressivamente associato alla idea di catena migratoria e rete di solidarietà entro i canali della sponsorizzazione (ora abrogata), del ricongiungimento familiare e della chiamata nominativa per lavoro in occasione dei Decreti quote. Un’altra espressione dei reticoli sociali che si sviluppano nelle comunità immigrate dal Bangladesh è costituito dai legami di famiglie transnazionali e amici compaesani immigrati che operano il sistema dell’hundi, la gestione delle rimesse secondo canali informali extra-bancari, anche se il Bangladesh ha creato il sistema degli istituti di microcredito della Grameen Bank con Mohammed Yunus, modello di “economia etica” che ha influenzato sistemi in tutto il mondo. Dal 1990 l'immigrazione bengalese è tra quelle che ad ogni nuova sanatoria fa registrare i più alti tassi di incremento, a testimonianza del progressivo radicamento delle nuove catene migratorie" (da "Asia a Milano", Abitare Segesta, Milano, 2003, pag.40) L’immigrazione dal Bangladesh in Italia è dunque un dato relativamente recente. Iniziata nei primi anni ’90 dapprima interessando solo Milano e Roma, negli anni ‘93-94 si è concentrata e cresciuta nelle città di Roma e Bari, costituendo in tali città le comunità storiche e si è intensificata nella seconda metà dello scorso decennio cominciando anche a interessare anche altre Città e Regioni come Bologna, Torino, Brescia e Gorizia e il Veneto. In questa Regione vi si sono sviluppati in particolare due insediamenti geografici legati a diverse realtà economiche e produttive locali. Una è in Provincia di Vicenza, nell'area di Schio ed Arzignano, determinata dal lavoro nel distretto del tessile e conciario, l'altra in provincia di Venezia, in particolare l’area di Mestre e Marghera, a causa del richiamo di forza lavoro nel settore degli alberghi e ristoranti e nella cantieristica navale, determinando così una catena migratoria sia all’interno del territorio italiano che dall’estero che per rapidità di crescita di numeri in valori assoluti e incidenza statistica non ha forse eguali nell’area. - 80 - L’insediamento di Bengalesi nell’area Veneziana è un caso di estremo interesse sul piano sociale ed economico e culturale nel territorio e nel Veneto. Nel 1993 i Bengalesi erano al 43° posto nella lista dei gruppi più numerosi presenti in Provincia di Venezia. A detta di un intervistato in una rivista che tratta il tema immigrazione i Bengalesi nel 1996, regolari e non, presenti a Venezia erano circa 50. Nel 2000 risultano al 7° posto della lista con 478 presenze in ambito provinciale di cui il 73% a Venezia e terraferma, e un altro 16% fra Jesolo, Meolo e Spinea. Attualmente nel solo Comune di Venezia si calcola che complessivamente siano presenti in 3000 circa, se non addirittura quasi 4000, e la loro residenzialità si è estesa con alcuni nuclei familiari anche in vari Comuni della Riviera del Brenta e dell’alto veneziano, col più alto tasso di acquisti di immobili e richieste di ricongiungimenti familiari tra gli stranieri residenti nel territorio. Una stima precisa del numero dei bengalesi presenti nella Provincia di Venezia non è possibile perchè in molti non sono residenti ma sono semplicemente soggiornanti come ospiti presso abitazioni di loro compaesani. E' frequente l'espressione "murghi" (letteralmente "gallina") per indicare la diffusa pratica del subaffitto di posti letto in abitazioni sovraffollate con ospitalità a causa delle difficoltà di prezzi del mercato dell'abitare e degli affitti e della necessità di avere un alloggio per il rinnovo del permesso di soggiorno Attualmente quindi i migranti provenienti dal Bangladesh vengono in Italia per due motivi: per lavoro e per ricongiungimento familiare. "Vi sono rilevanti differenze, in termini di grado di istruzione e di status economico-sociale, tra gli immigrati provenienti dalle città, in particolare da Dhaka, che appartengono tendenzialmente alla classe media e dimostrano livelli di istruzione piuttosto elevati, e quelli originari delle aree rurali, spesso semi-analfabeti" (da "Asia a Milano", Abitare Segesta, Milano, 2003, pag.40) La differenza tra i gruppi di immigrati dal Bangladesh non è tanto per la fede religiosa, in maggioranza musulmana e con una ridotta ma significativa presenza anche di induisti (questo è più un limite per convivenze domestiche tra famiglie bengalesi di religioni diverse se si abita “murghistyle”), ma legata al distretto di provenienza. L'area di Venezia è interessata da migrazioni provenienti da precise città e regioni, non sempre identiche agli insediamenti di bengalesi in altre città italiane. In Provincia di Venezia arrivano lavoratori e famiglie dalle aree di Greater Dhaka, Faridpur, Comilla; Noakhali, Sylhet e Kishoregonj, Barisal, Chittagong, Kulna, aree rurali di Madaripur, Shariatpur. Alcune aree di provenienza non interessano altre zone di immigrazione nelle medesime proporzioni. A Roma risulta predominare la comunità originaria di Shariatpur, mentre ad esempio a Milano quella originaria del distretto di Madaripur. Nel Nord-est, a Gorizia è numericamente ridotta la comunità - 81 - proveniente da Shariatpur, mentre è molto numerosa a Venezia. Ci sono molti che vengono nell’area metropolitana veneziana dall'area di Chittagong anche perché lì nella zona verso la riva del mare si lavora molto con le navi. Venezia ha più possibilità di lavoro in Fincantieri e ristoranti e hotel e molti bengalesi preferiscono questa città di altri posti come Monfalcone e Gorizia. L'emigrazione dal Bangladesh é sicuramente diventata una valvola di sfogo per abbassare il tasso di disoccupazione. Tuttavia chi emigra non è chi realmente non ne ha le possibilità. Le persone senza lavoro e più povere delle campagne si spostano in città, ma non hanno soldi e contatti per uscire dal Bangladesh. Chi emigra appartiene a una middle class che ha spesso studiato alle superiori o Università ed ha già lavorato ed in qualche modo può sostenere le spese di viaggio. Da alcuni anni è cresciuto sempre di più un secondo motivo di migrazione in Italia dal Bangladesh. Dopo le sanatorie e il lavoro stabile molti uomini di Bangladesh che vivono in Italia e a Venezia hanno iniziato a chiamare le mogli e i figli che vivono ancora in Bangladesh, facendo ricongiungimenti familiari. Ora dal Bangladesh arrivano sia giovani ragazzi dai 18 ai 30 anni per lavoro sia le mogli e i bambini di immigrati da Bangladesh che vivono già da anni a Venezia. Tra i Paesi che nel Comune di Venezia hanno avuto i maggiori incrementi percentuali immigratori tra la situazione al 31.12.1999 e il 31.12.2000, oltre alla Macedonia, per la quale l’eccezionale aumento (+57,4%) è comprensibile se si tiene in considerazione la vicinanza geografica e la sua situazione politica, vi è il Bangladesh, che ha avuto un aumento del 54,1%, ed è così diventata già nel 2001 la terza nazionalità straniera presente nel Comune (fonte: Servizio statistica e ricerca-Città di Venezia/Elaborazione a cura del Dott. Gianfranco Bonesso del Servizio Immigrati Comune di Venezia). Esso è anche il Paese che tra il 1999 e il 2000 ha avuto in assoluto il maggiore aumento percentuale su scala nazionale, con un incremento del 41% (fonte:”Anticipazioni Dossier statistico immigrazione 2001 della Caritas”). Nella città di Venezia secondo il Servizio Statistica e Ricerca nel registro di Stranieri iscritti all'anagrafe e residenti al 31/12/2003 si contavano in totale 1236 Bengalesi residenti nel Comune di Venezia, dei quali 908 maschi e 328 femmine. L'anno precedente erano registrati invece 768 Bengalesi residenti nel Comune di Venezia,. In un anno sono arrivati e diventati residenti 328 uomini e 140 donne, per un totale di 468 nuovi bengalesi iscritti all'anagrafe di Venezia in un anno, corrispondente ad un aumento del 60,94%. Al 1° Agosto 2004 il totale dei bengalesi residenti a Venezia risulta essere 1532, 1120 uomini e 412 donne. - 82 - Il numero continua ad aumentare perché molti chiedono ricongiungimento familiare e mogli e figli arrivano dopo mesi. Non ci sono matrimoni misti tra persone di cittadinanza del Bangladesh e persone con cittadinanza italiana, solo qualche raro caso a Roma e forse Milano, mentre a Venezia c'è al momento un solo caso conosciuto di un matrimonio misto tra un bengalese e una donna marocchina. Normalmente gli immigrati bengalesi celibi che riescono ad avere una situazione abbastanza stabile di permesso soggiorno, casa, lavoro quando tornano temporaneamente nel proprio Paese si sposano, spesso con matrimoni combinati dai familiari. I matrimoni tra bengalesi celebrati in Italia sono praticamente inesistenti, ed è al momento impossibile prevedere i comportamenti e le scelte familiari con la seconda generazione residente, al momento ancora troppo giovane. Ci sono sempre più famiglie riunite che vivono in città di Venezia, gli adulti sono quasi tutti con età dai 20 ai 40 anni, i ragazzi sono quasi tutti bambini piccoli che solo in questi ultimi 3 – 4 anni cominciano ad andare a scuola. “Il sistema scolastico in Bangladesh è abbastanza diverso da Italia. Le famiglie hanno da 1 a 3 bambini, fino a poco tempo fa in Bangladesh normalmente si avevano 4 o 5 figli. Non c'è l'asilo, per molte mamme che arrivano dal Bangladesh è una cosa nuova. In Bangladesh la scuola elementare d'obbligo dura 5 anni e si comincia all'età di 6 anni. La frequenza a scuola d'obbligo non prevede tasse di iscrizione e non vi sono spese per i libri scolastici. La scuola media (ancora di 5 anni, si finisce a 16 anni) e le superiori e Università invece non sono di obbligo e costano molto per le tasse di iscrizione e i libri. Per questo motivo molte persone in Bangladesh vanno solo alla scuola d'obbligo, perché continuare a studiare costa troppo per le famiglie povere. Si calcola che su 100 bambini che frequentano la scuola d'obbligo elementare poco meno di 50 continuano la scuola andando alle medie e high school. Molte famiglie immigrate da Bangladesh in città di Venezia sono felici di iscrivere e fare frequentare l'asilo e le scuole elementari e medie inferiori ai propri figli, ma anche desiderano che i loro figli abbiano la possibilità di imparare e mantenere viva la lingua cultura e tradizione del Bangladesh. In molti desiderano che si faccia una scuola per i bambini bengalesi nati in Italia o arrivati da Bangladesh molto piccoli. Alcuni vogliono una vera scuola di bengali, altri dicono che si potrebbero organizzare dei corsi doposcuola per i bambini bengalesi che vivono a Venezia o nel Veneto per mantenere i legami col Paese della famiglia. C'è anche chi pensa che una scuola o doposcuola per bambini all'interno di una moschea potrebbe essere una buona idea. - 83 - Ora cominciano anche le donne immigrate dal Bangladesh in Provincia di Venezia per riunione familiare a volere lavorare, a volte con parenti in Bangladesh non d'accordo. Molte donne ancora non sono abituate a lavorare e hanno figli piccoli e si trovano spesso in piazza a Mestre e Marghera, sempre vestite con i nostri tradizionali abiti e sari. Ora nel centro di Mestre e a Marghera sono stati aperti molti negozi da persone di Bangladesh con molti connazionali che ci vanno: alimentari , negozi di cd videocaddette e DVD, vestiti e bigiotteria, phone centres, ristoranti, alcune bancarelle in centro storico a Venezia: si potrebbe dire che ora esiste una piccola “Bangla Town”! A immigrati da Bangladesh manca paesaggio e natura che c'è in nostro Paese e non si trova in Italia. Nel mio Paese c'è molta agricoltura con la iuta, il riso e il the. In Bangladesh c'è tanta buona frutta e verdura: il mango e la banana, il lici, la papaia, l'ananas, il jackfriut, il cocco, il cachi, il cocomero il melone il pompelmo e l'arancio, l'uva, la mela e fiori che hanno molti profumi. Anche qui si trovano questi frutti ma solo nei negozi e sono cari e fanno sentire la mancanza di natura in città, come è vicina in mio Paese.” (da un’intervista ad una giovane madre bengalese corsista in mediazione culturale, Settembre 2004: da notare che in essa emerge un segnale di emancipazione femminile legato all’esperienza migratoria in Veneto e la nascita di attività nell’area urbana create per soddisfare le esigenze degli immigrati bengalesi stessi, fatta forse eccezione per i ristoranti e alcuni phone centres con clientela multinazionale). La “connotazione etnica” del bengalese in Italia esclusivamente come irregolare e venditore ambulante di fiori e/o ombrelli comincia ad essere superata, anche se una questo tipo di presenza è ancora diffusa, ma ora sempre più spesso in qualità di secondo lavoro occasionale con valida licenza. La comunità di Bangladesh a Venezia è molto numerosa e negli ultimi anni ha organizzato 4 associazioni, di cui una di cultura induista, e secondo alcuni le altre sono legate alle città di origine dei diversi immigrati di Bangladesh o anche alle correnti dei partiti politici al governo e di opposizione nel Paese, e per questo c’è difficoltà ad una unione delle comunità e spesso emergono tensioni tra i diversi gruppi associativi bengalesi. Le associazioni hanno fatto grosse feste in molte occasioni anche in ampi spazi pubblici come al parco Bissuola di Mestre o anche a Marghera, iniziative organizzate talvolta con il Comune e altre volte con associazioni italiane. Ci sono tradizionali feste sia civili che religiose. Il 21 Febbraio si festeggia “Amar Ekushe” o “Shahedd Day”, la festa della lingua Bengali (fino al 1952 ai bengalesi era stata imposta dai Pakistani occidentali l’uso della lingua urdu e dell’inglese e non la loro lingua madre, causando le rivolte separatiste iniziate questo giorno con la morte di 12 - 84 - studenti), il 26 Marzo il giorno della liberazione (dichiarazione della liberazione dal Pakistan del 1971) , il 13/14 Aprile c’è il capodanno Bengalese, “Pohela Boishak” (comune anche alla regione del Bengala Indiano) e il 16 Dicembre come “Biganj Dibash” (giorno della Indipendenza dal Pakistan e della costituzione politica dello Stato del Bangladesh). Come giorni di festa sono anche il 1° Maggio, il 25 e il 31 Dicembre. Sono quasi tutti mussulmani, le associazioni hanno aiutato a organizzare preghiera e festa nelle giornate di fine Ramadan e altre legate al calendario islamico. Ci sono anche Hindu che hanno organizzato loro feste legate al calendario induista. Ci sono dunque lavoratori, sempre più donne e figli con ricongiungimenti familiari, aumento di inserimenti scolastici, distinti distretti di provenienza e diverse modalità di interagire tra i vari appartenenti alle comunità, presenza di almeno due comunità religiose. Tutti elementi che fanno pensare a migrazioni anziché migrazione dal Bangladesh, con aspetti e dinamiche di realtà ancora in evoluzione e definizione. Un articolo con una intervista spiega bene il percorso di immigrato dl Bangladesh da irregolare a lavoratore con famiglia come succede a molti anche qui a Venezia. "FACEVO L'ATTORE, ORA FACCIO CONOSCERE LA MIA CULTURA AI VICENTINI" Nel 1992 sono emigrato dal Bangladesh. nonostante io volessi andare in Svizzare, l'Italia fu, praticamente, una scelta obbligata; a Roma, infatti c'era già un mio lontano parente, l'unico punto di riferimento che avessi in Europa. Dal '92 al 95 feci l'ambulante tra Roma e il lungomare. Ero clandestino ma, diversamente da altri, non ho mai avuto problemi; la fortuna mi ha sempre accompagnato e con quel lavoro, devo dire, guadagnavo bene.Poi nel novembre 1995 ho regolarizzato la mia posizione e nel 1996 sono riuscito a ritornare in Bangladesh dove mi sono finalmente sposato. Quando sono ritornato a Roma mi sono dato da fare per 'sistemarmi' come dite voi, in modo da offrire a mia moglie il meglio che potevo. Così, grazie alle conoscenze mi sono trasferito al nord. Per un anno ho lavorato in una fabbrica a Piazzola sul Brenta; stavo bene ma, in previsione dell'imminente arrivo di mia moglie, ho preferito trasferirmi in una zona dove fossero presenti altri connazionali. Temevo si potesse sentire sola.... A Piazzola ero infatti l'unico Bengalese. - 85 - Un giorno sono andato a Schio, ho parlato con degli amici e ho trovato subito un lavoro e un letto in una casa assieme a dei connazionali. Nel 1997 quando è arrivata mia moglie abbiamo vissuto per alcuni mesi assieme ad altri amici, poi nel 1998 ho trovato una casa tutta nostra e abbiamo deciso di avere il nostro primo figlio. Pur continuando a lavorare nel 2000 quando il Comune di Schio ha organizzato il primo corso provinciale per mediatori interculturali mi sono iscritto. Mi è sempre piaciuta la cultura e la possibilità di collaborare ad attività socio-culturali anche qui nel vicentino mi interessava; in Bangladesh ero attore, me qui, non potendo esprimermi in quest'ambito, ho preferito far conoscere la cultura bengalese ai vicentini. Assieme a dei connazionali in questi ultimi due anni abbiamo organizzato feste con musica, teatro e cucina bengalese che sono state molto apprezzate. Poi, lo scorso anno per dare un lavoro a mia moglie, che non fosse però troppo faticoso, hon deciso di aprire un negozio di oggettistica a Schio. E' mia moglie che lo segue, che sceglie assieme a me i tessuti, gli accessori, i vestiti e gli oggetti da proporre. E' stato un rischi, in termini economici, ma nonostante le difficoltà teniamo duro sperando di decollare. intanto la cosa bella è che tra qualche giorno nascerà il nostro secondo bambino" da "Cittadini Dappertutto di Dicembre 2003, pag. 21 Si ringrazia Rozina Akter e Suman Thakur per l'aiuto di parte di stesura della ricerca BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO • DOSSIER CARITAS 2002, ROMA • DOSSIER CARITAS 2003, ROMA • RIVISTA "CITTADINI DAPPERTUTTO" DI DICEMBRE 2003 • "LA TORRE DI BABELE" DI G.SAVINI, VENEZIA 2004 • "BANGLADESHIS IN ROME: THE POLITICAL, ECOPNOMIC AND SOCIAL STRUCTURE OF A RECENT MIGRANT GROUP" DA DA "QUESTIONI DI POPOLAZIONE IN EUROPA. UNA PROSPETTIVA GEOGRAFICA", BOLOGNA 1996 • “Fatti urbani innovativi e nuove centralità - gli immigrati e la loro immagine della città di Venezia” Tesi di Laurea all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia elaborata da Mirko Marzadro, Anno Accademico 2002/2003 • “L’immigrazione familiare tra Bangladesh e la provincia di Venezia” Tesi di Laurea in Scienze Politiche all’Università di Padova a cura di Laura Tegon, Anno Accademico 2002/2003 • "ASIA A MILANO - Famiglie, ambienti e lavori delle popolazioni asiatiche! a cura di D. Cologna, Ed. Abitare Segesta Cataloghi, Milano 2003 • M. Yunus, “Il banchiere dei poveri”, Feltrinelli - 86 -