libro dei popoli - ISTITUTO MARCONI

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libro dei popoli - ISTITUTO MARCONI
LIBRO DEI POPOLI
Indice
Premessa............................................................................................................................................... 3
Introduzione..........................................................................................................................................4
Sezione Africa...................................................................................................................................... 5
Senegal.............................................................................................................................................6
Ghana............................................................................................................................................. 20
Nigeria............................................................................................................................................34
Sezione Europa................................................................................................................................... 51
Ucraina...........................................................................................................................................52
Moldavia........................................................................................................................................ 60
Sezione Asia....................................................................................................................................... 65
Filippine......................................................................................................................................... 66
Banghladesh...................................................................................................................................77
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Premessa
Nel promuovere questa raccolta di storie, aneddoti, proverbi provenienti da tutto il mondo, la Rete
Regionale per l’Immigrazione vuole mettere a disposizione dei suoi utenti una parte del ricco e
multicolore patrimonio che sta raccogliendo nel territorio a contatto con tutti gli operatori regionali
che si occupano di immigrazione e con le associazioni degli immigrati.
Sono stati gli operatori territoriali della Rete, insieme ai soci delle associazioni degli stranieri a
raccogliere il materiale per questa prima stesura del Libro dei Popoli che potrà arricchirsi dei
contributi di tutti gli utenti che vorranno partecipare nei mesi successivi.
Il nuovo sito Web della Rete Informativa e Osservatorio Regionale sull’Immigrazione, ristrutturato
e dotato di nuovi strumenti, ci permette infatti di comunicare in rete fra tutti.
La raccolta antologica che qui presentiamo è solo l’inizio del Libro dei Popoli, al quale si potranno
aggiungere via, via tutte le storie, gli aneddoti, i proverbi, le notizie geografiche particolari, le ricette
culinarie ecc. dei 173 paesi del mondo che sono rappresentati nella nostra Regione.
Gli stili diversi in cui sono presentate le varie nazioni, riflettono sia lo spirito delle associazioni che
hanno contribuito a scriverle che la personalità dell’operatore della Rete Regionale che le ha
raccolte.
Per dare inizio al Libro dei Popoli abbiamo scelto alcune delle nazioni maggiormente
rappresentative delle etnie presenti in Veneto.
La conoscenza storico-geografica delle nazioni d’origine degli immigrati presenti nel nostro
territorio è uno strumento necessario, come ben sanno tutti gli operatori italiani che si occupano a
vario titolo di immigrati. Questa conoscenza, unita a quella degli usi, dei costumi e dello spirito che
caratterizza i popoli presenti nel nostro territorio, è a disposizione nel sito della Rete Informativa
Regionale, un progetto della Giunta Regionale del Veneto, promosso dall'Assessorato ai Flussi
Migratori.
Stefania Paternò
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Introduzione
Questo lavoro riunisce esempi tratti dai patrimoni culturali degli immigrati extracomunitari
attualmente presenti nel Veneto. Senza quasi che ce ne accorgessimo, la nostra regione ha accolto in
questi ultimi anni i rappresentanti delle più diverse popolazioni dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa
Orientale.
Se fino ad ora l’integrazione culturale è stata quasi sempre intesa in modo unilaterale, ovvero come
il puro e semplice adattarsi dell’immigrato e della sua famiglia alle nostre leggi, usi e costumi, oltre
che, ovviamente, all’apprendimento della nostra lingua, è ormai tempo che si produca anche una
nostra presa di coscienza e approfondimento se non delle svariate lingue dei nostri ospiti, almeno di
parte delle loro culture originarie e originali. Si tratta di un processo reso sempre più necessario non
solo dalla presenza ormai stabile di nuclei e comunità sempre più cospicui di immigrati appartenenti
alle più diverse culture e religioni, con i quali ci incontriamo ormai noi ed i nostri figli nelle più
diverse occasioni e situazioni quotidiane, dalla scuola al lavoro, dal mercato al condominio. Ma
ancor più nell’interesse degli stessi immigrati che soffrono profondamente per il distacco dal
proprio habitat naturale, che avvertono e misurano con giusto disagio le nostre incomprensioni
grandi e piccole di quelli che per loro restano comunque dei valori e delle espressioni fondanti della
loro vita e di quella dei loro figli, e che quindi rischiano di perdere gradualmente la loro identità.
Mentre invece l’identità culturale e soprattutto religiosa, che si esprime nei racconti e nei frammenti
di vita raccolti, è un bene che ogni comunità deve poter conservare e valorizzare anche vivendo fra
noi, perché solo tale identità può garantire nel tempo la serenità e la sicurezza anche psicologica sia
dell’immigrato che nostra. Il rapporto fra le culture, che esiste da quando esiste l’uomo, non è infatti
di per sé causa di conflitto, bensì occasione sempre proficua di reciproco arricchimento, che lungi
dall’intaccare o corrompere le rispettive identità, anzi le rafforza e le conferma consentendo di
esprimersi liberamente l’una vicino all’altra.
Formuliamo quindi l’augurio che anche questo piccolo ma significativo contributo possa costituire
un mattone di quella casa comune di civiltà veneta che, come già avvenne nei secoli passati, ha
sempre accolto con dignità ed onore lo straniero che viene in pace nelle nostre terre offrendoci il
frutto del suo lavoro, della sua cultura e della sua spiritualità.
Alessandro Grossato
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Sezione Africa
Senegal
A cura di Giovanni Savini
Ghana
A cura di Camis Daguì
Nigeria
A cura di Camis Daguì
Proverbi Tuareg
Quando vedi la luna circondata da un alone, c'è un re che da qualche parte viaggia in quel
chiarore.
Chi corre sempre, saprà sempre meno cose di colui che resta calmo e riflette.
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Senegal
A colpo d'occhio
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Nome completo del paese: Repubblica del Senegal
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Superficie: 196.190 kmq
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Popolazione: 10.852.147 abitanti (tasso di crescita demografica 2,52%)
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Capitale: Dakar (2.613.700 abitanti)
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Popoli: 43,3% wolof, 23,8% fulani, 14,7% sérer, 3,7% diola, 3% mandingo, 1,1% soninké, 1%
europei e libanesi, 9,4% altri
•
Lingua: il francese è la lingua ufficiale del paese, ma si parlano anche il wolof, il pulaar, il diola,
il sérer e il mandingo
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Religione: 94% musulmana, 1% credenze e culti indigeni, 5% cristiana (prevalentemente
cattolica)
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Ordinamento dello stato: repubblica presidenziale
•
Capo dello stato: Abdoulaye Wade
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Primo ministro: Macky Sall
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In piroga col griot e il marabout, tra leoni e baobab.
“Prima di partire si paga il prezzo” (proverbio senegalese)
I proverbi sono una delle grandi ricchezze dell’ Africa. I proverbi sono “libri scritti nella memoria”,
“cose per saggi”, sono specchi nei quali si riflettono le varie sfaccettature della vita individuale,
familiare e sociale.Traducono in espressioni essenziali, ritmate, ricche di assonanze e facilmente
memorizzabili i tesori che la saggezza popolare è andata accumulando lungo i secoli o millenni e
che riprende e ripropone di continuo. I proverbi ritornano con insistenza nelle conversazioni della
vita di ogni giorno, nelle circostanze più o meno ufficiali della vita comunitaria, nei discorsi dei
politici e nelle opere degli scrittori. Essi sono senza dubbio la via di accesso più immediata e sicura
alla conoscenza dell’ anima africana, essendo la via per la quale è stata trasmessa di generazione in
generazione la saggezza acquisita mediante l’ esperienza. Il proverbio sopra citato quindi è senza
dubbio significativo della consapevolezza tra i Senegalesi del valore del sacrificio e dell’impegno
che comporta l’impresa migratoria.
Ma perché il Sénégal tra tutti i Paesi dell’africa Subsahariana è forse quello maggiormente
protagonista?
Alcuni simboli e parole-chiave possono essere indicatori di un dinamismo particolarmente radicato,
a partire forse dal nome del Paese.
Tra le due possibili origini della parola Sénégal (da Sanadja i berberi mauri che spadroneggiavano
nella regione del Fiume, oppure dalla lingua wolof sunu gal, che vuol dire la nostra piroga”) quella
più verosimile sembra essere la prima. La seconda invece è piaciuta più nel clima presidenzialletterario ispirato da Senghor, come efficacia metafora per rappresentare la situazione del Paese:
tutti sulla stessa barca, per un popolo in movimento e che nella piroga diretta verso un futuro di
speranza ha effettivamente uno degli elementi più caratteristici e tipici.
Il migrante senegalese per motivi economici è alla ricerca di ciò che egli definisce yokute, la
“volontà di migliorare”.
“Io sono invece convinto che il nome del mio Paese derivi dal riferimento alla piroga, è così
presente nella nostra vita quotidiana da sempre nelle comunità di pescatori che è la cosa più naturale
che sia stata una delle prime frasi dette ai berberi e ai Francesi”.
(da un’intervista a Mathiaw ‘Ndiaye, Associazione Lavoratori Senegalesi di Schio)
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La bandiera della Repubblica del Sénégal è a tre bande verticali di colore verde (con riferimento ai
raccolti dell’agricoltura), giallo (riferimento al sole) e rosso (riferimento al sangue versato per
l’indipendenza e libertà) con al centro una stella verde a cinque punte (riferimento all’Islam: verde è
il colore sacro per questa religione, cinque punte è un richiamo ai “pilastri” o “comandamenti”
(arkan) dell’Islam: in ordine, sono la shahada , la professione dell’unicità di Dio e che Maometto è
il suo Profeta, la salat ,“preghiera”, il sawm , il digiuno del Ramadan), la zakat , la “elemosina” e il
hajj , il pellegrinaggio).
“Quando sale o scende davanti ad un edificio pubblico, i veicoli hanno l’obbligo di fermarsi in
segno di rispetto. Sono previste multe per i distratti o gli irriverenti.”
“Un solo popolo, un solo fine, una sola fede” Il motto nazionale è la vecchia parola d’ordine di
Senghor, figura storica della cultura e politica moderna del Paese: primo insegnante africano di
scuola secondaria in Francia, autore di poesie e promotore della cultura della “négritude” e padre
spirituale e Primo presidente della Repubblica del Sénégal.
“Di Senghor sono anche le parole dell’Inno:
Pizzicate la kora, battete i balafons,
il leone ha ruggito,
il re della brousse
con un salto si è lanciato,
dissipando le tenebre.
Sole sulle nostre paure, sole sulla nostra speranza.
In piedi, fratelli ecco l’Africa riunita
Fibre del mio cuore verde.
Spalla contro spalla, miei più che fratelli,
o Senegalesi, in piedi!
Uniamo il mare e le sorgenti, uniamo la steppa e la foresta!
Salve, madre Africa, salve, madre Africa!
Da cantare con tono marziale, su un’aria da operetta.
Il baobab, il leone, espressioni diverse di un’idea di maestosità, sono gli emblemi nazionali ufficiali,
mentre l’onore, joom, la tolleranza, mun, la moderazione, kersa, l’ospitalità, teranga, sono
considerati i pilastri etici della civiltà senegalese” (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli,
1994 Clupguide, Milano)
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Il leone è considerato per le caratteristiche della forza e del coraggio, quest’ultimo considerato un
carattere tipico dei Senegalesi, il baobab per le caratteristiche delle grosse dimensioni e della
longevità è assunto a simbolo per esprimere la nobiltà d’animo che è continua e non occasionale o
circostanziale.
“E’ vero, il leone e il baobab sono i simboli più famosi del nostro Paese. Infatti come viene
chiamata la nostra nazionale di calcio? Les lions du Sénégal!
A me piace ricordare anche un altro simbolo misto tra storia e leggenda in Sénégal, ossia Malaw.
Malaw è il cavallo bianco di Lat Dior, lo storico re wolof eroe della rivolta per l’indipendenza del
Sénégal.
E’ un cavallo bianco che lo ha accompagnato nella sua battaglia contro il colonialismo e contro la
costruzione delle linea ferroviaria tra Dakar e Saint Louis che divideva il suo regno e quando Lat
Dior fu ucciso dai coloni francesi, i Francesi vollero portare il cavallo Malaw per fare vedere al
cavallo le ferrovie che il suo padrone si rifiutava di accettare e aveva strenuamente osteggiato dando
molto filo da torcere ai coloni stessi.
Quando era vicino ai binari il cavallo è morto per fedeltà al suo padrone e allo spirito di
indipendenza del Sénégal senza dare la soddisfazione ai coloni di sentire vinta la sfida.
Ora Malaw è diventato famoso simbolo che si vede alla fiera internazionale vicino all’aeroporto
Léopold Sénghor di Dakar” (da un’intervista a Mathiaw ‘Ndiaye, Associazione Lavoratori
Senegalesi di Schio)
Guardando la carta geografica, il Senegal ricorda per la propria forma il profilo di una testa umana
rivolta verso l’Oceano Atlantico, quasi a raffigurare anche geomorfologicamente una naturale
tendenza al guardare oltre il proprio orizzonte, tratto caratteristico molto diffuso presso le
popolazioni che vi abitano.
Ex colonia francese, con molte di quelle difficoltà che sono tipiche dei Paesi africani che un tempo
erano dominio di potenze europee, il Senegal e la sua società hanno incontrato i maggiori interessi
da parte degli studiosi di sociologia delle migrazioni per il proprio dinamismo e la capacità di
trovare un equilibrio tra modernità e tradizioni sociali.
L’immigrazione senegalese in Europa e nel nostro territorio è una realtà molto particolare per vari
aspetti, non riducibili alla diffusa “connotazione etnica” o stereotipo di essere solo venditori
ambulanti non in regola con le licenze o i documenti.
Secondo l’Istat a fine 2000 nel Veneto risultavano presenti 4.340 dei circa 40.000 Senegalesi
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immigrati regolari in Italia, in prevalenza maschi (circa 92%, ma ora comincia ad esservi un
graduale aumento della presenza femminile) giovani sotto i 30 anni, quasi tutti venuti
esclusivamente per lavoro (la presenza immigrata senegalese è quella che tra i vari Paesi
d’immigrazione registra la più alta percentuale assoluta di permessi di soggiorno per lavoro come
motivo di ingresso nel nostro territorio: secondo il Dossier Caritas 2001 risulta pari al 94%).
Altre fonti come il Dossier Caritas 2003 indicano a fine anno 2003 come soggiornanti in Italia circa
51.000 Senegalesi.
In Veneto la maggior parte dei senegalesi dimostra una tendenziale preferenza per i piccoli e medi
centri dove è più facile trovare casa e si è più vicini alle aree industriali nelle quali poi gli stessi
spesso vanno a lavorare. La presenza Senegalese più numerosa è soprattutto nelle Province di
Treviso e Vicenza.
E’ necessario ricordare che il Sénégal è una ex colonia francese che ha occupato un posto centrale
nella politica coloniale francese, essendo la capitale della A.O.F (Africa Occidentale Francese).
L’antica presenza francese in Sénégal, anche precedente alla colonizzazione, ha fatto sì che il
Sénégal ed i senegalesi siano stati usati dai francesi come intermediari nell’estensione dell’impero
coloniale verso altri paesi africani.
I Senegalesi che all’epoca avevano la cittadinanza francese erano quelli residenti nei famosi "4
Comuni": Saint-Louis, Dakar, Rufisque e Gorée.
Negli altri paesi africani, questi cittadini dei 4 comuni venivano definiti "commis", per evidenziare
il loro ruolo di intermediari, di ausiliari dell’amministrazione francese, ruolo che li portava ad
essere, in effetti, i primi emigranti senegalesi, seppure all’interno dell’Africa stessa: possiamo così
spiegarci l’attuale presenza di comunità senegalesi in Costa d’Avorio o nel Benin.
Parallelamente a questo primo movimento migratorio dei commis, se ne è sviluppato un altro che ha
interessato la popolazione dei Soninké, che occupa la zona a cavallo del fiume Sénégal, a nord-est.
Diciamo, quindi, che i primi movimenti dei Senegalesi sono iniziati sotto la direzione francese e
che, a partire dal 1945, dopo la seconda guerra mondiale, il fenomeno ha assunto una dimensione
più importante, estendendosi anche all’etnia Halpular, e si è indirizzato verso l’esterno, cioè verso la
Francia, che diventa il polo di attrazione principale dell’emigrazione senegalese, così come accade,
in genere, per tutte le ex colonie rispetto ai paesi colonizzatori.
Questo movimento è continuato fino al 1974, quando in Europa ha cominciato a delinearsi il
problema dell’accettazione delle comunità immigrate. Ricordiamo che in questi anni si assiste ad
una riaffermazione dei movimenti nazionalisti ed hanno inizio determinate politiche dell’Europa,
partendo dagli accordi tra Francia e Germania fino al recente accordo di Schengen.
Attualmente sono intervenuti dei mutamenti nell’orientamento dei flussi migratori che non
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avvengono più verso le nazioni coloniali, ma più generalmente verso tutto l’Occidente, e, in
particolare, l’Italia è divenuta meta dell’emigrazione senegalese in questi ultimi anni, intorno al
1982.
Quella senegalese è dunque una immigrazione da noi cominciata soprattutto verso i primi anni ’90,
dopo decenni di esperienze migratorie avute nella Francia. A quanto pare i primi Senegalesi che
sono venuti nel nostro Paese non giungevano infatti esclusivamente dall’Africa ma, in consistente
parte, dalla nostra “vicina di casa”, a seguito della ricerca di nuovi sbocchi lavorativi e
dell’irrigidimento della normativa in materia immigratoria.
Se inizialmente la migrazione era esclusivamente pensata come un’esperienza temporanea dei
modou-modou (è questo il termine in lingua wolof che indica il migrante senegalese) con un rientro
definitivo nel suo Paese di origine dopo tre – quattro anni, ora sono meno rari i casi di Senegalesi
che si radicano nel territorio della Regione del Veneto e pensano di stabilirsi definitivamente,
mentre sono ancora molti che continuano a mantenere un sistema di “famiglia transnazionale”
divisa tra Veneto e Sénégal, anche se negli ultimi anni è sensibilmente aumentata la presenza
femminile e la seconda generazione, favorendo una maggiore apertura e conoscenza tra le comunità
alloctone e quella autoctona. I Senegalesi, per natura quasi sempre sorridenti, aperti e amichevoli,
normalmente diventano ancor più disponibili e cordiali se viene loro dimostrato anche un semplice
interesse circa il loro gruppo etnico e le tradizioni caratteristiche. Preparatevi in tal caso ad ascoltare
lunghi ed interessanti racconti di feste, costumi e curiosità descritti con molto entusiasmo e
partecipazione da parte loro.
Oltre a usi e abitudini molto diffusi in quasi tutte le società e culture dell’Africa occidentale e
subsahariana, i Senegalesi presentano elementi caratteristici sia relazione alla loro presenza sia alle
modalità del loro vivere la esperienza migratoria in Paesi non africani.
La società senegalese attuale non può essere descritta in termini di semplice contrasto tra tradizione
e modernità. Le forme pure della società tradizionale, infatti, non esistono praticamente più, ma
anche la formazione delle classi e degli strati sociali moderni è tuttora incompiuta.
“Malgrado la comparsa dell’individualismo e una certa ‘razionalizzazione’ dei rapporti umani,
conseguenza dell’istruzione, dell’urbanizzazione e della diffusione dell’economia monetaria e del
commercio, la maggior parte dei senegalesi continua a centrare i propri rapporti sociali sulla
parentela e sulla origine etnica. (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli, 1994 Clupguide,
Milano, pagg. 76-77)
“Un tempo (ma in parte è vero ancor oggi), in Sénégal, già dal cognome si poteva collocare
professionalmente un individuo. Ogni cognome corrispondeva ad un determinato mestiere; ad es.
coloro che si chiamavano Jum, Ciaam (o Thiam), e Jeç discendono da famiglie la cui attività tipica
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era quella di fabbro, i Mbow sono invece discendenti di pellai e i Sow dei falegnami. Ora tali rigide
divisioni non sono sentite così categoriche e anche l’esperienza migratoria determina cambiamenti
nei ruoli sociolavorativi dei Senegalesi di diversa origine etnica o professionale.
I Senegalesi sono in armonia l’uno accanto all’altro, i gruppi etnici che lo compongono non sono
stati forzati alla convivenza e questo ha fatto sì che nell’epoca dell’indipendenza post-coloniale non
conoscesse instabilità e guerre civili sanguinose come hanno conosciuto e stanno ancora vivendo
molti altri Paesi africani. Anche se vi è stato un radicale mutamento delle organizzazioni
istituzionali e della vita politica del Paese, rimangono ancora vivi e sentiti all’interno delle diverse
comunità i ruoli carismatici coperti dai capi tradizionali.
Come già accennato, spesso gli immigrati senegalesi, specie negli anni ’80 e primi anni ‘90, proprio
in occasione dello shock culturale dello stabilirsi anche se pur provvisoriamente nei Paesi Europei,
hanno dimostrato e dimostrano ancora oggi una riscoperta e valorizzazione delle proprie radici
etniche più risalenti al punto di considerarsi, in virtù di differenze che risalgono in realtà a secoli
addietro, distinti da altri connazionali, anche se con essi comunque stanno insieme pacificamente,
salvo alcune rare eccezioni.
E’ difficile tracciare le origini dei senegalesi nei tempi remoti. Emerge come ogni villaggio abbia
una sua storia, all’interno di quella del continente africano e dei regni che furono presenti nelle
epoche passate in Sénégal. E’ importante sottolineare la fortissima migrazione interna nello stato,
oltre a quella internazionale che ha portato numerosi Senegalesi in Veneto. I vari gruppi etnici si
trovano oggi a vivere mescolati, e le persone imparano a conoscere e rispettare oltre alla madre
lingua e alla propria tradizione, anche le altre presenti in Sénégal.
La trasmissione del sapere delle tradizioni di una comunità di un villaggio non sono più esclusiva
dei griots, figure caratteristiche dell’Africa Occidentale simili a cantastorie, che conservavano
canzoni e storie che tramandavano oralmente in incontri sotto l’arbre à palabre, il baobab che
normalmente si trovava al centro del villaggio e costituiva il grande punto d’ombra e incontro del
gruppo per ascoltare e conoscere la loro tradizione.
Molti baobab antichi hanno delle cavità che sovente vengono usate per seppellire i griots
particolarmente riveriti.
Inevitabile ricordare il famoso proverbio africano “un anziano che muore è una biblioteca che
brucia”, legato alla importanza della tradizione orale del sapere e delle tradizioni di questo
continente.
Secondo alcune testimonianze contenute in pubblicazioni tematiche, quanto si impara
nell’educazione tradizionale senegalese ruota attorno a tre verbi: jàpp, (tenere in mano), fonk (avere
considerazione per; stimare), begg (voler bene) ed a tre sostantivi: liggéey (lavoro), ngor (onestà),
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diina (religione).
“In wolof si dice ad esempio: “liggéey danuy koy jàpp”, letteralmente “il lavoro lo si deve tenere in
mano”, ovvero il lavoro va rispettato; “ngor danuy koy fonk:” l’onestà va stimata; “diina danuy koy
begg”: la religione va amata.
L’educazione fa parte di una morale, ngor, che deriva da gore, essere onesto. Il termine dipende dal
grado di jom che un individuo possiede. Il jom è l’essenza dell’educazione senegalese. Se uno la
possiede si dice che può vivere ovunque, sarà molto richiesto come amico e chiunque sarà fiero di
lui. Ecco i concetti che aiutano l’emigrato senegalese a realizzare i suoi sogni. Il ngor e il jom
ricordano gli impegni nei confronti di chi è rimasto in patria. Il jom guida i cuori, i passi. Il ngor,
invece, rende affidabili agli occhi di tutti.” (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio
sull’immigrazione senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye) Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia,
Torino, pagg. 20-21)
Parole che si richiamano a valori etici e modelli di comportamenti positivi abituali dei Senegalesi
sono pure spesso i nomi di associazioni di immigrati provenienti da questo Paese e presenti in
Veneto.
“Il nome della nostra Associazione, DEGGO, non è casuale. Partendo dal senso etimologico
proviene dal verbo degg, che vuol sentire capire, quindi esser capaci dio ascoltare e ricevere il
messaggio, essere in grado di interpretare le parole che si ascoltano. Deggo è una derivazione di
questa parola, in italiano potrebbe assumere il significato di “intesa”, “mettersi d’accordo”,
“condivisione di una cosa comune fra tutti i membri di un gruppo”. E’ in contrapposizione a
“fraintendimento” nel senso di mancanza di condivisione, mancanza di avere un comune senso di
sentire e volere capire. Deggo vuole esprimere lo scambio di punti di vista per arrivare per arrivare
allo spirito di gruppo condiviso e che mira ad obiettivi comuni che ci si impegna a raggiungere e
condividere come membri di gruppo specie per esperienze quali la migrazione, con una idea di
approcci mai unilaterali ma partecipati”
(da un’intervista a Amadou Dia, presidente Associazione dei Senegalesi della Provincia di Venezia
“Deggo”)
“La nostra associazione si chiama Japoo. Significa abbracciarsi, mettersi insieme nel cammino, per
lavorare e andare avanti assieme. La nostra associazione nelle tessere dei soci ha sia la bandiera
italiana che quella senegalese e il simbolo delle due mani che si stringono, per significare la volontà
di un percorso insieme anche agli italiani, perché è un valore che ci impegniamo a portare avanti”
(da un’intervista a Pape Gueye, Associazione Japoo della Provincia di Padova)
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“La associazione si chiama Teranga perché questa parola è un elemento tradizionale di noi
Senegalesi, si può tradurre come ‘ospitalità’, ‘accoglienza’, e nostra intenzione è di trasmettere
questo spirito di apertura e accoglienza anche in occasione della immigrazione”
(da un’intervista ad Abu Faye, Associazione Teranga di Venezia)
“Ande Dieuf significa ‘agire per uno scopo comune’, ‘insieme si può fare qualcosa’, è
un’espressione molto nota e usata nel mio paese perché anche un partito ha questo nome, ma noi
non abbiamo riferimenti politici ma solo esprimiamo lo scopo della associazione già dal suo stesso
nome: volontà di integrarsi, aiutare a risolvere un po’ tutti i vari problemi che trova l’immigrato
senegalese, dal lavoro all’apprendimento della lingua italiana al disagio abitativo”
(da un’intervista a Moustapha ‘Ndiaye, Associazione Ande Dieuf)
Il Senegal è risultato uno dei Paesi dell’Africa Occidentale che ha vissuto in modo meno
drammatico e cruento di altri il passaggio da colonia a Stato autonomo senza peraltro perdere
identità e tradizioni sopravvissute attraverso i secoli e i diversi domini subiti.
La società del Senegal è composta da diversi gruppi etnici che nei secoli, in seguito agli spostamenti
dai villaggi alle città e ai matrimoni misti sempre più frequenti, si sono relativamente amalgamati
tra loro, pur rimanendo consapevoli delle proprie identità distinte.
Una volta giunti in Italia i Senegalesi, in regola o meno, beneficiano di una potente rete di
solidarietà. Si tratta, di solito, di aiuto offerto da parenti oppure da amici stretti o amici di amici o
infine compaesani.
La solidarietà è anche vista in funzione di aiuto per i più giovani ed inesperti nell’esperienza
migratoria all’estero, proprio per non far perdere quei valori morali , jom e ngor, considerati come
virtù fondamentali per ilo corretto cammino di vita. C’è un proverbio wolof che dice “mag moo
mag yaay, moog mag baay”, ossia “Il/la fratello/sorella maggiore è più anziano della mamma e del
papà”.
Solitamente i Senegalesi sentono come prezioso patrimonio personale di ciascun individuo
l’identità del proprio originario gruppo etnico che viene a contraddistinguerlo dai suoi connazionali.
Solitamente questa componente non sembra costituire un elemento che li faccia allontanare tra di
loro o che possa ostacolare le possibilità di convivenza e condivisione di esperienze comuni sia
positive che negative (vi sono comunque eccezioni che verranno evidenziate qui in seguito e nella
parte finale del presente lavoro).
Qualche volta ad esempio è capitato di incontrare giovani appartenenti alla minoranza etnica
senegalese Bambara, originaria e prevalentemente presente nel confinante stato del Mali, e notare
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come in loro, pur se migrati da generazioni dal Mali nel Senegal e ora arrivati in Europa assieme ad
altri gruppi, sia vivamente sentita la passata condizione dei propri antenati di popolazione regnante
e “superiore” in un Impero che per secoli aveva dominato le altre (che, per esempio, dovevano
pagare loro tributi o inginocchiarsi alla loro presenza in segno di riconoscimento di sottomissione)
in un’ampia area del Sahara occidentale, al pari della minoranza senegalese Soninké (etnia
dominante nell’antico Impero del Ghana, che non corrisponde affatto all’attuale Stato del Ghana! L’
Impero del Ghana, antico stato sudanese, nell’VIII° secolo comprendeva il Mali e parte della
Mauritania, della Guinea e del Senegal. L’attuale stato del Ghana è situato nell’Africa occidentale,
fra la Costa d’Avorio, il Burkina Faso e il Togo e nell’epoca coloniale era conosciuto come Costa
d’Oro. Nell’attuale Ghana vive principalmente il gruppo etnico-linguistico Akan, del quale fanno
parte i Fanti e i quasi leggendari Ashanti), ma senza che questa differenza di origini determini
rivalità e contrasti diffusi con gli altri gruppi, anche se in certi casi sembra esistere (sul punto si
parlerà più avanti).
Tra i gruppi numericamente maggiori il primo posto va agli Wolof, la cui lingua, assieme al francese
(rimasta anche dopo l’epoca coloniale lingua ufficiale delle Amministrazioni e degli Uffici e parlata
con una certa disinvoltura da gran parte dei Senegalesi, anche nella sua forma semplificata, il
français tirailleur) è la più diffusa nel Senegal, dove risultano esserne parlate circa 35, ed è
utilizzata dall’80% circa della sua popolazione, anche se i Wolof costituiscono solo il 36% della
popolazione senegalese.
Questo ultimo aspetto è abbastanza significativo perché anche se la maggioranza di senegalesi
immigrati nel nostro territorio parla Wolof (ad esempio l’assoluta maggioranza dei venditori
ambulanti parla quasi esclusivamente solo questa lingua) non significa necessariamente che tutti
questi siano di tale etnia.
Il nome sembra derivare dal regno Djolof fondato secondo la tradizione popolare da Ndiadiane
Ndiaye nel XIV secolo circa. Tale gruppo etnico in epoche passate aveva pure una propria
aristocrazia ed un sistema gerarchico di caste, diversamente ad esempio dalla minoranza Diola (o
Dyoula-Fogny).
“L’aspetto degli Wolof, alti, tendenzialmente magri e dai lineamenti fini, è lo stereotipo della
bellezza nera, e tali erano considerati dai colonizzatori. E’ questo un altro elemento che contribuisce
a rafforzare negli Wolof una certa arroganza, che tuttavia è unita ad una effettiva forza di volontà e
intraprendenza” (da “Senegal” di Papa Saer Sako, 1998 Pendragon Ed.)
I Sérère costituiscono la seconda etnia del Paese (20% della popolazione, apparteneva a questa etnia
anche il “padre” e primo Presidente del moderno Senegal, Léopold Senghor), risultano rispetto agli
Wolof più legati alle tradizioni della loro terra, e assieme alla minoranza dei Diola sono l’etnia che
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maggiormente ha aderito al cristianesimo, praticato ora solo dal 2% della popolazione senegalese,
che per il 92% è musulmana (sul punto v. avanti) e per il rimanente 6% è animista (fonte: numero
17-Ottobre 2001 di “Cittadini Dappertutto”, contenete un servizio e reportage speciale sulla
comunità senegalese nel Triveneto).
Oltre ad altri gruppi tra i quali Toucouleur (terzo gruppo, circa 13% della popolazione), Mandingo,
Bassari, vanno ricordati i Peul, diffusi in un po’ tutta l’Africa occidentale (ad esempio Mali,
Nigeria, Ghana) anche come Fulfudes-Pulaar o Foulbé, i quali nel Senegal hanno fama di stregoni e
per questo vengono tenuti in considerazione e talvolta temuti dagli appartenenti alle altre etnie, ed
infine i Sarakholé, di carnagione abbastanza chiara, noti per il loro altruismo e per essere
particolarmente dinamici ed intraprendenti al punto da costituire forse il maggiore gruppo etnico
senegalese emigrato in Francia e, probabilmente, in un secondo tempo, da questo Paese poi
emigrato anche in Italia.
Quelle della solidarietà e della laboriosità sono in effetti caratteristiche pressoché costanti in tutti i
gruppi etnici senegalesi e senza dubbio particolari risorse sulle quali in buona parte gli stessi
fondano le proprie speranze di un successo nella esperienza migratoria.
La spontanea tendenza al cercarsi e riunirsi è in primo luogo dettata dal desiderio di avere maggiore
sicurezza attraverso l’unità del gruppo e dalla funzione dello stesso di costituire per ciascuno che vi
fa parte, e soprattutto per ‘i nuovi venuti’, un punto di riferimento ed un aiuto nel proseguire il
giusto e corretto percorso di vita.
“Gli emigranti creano poi associazioni che raggruppano ad esempio persone provenienti dallo stesso
villaggio, per mantenere vive le tradizioni. Tale sistema è erede delle associazioni nate in Africa in
seguito all’esodo dalle campagne alle città (quando il sottoscritto studiava a Dakar, ad esempio,
faceva parte dell’Association des Resortissants de Kougheul). Lo scopo delle strutture era (ed é9 di
offrire aiuto agli aderenti, permettendo, ad esempio, di raccogliere denaro quando è in serie
difficoltà economiche un membro o muore un membro e serve pagare le spese di rimpatrio della
salma”. (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione senegalese in
Italia; di El Hadji Alioune (Baye)Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg.
La tendenza all’associazionismo, più che essere rappresentata dalla circostanza del non apparire i
Senegalesi quasi mai da soli per le vie e piazze di una nostra città, e non solo come venditori
ambulanti, è quindi determinata da fattori tradizionali ed abituali delle loro usanze ed
organizzazioni comunitarie praticate già nel loro Paese e dal diffuso e caratteristico sistema
organizzativo e religioso delle confraternite, specie quelle muridi, basate sulle strutture delle scuole
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di misticismo religioso musulmano specificamente senegalese (principalmente Wolof) e di matrice
dichiaratamente tollerante e pacifista, capaci pertanto di essere “esportate” senza pericoli ma anzi
con alcuni vantaggi sul piano sociale ed economico, nei termini di controllo del corretto ed.onesto
comportamento dei fedeli e di sostegno economico alle comunità e confraternite in Sénégal.
Secondo i dati ufficiali, il 94% dei Senegalesi è mussulmano, il 5% cristiano, mentre solo l’1%
segue ancora una delle religioni tradizionali. Nella realtà un profondo processo di sincretismo ha
reso meno definiti i confini tra i credi rendendo quindi queste cifre solo relativamente affidabili.
[….] Il risultato dell’intreccio di influenze fra Islam e culti tradizionali è che in definitiva, per
esempio, i mussulmani portino pagine del Corano come gris-gris (talismani), mentre gli animasti
portano gris-gris fatti di pagine di Corano, oppure che i futuri iniziati si radunino davanti alla
moschea prima di incamminarsi verso il bosco sacro. [….] Di fatto l’Islam vissuto ed interpretato
secondo la tradizione senegalese è diventato, insieme ai valori culturali dell’etnia wolof, elemento
portante della società senegalese e la chiave per capire il comportamento sociale, politico ed
economico degli individui, dei gruppi e delle istituzioni” ” (da Senegal Gambia di G. Somaré e L.
Vigorelli, 1994 Clupguide, Milano, pagg. 81-82)
L’Islam infatti si è distinto in scuole teologiche e in culti che hanno spesso solo un valore locale. In
Sénégal, per restare nello specifico, il sufismo, la scuola ascetico-mistica, ha potuto introdurre
elementi estranei alle forme dell’Islam elementi estranei alle forme dell’Islam primitivo, come sono,
ad esempio, i talismani”spirituali”, il culto dei santi morti o viventi, il riconoscimento della loro
possibilità di compiere miracoli e quell’istituzione di carattere socio-religioso chiamata
“confraternita” , “daara” o “dahira”.
Le confraternite sono associazioni di correligionari legati da una visione mistica comune, da una
pratica di lavoro comunitario e da un’organizzazione che prevede alla sommità un califfo,
discendente dal fondatore della confraternita, assistito da una gerarchia di marabouts (o tra Wolof,
Sérére e Toucouleurs chiamati anche Sérigne) sotto i quali sta la base dei fedeli
Queste ultime riflessioni sono validissime anche per meglio conoscere la realtà delle organizzazioni
comunitarie e di solidarietà degli immigrati senegalesi presenti nella Regione del Veneto.
Le confraternite (oltre a quella Muridiyya sono tipiche ma non esclusive de Senegal anche quella
Tijanyya e quella Qadiriyya o quella dei Laiéne composta quasi esclusivamente dai Lebou,
considerati da alcuni un sottogruppo etnico degli Wolof; esistono anche correnti interne o sottoconfraternite come i Baye Fall e i Niassénes) sono gruppi di mussulmani che aderiscono agli
insegnamenti di un loro principale maestro spirituale e si trovano sotto la guida di un “saggio”
locale che provvede ad inserire nel tessuto organizzativo sociale sia interno che esterno gli aderenti,
specie se immigrati arrivati da poco tempo, con una filosofia di mutua assistenza e sopportazione
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equamente distribuita degli svantaggi ed inconvenienti che il destino presenta loro.
“La partenza, prescrivono le regole tradizionali del mio Paese, deve rimanere un segreto fino a
quando i riti propiziatori non sono stati compiuti e fino a quando i marabouts non danno il loro
parere favorevole, consultando gli spiriti. I marabouts scelgono anche il giorno in cui va lasciato il
villaggio. L’emigrante compie innumerevoli riti;: dare elemosine con lo scopo di allontanare i
problemi che potrebbero sorgere durante il viaggio e durante la vita all’estero, purificare il proprio
corpo con lavaggi particolari; portare talismani per proteggersi dal potere dei bianchi e per attirare
su di sé la fortuna. (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione
senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye)Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg. 5960)
L’emigrato senegalese che giunge in Italia ha dunque normalmente già dei riferimenti, è munito di
una lista di nomi di persone che si occuperanno del suo inserimento, sia per l’alloggio sia per i primi
contatti lavorativi. La rete di solidarietà, talvolta spiegata come un gesto puramente gratuito, nasce
da motivazioni più profonde: a volte è il capo religioso che, non solo organizza il viaggio ma
fornisce gli indirizzi e mette in contatto il partente con un altro suo discepolo già residente in Italia.
Perché ci sia un impegno comune.
“Caratteristica della confraternita muride è il forte accento posto sul lavoro come mezzo per
progredire nella vita religiosa e sulla solidarietà (anche) economica fra i suoi membri. Forse è
proprio questo che spiega l’intraprendenza commerciale di molti senegalesi che vivono nel Nordest”
(da “Cittadini Dappertutto” nr. 17 – Ottobre 2001, p. 15).
Tali aspetti, anche a seguito del continuo sviluppo della rete di contatti interni ed esterni, si sono
peraltro diffusi come modello di filosofia di vita collettiva anche in gruppi di connazionali non
appartenenti a dette confraternite, diventando uno stile di organizzazione generalmente adattato e
adottato dalla maggioranza degli immigrati senegalesi nel Mondo.
Il mantenere anche nel Paese ospitante alcune abitudini e regole sociali secolari, quali ad esempio la
divisione di compiti e ruoli nel contesto di una convivenza domestica in gruppo, il rispetto
dell’autorità, del ruolo o dell’anzianità nei rapporti, la celebrazione di festività e ricorrenze
tradizionali, quale quella del Grand Magal, celebrazione di ricordo del fondatore della confraternita
Muridiyya Cheick Ahmadou Bamba, o il Gamou della confraternita Tijanyya o alle ricorrenze civili
come la festa dell’indipendenza (4 Aprile), sono in effetti pratiche che hanno resistito al
colonialismo e alle influenze esterne e che oggi sopravvivono anche al variare del luogo di
permanenza dei Senegalesi. D’altra parte, come peraltro è avvenuto in gran parte di Paesi del Sud
del Mondo, altri aspetti della società hanno subito vistosi cambiamenti nel corso degli anni, anche
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per merito delle emigrazioni, e tra essi i più significativi sono stati la struttura familiare, il rapporto
tra i sessi, la lingua, il modo di passare il tempo libero.
Tali legami a pratiche e convenzioni non priva gli immigrati senegalesi dello spirito di adattamento
necessario al loro inserimento in realtà lavorative diverse per organizzazione e per rapporti
interpersonali, proprio perché sanno che loro valori e punti di riferimento tradizionali non vengono
completamente sacrificati o persi.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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J. Ki-Zerbo, “Storia dell’Africa nera”, 1977, Einaudi, Torino
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“Fatti urbani innovativi e nuove centralità - gli immigrati e la loro immagine della città di
Venezia” Tesi di Laurea all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia elaborata da
Mirko Marzadro, Anno Accademico 2002/2003
- 19 -
Ghana
A colpo d'occhio
•
Nome completo del paese: Repubblica del Ghana
•
Superficie: 239.460 kmq
•
Popolazione: 20.757.032 abitanti (tasso di crescita demografica 1,4%)
•
Capitale: Accra (1.661.400 abitanti, 2.825.800 nell'area metropolitana)
•
Popoli: 44% akan, 16% moshi-dagomba, 13% ewé, 3% ga, 3% gurma, 1% yoruba, 1,5%
guan, gonja, dagomba, europei
•
Lingua: inglese (lingua ufficiale), akan, moshi-dagomba, ewé, ga, twi
•
Religione: 63% cristiana, 16% musulmana, 21% animista
•
Ordinamento dello stato: repubblica presidenziale
•
Presidente: John Agyekum Kufuor
•
Vicepresidente: Alhaji Aliu Mahama
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In piroga col griot e il marabout, tra leoni e baobab.
“Prima di partire si paga il prezzo” (proverbio senegalese)
I proverbi sono una delle grandi ricchezze dell’ Africa. I proverbi sono “libri scritti nella memoria”,
“cose per saggi”, sono specchi nei quali si riflettono le varie sfaccettature della vita individuale,
familiare e sociale.Traducono in espressioni essenziali, ritmate, ricche di assonanze e facilmente
memorizzabili i tesori che la saggezza popolare è andata accumulando lungo i secoli o millenni e
che riprende e ripropone di continuo. I proverbi ritornano con insistenza nelle conversazioni della
vita di ogni giorno, nelle circostanze più o meno ufficiali della vita comunitaria, nei discorsi dei
politici e nelle opere degli scrittori. Essi sono senza dubbio la via di accesso più immediata e sicura
alla conoscenza dell’ anima africana, essendo la via per la quale è stata trasmessa di generazione in
generazione la saggezza acquisita mediante l’ esperienza. Il proverbio sopra citato quindi è senza
dubbio significativo della consapevolezza tra i Senegalesi del valore del sacrificio e dell’impegno
che comporta l’impresa migratoria.
Ma perché il Sénégal tra tutti i Paesi dell’africa Subsahariana è forse quello maggiormente
protagonista?
Alcuni simboli e parole-chiave possono essere indicatori di un dinamismo particolarmente radicato,
a partire forse dal nome del Paese.
Tra le due possibili origini della parola Sénégal (da Sanadja i berberi mauri che spadroneggiavano
nella regione del Fiume, oppure dalla lingua wolof sunu gal, che vuol dire la nostra piroga”) quella
più verosimile sembra essere la prima. La seconda invece è piaciuta più nel clima presidenzialletterario ispirato da Senghor, come efficacia metafora per rappresentare la situazione del Paese:
tutti sulla stessa barca, per un popolo in movimento e che nella piroga diretta verso un futuro di
speranza ha effettivamente uno degli elementi più caratteristici e tipici.
Il migrante senegalese per motivi economici è alla ricerca di ciò che egli definisce yokute, la
“volontà di migliorare”.
“Io sono invece convinto che il nome del mio Paese derivi dal riferimento alla piroga, è così
presente nella nostra vita quotidiana da sempre nelle comunità di pescatori che è la cosa più naturale
che sia stata una delle prime frasi dette ai berberi e ai Francesi”.
(da un’intervista a Mathiaw ‘Ndiaye, Associazione Lavoratori Senegalesi di Schio)
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La bandiera della Repubblica del Sénégal è a tre bande verticali di colore verde (con riferimento ai
raccolti dell’agricoltura), giallo (riferimento al sole) e rosso (riferimento al sangue versato per
l’indipendenza e libertà) con al centro una stella verde a cinque punte (riferimento all’Islam: verde è
il colore sacro per questa religione, cinque punte è un richiamo ai “pilastri” o “comandamenti”
(arkan) dell’Islam: in ordine, sono la shahada , la professione dell’unicità di Dio e che Maometto è
il suo Profeta, la salat ,“preghiera”, il sawm , il digiuno del Ramadan), la zakat , la “elemosina” e il
hajj , il pellegrinaggio).
“Quando sale o scende davanti ad un edificio pubblico, i veicoli hanno l’obbligo di fermarsi in
segno di rispetto. Sono previste multe per i distratti o gli irriverenti.”
“Un solo popolo, un solo fine, una sola fede” Il motto nazionale è la vecchia parola d’ordine di
Senghor, figura storica della cultura e politica moderna del Paese: primo insegnante africano di
scuola secondaria in Francia, autore di poesie e promotore della cultura della “négritude” e padre
spirituale e Primo presidente della Repubblica del Sénégal.
“Di Senghor sono anche le parole dell’Inno:
Pizzicate la kora, battete i balafons,
il leone ha ruggito,
il re della brousse
con un salto si è lanciato,
dissipando le tenebre.
Sole sulle nostre paure, sole sulla nostra speranza.
In piedi, fratelli ecco l’Africa riunita
Fibre del mio cuore verde.
Spalla contro spalla, miei più che fratelli,
o Senegalesi, in piedi!
Uniamo il mare e le sorgenti, uniamo la steppa e la foresta!
Salve, madre Africa, salve, madre Africa!
Da cantare con tono marziale, su un’aria da operetta.
Il baobab, il leone, espressioni diverse di un’idea di maestosità, sono gli emblemi nazionali ufficiali,
mentre l’onore, joom, la tolleranza, mun, la moderazione, kersa, l’ospitalità, teranga, sono
considerati i pilastri etici della civiltà senegalese” (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli,
1994 Clupguide, Milano)
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Il leone è considerato per le caratteristiche della forza e del coraggio, quest’ultimo considerato un
carattere tipico dei Senegalesi, il baobab per le caratteristiche delle grosse dimensioni e della
longevità è assunto a simbolo per esprimere la nobiltà d’animo che è continua e non occasionale o
circostanziale.
“E’ vero, il leone e il baobab sono i simboli più famosi del nostro Paese. Infatti come viene
chiamata la nostra nazionale di calcio? Les lions du Sénégal!
A me piace ricordare anche un altro simbolo misto tra storia e leggenda in Sénégal, ossia Malaw.
Malaw è il cavallo bianco di Lat Dior, lo storico re wolof eroe della rivolta per l’indipendenza del
Sénégal.
E’ un cavallo bianco che lo ha accompagnato nella sua battaglia contro il colonialismo e contro la
costruzione delle linea ferroviaria tra Dakar e Saint Louis che divideva il suo regno e quando Lat
Dior fu ucciso dai coloni francesi, i Francesi vollero portare il cavallo Malaw per fare vedere al
cavallo le ferrovie che il suo padrone si rifiutava di accettare e aveva strenuamente osteggiato dando
molto filo da torcere ai coloni stessi.
Quando era vicino ai binari il cavallo è morto per fedeltà al suo padrone e allo spirito di
indipendenza del Sénégal senza dare la soddisfazione ai coloni di sentire vinta la sfida.
Ora Malaw è diventato famoso simbolo che si vede alla fiera internazionale vicino all’aeroporto
Léopold Sénghor di Dakar” (da un’intervista a Mathiaw ‘Ndiaye, Associazione Lavoratori
Senegalesi di Schio)
Guardando la carta geografica, il Senegal ricorda per la propria forma il profilo di una testa umana
rivolta verso l’Oceano Atlantico, quasi a raffigurare anche geomorfologicamente una naturale
tendenza al guardare oltre il proprio orizzonte, tratto caratteristico molto diffuso presso le
popolazioni che vi abitano.
Ex colonia francese, con molte di quelle difficoltà che sono tipiche dei Paesi africani che un tempo
erano dominio di potenze europee, il Senegal e la sua società hanno incontrato i maggiori interessi
da parte degli studiosi di sociologia delle migrazioni per il proprio dinamismo e la capacità di
trovare un equilibrio tra modernità e tradizioni sociali.
L’immigrazione senegalese in Europa e nel nostro territorio è una realtà molto particolare per vari
aspetti, non riducibili alla diffusa “connotazione etnica” o stereotipo di essere solo venditori
ambulanti non in regola con le licenze o i documenti.
Secondo l’Istat a fine 2000 nel Veneto risultavano presenti 4.340 dei circa 40.000 Senegalesi
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immigrati regolari in Italia, in prevalenza maschi (circa 92%, ma ora comincia ad esservi un
graduale aumento della presenza femminile) giovani sotto i 30 anni, quasi tutti venuti
esclusivamente per lavoro (la presenza immigrata senegalese è quella che tra i vari Paesi
d’immigrazione registra la più alta percentuale assoluta di permessi di soggiorno per lavoro come
motivo di ingresso nel nostro territorio: secondo il Dossier Caritas 2001 risulta pari al 94%).
Altre fonti come il Dossier Caritas 2003 indicano a fine anno 2003 come soggiornanti in Italia circa
51.000 Senegalesi.
In Veneto la maggior parte dei senegalesi dimostra una tendenziale preferenza per i piccoli e medi
centri dove è più facile trovare casa e si è più vicini alle aree industriali nelle quali poi gli stessi
spesso vanno a lavorare. La presenza Senegalese più numerosa è soprattutto nelle Province di
Treviso e Vicenza.
E’ necessario ricordare che il Sénégal è una ex colonia francese che ha occupato un posto centrale
nella politica coloniale francese, essendo la capitale della A.O.F (Africa Occidentale Francese).
L’antica presenza francese in Sénégal, anche precedente alla colonizzazione, ha fatto sì che il
Sénégal ed i senegalesi siano stati usati dai francesi come intermediari nell’estensione dell’impero
coloniale verso altri paesi africani.
I Senegalesi che all’epoca avevano la cittadinanza francese erano quelli residenti nei famosi "4
Comuni": Saint-Louis, Dakar, Rufisque e Gorée.
Negli altri paesi africani, questi cittadini dei 4 comuni venivano definiti "commis", per evidenziare
il loro ruolo di intermediari, di ausiliari dell’amministrazione francese, ruolo che li portava ad
essere, in effetti, i primi emigranti senegalesi, seppure all’interno dell’Africa stessa: possiamo così
spiegarci l’attuale presenza di comunità senegalesi in Costa d’Avorio o nel Benin.
Parallelamente a questo primo movimento migratorio dei commis, se ne è sviluppato un altro che ha
interessato la popolazione dei Soninké, che occupa la zona a cavallo del fiume Sénégal, a nord-est.
Diciamo, quindi, che i primi movimenti dei Senegalesi sono iniziati sotto la direzione francese e
che, a partire dal 1945, dopo la seconda guerra mondiale, il fenomeno ha assunto una dimensione
più importante, estendendosi anche all’etnia Halpular, e si è indirizzato verso l’esterno, cioè verso la
Francia, che diventa il polo di attrazione principale dell’emigrazione senegalese, così come accade,
in genere, per tutte le ex colonie rispetto ai paesi colonizzatori.
Questo movimento è continuato fino al 1974, quando in Europa ha cominciato a delinearsi il
problema dell’accettazione delle comunità immigrate. Ricordiamo che in questi anni si assiste ad
una riaffermazione dei movimenti nazionalisti ed hanno inizio determinate politiche dell’Europa,
partendo dagli accordi tra Francia e Germania fino al recente accordo di Schengen.
Attualmente sono intervenuti dei mutamenti nell’orientamento dei flussi migratori che non
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avvengono più verso le nazioni coloniali, ma più generalmente verso tutto l’Occidente, e, in
particolare, l’Italia è divenuta meta dell’emigrazione senegalese in questi ultimi anni, intorno al
1982.
Quella senegalese è dunque una immigrazione da noi cominciata soprattutto verso i primi anni ’90,
dopo decenni di esperienze migratorie avute nella Francia. A quanto pare i primi Senegalesi che
sono venuti nel nostro Paese non giungevano infatti esclusivamente dall’Africa ma, in consistente
parte, dalla nostra “vicina di casa”, a seguito della ricerca di nuovi sbocchi lavorativi e
dell’irrigidimento della normativa in materia immigratoria.
Se inizialmente la migrazione era esclusivamente pensata come un’esperienza temporanea dei
modou-modou (è questo il termine in lingua wolof che indica il migrante senegalese) con un rientro
definitivo nel suo Paese di origine dopo tre – quattro anni, ora sono meno rari i casi di Senegalesi
che si radicano nel territorio della Regione del Veneto e pensano di stabilirsi definitivamente,
mentre sono ancora molti che continuano a mantenere un sistema di “famiglia transnazionale”
divisa tra Veneto e Sénégal, anche se negli ultimi anni è sensibilmente aumentata la presenza
femminile e la seconda generazione, favorendo una maggiore apertura e conoscenza tra le comunità
alloctone e quella autoctona. I Senegalesi, per natura quasi sempre sorridenti, aperti e amichevoli,
normalmente diventano ancor più disponibili e cordiali se viene loro dimostrato anche un semplice
interesse circa il loro gruppo etnico e le tradizioni caratteristiche. Preparatevi in tal caso ad ascoltare
lunghi ed interessanti racconti di feste, costumi e curiosità descritti con molto entusiasmo e
partecipazione da parte loro.
Oltre a usi e abitudini molto diffusi in quasi tutte le società e culture dell’Africa occidentale e
subsahariana, i Senegalesi presentano elementi caratteristici sia relazione alla loro presenza sia alle
modalità del loro vivere la esperienza migratoria in Paesi non africani.
La società senegalese attuale non può essere descritta in termini di semplice contrasto tra tradizione
e modernità. Le forme pure della società tradizionale, infatti, non esistono praticamente più, ma
anche la formazione delle classi e degli strati sociali moderni è tuttora incompiuta.
“Malgrado la comparsa dell’individualismo e una certa ‘razionalizzazione’ dei rapporti umani,
conseguenza dell’istruzione, dell’urbanizzazione e della diffusione dell’economia monetaria e del
commercio, la maggior parte dei senegalesi continua a centrare i propri rapporti sociali sulla
parentela e sulla origine etnica. (da Senegal Gambia di G. Somaré e L. Vigorelli, 1994 Clupguide,
Milano, pagg. 76-77)
“Un tempo (ma in parte è vero ancor oggi), in Sénégal, già dal cognome si poteva collocare
professionalmente un individuo. Ogni cognome corrispondeva ad un determinato mestiere; ad es.
coloro che si chiamavano Jum, Ciaam (o Thiam), e Jeç discendono da famiglie la cui attività tipica
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era quella di fabbro, i Mbow sono invece discendenti di pellai e i Sow dei falegnami. Ora tali rigide
divisioni non sono sentite così categoriche e anche l’esperienza migratoria determina cambiamenti
nei ruoli sociolavorativi dei Senegalesi di diversa origine etnica o professionale.
I Senegalesi sono in armonia l’uno accanto all’altro, i gruppi etnici che lo compongono non sono
stati forzati alla convivenza e questo ha fatto sì che nell’epoca dell’indipendenza post-coloniale non
conoscesse instabilità e guerre civili sanguinose come hanno conosciuto e stanno ancora vivendo
molti altri Paesi africani. Anche se vi è stato un radicale mutamento delle organizzazioni
istituzionali e della vita politica del Paese, rimangono ancora vivi e sentiti all’interno delle diverse
comunità i ruoli carismatici coperti dai capi tradizionali.
Come già accennato, spesso gli immigrati senegalesi, specie negli anni ’80 e primi anni ‘90, proprio
in occasione dello shock culturale dello stabilirsi anche se pur provvisoriamente nei Paesi Europei,
hanno dimostrato e dimostrano ancora oggi una riscoperta e valorizzazione delle proprie radici
etniche più risalenti al punto di considerarsi, in virtù di differenze che risalgono in realtà a secoli
addietro, distinti da altri connazionali, anche se con essi comunque stanno insieme pacificamente,
salvo alcune rare eccezioni.
E’ difficile tracciare le origini dei senegalesi nei tempi remoti. Emerge come ogni villaggio abbia
una sua storia, all’interno di quella del continente africano e dei regni che furono presenti nelle
epoche passate in Sénégal. E’ importante sottolineare la fortissima migrazione interna nello stato,
oltre a quella internazionale che ha portato numerosi Senegalesi in Veneto. I vari gruppi etnici si
trovano oggi a vivere mescolati, e le persone imparano a conoscere e rispettare oltre alla madre
lingua e alla propria tradizione, anche le altre presenti in Sénégal.
La trasmissione del sapere delle tradizioni di una comunità di un villaggio non sono più esclusiva
dei griots, figure caratteristiche dell’Africa Occidentale simili a cantastorie, che conservavano
canzoni e storie che tramandavano oralmente in incontri sotto l’arbre à palabre, il baobab che
normalmente si trovava al centro del villaggio e costituiva il grande punto d’ombra e incontro del
gruppo per ascoltare e conoscere la loro tradizione.
Molti baobab antichi hanno delle cavità che sovente vengono usate per seppellire i griots
particolarmente riveriti.
Inevitabile ricordare il famoso proverbio africano “un anziano che muore è una biblioteca che
brucia”, legato alla importanza della tradizione orale del sapere e delle tradizioni di questo
continente.
Secondo alcune testimonianze contenute in pubblicazioni tematiche, quanto si impara
nell’educazione tradizionale senegalese ruota attorno a tre verbi: jàpp, (tenere in mano), fonk (avere
considerazione per; stimare), begg (voler bene) ed a tre sostantivi: liggéey (lavoro), ngor (onestà),
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diina (religione).
“In wolof si dice ad esempio: “liggéey danuy koy jàpp”, letteralmente “il lavoro lo si deve tenere in
mano”, ovvero il lavoro va rispettato; “ngor danuy koy fonk:” l’onestà va stimata; “diina danuy koy
begg”: la religione va amata.
L’educazione fa parte di una morale, ngor, che deriva da gore, essere onesto. Il termine dipende dal
grado di jom che un individuo possiede. Il jom è l’essenza dell’educazione senegalese. Se uno la
possiede si dice che può vivere ovunque, sarà molto richiesto come amico e chiunque sarà fiero di
lui. Ecco i concetti che aiutano l’emigrato senegalese a realizzare i suoi sogni. Il ngor e il jom
ricordano gli impegni nei confronti di chi è rimasto in patria. Il jom guida i cuori, i passi. Il ngor,
invece, rende affidabili agli occhi di tutti.” (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio
sull’immigrazione senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye) Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia,
Torino, pagg. 20-21)
Parole che si richiamano a valori etici e modelli di comportamenti positivi abituali dei Senegalesi
sono pure spesso i nomi di associazioni di immigrati provenienti da questo Paese e presenti in
Veneto.
“Il nome della nostra Associazione, DEGGO, non è casuale. Partendo dal senso etimologico
proviene dal verbo degg, che vuol sentire capire, quindi esser capaci dio ascoltare e ricevere il
messaggio, essere in grado di interpretare le parole che si ascoltano. Deggo è una derivazione di
questa parola, in italiano potrebbe assumere il significato di “intesa”, “mettersi d’accordo”,
“condivisione di una cosa comune fra tutti i membri di un gruppo”. E’ in contrapposizione a
“fraintendimento” nel senso di mancanza di condivisione, mancanza di avere un comune senso di
sentire e volere capire. Deggo vuole esprimere lo scambio di punti di vista per arrivare per arrivare
allo spirito di gruppo condiviso e che mira ad obiettivi comuni che ci si impegna a raggiungere e
condividere come membri di gruppo specie per esperienze quali la migrazione, con una idea di
approcci mai unilaterali ma partecipati”
(da un’intervista a Amadou Dia, presidente Associazione dei Senegalesi della Provincia di Venezia
“Deggo”)
“La nostra associazione si chiama Japoo. Significa abbracciarsi, mettersi insieme nel cammino, per
lavorare e andare avanti assieme. La nostra associazione nelle tessere dei soci ha sia la bandiera
italiana che quella senegalese e il simbolo delle due mani che si stringono, per significare la volontà
di un percorso insieme anche agli italiani, perché è un valore che ci impegniamo a portare avanti”
(da un’intervista a Pape Gueye, Associazione Japoo della Provincia di Padova)
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“La associazione si chiama Teranga perché questa parola è un elemento tradizionale di noi
Senegalesi, si può tradurre come ‘ospitalità’, ‘accoglienza’, e nostra intenzione è di trasmettere
questo spirito di apertura e accoglienza anche in occasione della immigrazione”
(da un’intervista ad Abu Faye, Associazione Teranga di Venezia)
“Ande Dieuf significa ‘agire per uno scopo comune’, ‘insieme si può fare qualcosa’, è
un’espressione molto nota e usata nel mio paese perché anche un partito ha questo nome, ma noi
non abbiamo riferimenti politici ma solo esprimiamo lo scopo della associazione già dal suo stesso
nome: volontà di integrarsi, aiutare a risolvere un po’ tutti i vari problemi che trova l’immigrato
senegalese, dal lavoro all’apprendimento della lingua italiana al disagio abitativo”
(da un’intervista a Moustapha ‘Ndiaye, Associazione Ande Dieuf)
Il Senegal è risultato uno dei Paesi dell’Africa Occidentale che ha vissuto in modo meno
drammatico e cruento di altri il passaggio da colonia a Stato autonomo senza peraltro perdere
identità e tradizioni sopravvissute attraverso i secoli e i diversi domini subiti.
La società del Senegal è composta da diversi gruppi etnici che nei secoli, in seguito agli spostamenti
dai villaggi alle città e ai matrimoni misti sempre più frequenti, si sono relativamente amalgamati
tra loro, pur rimanendo consapevoli delle proprie identità distinte.
Una volta giunti in Italia i Senegalesi, in regola o meno, beneficiano di una potente rete di
solidarietà. Si tratta, di solito, di aiuto offerto da parenti oppure da amici stretti o amici di amici o
infine compaesani.
La solidarietà è anche vista in funzione di aiuto per i più giovani ed inesperti nell’esperienza
migratoria all’estero, proprio per non far perdere quei valori morali , jom e ngor, considerati come
virtù fondamentali per ilo corretto cammino di vita. C’è un proverbio wolof che dice “mag moo
mag yaay, moog mag baay”, ossia “Il/la fratello/sorella maggiore è più anziano della mamma e del
papà”.
Solitamente i Senegalesi sentono come prezioso patrimonio personale di ciascun individuo
l’identità del proprio originario gruppo etnico che viene a contraddistinguerlo dai suoi connazionali.
Solitamente questa componente non sembra costituire un elemento che li faccia allontanare tra di
loro o che possa ostacolare le possibilità di convivenza e condivisione di esperienze comuni sia
positive che negative (vi sono comunque eccezioni che verranno evidenziate qui in seguito e nella
parte finale del presente lavoro).
Qualche volta ad esempio è capitato di incontrare giovani appartenenti alla minoranza etnica
senegalese Bambara, originaria e prevalentemente presente nel confinante stato del Mali, e notare
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come in loro, pur se migrati da generazioni dal Mali nel Senegal e ora arrivati in Europa assieme ad
altri gruppi, sia vivamente sentita la passata condizione dei propri antenati di popolazione regnante
e “superiore” in un Impero che per secoli aveva dominato le altre (che, per esempio, dovevano
pagare loro tributi o inginocchiarsi alla loro presenza in segno di riconoscimento di sottomissione)
in un’ampia area del Sahara occidentale, al pari della minoranza senegalese Soninké (etnia
dominante nell’antico Impero del Ghana, che non corrisponde affatto all’attuale Stato del Ghana! L’
Impero del Ghana, antico stato sudanese, nell’VIII° secolo comprendeva il Mali e parte della
Mauritania, della Guinea e del Senegal. L’attuale stato del Ghana è situato nell’Africa occidentale,
fra la Costa d’Avorio, il Burkina Faso e il Togo e nell’epoca coloniale era conosciuto come Costa
d’Oro. Nell’attuale Ghana vive principalmente il gruppo etnico-linguistico Akan, del quale fanno
parte i Fanti e i quasi leggendari Ashanti), ma senza che questa differenza di origini determini
rivalità e contrasti diffusi con gli altri gruppi, anche se in certi casi sembra esistere (sul punto si
parlerà più avanti).
Tra i gruppi numericamente maggiori il primo posto va agli Wolof, la cui lingua, assieme al francese
(rimasta anche dopo l’epoca coloniale lingua ufficiale delle Amministrazioni e degli Uffici e parlata
con una certa disinvoltura da gran parte dei Senegalesi, anche nella sua forma semplificata, il
français tirailleur) è la più diffusa nel Senegal, dove risultano esserne parlate circa 35, ed è
utilizzata dall’80% circa della sua popolazione, anche se i Wolof costituiscono solo il 36% della
popolazione senegalese.
Questo ultimo aspetto è abbastanza significativo perché anche se la maggioranza di senegalesi
immigrati nel nostro territorio parla Wolof (ad esempio l’assoluta maggioranza dei venditori
ambulanti parla quasi esclusivamente solo questa lingua) non significa necessariamente che tutti
questi siano di tale etnia.
Il nome sembra derivare dal regno Djolof fondato secondo la tradizione popolare da Ndiadiane
Ndiaye nel XIV secolo circa. Tale gruppo etnico in epoche passate aveva pure una propria
aristocrazia ed un sistema gerarchico di caste, diversamente ad esempio dalla minoranza Diola (o
Dyoula-Fogny).
“L’aspetto degli Wolof, alti, tendenzialmente magri e dai lineamenti fini, è lo stereotipo della
bellezza nera, e tali erano considerati dai colonizzatori. E’ questo un altro elemento che contribuisce
a rafforzare negli Wolof una certa arroganza, che tuttavia è unita ad una effettiva forza di volontà e
intraprendenza” (da “Senegal” di Papa Saer Sako, 1998 Pendragon Ed.)
I Sérère costituiscono la seconda etnia del Paese (20% della popolazione, apparteneva a questa etnia
anche il “padre” e primo Presidente del moderno Senegal, Léopold Senghor), risultano rispetto agli
Wolof più legati alle tradizioni della loro terra, e assieme alla minoranza dei Diola sono l’etnia che
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maggiormente ha aderito al cristianesimo, praticato ora solo dal 2% della popolazione senegalese,
che per il 92% è musulmana (sul punto v. avanti) e per il rimanente 6% è animista (fonte: numero
17-Ottobre 2001 di “Cittadini Dappertutto”, contenete un servizio e reportage speciale sulla
comunità senegalese nel Triveneto).
Oltre ad altri gruppi tra i quali Toucouleur (terzo gruppo, circa 13% della popolazione), Mandingo,
Bassari, vanno ricordati i Peul, diffusi in un po’ tutta l’Africa occidentale (ad esempio Mali,
Nigeria, Ghana) anche come Fulfudes-Pulaar o Foulbé, i quali nel Senegal hanno fama di stregoni e
per questo vengono tenuti in considerazione e talvolta temuti dagli appartenenti alle altre etnie, ed
infine i Sarakholé, di carnagione abbastanza chiara, noti per il loro altruismo e per essere
particolarmente dinamici ed intraprendenti al punto da costituire forse il maggiore gruppo etnico
senegalese emigrato in Francia e, probabilmente, in un secondo tempo, da questo Paese poi
emigrato anche in Italia.
Quelle della solidarietà e della laboriosità sono in effetti caratteristiche pressoché costanti in tutti i
gruppi etnici senegalesi e senza dubbio particolari risorse sulle quali in buona parte gli stessi
fondano le proprie speranze di un successo nella esperienza migratoria.
La spontanea tendenza al cercarsi e riunirsi è in primo luogo dettata dal desiderio di avere maggiore
sicurezza attraverso l’unità del gruppo e dalla funzione dello stesso di costituire per ciascuno che vi
fa parte, e soprattutto per ‘i nuovi venuti’, un punto di riferimento ed un aiuto nel proseguire il
giusto e corretto percorso di vita.
“Gli emigranti creano poi associazioni che raggruppano ad esempio persone provenienti dallo stesso
villaggio, per mantenere vive le tradizioni. Tale sistema è erede delle associazioni nate in Africa in
seguito all’esodo dalle campagne alle città (quando il sottoscritto studiava a Dakar, ad esempio,
faceva parte dell’Association des Resortissants de Kougheul). Lo scopo delle strutture era (ed é9 di
offrire aiuto agli aderenti, permettendo, ad esempio, di raccogliere denaro quando è in serie
difficoltà economiche un membro o muore un membro e serve pagare le spese di rimpatrio della
salma”. (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione senegalese in
Italia; di El Hadji Alioune (Baye)Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg.
La tendenza all’associazionismo, più che essere rappresentata dalla circostanza del non apparire i
Senegalesi quasi mai da soli per le vie e piazze di una nostra città, e non solo come venditori
ambulanti, è quindi determinata da fattori tradizionali ed abituali delle loro usanze ed
organizzazioni comunitarie praticate già nel loro Paese e dal diffuso e caratteristico sistema
organizzativo e religioso delle confraternite, specie quelle muridi, basate sulle strutture delle scuole
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di misticismo religioso musulmano specificamente senegalese (principalmente Wolof) e di matrice
dichiaratamente tollerante e pacifista, capaci pertanto di essere “esportate” senza pericoli ma anzi
con alcuni vantaggi sul piano sociale ed economico, nei termini di controllo del corretto ed.onesto
comportamento dei fedeli e di sostegno economico alle comunità e confraternite in Sénégal.
Secondo i dati ufficiali, il 94% dei Senegalesi è mussulmano, il 5% cristiano, mentre solo l’1%
segue ancora una delle religioni tradizionali. Nella realtà un profondo processo di sincretismo ha
reso meno definiti i confini tra i credi rendendo quindi queste cifre solo relativamente affidabili.
[….] Il risultato dell’intreccio di influenze fra Islam e culti tradizionali è che in definitiva, per
esempio, i mussulmani portino pagine del Corano come gris-gris (talismani), mentre gli animasti
portano gris-gris fatti di pagine di Corano, oppure che i futuri iniziati si radunino davanti alla
moschea prima di incamminarsi verso il bosco sacro. [….] Di fatto l’Islam vissuto ed interpretato
secondo la tradizione senegalese è diventato, insieme ai valori culturali dell’etnia wolof, elemento
portante della società senegalese e la chiave per capire il comportamento sociale, politico ed
economico degli individui, dei gruppi e delle istituzioni” ” (da Senegal Gambia di G. Somaré e L.
Vigorelli, 1994 Clupguide, Milano, pagg. 81-82)
L’Islam infatti si è distinto in scuole teologiche e in culti che hanno spesso solo un valore locale. In
Sénégal, per restare nello specifico, il sufismo, la scuola ascetico-mistica, ha potuto introdurre
elementi estranei alle forme dell’Islam elementi estranei alle forme dell’Islam primitivo, come sono,
ad esempio, i talismani”spirituali”, il culto dei santi morti o viventi, il riconoscimento della loro
possibilità di compiere miracoli e quell’istituzione di carattere socio-religioso chiamata
“confraternita” , “daara” o “dahira”.
Le confraternite sono associazioni di correligionari legati da una visione mistica comune, da una
pratica di lavoro comunitario e da un’organizzazione che prevede alla sommità un califfo,
discendente dal fondatore della confraternita, assistito da una gerarchia di marabouts (o tra Wolof,
Sérére e Toucouleurs chiamati anche Sérigne) sotto i quali sta la base dei fedeli
Queste ultime riflessioni sono validissime anche per meglio conoscere la realtà delle organizzazioni
comunitarie e di solidarietà degli immigrati senegalesi presenti nella Regione del Veneto.
Le confraternite (oltre a quella Muridiyya sono tipiche ma non esclusive de Senegal anche quella
Tijanyya e quella Qadiriyya o quella dei Laiéne composta quasi esclusivamente dai Lebou,
considerati da alcuni un sottogruppo etnico degli Wolof; esistono anche correnti interne o sottoconfraternite come i Baye Fall e i Niassénes) sono gruppi di mussulmani che aderiscono agli
insegnamenti di un loro principale maestro spirituale e si trovano sotto la guida di un “saggio”
locale che provvede ad inserire nel tessuto organizzativo sociale sia interno che esterno gli aderenti,
specie se immigrati arrivati da poco tempo, con una filosofia di mutua assistenza e sopportazione
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equamente distribuita degli svantaggi ed inconvenienti che il destino presenta loro.
“La partenza, prescrivono le regole tradizionali del mio Paese, deve rimanere un segreto fino a
quando i riti propiziatori non sono stati compiuti e fino a quando i marabouts non danno il loro
parere favorevole, consultando gli spiriti. I marabouts scelgono anche il giorno in cui va lasciato il
villaggio. L’emigrante compie innumerevoli riti;: dare elemosine con lo scopo di allontanare i
problemi che potrebbero sorgere durante il viaggio e durante la vita all’estero, purificare il proprio
corpo con lavaggi particolari; portare talismani per proteggersi dal potere dei bianchi e per attirare
su di sé la fortuna. (da “La cultura dell’amico che viene da lontano. Saggio sull’immigrazione
senegalese in Italia; di El Hadji Alioune (Baye)Ndiaye, 2000 L’Harmattan Italia, Torino, pagg. 5960)
L’emigrato senegalese che giunge in Italia ha dunque normalmente già dei riferimenti, è munito di
una lista di nomi di persone che si occuperanno del suo inserimento, sia per l’alloggio sia per i primi
contatti lavorativi. La rete di solidarietà, talvolta spiegata come un gesto puramente gratuito, nasce
da motivazioni più profonde: a volte è il capo religioso che, non solo organizza il viaggio ma
fornisce gli indirizzi e mette in contatto il partente con un altro suo discepolo già residente in Italia.
Perché ci sia un impegno comune.
“Caratteristica della confraternita muride è il forte accento posto sul lavoro come mezzo per
progredire nella vita religiosa e sulla solidarietà (anche) economica fra i suoi membri. Forse è
proprio questo che spiega l’intraprendenza commerciale di molti senegalesi che vivono nel Nordest”
(da “Cittadini Dappertutto” nr. 17 – Ottobre 2001, p. 15).
Tali aspetti, anche a seguito del continuo sviluppo della rete di contatti interni ed esterni, si sono
peraltro diffusi come modello di filosofia di vita collettiva anche in gruppi di connazionali non
appartenenti a dette confraternite, diventando uno stile di organizzazione generalmente adattato e
adottato dalla maggioranza degli immigrati senegalesi nel Mondo.
Il mantenere anche nel Paese ospitante alcune abitudini e regole sociali secolari, quali ad esempio la
divisione di compiti e ruoli nel contesto di una convivenza domestica in gruppo, il rispetto
dell’autorità, del ruolo o dell’anzianità nei rapporti, la celebrazione di festività e ricorrenze
tradizionali, quale quella del Grand Magal, celebrazione di ricordo del fondatore della confraternita
Muridiyya Cheick Ahmadou Bamba, o il Gamou della confraternita Tijanyya o alle ricorrenze civili
come la festa dell’indipendenza (4 Aprile), sono in effetti pratiche che hanno resistito al
colonialismo e alle influenze esterne e che oggi sopravvivono anche al variare del luogo di
permanenza dei Senegalesi. D’altra parte, come peraltro è avvenuto in gran parte di Paesi del Sud
del Mondo, altri aspetti della società hanno subito vistosi cambiamenti nel corso degli anni, anche
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per merito delle emigrazioni, e tra essi i più significativi sono stati la struttura familiare, il rapporto
tra i sessi, la lingua, il modo di passare il tempo libero.
Tali legami a pratiche e convenzioni non priva gli immigrati senegalesi dello spirito di adattamento
necessario al loro inserimento in realtà lavorative diverse per organizzazione e per rapporti
interpersonali, proprio perché sanno che loro valori e punti di riferimento tradizionali non vengono
completamente sacrificati o persi.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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J. Ki-Zerbo, “Storia dell’Africa nera”, 1977, Einaudi, Torino
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Venezia” Tesi di Laurea all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia elaborata da
Mirko Marzadro, Anno Accademico 2002/2003
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Nigeria
A colpo d'occhio
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Nome completo del paese: Repubblica Federale della Nigeria
Superficie: 923.768 kmq
Popolazione: 137.253.133 abitanti (tasso di crescita demografica 2,5%)
Capitale: Abuja (165.700 abitanti, 590.400 abitanti nell'area metropolitana)
Popoli: 29% haussa e fulani, 21% yoruba, 18% ibo, 10% ijaw, 4% kanuri, 3,5% ibibio, 2,5%
tiv; sono presenti 250 etnie
Lingua: inglese (lingua ufficiale), haussa, yoruba, ibo, fulano
Religione: 50% musulmana, 40% cristiana (cattolica tra gli ibo e protestante tra gli yoruba),
10% animista
Ordinamento dello stato: repubblica federale
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Presidente: Olusegun Obasanjo
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IL GIGANTE D’AFRICA IN GINOCCHIO
Proposte da Camis Dagui:
-appunti di Joseph Adediwura (Associazione Egbe Omo Yoruba)
-Interviste con Osarò Ogbeide (pittore)
-rivista Nigrizia;
-inediti, reportages: Giornalista jean Léonard Touadi;
INTRODUZIONE
Nigeria (nome ufficiale Federal Republic of Nigeria; Repubblica Federale di Nigeria), stato
dell'Africa occidentale, delimitato a nord dal Niger, a est dal Ciad e dal Camerun, a sud dal golfo di
Guinea e a ovest dal Benin. Il paese ha una superficie complessiva di 923.768 km² e un’estensione
costiera di 853 km. Il nome deriva da quello del suo fiume principale, il Niger. La capitale è Abuja,
mentre Lagos è la maggiore città.
Composta inizialmente da un insieme di regni e di stati basati sulle diverse etnie, l'area dell'attuale
Nigeria passò sotto il dominio britannico nel 1906, e divenne stato indipendente, membro del
Commonwealth britannico, il 1° ottobre 1960. In seguito a un periodo di tensioni tra i diversi gruppi
etnici, specialmente gli yoruba del sud-ovest, gli ibo del sud-est, gli hausa e i fulani (o fulbe) del
nord, la Nigeria è stata sottoposta a un governo militare dal 1966 al 1979, cui ha fatto seguito un
breve periodo di governo civile (1979-1983), destituito da un colpo di stato militare. Tra il 1967 e il
1970 gli ibo cercarono, senza successo, di staccarsi dalla Nigeria costituendo la Repubblica del
Biafra. La Nigeria rivendica la penisola di Bakassi, occupata dal Camerun e situata nel golfo di
Guinea, in corrispondenza del confine tra i due paesi.
TERRITORIO
La Nigeria, formata da un altopiano attraversato dai fiumi Niger e Benue, è costituita da quattro
regioni fisiche. Lungo la costa il paesaggio è caratterizzato da foreste di mangrovie e da paludi, che
si estendono per alcuni chilometri nell'entroterra; nella regione del delta del Niger la fascia costiera
raggiunge un'ampiezza di circa 100 km. Dalla costa penetrano verso l'interno le valli del Niger e del
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Benue, lungo le quali alle pianure succede un'ampia zona collinare, boscosa, che gradualmente si
innalza a formare gli altipiani rocciosi di Jos e di Bauchi. Oltre gli altipiani si stende la savana, una
vasta pianura costellata da affioramenti granitici, che arriva fino alle zone semidesertiche del Sahel,
nell'estremo nord, e che costituisce la principale area agricola del paese. A est, al confine con il
Camerun, è situato il massiccio dell'Adamaoua (o Adamawa), ove si innalza il Dimlang (o Vogel
Peak), la cima più elevata del paese (2.042 m).
CLIMA
In Nigeria si distinguono due zone climatiche: lungo la costa, la massa d'aria equatoriale marittima
determina un clima caratterizzato da forte umidità e piogge persistenti; al nord la massa d'aria
tropicale continentale, proveniente dal Sahara, porta venti secchi e carichi di sabbia (come
l'harmattan); la temperatura e le piogge variano in modo considerevole secondo la stagione.
La massima piovosità, concentrata soprattutto a sud del paese, si riscontra nei mesi che vanno da
aprile a ottobre; la media delle precipitazioni va dai 2.497 mm di Port Harcourt, sul delta del Niger,
agli 869 mm di Kano, nel nord del paese.
POPOLAZIONE
Con più di 250 gruppi etnici, la Nigeria costituisce un complesso mosaico linguistico, sociale e
culturale. Più della metà della popolazione è formata dai gruppi degli hausa e dei fulani a nord,
degli yoruba a sud-ovest e degli ibo nel sud-est. Tra gli altri gruppi etnici presenti nel paese si
ricordano gli edo, gli ijaw e gli ibibio nel sud, i nupe e i tiv nella zona centrale del paese, e i kanuri
nel nord-est.
Sebbene la Nigeria sia riconosciuta come la nazione africana più popolosa, il numero esatto e la
distribuzione dei suoi abitanti hanno costituito argomento di grandi controversie politiche all'interno
del paese. Nel 2004 il paese contava 137.253.130 abitanti (di cui il 46% residente in aree urbane),
con una densità media di 151 unità per km².
LINGUA E RELIGIONE
La lingua ufficiale è l'inglese. L'hausa, una lingua franca dell'Africa occidentale, è quella più
largamente usata, soprattutto nel nord; sono diffuse anche le lingue yoruba, ibo, kanuri e tiv .
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Circa il 48% degli abitanti segue la religione musulmana e vive nelle aree degli hausa, dei fulani e
dei kanuri nel nord del paese. Tra i cristiani, circa il 34% della popolazione, i cattolici sono
concentrati nel sud-est, mentre i metodisti e altri gruppi hanno un forte seguito sia nel sud-est che
nel sud-ovest.
ISTRUZIONE E CULTURA
Entro i confini della moderna Nigeria sopravvivono alcune delle più antiche tradizioni culturali e
artistiche dell'Africa occidentale, su cui si sono innestate, nel periodo coloniale, influenze europee.
Il rinvenimento delle sculture in terracotta degli artisti Nok (500 a.C.) e dei magnifici bronzi del
Benin (XIV-XV secolo) ha permesso di conoscerne e apprezzarne la ricchezza. Nel periodo
postcoloniale le moderne tendenze artistiche, letterarie e cinematografiche hanno arricchito il
patrimonio culturale tradizionale, in concomitanza con il tentativo di modernizzazione del paese,
avviato dal governo federale, utilizzando gli introiti della vendita del petrolio grezzo per finanziare
un sistema educativo di tipo occidentale. La letteratura orale tradizionale ha significativamente
influenzato famosi scrittori nigeriani del XX secolo come Amos Tutuola, il premio Nobel, Wole
Soyinka, Chinua Achebe e, più recentemente, Ben Okri.
Fin dal 1830 i missionari introdussero un sistema educativo di tipo occidentale, che non riuscì
tuttavia a soppiantare completamente le tradizionali scuole coraniche, presenti soprattutto a nord.
Nonostante nel 1976 siano state istituite scuole elementari gratuite, le strutture scolastiche sono
ancora insufficienti e il tasso di alfabetizzazione raggiunge l’69,4%. Secondo il nuovo piano di
educazione, introdotto nel 1982, la scuola elementare (ufficialmente obbligatoria) ha una durata di
sei anni, mentre la scuola secondaria è organizzata in due cicli di tre anni ciascuno. Istituti di
istruzione superiore di tipo occidentale sono stati creati in tutto il paese fin dal 1948, anno di
fondazione dell'Università di Ibadan.
Tra le istituzioni culturali più importanti si citano il Museo nazionale di Lagos, che ospita una ricca
collezione di oggetti artistici di tutte le epoche, la Biblioteca nazionale della Nigeria, sempre a
Lagos, e l'Archivio nazionale di Ibadan.
DIVISIONI AMMINISTRATIVE E CITTA’ PRINCIPALI
7-Il paese è suddiviso in trentasei stati federati oltre al Territorio della capitale federale (Federal
Capital Territory). Lagos è la più grande città della Nigeria, il maggiore centro commerciale e il
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principale porto del paese. Nel dicembre del 1991 la capitale federale venne trasferita da Lagos ad
Abuja, nella zona centrale del paese. Altri centri urbani di rilievo sono Ibadan, Aba, Abeokuta, AdoEkiti, Ede, Enugu, Ife, Ila, Ilesha, Ilorin, Iwo, Kaduna, Kano, Maiduguri, Mushin, Ogbomosho,
Onitsha, Oshogbo, Port Harcourt e Zaria.
ECONOMIA
8-La Nigeria è un paese tradizionalmente agricolo, fino all’indipendenza in grado di soddisfare il
fabbisogno alimentare interno e di esportare una discreta varietà di prodotti come olio di palma,
cacao, caucciù e arachidi. Dagli anni Settanta l’economia del paese dipende principalmente dal
petrolio, le cui esportazioni rappresentano la gran parte del prodotto interno lordo. Paradossalmente,
gli idrocarburi costituiscono la prima voce sia delle esportazioni che delle importazioni, perché la
carenza di impianti di raffinazione costringe il paese a importare benzina. Dopo il crollo del prezzo
del greggio negli anni Ottanta, il governo ha cercato di sviluppare il comparto industriale,
riuscendovi però solo in parte. Attività secondarie per l'economia del paese sono invece lo
sfruttamento delle risorse forestali e la pesca, essenzialmente di tipo lacustre e fluviale.
La drastica diminuzione delle entrate provenienti dal petrolio, insieme al rapido aumento della
popolazione, hanno portato a un vistoso calo del PIL pro capite, passato dai 520 dollari USA della
metà degli anni Ottanta ai 270 dollari del 1988. Nel 2002 il PIL del paese ammontava a 43.540
milioni di dollari USA, pari a un PIL pro capite di 330 dollari.
AGRICOLTURA E ALLEVAMENTO
L'agricoltura rappresenta circa un terzo del PIL e occupa la metà circa della popolazione attiva
nigeriana. In massima parte è ancora un'attività di pura sussistenza, incentrata su piccole aziende a
conduzione familiare. Nelle regioni del nord si coltivano principalmente sorgo, riso, arachidi,
cotone e miglio e si allevano bovini, mentre il sud produce perlopiù granturco, patate dolci, palme
da olio e cacao. L'allevamento di animali da cortile, ovini e caprini è diffuso in tutto il territorio,
così come le coltivazioni di manioca, legumi, pomodori e soprattutto canna da zucchero e banane.
Nel 2002 il comparto agricolo ha fornito il 37,4% del PIL del paese.
RISORSE ENERGETICHE E MINERARIE
Grandi giacimenti di petrolio e di gas naturale (destinato a uso interno per alimentare le centrali
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elettriche, che soddisfano il 61,94% del fabbisogno energetico del paese) sono situati sul delta del
fiume Niger e in mare aperto, nelle antistanti baie di Benin e Bonny, nel golfo di Guinea.
Per quanto riguarda il greggio, che viene estratto dalle principali compagnie petrolifere
internazionali in associazione con la compagnia di Stato NNPC (Nigerian National Petroleum
Corporation), la Nigeria si colloca, con 2.261.156 barili al giorno (2001) tra i maggiori produttori
mondiali. Il paese dispone inoltre di consistenti giacimenti di carbone, piombo e zinco e di modesti
depositi di oro e uranio. Nella regione della savana vengono inoltre estratte piccole quantità di
calcare, sale, lignite e minerali ferrosi, mentre nell'area dell'altopiano di Jos si trovano stagno e
columbite.
INDUSTRIA
Dislocate in varie regioni del paese vi sono piccole industrie a conduzione familiare, la cui attività è
basata soprattutto sulla lavorazione artigianale di ceramica, legno, tessuti, pellami, materiale da
costruzione, granaglie e bevande. Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta il
governo nigeriano avviò un programma di sviluppo industriale, che ha determinato la nascita di
un’industria piuttosto diversificata: assemblaggio di motori automobilistici, raffinazione del
greggio, lavorazione dell’alluminio e del legno, produzione di carta. Vi sono inoltre industrie
siderurgiche, agroalimentari, tessili, chimiche e farmaceutiche. Il comparto industriale ha fornito,
nel 2002, il 28,8% del PIL, impiegando il 7% della forza lavoro.
COMMERCIO E FINANZA
La moneta corrente è il naira, suddiviso in 100 kobo. La valuta e le attività bancarie sono controllate
dalla Banca Centrale di Nigeria (fondata nel 1958).
Il mercato interno della Nigeria è incentrato sulla vendita di generi alimentari e di beni di consumo,
mentre le esportazioni si basano, per il 99,6%, sulla vendita del greggio. Vengono prevalentemente
importati veicoli a motore e pezzi di ricambio, macchinari, prodotti industriali di base e generi
alimentari. I principali partner commerciali sono Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia,
Italia, Paesi Bassi, Canada, Giappone. Nonostante la ricchezza prodotta dalla massiccia
esportazione del petrolio, il paese è gravato da un elevatissimo debito pubblico, in continua ascesa.
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ORDINAMENTO DELLO STATO
La Nigeria è diventata indipendente, dopo un lungo periodo di colonizzazione, il 1° ottobre 1960.
Da allora la sua vita politica è stata caratterizzata, oltre che dai continui interventi militari, dalle
rivalità etnico-religiose tra il nord musulmano a maggioranza hausa e dai fulani, e il sud cristiano a
maggioranza yoruba e ibo. Secondo la nuova Costituzione adottata nel 1999, la Nigeria è uno stato
democratico e federale. Il paese è membro delle Nazioni Unite, dell'Unione africana,
dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), della Comunità economica degli stati
dell'Africa occidentale e di altre associazioni internazionali.
POTERE ESECUTIVO
Il capo dello stato, eletto a suffragio universale ogni quattro anni, è anche capo del governo e
nomina il consiglio dei ministri; può restare in carica per due mandati consecutivi.
POTERE LEGISLATIVO
Il sistema legislativo è basato su un'Assemblea nazionale bicamerale, che consiste di un Senato di
109 membri (tre per ogni stato, eletti per quattro anni a suffragio universale) e di una Camera dei
rappresentanti di 360 membri (eletti a loro volta a suffragio universale per un periodo di quattro
anni).
POTERE GIUDIZIARIO
Il sistema giudiziario nigeriano si basa principalmente sulla Common Law britannica. Il tribunale di
più alto grado è la Corte suprema federale, composta da un giudice di grado superiore e da altri
quindici membri designati dal capo di stato. Di rango inferiore sono la Corte d'appello federale e le
corti di ogni singolo stato. In alcuni stati della federazione vigono la shariah, la legge islamica e il
diritto consuetudinario tribale.
ISTITUZIONI PERIFERICHE
Il paese è attualmente diviso in 36 stati più il distretto della capitale, ognuno dei quali dispone di un
proprio Parlamento.
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L'INDIPENDENZA
Dopo la seconda guerra mondiale, anche la Nigeria, come il resto del continente africano, vide lo
sviluppo del movimento anticolonialista, caratterizzato da forti demarcazioni etniche al suo interno.
Nel nord del paese, tra gli hausa e i fulani, emerse il Congresso del popolo (NPC) del Nord di
Ahmadou Bello; nel sudest, tra gli ibo, si affermò la Convenzione nazionale dei cittadini nigeriani
(NCNC) di Nnamdi Azikiwe; tra gli yoruba del sudovest, infine, si affermò il Gruppo d’azione
(AG) di Obafemi Awolowo.
A causa di queste divisioni, fomentate peraltro dalla Gran Bretagna, il mondo politico nigeriano fu a
lungo incerto se assegnare al nuovo stato una struttura federale, con forti istituzioni centrali, oppure
una più duttile organizzazione confederale. Una prima Costituzione, concessa dalla Gran Bretagna
nel 1947, istituì delle assemblee provinciali e dei governi scarsamente rappresentativi degli interessi
della popolazione nera. Nel 1954 venne creata un’amministrazione federale, raccogliendo le
provincie in tre regioni (Est, Ovest e Nord) dotate di una certa autonomia, seppur dipendenti da
regole poste a protezione della federazione.
Il 1° ottobre 1960 la Nigeria divenne stato indipendente nell'ambito del Commonwealth britannico e
il 7 ottobre membro delle Nazioni Unite. Come primo ministro fu eletto Abubakar Tafawa Balewa,
a capo di una coalizione governativa che rappresentava i principali partiti delle regioni settentrionale
e orientale. Nnamdi Azikiwe diventò prima governatore generale e poi, il 1° ottobre 1963, quando
fu adottata la repubblica, presidente del paese. Nel 1961, in seguito a referendum, la sezione
settentrionale dell'ex Camerun britannico entrò a far parte della Nigeria, mentre i territori bamileke
si riunirono al Camerun.
IL GOVERNO CIVILE
La Nigeria conobbe quindi alcuni anni di crescita economica, sostenuta dai crescenti profitti della
vendita del petrolio, di cui il paese divenne il quinto produttore mondiale.
Non cessò invece l'instabilità politica; Gowon fu rovesciato nel 1975 e l’anno successivo un nuovo
colpo di stato portò al potere il generale Olusegun Obasanjo.
Obasanjo si impegnò a ridare al paese un governo civile. Nel 1978 fu varata una nuova Costituzione
e nel 1979 si svolsero le elezioni, in seguito alle quali Alhaji Shehu Shagari del Partito nazionale
nigeriano, basato nel nord del paese, fu eletto alla presidenza.
Il governo di Shagari avviò ambiziosi programmi di sviluppo e tentò di impostare una nuova
politica agricola che permettesse al paese di attenuare la crescente dipendenza dalle importazioni di
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prodotti alimentari. La crisi petrolifera dei primi anni Ottanta vanificò tuttavia gran parte di questi
sforzi. Il calo dei proventi del petrolio, la cattiva gestione amministrativa e la corruzione dilagante
condussero il paese a una grave recessione economica. Nel 1983, circa un milione di immigrati,
principalmente ghanesi, vennero brutalmente accompagnati alle frontiere. Tra le popolazioni del
nord musulmano, le più povere del paese, il malcontento causò la comparsa di sette fondamentaliste
e lo scoppio di violente rivolte (Kano nel 1980, Yola nel 1984 e Gombe nel 1985), che furono
represse nel sangue dall’esercito.
Nell'agosto 1983 Shagari venne rieletto alla presidenza, ma a dicembre venne deposto da un colpo
di stato guidato dal generale Muhammad Buhari.
BREVE PRESENTAZIONE STORICA
La Nigeria insieme con Zaire e Sud Africa sono i tre giganti sub-sahariani. Alcuni studiosi di cose
africane pensano che lo sviluppo dell'Africa sub-sahariana avverrà un po’ come una specie di
sviluppo a tenaglia che partirà per quanto riguarda l'Africa australe dal Sud Africa; riguardo al
centro dal Congo-Democratico (ex Zaire), e per quanto riguarda la parte occidentale dalla Nigeria
L’attualità politica di questi ultimi mesi ci dimostra, in effetti, sono i tre paesi che hanno racchiuso
in questo momento i più grandi problemi di tutta l'Africa: quello economico con la presenza nel loro
suolo e sottosuolo d’immense ricchezze sfruttate dalle multinazionali con la complicità dell’élite al
potere senza e senza ricaduta benefica sulle popolazioni che ne subiscono i danni ambientali; quello
della convivenza tra comunità diverse (etnie e culture differenti per la Nigeria e il Congo, diverse
comunità razziali per il Sudafrica); quello di trovare una loro posizione geopolitica all'interno dei
nuovi equilibri che si stanno delineando alla fine del sistema bipolare, dopo l'abbattimento del muro
di Berlino. Sudafrica, Congo, Nigeria, come specchi dei problemi, delle difficoltà ma anche delle
speranze di questo continente africano che si affaccia al terzo millennio. Le difficoltà attuali e le
enormi problemi affrontati da questi paesi spingono alcuni osservatori a disegnare scenari
catastrofici per il futuro dell’Africa. Occorre, anche qui, andare fino in fondo e compiere un’analisi
più approfondita. Occorre, in altre parole, passare dalla contemplazione acritica di certe fotografie
che su questi paesi girano in Europa all’osservazione delle correnti profonde e della radiografica
dell'Africa che una volta fatta evidenzia certo delle zone d'ombra, di negatività, di sofferenze ma
anche dei motivi di speranza, di luce che bisogna rilevare soprattutto per chi intende svolgere
un’attenzione operativa verso quei paesi.
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La Nigeria dal punto di vista politico sin dal momento della sua indipendenza è stata una colonia
britannica e ha conseguito la sua indipendenza nel '60 insieme a tutti gli altri paesi del continente
africano sia di colonizzazione francese sia di colonizzazione inglese. La Nigeria insieme con la
Gold Cost, diventata Ghana poi al momento dell'indipendenza, è state due colonie britanniche in
questa fascia dell'Africa occidentale quasi interamente francofona. La Nigeria insieme con il Ghana,
ma insieme anche a Sierra Leone e Liberia, sono le uniche isole anglofone di quella zona. Dalla sua
indipendenza all'inizio degli anni 60, la Nigeria è quasi subito entrata in una fase di gran turbolenza.
Questo crogiolo di popoli, di nazioni, di realtà diverse tenute insieme in qualche modo dall'impero
britannico, al momento dell'indipendenza si vide sparire il cemento unitario della lotta anticoloniale
che aveva quantomeno livellato le differenze.
Nel momento invece in cui il nemico storico non c'è più, scoppiano le contraddizioni, le divergenze.
Si parla addirittura di più di 250 etnie all'interno di questo paese. I grandi gruppi però in qualche
modo sono quelli al nord, gli hausà che alcuni dicono siano i discendenti dei conquistatori che sono
venuti quindi dall'ex Regno del Sudan, quindi dalla zona del Mali del Senegal. Questi si sono
insediati nel nord della Nigeria, e soprattutto verso il 19' secolo grazie all'Islam si sono insediati in
quelle zone, quindi rappresenta il primo gran gruppo diciamo della Nigeria.
Nella parte sud-ovest, invece, abbiamo l'etnia degli Yoruba molto interessante e molto numerosa; è
un gruppo molto attivo con una cultura molto brillante dal passato e anche se volete mitico questo
popolo degli Yoruba è una etnia di vecchie tradizioni. Se un giorno avrete la curiosità di conoscere
la Nigeria, v’imbatterete sicuramente in tutta una letteratura orale ed anche scritta di gente molto
brillante, parlo di Ben-Okri ma potrei citarne altri. “La via della fame”(di Ben-Okri) e altri libri
ancora, che vi restituiscono proprio la bellezza, la complessità ma anche se volete il carattere
luminoso di questa cultura Yoruba.
Abbiamo poi nel sud-est l'etnia degli Ibos che sono definiti come cristiani, in realtà sono anche loro
molto radicati in una tradizione culturale africana molto ricca. L’anima di questa tradizione sono i
culti animisti che informano profondamente le modalità della vita dove rito e culto si mescolano ai
gesti più semplici e banali della vita.
Questo radicamento della cultura di cui parleremo più avanti è una delle cose molto importanti della
Nigeria. E' infatti un popolo molto attaccato al suo patrimonio culturale e nello stesso tempo aperto
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a una specie di modernità con dei problemi che spero riuscirò a farvi capire. Questi tre grandi
gruppi nella loro compattezza sono poi affiancati verso il delta del Niger cioè nella parte sud del
paese, da centinaia di piccole etnie minoritarie tra cui gli Ogoni che sono venuti alla ribalta
nell'occasione purtroppo dell'uccisione del leader Ogoni Ken- Saro Wiwa nel 1993 insieme a otto
suoi amici che lottavano proprio per i diritti del popolo ogoni, in una zona molto bella e molto
ricca, devastata dalle compagnie petrolifere, dalla Shell, dalla Elf ma anche dalla nostra brava Agip.
E' quindi un popolo dal punto di vista etnico-culturale molto variegato, molto ricco, veramente un
micro cosmo dentro il quale bisognerebbe entrare. La letteratura nigeriana può così rappresentare
una chiave molto interessante per entrare all'interno di questa ricchissima, interessantissima e
avvolgente, se volete, cultura antica sia quella del nord, sia quella degli Yoruba sia quella degli
Ibos. Quest’ultimi hanno lasciato delle tracce molto profonde nella storia contemporanea della
Nigeria a causa della secessione del Biafra che è scoppiata nel 1967. I più anziani tra voi
ricorderanno bene questo periodo, i più giovani invece che erano nei banchi di scuola ricorderanno
le collette che si facevano all'epoca per mandare degli aiuti nel Biafra devastato della guerra civile.
Questa guerra civile scoppiata proprio nel 66, quando nell'interminabile ciclo dei colpi di stato che
hanno caratterizzano un Po la situazione politica in Nigeria.
Nel '66 il governo venne rovesciato dai militari e proprio in quell'anno il colonnello Ojukwu
proclama la secessione del Biafra, anche qui con lo zampino delle potenze occidentali, delle
multinazionali del petrolio, interessate ad approfittare dalla confusione secondo la vecchia e mai
tramontata politica del dividere per regnare. Pensavano di giocare questa carta della divisione della
Nigeria per impadronirsi delle immense ricchezze di questo paese che ricordo fa parte uno dei rari
paesi africani membro della potente organizzazione dei paesi produttori del petrolio perché proprio
in questo paese il petrolio sgorga a fiumi.
Sono migliaia e migliaia di barili che dal suolo nigeriano vengono estratti e questo paradossalmente
è la fortuna e la sfortuna di questo paese. Ricordo un titolo di un economista africano degli anni '60
- '70 Albert Tévodjéré, che diceva “la povertà è la ricchezza dei popoli”, nel caso della Nigeria la
sua ricchezza in qualche modo è stata anche all'origine di tutti i suoi guai. Vi do alcuni dati
velocissimi per darvi un idea di che cosa sia questo gigante:
“115 milioni di persone nell’anno 1998” su una superficie tre volte l'Italia, si dice che un africano su
quattro è nigeriano per cui potete capire anche l'interesse che tutta l'Africa rivolge verso questo
paese perché i fallimenti e i successi della Nigeria non mancano mai di avere dei riflessi non solo
sulla regione dove la Nigeria è collocata ma anche in generale sull'andamento dell'Africa.
Sul ruolo geopolitico e strategico della Nigeria spero di accennare nella parte finale di questa mia
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piccola presentazione, nonostante questa immensa ricchezza che prima degli anni '60 l'economia era
basata soprattutto sui prodotti agricoli come cacao e arachide, successivamente invece la Nigeria ha
cominciato a produrre petrolio. Il petrolio come in tutti gli altri paesi africani ha sostituito tutti gli
altri prodotti dell'agricoltura.
Nonostante questa ricchezza il prodotto lordo pro capite rimane comunque abbastanza basso cioè
370 dollari. Anche qui le cifre vanno manipolate con delicatezza e come il famoso pollo per cui,
secondo le statistiche, tutti hanno mangiato mezzo pollo invece c'è chi ha mangiato due cosce di
pollo e chi ne ha mangiato solo le magre zampe. Proprio perché paese produttore di petrolio quindi
con tanta valuta estera che entrava in questo paese, negli anni in cui tutti prestavano soldi all'Africa,
ai paesi più ricchi dell'Africa è stato prestato anche tanto, per cui il debito estero della Nigeria in
questo momento supera i 30 miliardi di dollari. Ora non ho fatto il conto, però se facciamo il conto
arriviamo alla fine ad un debito che pesa proprio come un macigno sulle spalle di ognuno degli
abitanti incolpevoli.
Per quanto riguarda lo sviluppo economico del paese, proprio a causa del debito che abbiamo
evocato, con la politica del fondo monetario internazionale e della banca mondiale, tutto quello che
può entrare in Nigeria come valuta estera, ritorna nelle banche occidentali sotto forma di pagamento
degli interessi derivati da questo debito. E’ quindi una spirale infernale, che non permette a questo
paese di sviluppare le sue infrastrutture sociali, quelle scolastiche e quelle in generale stradali e
ferroviarie. Tutte quelle leve, insomma, che insieme alla risorsa umana e la risorsa infrastrutturale
fanno lo sviluppo di un paese. Si calcola che, seguendo i dati della banca mondiale, 34 milioni di
nigeriani ossia un terzo di essi vivono in condizioni economiche definite precarie. Anche qui si usa
un eufemismo perché anche quando si va a guardare la realtà delle singole persone, delle singole
famiglie questa supera a volte supera l'indecenza di queste cifre; la realtà è molto peggiore e ciò non
può che sbalordire e scandalizzare di fronte alla grandissima ricchezza nominale di questo paese.
Proprio grazie ai proventi del petrolio la Nigeria ha investito molto, nei primi anni d’indipendenza
in infrastrutture scolastiche, in ospedali, in trasporti pubblici, in rete idriche per approvvigionare
d'acqua potabile le popolazioni. Da un po' di tempo a questa parte e più precisamente dal 1980
questi investimenti per le infrastrutture sociali hanno segnato il passo, un po' per il crollo delle
quotazioni di greggio in rapida ascesa dopo lo shock petrolifero e successivamente crollate e
dall’allora in cronica instabilità;
ma soprattutto a causa anche di una politica economica dissennata, della corruzione endemica di
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questo sistema, di una classe dirigente che a tutto pensa e ha pensato, tranne che a sviluppare questo
paese. Questi gruppi di potere formati dai militari e anche dai grandi gruppi industriali e
commerciali in collaborazione stretta, hanno saccheggiato questo paese dalle enormi potenzialità di
sviluppo.
Quindi quando poi si parla di problemi di instabilità politica, di democrazia in qualche modo che
non avanza, le ragioni sono nelle complessità interna del paese, nella difficile articolazione degli
interessi degli uni e degli altri. I problemi però vanno anche ricercati nei poderosi interessi delle
multinazionali occidentali in questo paese, per cui le pressioni, per esempio economiche, di tutta la
comunità internazionale per far sì che il regime totalitario di Sani Abacha possa subire delle
pressioni economiche, sono rimaste inapplicate. Quanto meno per quanto riguarda i proventi del
petrolio non hanno mai dato esito positivo anche nel periodo più difficile e repressivo del regime.
Quando poi sono stati assassinati questi militanti Ogoni nell'indignazione della comunità
internazionale dell’ONU e di tutte le cancellerie occidentali, davanti all'interesse petrolifero tutti si
sono fermati. Il petrolio l'hanno ricominciato a pompare più che mai, con ritmi sempre più sfrenati
di prima perché comunque 'business is business'. Queste parole non sono mie, sono del premio
Nobel della letteratura, che durante un intervista che mi ha rilasciato per conto della rivista mensile
Nigrizia dichiarava questo. “Nel paese, ha spiegato Wole Soyinka, mancano le condizioni minime
per una vita dignitosa, servizi sociali, scolastici, sanitari e sono all'ordine del giorno carcerazioni
arbitrarie, torture, uccisioni extra giudiziarie e sparizioni. La giunta militare di Sani Abacha, l’ex
dittatore morto a giugno del 1998, aveva sistematicamente eliminato ogni spazio di vita
democratica, ogni spazio libero, ogni libertà di stampa, ogni minimo rispetto dei diritti umani in
questo paese.
La sua scomparsa del Generale Sani Abacha e la sua sostituzione con un altro militare cosiddetto
moderato ha riaperto le speranze di aprire una nuova fase di democratizzazione e di riconciliazione
dell’organizzazione politico e sociale del paese. La liberazione di numerosi detenuti per motivi
d’opinione e la ritrovata libertà d’azione dei partiti politici e delle associazioni dei diritti umani
sono segnali incoraggianti. Un calendario elettorale è stato annunciato dal generale che ha promesso
solennemente il ritorno del gigante d’Africa alla democrazia con il potere riconsegnato ai civili in
seguito a consultazioni elettorali trasparenti e controllate dalla Comunità internazionale. Resta la
resistenza della giunta militare per un periodo di transizione che dovrebbe aprire spazi di dialogo
con l’opposizione politica e con la società civile che ha aspramente combattuto, spesso a rischio
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della vita, contro al feroce dittatura di Sani Abacha. Nel frattempo, l’apertura di credito garantito al
nuovo uomo forte d’Abuja, la capitale della Nigeria, ha permesso al paese di riconquistare il suo
posto di rilievo nello scacchiere diplomatico africano e mondiale. Sarebbe auspicabile dosare questo
ritorno ai progressi compiuti nel ristabilimento di strutture politiche democratiche e rispettose dei
diritti della persona.
Dal punto di vista internazionale e politico, gli Stati Uniti che prima erano molto severi con la
Nigeria hanno capito che tutto sommato nonostante le condanne teoriche nessuno ha pensato di
esercitare vere e proprie pressioni su questo potere perché comunque si pensa che è un elemento di
stabilità. Molto strano però è questo, nella regione la Nigeria è una potenza, è l'unica potenza che
può militarmente organizzare un esercito e mandarla il Liberia o in Sierra Leone, per ristabilire le
condizioni 'di pace' e ristabilire la democrazia. Paradossalmente colui che negava al suo popolo i
diritti umani, la libertà, la democrazia era paradossalmente colui che si faceva paladino della difesa
degli stessi diritti di democrazia nei paesi vicini.
Il caso recente è quello della Sierra Leone, dove con l'appoggio determinante dell'esercito nigeriano
il presidente democraticamente eletto che era stato spodestato è tornato al potere, quindi gli Stati
Uniti sono passati da un atteggiamento molto fermo sui diritti umani a un atteggiamento che loro
considerano di impegno costruttivo. Cosa vuol dire impegno costruttivo? Bisogna chiederlo al
presidente degli Stati uniti e alla sua amministrazione. A questa domanda però Bill Clinton e tutte le
multinazionali non hanno ancora risposto
L'opposizione nigeriana comunque nonostante queste condizioni difficili nelle quali opera, continua
a essere molto attiva nel chiedere la democratizzazione del paese e quindi c'è tutto un movimento di
opposizione organizzato all'estero che porta avanti questo discorso di pressioni sulla comunità
internazionale e sui decisori politici per indurre questo paese a ritornare a una dialettica democratica
a una maggiore trasparenza nella gestione delle ricchezze e nella gestione del potere e così via
dicendo. Segnalo qui l'opera importante anche di Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura che
vive, in esilio e che ha rischiato la vita. Vive negli Stati Uniti ma instancabilmente direi ore dopo
ore sta lottando per ristabilire nel suo paese condizioni di dignità democratica, di una dignità civile
per tutti.
La Nigeria non fa eccezione rispetto agli altri paesi africani, c'è questa vistosa e anche drammatica
polarizzazione sociale tra i pochissimi che usufruiscono delle ricchezze per cui vivono a un ritmo
che è 10, 15, 20 volte dal punto di vista economico e sociale più elevato della stragrande
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maggioranza della popolazione e se volete le contraddizioni che trovate nelle città tra le immense
ricchezze, macchine, infrastrutture radio satellitari, tutti i gadget del benessere moderno e invece la
stragrande maggioranza deve fare i conti con la sopravvivenza non dico mese dopo mese ma quasi
giorno dopo giorno. Queste vistosissime contraddizioni che sono palesi in tutti i paesi, in Nigeria
proprio per il suo carattere di paese sterminato dal punto di vista territoriale con una popolazione
molto grande assume delle dimensioni che nessun cronista, anche il più scrupoloso potrà mai
raccontare. Condizioni di vita infra-umane che gridano vendetta davanti a tutto: sul piano morale
per i beni della terra appartengono a tutti i cittadini e andrebbero condivisi equamente; dal punto di
vista politico perché un’infima minoranza ha confiscato la “res pubblica” a beneficio esclusivo dei
loro interessi particolari senza la possibilità di nessun controllo e di nessuna sanzione; dal punto di
vista delle “logiche” che guidano i processi economici escludendo dall’economia la stragrande
maggioranza della popolazione promuovendo attività che servono interessi eterogenei
Sul piano culturale invece si potrebbe dire che la Nigeria è proprio come dicevo all'inizio uno
specchio d'Africa, nel senso che proprio 250 etnie dalle grandi tradizioni molto ancestrali e molto
radicate e se volete anche vissute con un certo orgoglio. La Nigeria quindi esprime più di ogni altro
paese africano questa doppia appartenenza; da un lato un forte radicamento nella tradizione che si
esprime nelle lingue, nella mitologia, nella letteratura e nell'apertura a una modernità che potrei
chiamare ambigua, assunta in modo acritico a volte, anche nei suoi aspetti più deleteri e se volete
consumistici. Spesso il modello al quale guarda molto la Nigeria non è più tanto l'Inghilterra, ma è
singolare come camminando per le strade di Lagos, d’Abusha i giovani tra i 15 e i 20 anni in
qualche modo assomigliano ai giovani che s’incontrano a Brooklyn, a San Francisco e a Harlem.
E' veramente impressionante. Ciò significa semplicemente che grazie ai mezzi di comunicazione,
alla televisione e alle sue antenne paraboliche in qualche modo il modello verso il quale questi
giovani guardano è il modello americano. Il peggiore, se volete, poi del modello americano, della
“Coca Cola way of life” rendendo irreversibile la contaminazione di quel fenomeno che alcuni
sociologi chiamano la macdonalizzazione del mondo. La crescente macdonalizzazione del mondo
ha raggiunto e raggiunge pezzi sempre più consistente d’Africa. Si tratta di una colonizzazione
senza armi letali ma che colpisce in profondità perché aggredisce la cultura, l’anima di un popolo.
Se qualcuno ha dei dubbi su queste cose potrebbe andare a vedere i “Torino Boys”, un
cortometraggio realizzato da alcuni registi italiani che vi offre allo spettatore in modo immediato e
se volete drammatico il tessuto di aspirazioni, di illusioni traditi, di sogni rubati, e di valori traviati
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che nutre questa gioventù dell’estrema periferia delle città africane. Tutto quanto, poi, all'interno di
una tradizione mai morta, anzi molto viva soprattutto nelle campagne abbandonate dai giovani
sedotti dal miraggio strangolatore delle città. Siccome non abbiamo tempo per quelli che sono
interessati un pò a cogliere in un'opera solo quello che è, questa ambivalenza culturale della Nigera,
lo invito ad andare a leggere il libro di Wole Soyinka ,“Gli Interpreti”, che secondo me più di ogni
altro libro dà la misura di questa divaricazione, di questa continua ricerca, di questa identità doppia,
sofferta, lacerata. Tra una tradizione mai morta e una modernità di cui ancora non possiedono
veramente le leve, il cieco mimetismo e l'iniziativa e che quindi viene vissuta nei suoi aspetti più
deleteri.
La speranza è che propio grazie alla brillantezza degli elementi che questa cultura ha espresso sia
nel campo del cinema, della letteratura, gente come Ben-okri e come Amos Tutuola che è morto da
poco, circa un anno, fino a Chinua Achebe che hanno scritto dei libri di una straordinaria ricchezza,
che pongono dei problemi che non sono solo problemi della Nigeria o dell'Africa, ma sono
problemi universali. Questa ansia di cercare se stesso, di cercare la propria identità, diventerà un
domani forse il problema dell' Italia in questa Europa che si sta unendo. Questi scrittori hanno
espresso in un modo anche molto creativo questo problema e alcuni di questi libri se li inizierete a
leggere non vi fermerete più per quanto sono belli. Mi avvio a conlcudere con una domanda, dove
va la Nigeria, dove possiamo cogliere i segni, i motivi della speranza per questo paese la cui
situazione in questo momento sembra bloccata? Ma proprio da questa ricchezza umana da questa
cultura mai morta, ma che continua a vivere in modo molto vitale; e non ho parlato della musica e
del ruolo che ha avuto non solo per la Nigeria ma tutta per tutta l'Africa. Fela Anikulapo Kuti è
stato il profeta più grande della grande stagione musicale nigeriana ed africa degli ‘70-80. La
protesta ch’egli ha incarnato, questa protesta, questa sete di libertà, questo ritorno alle origini, alla
propia identità che lui ha espresso in modo estremo ma anche stravagante, perchè era uno
stravagante, ma che ha messo in risalto i problemi veri dell'Africa. Tutto sommato questa ricerca
questa identità e questa necessaria apertura a una modernità che non abbiamo voluto ma che ci è
stata imposta dall'arrivo di Vasco de Gama1 è ormai un fatto col quale dobbiamo fare i conti in
1
Il 7 aprile 1998 abbiamo celebrato i 500 anni dell'arrivo di Vasco de Gama sulle coste africane e più precisamente
sulle coste orientali dell'Africa a Mombasa. Questa data è considerata da tutti come l'inizio ufficiale dell'impresa
coloniale che tanto peso avrebbe avuto nella storia dell’Africa. 500 anni sono tanti, ma l'Africa ha 500 anni ?
Leggendo alcuni libri di storia sembrerebbe di si. L’impressione che si ricava da questi libri è che la storia
dell’Africa cominciasse con l’arrivo del primo europeo sulle coste del continente. L’eurocentrismo storiografico ha
bollato tutto ciò che il continente ha vissuto prima dell’arrivo dei coloni. In mancanza di documenti scritti, si è
cancellato semplicemente secoli di storia tramandata di generazioni in generazioni attraverso l’oralità. Eppure,
occorre riaffermare con forza che prima dell'approdo di Vasco de Gama a Mombassa l'Africa aveva una sua storia,
una sua modalità specifica di vivere la nostra comune umanità, e inoltre aveva anche un suo percorso economico e
sociale. Tutte realtà che sono state travolte da questa irruzione di Vasco de Gama sulle coste orientali africane. Una
presenza che ha portato nel continente africano la “tratta degli schiavi” più lunga nel tempo e maggiormente
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Nigeria e in Africa.
Gli scrittori nigeriani o gli uomini di cultura della Nigeria in qualche modo danno delle risposte,
pongono dei problemi in modo giusto e la speranza della Nigeria risiede in fondo nella sua cultura e
nei suoi uomini, che non possono essere confusi né con la giunta militare al potere né con gli
aspetti più negativi della Nigeria, cioè la crisi economico/politica e dei valori che ci ha portato sui
marciapiedi della prostituzione migliaia di giovani donne. Esse sono immolate, vittime sacrificali,
sull’altare del sogno dell’Africa e del suo gigante che non riescono a trovare, dopo quattro decenni
di indipendenza, il modo di fare brillare la luce della democrazia e del benessere per tutti.
organizzata con circa 15 a 20 milioni di pezzi di “merce umana” deportati nelle Americhe. In tutto, gli storici
calcolano che la tratta, durata ben tre secoli, ha coinvolto circa 100 milioni di persone tra quelli che sono
effettivamente arrivati nelle Americhe, quelli che sono finiti nei fondali dell'oceano, quelli che invece essendo malati
non sono riusciti ad imbarcare. Questa è stata abolita, almeno per quanto riguarda le colonie francesi nel 1848. Il 27
aprile 1998, si è celebrata a Gorèe in Senegal all'Isola degli Schiavi questo anniversario dell’abolizione ufficiale
della schiavitù.
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Sezione Europa
Ucraina
A cura di Luca Mazzocco
Moldavia
A cura di Luca Mazzocco
Proverbi
Si può viaggiare non per fuggire da se stessi, cosa impossibile, ma per ritrovarsi.
La vita è sentire la potenza della natura e il richiamo degli uomini. Un viaggio, aperto
al sogno, al ritmo lento del tempo intensamente vissuto
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Ucraina
A colpo d'occhio
•
Nome completo del paese: Ucraina
•
Superficie: 603.700 kmq
•
Popolazione: 47.732.079 abitanti (tasso di crescita demografica -0,72%)
•
Capitale: Kiev (2.588.400 abitanti, 3.296.100 abitanti nell'area metropolitana)
•
Popoli: 73% ucraini, 22% russi, 1% ebrei, 4% altri
•
Lingua: ucraino, russo, rumeno, polacco, ungherese
•
Religione: ortodossa ucraina (patriarcato di Mosca, patriarcato di Kiev), cattolica di rito
greco (uniate), protestante, mennonita, ebraica
•
Ordinamento dello stato: repubblica presidenziale
•
Presidente: Leonid Danylovych Kuchma
•
Primo ministro: Viktor Fedorovych Yanukovych
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Storia
La storia dell'Ucraina è iniziata con il rumore degli zoccoli dei cavalli, quando gli sciiti che
dominavano le steppe a nord del Mar Nero, dal VII al IV secolo a.C., diedero inizio a secoli di
dominazione politica e culturale straniera. Nel Monastero delle Grotte di Kiev, è possibile trovare
alcune testimonianze della cultura sciita: qui, infatti, ci sono tombe che contengono bellissimi
oggetti in oro che raffigurano animali e uomini. Dopo gli sciti, altre ondate d'invasori (tra cui
ostrogoti, unni e i kazari turco-iraniani) occuparono le terre che costituiscono l'attuale Ucraina.
I primi che riuscirono a unificare e a controllare la zona per un lungo periodo furono gli scandinavi,
noti con il nome di rus. Conquistarono Kiev nell'882 d.C. e, alla fine del X secolo, la città divenne il
centro di uno stato unitario chiamato Rus' di Kiev, che si estendeva dal Volga a ovest del Danubio e
verso sud in direzione del Baltico. Nel 988, il capo della Rus' di Kiev, Volodymyr, accolse il
cristianesimo da Costantinopoli, dando così inizio a un lungo periodo d'influenza bizantina sulla
politica e sulla cultura dell'Ucraina. Nel 1520, l'impero ottomano controllava tutta la zona costiera
dell'Ucraina.
Alla fine del XV secolo, la guerra e la peste avevano decimato la popolazione dell'Ucraina; in
questo periodo, la regione venne occupata da schiavi in fuga e da rifugiati ortodossi che scappavano
dalle regioni vicine, dove i controlli erano molto più severi. Tutte queste persone vennero definite
kazaks (cosacchi), un termine turco che significa fuorilegge, avventuriero o predone. I cosacchi
dell'Ucraina con il passare del tempo diedero vita a uno stato che, anche se ufficialmente era sotto la
dominazione dapprima della Polonia e poi della Russia, godeva di una grande autonomia. Vent'anni
più tardi, però, questo stato venne diviso fra Polonia e Russia.
Il nazionalismo ucraino che fiorì negli anni intorno al 1840, spinse i russi a proibire l'uso della
lingua ucraina nelle scuole, sui giornali e sui libri. Dopo la prima guerra mondiale e la caduta dello
zar, l'Ucraina ebbe la possibilità di guadagnarsi l'indipendenza, ma nessuna delle diverse fazioni del
paese riuscì a ottenere il sostegno decisivo. Ebbe così inizio una guerra civile e il paese si ritrovò
ben presto in una situazione di anarchia, con sei eserciti che si contendevano il potere e Kiev che
cambiava governo cinque volte l'anno. Dopo una lunga serie di battaglie che coinvolsero anche la
Russia, la Polonia e diverse fazioni etniche e politiche dell'Ucraina, la Polonia si appropriò di alcune
zone dell'Ucraina occidentale e i sovietici ottennero il resto del paese. Nel 1922, l'Ucraina entrò a
far parte ufficialmente dell'URSS.
Nel corso degli anni '20, mentre la leadership di Mosca diventava sempre più palese, si ebbe una
ripresa del nazionalismo ucraino. Tuttavia, quando salì al potere nel 1927, Stalin utilizzò l'Ucraina
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come prova per le sue idee sul nazionalismo 'pericoloso'. Nel 1932-33 macchinò una carestia che
uccise almeno 7 milioni di ucraini. Il paese fu ulteriormente decimato, a causa di deportazioni ed
esecuzioni d'intellettuali. Stalin combatté anche i principali simboli religiosi del paese, distruggendo
più di 250 tra chiese e cattedrali. Durante l'epurazione del 1937-39, milioni di ucraini vennero
assassinati o deportati nei campi di concentramento sovietici. La seconda guerra mondiale portò
ulteriore devastazione e morte: 6 milioni di persone persero la vita nelle battaglie tra l'Armata Rossa
e l'esercito tedesco. È stato calcolato che, nella prima metà del XX secolo, la guerra, la carestia e le
epurazioni causarono la morte di più della metà della popolazione maschile e di circa un quarto di
quella femminile dell'Ucraina.
Il disastro di Chernobyl, avvenuto in Ucraina nel 1986, e l'angosciosa lentezza della risposta
ufficiale sovietica provocarono malcontento in tutto il paese; due anni dopo, la chiesa uniate emerse
dall'isolamento. Il Movimento del Popolo Ucraino per la Ricostruzione, un movimento nazionalista
fondato a Kiev da intellettuali e scrittori, si diffuse in tutto il paese nel 1990. Nel luglio dello stesso
anno, il parlamento ucraino proclamò la sovranità della repubblica (ma non la secessione),
dichiarazione che non ebbe molto effetto. Poco dopo il fallito colpo di stato sovietico dell'agosto del
1991, il Partito Comunista Ucraino (CPU) venne dichiarato fuori legge e in dicembre la popolazione
votò all'unanimità per l'indipendenza.
Leonid Kravchuk, ex-presidente del CPU, fu eletto primo presidente dell'Ucraina. La divisione in
diverse fazioni costrinse il governo a rassegnare le dimissioni nel settembre del 1992; inoltre, la
disputa con la Russia, in merito alla riserva di armi nucleari dell'Ucraina e al controllo della flotta
del Mar Nero (che si trovava presso il porto di Sebastopoli in Crimea), rese ancora più tesi i rapporti
tra i due paesi. Nel frattempo, un'inflazione altissima, la mancanza di riserve energetiche e un potere
d'acquisto sempre più basso ridussero in miseria il paese ed esacerbarono le differenze etniche e
regionali. Leonid Kuchma, un riformatore a favore dei russi, sconfisse Kravchuk nelle elezioni
presidenziali del 1994. Il CPU trasse vantaggio dalla confusione politica ed economica e, nelle
elezioni del 1994, riuscì a ottenere una sostanziosa maggioranza di seggi in parlamento. Alla fine
degli anni '90, sorsero nuovi motivi di tensione tra la Russia e l'Ucraina, a causa degli stretti rapporti
di quest'ultima con la NATO. Alla fine di aprile del 2001, la destituzione del primo ministro Viktor
Yushchenko ha messo a repentaglio la stabilità politica del paese. Il 29 maggio 2001 la carica di
primo ministro è stata affidata ad Anatoliy Kinakh, che ha governato per quasi un anno e mezzo.
Dal 21 novembre 2002 il nuovo primo ministro è Viktor Fedorovych Yanukovych, nominato per
decreto dal presidente. L'opposizione, dal 16 settembre, chiede la destituzione del presidente
Kuchma e sta cercando il sostegno dell'opinione pubblica.
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Dopo essersi allargata da quindici a venticinque membri, con il vertice di Atene, la Commissione
europea si è adoperata per instaurare un dialogo di cooperazione e avvicinamento con tutti i suoi
vicini, dai Balcani alla Russia, dall'Islanda all'Ucraina. Il giorno dopo la storica firma dei trattati di
adesione, l'Unione Europea ha organizzato un incontrato tra i rappresentanti dei quindici paesi con
l’obiettivo di avviare rapporti di stretta collaborazione, avendo tutto in comune, tranne le istituzioni,
come ha spiegato il presidente della Commissione europea Romano Prodi. L'intento finale è
promuovere politiche di riavvicinamento e graduale integrazione nelle strutture sociali ed
economiche tra l'UE allargata e i suoi vicini, mentre si tende ad accelerare il dinamismo politico,
economico e culturale del continente europeo e oltre.
Cultura
Per anni, il mondo occidentale ha considerato l'Ucraina semplicemente come una parte della Russia.
Ma il bortsch, le uova dipinte e molte delle più famose canzoni cosacche e delle danze tradizionali
hanno avuto origine in Ucraina. Gli ucraini occidentali si considerano ucraini al 100% e difendono
la loro cultura, parlando la loro lingua e sbandierando il loro nazionalismo. A est, dove vivono più
di 10 milioni di russi, il nazionalismo è meno sentito e la maggior parte della popolazione parla
russo.
L'ucraino, come il russo e il bielorusso, è una lingua slava orientale. Molto probabilmente è la più
vicina delle tre allo slavo originale del IX secolo parlato a Kiev prima dell'introduzione, nel X
secolo, del più formale slavo ecclesiastico originario della Bulgaria, diffusosi insieme con il
cristianesimo. Nonostante sia stato messo in secondo piano dal russo e dal polacco e addirittura
vietato dallo zar Alessandro II nel 1876, l'ucraino ha resistito e attualmente si sta diffondendo
sempre di più. Nel 1990 fu adottato come lingua ufficiale del paese, anche se il russo è compreso
praticamente da tutti.
Le origini della letteratura nazionale ucraina risalgono alle cronache slave medievali, come per
esempio lo Slovo o polku Ihrevim (The Tale of Ihor's Armament), del XII secolo. Gli inizi della
letteratura ucraina moderna si devono al filosofo errante della metà del XVIII secolo, Hryhorii
Skovoroda, il 'Socrate ucraino'. Skovoroda scrisse poemi e trattati filosofici in ucraino, destinati alla
gente comune piuttosto che all'élite. Taras Shevchenko, un fervente nazionalista nato come schiavo
nel 1814 e poi diventato un eroe nazionale, fu il primo scrittore di lingua ucraina di una certa
importanza. Le sue opere contribuirono alla nascita di un periodo d'oro per la letteratura ucraina. Il
migliore e più produttivo scrittore dell'inizio del XX secolo fu Ivan Franko, le cui opere
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comprendono racconti di fantasia, poesie, opere teatrali, trattati filosofici e racconti per bambini.
Molti scrittori trattarono l'argomento dell'occupazione sovietica e molti furono perseguitati per
questo motivo. Le opere di Vasyl Stus, Winter Trees (1968) e Candle in the Mirror (1977) diedero
inizio all'agonia dei poeti dissidenti; Stus venne ucciso in un campo di concentramento sovietico.
L'Unione degli Scrittori Ucraini di Kiev ebbe un ruolo molto importante per quanto riguarda
l'indipendenza dall'URSS ottenuta nel 1991.
La musica ucraina trae ispirazione dalle antiche tradizioni orali dei bylyny (poemi narrativi epici) e
delle dumas, lunghe ballate liriche che celebravano la gloria dei cosacchi. La musica popolare
ucraina affonda le sue radici nei leggendari kozbar, i menestrelli erranti del XVI e del XVII secolo,
le cui canzoni, che narravano episodi eroici, erano accompagnate dal kozba, uno strumento simile al
liuto. La bandura, uno strumento più grande che poteva avere fino a 45 corde, sostituì il kozba nel
XVIII secolo. I cori di bandura si diffusero nell'arco di poco tempo e la bandura divenne il simbolo
della nazione. Oggi, il Coro di Bandura Ucraino di Kiev si esibisce in tutto il mondo. Mykola
Lysenko è probabilmente il compositore classico ucraino più conosciuto e famoso, perché ha
arrangiato le sue composizioni per pianoforte, basandosi su canzoni popolari ucraine. Fra i musicisti
contemporanei famosi segnaliamo il gruppo punk Plach Yeremiyi e la cantautrice Nina Matvienko
che trae spunto dalle tradizioni popolari ucraine.
Il cristianesimo giunse in Ucraina alla fine del X secolo. La chiesa cattolica e la chiesa ortodossa si
divisero nel 1054 e quella ortodossa si divise a sua volta in tre filoni principali, ognuno dei quali
aveva un rapporto diverso con l'ortodossia russa controllata da Mosca e con il cattolicesimo romano.
L'architettura ucraina è dominata da chiese. Un genere molto particolare è quello delle chiese di
legno caratterizzate da cupole a strati costituite da asticelle in legno, il tutto tenuto insieme da un
sistema complesso che non prevede l'uso di chiodi. Nell'intento di distruggere l'identità e il
nazionalismo ucraini, negli anni '30 i sovietici demolirono centinaia di edifici sacri, tra cui quattro
cattedrali del XII secolo. Anche la pittura affonda le sue origini nelle tematiche religiose. Fino al
XVII secolo, la forma di espressione più diffusa era l'icona, una piccola immagine di Cristo, della
Vergine Maria, degli angeli o dei santi dipinta su un pannello di legno alla quale erano attribuiti
poteri curativi e spirituali. Insieme alle icone, nelle chiese si diffusero anche i dipinti murali, i
mosaici e gli affreschi. L'ascesa al potere dei cosacchi nel XVII secolo favorì lo sviluppo di nuove
scuole di pittura secolare con tematiche nazionalistiche. Dopo anni di freddo Realismo Sovietico, in
questo momento la sperimentazione stilistica e le tematiche nazionalistiche sono nuovamente in
auge.
La cucina ucraina si basa su piatti di origine contadina che utilizzano in particolare cereali e verdure
di base quali patate, cavoli, barbabietole e funghi. La carne in genere viene bollita, fritta o stufata.
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Normalmente i dolci sono ricoperti di miele e frutta, in particolare ciliegie e prugne; i dolci più
diffusi sono i panini dolci. Lo snack ucraino più diffuso è costituito dai varenyky, piccole pallottole
di pasta, mentre il piatto tipico principale è il salo, il grasso di maiale. Il consumo di salo risale a
molti secoli fa e l'attenzione riservatagli dagli ucraini è la stessa che i francesi riservano al vino. Il
bortsch affonda le sue origini in Ucraina ed è ancora oggi la zuppa tipica del paese, un brodo di
barbabietole e verdura mista che viene in genere servito con la panna. Strano ma vero, in Ucraina è
difficile trovare del buon cibo ucraino, dal momento che la maggior parte dei ristoranti di livello
elevato propongono la cucina internazionale, che va molto di moda. La migliore cucina ucraina si
trova nelle case private: se siete invitati a pranzo o a cena da qualcuno, accettate senza riserve. Le
bevande alcoliche sono molto diffuse, in particolare la vodka, un distillato chiaro di frumento,
segale e qualche volta patate. Il nome deriva da voda (acqua) e può essere approssimativamente
tradotto con 'un goccino'.
'Motto: "Volia, Zlahoda, Dobro"
( in ucraino: Libertà, Consenso, Bontà)
Inno nazionale: shche ne vmerla Ucraina (L’Ucraina non è ancora morta)
Eventi
Celebrazione del natale ortodosso il 7 gennaio.
La capitale Kiev celebra i Kiev Days l’ultima settimana di maggio.
Il 28 agosto i pellegrini religiosi si ritrovano in Pochayiv per la festa dell’Assunzione.
Cittadini e città festeggiano il giorno dell’indipendenza il 24 agosto con manifestazioni speciali.
Per Capodanno, gli ucraini intonano canti natalizi e mettono i doni sotto l'abete. Il 7 gennaio si
festeggia il Natale ortodosso. Pashka (Pasqua) è la festa religiosa più importante del calendario
ortodosso: inizia con una celebrazione religiosa a mezzanotte e prosegue con processioni presso le
diverse chiese dei villaggi di tutto il paese. A Lviv, il Virtuoso Nazionale occupa tutto il mese di
maggio con spettacoli teatrali e musicali ispirati a tematiche nazionali. La capitale festeggia la
primavera con le Giornate di Kiev, che si svolgono durante l'ultimo fine settimana di maggio. In
agosto, la Crimea si autocelebra con le Stelle di Crimea di Yalta. Il 28 agosto, numerosi fedeli si
recano in pellegrinaggio presso il monastero di Pochayiv per la Festa dell'Assunzione. Il 24 agosto
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in tutte le città si svolgono i festeggiamenti per la Giornata dell'Indipendenza, che comprendono
spettacoli ed eventi speciali.
Le Koljadki di Natale in Ukraina
Le koljadki sono certi canti della vigilia del Natale. A colui che li canta, il padrone, o la padrona di
casa, usa sempre gettare nel sacco un salame, o un pane o una moneta; ciascuno a seconda di quel
che puo'. Sembra che un tempo, vi fosse un idolo detto Koljada , considerato una divinita', e che da
lui prendessero nome le koljadki.
In Ucraina li chiamano Pysanky. La parola deriva da "pysatj", cioe' dipingere, decorare, scrivere.
Ogni uovo e' dipinto a mano e riflette la fantasia dell'autore. Le uova si possono' comprare nei
negozi di souvenir, e fortunamente non solamente durante Pasqua. Alcuni preti affermavano che
andare in giro per le masserie a cantar le koljadki si compiaceva il diavolo... Chi puo' dirlo? A dire il
vero, non c’è una sola parola nelle kojadki, che ricordi Koljada. Spesso vi si canta del Natale di
Cristo e, alla chiusura, si rivolge un augurio di buona salute al padrone di casa e a tutta la sua
parentela.
"L'ultimo giorno prima di Natale era passato. Era discesa una notte chiara, d'inverno; si erano
affacciate le stelle; la luna si era innalzata maestosamente nel cielo a far lume alla brava gente e al
mondo intero, affinche tutti cantassero le koljadki e lodassero Cristo in letizia. Gelava piu'
intensamente che al mattino; in compenso vi era un tale silenzio che lo scricchiolio del ghiaccio
sotto i passi si udiva a distanza di mezza versta. Non si era ancor fatta viva alcuna brigata di
giovanotti sotto le finestre delle capanne; soltanto la luna le guardava con la coda dell'occhio, quasi
ad invitare le ragazze vestite da festa ad uscire al piu' presto sulla neve crepitante'. Cosi descrive la
notte di Natale Gogol' nelle sue Veglie ad una fattoria presso Dikan'ka
Filastrocca per bambini
Secchio e secchietto,
Date un pasticetto, d'orzo un pugnettino,
Una fetta di salamino!
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Natale a tavola
La cena di Natale in Ukraina inizia con la immancabile kutja. La kutja deve essere molto ricca e
anche buona. Secondo la credenza popolare, questo dovrebbe garantire a tutta la famiglia in salute e
felicita' per l’anno che verrà... Le casalinghe ukraine si impegnano moltissimo per realizzare la kutja
piu' gustosa: le ricette variano da un villaggio all'altro, ma gli ingredienti principali sono il grano
bollito (o riso),i semi di papavero, il miele, la frutta secca, le noci tritate e gli altri ingredienti
"segreti" della padrona di casa.
Materiale tratto da www.edt.it - it.wikipedia.org - www.guida.supereva.it
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Moldavia
A colpo d'occhio
•
Nome completo del paese: Repubblica di Moldavia
•
Superficie: 33.843 kmq
•
Popolazione: 4.446.400 abitanti (tasso di crescita demografica 0,09%)
•
Capitale: Chisinau (709.900 abitanti, 772.500 abitanti nell'area metropolitana)
•
Popoli: 64,5% moldavo-rumeni, 13,8 % ucraini, 13% russi, 1,5% ebrei, 2% bulgari, 5,2%
gagauzi, bielorussi, altri
•
Lingua: moldavo (praticamente identico al rumeno), russo, gagauzi (un dialetto turco)
•
Religione: 98,5% ortodossa orientale, 1,5% ebraica, battista (1.000 membri)
•
Ordinamento dello stato: repubblica presidenziale
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•
Presidente: Vladimir Voronin
•
Primo ministro: Vasile Tarlev
Storia
In origine la Moldavia faceva parte di una più vasta regione che aveva lo stesso nome, ma per gran
parte della sua storia ha avuto a che fare con i più potenti vicini. Situato tra l'incudine russa e il
martello rumeno, questo paese si è da sempre trovato al centro di dispute di confine e di politiche
espansioniste. Prima della sua inconsistente unificazione, la Moldavia era stata invasa, divisa,
riunita, conquistata, annessa, ribattezzata e riconquistata molte più volte di quante si possa
immaginare. Il passaggio dal principato di Moldavia alla repubblica di Moldavia è stato lungo e
sanguinoso e sembra appropriato che la bandiera comprenda una banda rossa a ricordo del sangue
versato per difendere il paese. I moldavi discendono dai daci che furono sconfitti dai romani nel 100
d.C. Alla conquista romana seguì un millennio d'instabilità e cambiamenti, durante il quale la
regione subì le invasioni dei paesi confinanti e divenne un punto focale della diaspora dei magiari,
degli slavi e dei bulgari nell'Europa orientale. Divenne anche un punto di riferimento per i mercanti
bizantini, italiani e greci. All'inizio del Medioevo, quando il flusso migratorio si era ormai quasi
esaurito ed era iniziato a emergere uno stato organizzato, la Moldavia (allora parte della Romania)
era già diventata un pot-pourri di razze e culture. A metà del XIV secolo, sotto il governo di Stefan
cel Mare (Stefano il Grande), il principato di Moldavia raggiunse il massimo splendore, ma poco
dopo, quando a Stefan successe il figlio, l'esercito turco era ormai diventato una forza inarrestabile e
la Moldavia finì sotto il controllo dell'impero ottomano. Rimase sotto la sovranità turca fino al
1711, quando i russi fecero la loro prima comparsa ai confini moldavi. L'esercito russo fu
inizialmente respinto, ma i decenni successivi videro la Russia e la Turchia affrontarsi con grande
impeto. Annessioni, spartizioni, scaramucce, invasioni e guerre erano all'ordine del giorno e la
Moldavia cambiò padrone più volte di una banconota. Nel 1774 l'Austria ottenne la Moldavia
settentrionale, che ribattezzò Bucovina, grazie al ruolo di mediatrice nel trattato di pace tra i russi e i
turchi. Nel 1812 le ostilità tra Turchia e Russia furono temporaneamente sospese dopo la firma del
Trattato di Bucarest, che consegnò la metà orientale della Moldavia ai russi (che ribattezzarono la
regione Bessarabia) e il resto della Moldavia e della Valacchia alla Romania. La Russia cercò
ostinatamente di acquisire il controllo delle zone strategiche della Romania ricorrendo a giochi di
mano e cavilli e, nel 1878, stipulò un paio di patti segreti con le altre superpotenze per estendere i
confini della Bessarabia all'interno del territorio rumeno. La Bessarabia rimase nelle mani dei russi
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fino alla rivoluzione bolscevica del 1917, quando l'ideologia dell'autodeterminazione tornò a essere
all'ordine del giorno. La Bessarabia reagì a questa svolta radicale della storia dichiarandosi
repubblica autonoma, ma, dopo che l'Ucraina iniziò a volgere sguardi interessati sui suoi confini
privi di difese, decise di ricongiungersi alla Romania come misura precauzionale. L'autonomia
concessa da Lenin era una cosa, ma la riunificazione con un antico nemico era una cosa
completamente diversa. Tale riunione, pertanto, non fu mai riconosciuta o perdonata dall'Unione
Sovietica e, nel 1924, un gruppo di contadini fedeli a Lenin formò la secessionista Repubblica
Socialista Sovietica Autonoma Moldava, che in seguito sarebbe diventata la repubblica della
Transdnestria. Nel 1939 il patto Molotov-Ribbentrop (l'accordo tedesco-sovietico sulla divisione
dell'Europa orientale), riconsegnò la Bessarabia all'URSS, che annesse la regione autonoma alla più
grande regione della Bessarabia e ribattezzò l'intero territorio Repubblica Socialista Sovietica
Moldava. L'area fu nuovamente occupata dalle forze rumene tra il 1941 e il 1944, periodo durante il
quale migliaia di ebrei della Bessarabia furono deportati ad Auschwitz. Nel 1944 i rumeni furono
costretti ad allentare la loro presa sulla zona e le autorità sovietiche tornarono a prenderne il
controllo. Il conseguente processo di sovietizzazione della Moldavia comportò la deportazione di
oltre 25.000 moldavi in Siberia e nel Kazakhistan, la chiusura delle sinagoghe ebraiche, la messa al
bando delle cerimonie religiose e l'imposizione dell'alfabeto cirillico al posto di quello rumeno,
basato sul latino. Come sempre accade quando si cerca di imporre un ordine innaturale a un popolo
assoggettato, si procedette anche alla costruzione di monumenti e di statue, all'assegnazione di
nuovi nomi alle strade e alla consacrazione di piazze a personaggi illustri. Con il collasso del
comunismo a metà degli anni '80 e la politica di glasnost e perestroika inaugurata da Gorbaciov, il
Fronte Popolare nazionalista moldavo finalmente ebbe la possibilità di far sentire le proprie ragioni.
Seguirono diversi anni di riforme e consultazioni. Nel 1989 l'alfabeto latino tornò a essere quello
ufficiale; nel 1990 fu introdotta la bandiera moldava e venne approvata una dichiarazione di
sovranità moldava. Infine, l'anno successivo, la Moldavia proclamò la sua piena indipendenza. Il
primo presidente eletto democraticamente fu il comunista Mircea Snegur. L'indipendenza non ha
tuttavia risolto i problemi del paese e ne ha in realtà creati di nuovi. Le minoranze slave della
Transdnestria sono desiderose di mantenere i loro legami culturali e sociali con la Russia, mentre al
sud la minoranza dei gagauzi di lingua turca è preoccupata per la possibile riunificazione con la
Romania. Non appena la Moldavia ha tagliato il cordone ombelicale e si è dichiarata una repubblica
indipendente, le autorità della Transdnestria si sono separate dalla nuova entità, riaffermando la
lealtà della loro terra alla Russia. La situazione si è ulteriormente complicata quando i gagauzi
hanno iniziato a ipotizzare una propria repubblica nel sud-est. La neonata repubblica moldava
sembrava restringersi di minuto in minuto. Alla fine i gagauzi hanno moderato la loro posizione
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dopo avere ottenuto la promessa di una più netta autonomia regionale e di una maggiore
rappresentanza parlamentare, ma la Transdnestria si è ostinatamente rifiutata di unirsi alla
Moldavia. Un precario compromesso è stato raggiunto con l'insediamento nell'area di una forza di
pace trilaterale di Russia, Transdnestria e Moldavia, ma si verificano ancora sporadici disordini tra i
ribelli separatisti e le forze militari moldave e vi sono costanti richieste di un riconoscimento
ufficiale dell'indipendenza della repubblica della Transdnestria da parte dei secessionisti
intransigenti. Le elezioni svoltesi il 25 febbraio 2001 hanno fatto tornare i comunisti alla guida del
paese, per reazione a un decennio di liberismo filo-occidentale che aveva portato il Pil, nel periodo
1991-2000, a ridursi di un terzo, provocando una massiccia emigrazione. La maggiore presenza
dello stato nell'economia, la lotta alla corruzione dilagante, una più mirata riscossione delle imposte,
l'integrazione economica e commerciale con le repubbliche ex sovietiche e con Mosca, hanno
permesso di potenziare lo sviluppo della produzione industriale e dell'agricoltura. L'avvicinamento
economico alla Russia sta comportando anche significative ricerche d'intesa con le autorità filorusse
della Transdnestria, anche se la crisi è ancora lontana
Cultura
Se, come spiega P. J. O'Rourke, "La Russia è un rebus, circondato da un mistero, all'interno di un
enigma, annodato in un fazzoletto, avvolto in una coperta e chiuso in una scatola piena di palline di
polistirolo ", allora la Moldavia, con i suoi legami culturali con la Russia, la Romania e la Turchia, è
un rompicapo ancora più complicato. Essa è sorta dalle rovine del socialismo sovietico per
diventare una repubblica democratica divisa in due, con un'area controllata dal governo e un'altra da
ribelli separatisti fedeli alla madre Russia. Ha poche città, ma è uno dei paesi più densamente
popolati. Saltuariamente si ripresenta la questione della riunificazione con la Romania, il paese a
essa più vicino, eppure la Moldavia ha più cose in comune con altri paesi dell'ex Unione Sovietica.
La lingua ufficiale, il moldavo, è identica al rumeno dal punto di vista fonetico, ma nelle scuole e
nelle università della Transdnestria si continua a usare il russo per l'insegnamento. Il governo
incoraggia attivamente il dinamismo imprenditoriale e legami più stretti con le economie
occidentali, ma l'economia del paese resta ancorata al rublo russo. Il paese possiede tutte le qualità
per avere un'industria del turismo di successo, ma le strutture sono meno sviluppate che in altri
paesi dell'Europa orientale. I moldavi sono persone socievoli, ma il personale alberghiero è tra i più
scontrosi del mondo. Tutto in Moldavia ha una reazione uguale e contraria, il che ne fa allo stesso
tempo uno dei paesi più equilibrati o uno dei più disorientanti. La guerra e la religione giocano un
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ruolo importante nella mentalità dei moldavi e a dimostrarlo vi sono una manciata di monasteri,
antiche fortezze, chiese di legno e monumenti di guerra. Questi monumenti architettonici e culturali
sono completati da affreschi medievali di madonne, principi, croci, anonime figure religiose e una
varietà di iconografie dorate che fanno immediatamente pensare alla Russia. Anche la letteratura,
l'arte, la musica e la danza hanno un ruolo di primo piano nella cultura del paese. Le danze popolari
sono simili a quelle di altri paesi dell'Europa dell'Est: danzatori con indosso gonnelloni, cappellini e
tuniche minuziosamente ricamate si muovono in coppia in cerchi o in linee sinuose al suono di
cornamuse, flauti, zampogne e violini. Oltre alle opere religiose e alle danze, la Moldavia offre
alcuni dei migliori e più grandi vigneti dell'Europa orientale. Il vino e le degustazioni costituiscono
una parte integrante della vita del paese. È una fortuna che il vino sia così buono, perché la
Moldavia ha ereditato la scarsa propensione culinaria della Russia: carne cotta fino a diventare
grigia e verdure bollite trasformatesi in una poltiglia acquosa. L'onnipresente mamaliga rumena (una
morbida polenta di farina di granturco) appare nella maggior parte dei menu, insieme con specialità
turche come saslik, kebab e baclava. Tra i piatti migliori vi sono gli gnocchi russi in salsa di funghi
e i nutrienti stufati della tradizione ebraica. Una specialità squisitamente moldava è la tochitura
moldoveneasca, ossia maiale fritto in padella con una piccante salsa al pepe che viene servito
accompagnato da mamaliga e sormontato da un uovo fritto. Se possedete uno stomaco di ferro e vi
sentite particolarmente temerari forse vorrete assaggiare alcuni dei piatti del Cactus Cafe, nel centro
di Chisinau, dove, per risparmiare tempo, servono le portate principali e i dessert su un unico piatto.
Potreste trovarvi a mangiare pollo al cioccolato o tacchino con banane
Feste
In Moldavia si celebrano pochissime festività, principalmente perché si tratta di una repubblica
appena nata che deve affrontare dolorosi problemi di assestamento. Ha avuto a malapena il tempo di
sbarazzarsi delle macerie rimaste dalla distruzione di tutte le vecchie statue di Lenin, ancor meno
per organizzare festeggiamenti di qualsiasi genere. L'unica ricorrenza completamente moldava è il
Giorno dell'Indipendenza, che si celebra il 27 agosto. Per la gente della Transdnestria questo giorno
rappresenta l'equivalente del drappo rosso per i tori, dunque i festeggiamenti vengono solitamente
boicottati da coloro che vivono a est del Fiume Dnestr
Materiale tratto da www.edy.it - it.wikipedia.org – www.nbts.it
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Sezione Asia
Filippine
A cura di Giovanni Savini
Bangladesh
A cura di Giovanni Savini
Proverbi
Chi beve l'acqua di una terra straniera deve seguirne usi e costumi.
Soltanto le montagne stanno feerme; gli uomini si incontrano.
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Filippine
A colpo d'occhio
•
Nome completo del paese: Repubblica delle Filippine
•
Superficie: 300.000 kmq
•
Popolazione: 86.241.697 abitanti (tasso di crescita demografica 1,88%)
•
Capitale: Manila (10.232.900 abitanti; 13.790.900 abitanti nell'area metropolitana, Metro
Manila)
•
Popoli: 91,5% malesi cristiani, 4% malesi musulmani, 1,5% cinesi, 3% meticci (filippinospagnoli o filippino-americani)
•
Lingua: filippino (basato sul tagalog) e inglese sono le lingue ufficiali; vi sono 8 dialetti
principali: tagalog, cebuano, ilocano, hiligyinon (o ilonggo), bicol, waray, pampango e
panpasinese
•
Religione: 83% cattolica, 9% protestante, 5% musulmana, 3% buddhista e altre religioni
•
Ordinamento dello stato: repubblica parlamentare
•
Presidente: Gloria Macapagal Arroyo
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I
FIORI
DI
MAGGIO
IN
GONDOLA
TRA
PAKIKISAMA
E
SUPERSTIZIONI
Le Filippine disegnano, da nord a sud, una linea di circa 7mila isole al largo delle coste vietnamite e
a nord dell'Indonesia
Fra i miti delle creazione del mondo e della fondazione delle Filippine ve ne sono alcuni molto
suggestivi e riportati in varie pubblicazioni su storia e cultura di questo Paese. Uno di questi
racconta così la “genesi”:
“Tanto tempo fa, non esisteva la terra ma esisteva solamente il cielo, il mare ed un uccello volante.
A quel tempo il cielo era talmente basso che quasi toccava il mare. L’uccello volava e volava. Ad
un certo punto si sentì stremato. Allora cercò disperatamente attorno a sé un luogo dove fermarsi a
riposare, ma inutilmente. Essendo un uccello saggio, provocò una lite tra il cielo e il mare. Il mare
lanciò rabbioso grandi onde contro il cielo e questo per non bagnarsi si ritrasse in alto, ma ancora
il mare infuriato riuscì a toccarlo, così il cielo si levò ancora più in alto, e la sua furia aumentò a
tal punto che fece piovere tantissime rocce, le quali calmarono l’impeto del mare. Da queste rocce
ebbe origine la prima terra, compreso l’arcipelago delle Filippine”
Cime di una catena montuosa parzialmente sommersa, le Filippine contano 47 vulcani dei quali
molti attivi. Il clima é caratterizzato dalla presenza del monsone estivo (giugno-ottobre) che soffia
da sud-ovest sulle isole circa 15 cicloni all'anno. Un alto grado di sismicità scatena inoltre numerosi
terremoti distruttivi. I disastri naturali sono molto frequenti e minacciano periodicamente la
sopravvivenza delle popolazioni più disagiate, le più esposte alle conseguenze di terremoti e
alluvioni. Che il mare e il cielo continuino a litigare ancora a causa delle ire scatenate dal volatile?
Il mito prosegue poi narrando la nascita del popolo filippino:
“Tanto, tanto tempo fa, dopo che la terra nacque come risultato della lotta tra il cielo e il mare,
l’uccello saggio, che era stato la causa di questa lotta, volò sulla terraferma. Arrivato qui, si posò
su una pianta di bambù per riposare, ma mentre si riposava beccò il bambù. Improvvisamente il
ramo si spezzò in due, nel senso della lunghezza, e dalla prima metà scaturì un uomo, mentre dalla
seconda una donna. L’uomo si chiamò Lalake e fu il primo uomo del mondo. La donna chiamata
Babae fu anch’essa la prima donna. Insieme generarono molti figli e da questi figli ebbero origine
i Filippini”. (da “Filippine” di V. Reyes, 1998 Ed,. Pendragon Bologna, pag. 79)
- 67 -
La geografia e la storia delle Filippine hanno entrambe contribuito a creare una molteplicità di
lingue: in tutto ci sono circa 80 dialetti. Il concetto di lingua nazionale iniziò a sorgere dopo la
guerra ispano-americana del 1898 e nel 1936 fu dichiarato lingua nazionale il tagalog, scelto tra un
gruppo di varie altre lingue candidate tra cui il cebuano, l'hiligaynon e l'ilocano. Con un
compromesso raggiunto nel 1973 si è scelto come idioma nazionale il pilipino, che si basa sul
tagalog ma contiene anche elementi di altre lingue filippine e una originale combinazione di parole
spagnole e inglesi. Ciononostante l'inglese continua a essere la lingua dei commerci e della politica.
Il dominio spagnolo, esercitato dal XVI a tutto il XIX secolo, ha fatto sì che le massicce conversioni
al Cattolicesimo, attraverso l’opera di alcuni ordini religiosi, parzialmente strumentali al processo di
consolidamento del colonialismo spagnolo, ponessero le solide fondamenta di una comunità
nazionale filippina, unita da un elemento proveniente dall’esterno, ovvero la quasi totale
omogeneizzazione religiosa distinta da quelle presenti nei Paesi più vicini all’arcipelago (Taiwan,
Cina, Borneo).
Come ha osservato poi l’Ambasciatore Benito Italo Volpi (nel numero di Marzo-Aprile del
periodico “Acque e terre”), “al successivo colonialismo americano si deve poi, a partire dal 1900,
un trapianto del sistema educativo USA nella società filippina, con l’uso dell’inglese quale canale
linguistico privilegiato anche rispetto al tagalog (lingua filippina “ufficiale” derivata dal dialetto
dell’isola di Luzon) che solo nel 1974 assurse alla dignità di lingua nazionale, e allo spagnolo dei
primi colonizzatori, lingua quest’ultima parzialmente utilizzata nell’ordinamento scolastico fino al
1980. Ne è conseguita una alfabetizzazione di massa che si ritiene raggiunga il 90 per cento della
popolazione totale (circa 77 milioni), il possesso di un canale di comunicazione, l’inglese, di
primaria importanza nel mondo contemporaneo, ma anche quella forma mentis di estraneità storicoculturale all’Asia, quello snaturamento dovuto peraltro anche alla fede religiosa (i Filippini sono per
il 90 per cento cristiani, dei quali l’80 per cento cattolici, il solo Paese asiatico dell’estremo oriente
a prevalente popolazione cristiana ed ufficialmente cattolica) introdotta dagli spagnoli e consolidata
nel tempo”.
Come sopra accennato, il carattere dei Filippini -o Pinoys, come si definiscono quelli emigrati,
mentre Balikbayan sono quelli poi ritornati in patria- ha subito varie influenze da componenti
culturali malesi, indonesiane, cinesi, ma anche arabe, spagnole e americane.
Questa combinazione di elementi ha dato luogo a caratteristiche e convenzioni sociali ritenute non
troppo frequenti nel Sud-Est asiatico, tanto che i Filippini vengono spesso definiti “i meno orientali
tra gli orientali”.
Dalla passata presenza spagnola i Filippini conservano i nomi e spesso i cognomi di chiara
- 68 -
derivazione ispanica e l’abitudine, ad esempio, di contare in spagnolo (ma anche talvolta in inglese)
anziché in tagalog o nel dialetto proprio di ciascuna isola o in inglese.
La cultura delle Filippine nasce dalla mescolanza delle influenze straniere con gli elementi indigeni.
Oggi i musulmani e alcune delle tribù isolate sono gli unici abitanti la cui cultura non sia stata
alterata dai contatti con gli Spagnoli e gli Americani.
Circa il 10% dei Filippini (ossia i cosiddetti gruppi culturali minoritari o Filippini tribali) ha
mantenuto la propria cultura tradizionale. Esistono una sessantina di gruppi etnici tra cui i nomadi
Badjao, i nomadi marittimi dell'arcipelago di Sulu e i Kalinga, cacciatori di teste del nord di Bontoc.
Le Filippine sono l'unico paese cristiano dell'Asia: più del 90% della popolazione sostiene di
praticare la fede cristiana. La principale religione minoritaria è quella islamica, praticata soprattutto
a Mindanao e nell'arcipelago di Sulu. Ci sono anche una Chiesa Indipendente Filippina, alcuni
buddhisti e un piccolo gruppo di animisti.
La quasi totalità dei Filippini in Veneto è di religione cristiana, sono rarissimi i casi di filippini
islamici in Italia, preferendo questi altre destinazioni di migrazione, come Paesi mussulmani asiatici
più vicini o Stati arabi.
Il fenomeno dell’emigrazione filippina ha pochi eguali nel mondo, per entità e complessità. Stime
ufficiali riguardo questo fenomeno parlano di circa nove milioni di filippini attualmente impegnati
all’estero, procedendo al ritmo di circa 700.000 migranti l’anno. L’emigrazione ha un alto valore
economico dato che le rimesse costituiscono il maggiore introito di valuta estera del Paese, stimato
quasi il 18% del PIL filippino. Essa rappresenta per il Governo filippino, inoltre, la valvola di sfogo
di una popolazione in crescita in una nazione che vede ancora una diffusa povertà e un’ampia
sottoccupazione.
I Filippini presenti in Veneto arrivano quasi tutti dall’isola di Luzon, dove si trova la capitale,
Manila, e in numero minore da quelle di Cebu e Mindoro. Questo fatto avvalora anche due tesi sui
processi migratori, reti etniche e associazionismo. La prima riguarda il fatto che ad emigrare non
sono generalmente persone che si trovano in uno stato di indigenza estrema. La seconda tesi
riguarda l’importanza delle reti familiari ed etniche nei processi migratori, per cui chi parte ha
sempre un contatto al quale fare riferimento una volta giunto a destinazione e mai sceglierebbe una
meta senza prima assicurarsi l’aiuto di un amico o parente in loco, forse eccezione fatta per il caso
di rifugiati e richiedenti asilo.
La comunità filippina in Italia è di circa 75.000 persone, i minorenni sono almeno il 23%, e la
maggioranza dei Filippini presenti nelle Province venete si concentra nel Comune capoluogo.
Questo è dovuto quasi sicuramente all’inserimento nel mercato del lavoro dei servizi: alla persona,
alla famiglia, o in generale in ristoranti ed alberghi, quindi attività che si trovano di solito in centri
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urbani grandi e medi e località turistiche di carattere non stagionale. Sembra infatti che non vi siano
in ambito regionale numeri significativi di Filippini impiegati nell’agricoltura o nell’industria o in
mansioni collegate a questi settori, o anche nella cantieristica navale che invece richiama numerosi
immigrati del Bangladesh, come già ricordato, o nell’edilizia, che interessa gran parte di Albanesi,
Macedoni, Romeni e Slavi.
Tale comunità non è particolarmente visibile sulla scena pubblica e questo dipende sia da fattori
culturali che dal lavoro svolto dalla maggior parte degli immigrati originari delle Filippine.
Un fatto psicologico e culturale assolutamente fondamentale è lo hiya, che letteralmente significa
“vergogna”, “pudore”. Esso genera timidezza, distanza, sottomissione e gradualità nella costruzione
dei rapporti.
“Bahala na”, ovvero “sia come deve essere”, tipica espressione filippina che indica rassegnazione e
quindi rinuncia di fronte all’impossibilità di compiere una cera azione oppure, al contrario, mostra
l’assoluta fiducia nel divino di fronte ai propri limiti e l’impegno a fare il possibile per riuscire.
Ciononostante la vita comunitaria dei filippini in Veneto è davvero vivace anche se in molte
occasioni ancora poco aperta.
“Un’immagine dell’immigrazione filippina in Veneto? A me piace ricordare la festa di Flores de
Mayo che abbiamo fatto a Venezia nel 1988 o 1989, non ricordo con precisione.
Questa celebrazione è una tradizione filippina che gradualmente sta scomparendo, e l’abbiamo
organizzata a Venezia per la atmosfera romantica che trasmette, c’erano associazioni comunità
filippine delle altre città venete e sono venuti anche gruppi di filippini dalla Germania e
dall’Austria, alcuni consoli, l’Ambasciatore in quell’occasione è venuto prima da noi a Treviso e
poi a Venezia, le ragazze erano con nostri abiti tradizionali in gondola, un bell’effetto di incontro tra
stili e culture! Io all’epoca ero la referente ufficiale della comunità associazione filippina di Treviso
che non era ancora formalmente costituita e registrata, ho aiutato anche per l’organizzazione dei
pernottamenti a Venezia e Treviso dei vari partecipanti ed è stata una bella esperienza di ritrovo qui
in Veneto.
Un’altra esperienza legata alla migrazione filippina in veneto che voglio ricordare è quella della mia
partecipazione ad un corso, tenuto a Roma con l’Ambasciata, per tutti i responsabili delle comunità
filippine, io rappresentavo tutta l’area del Nord-Est Italia, e non so come dalla Ambasciata mi
abbiano conosciuto e deciso di farmi partecipare! Ho ancora l’attestato di partecipazione firmata
dall’Ambasciatore, datata 1989! C’erano referenti da comunità filippine da un po’ tutte le Regioni
di Italia, che esperienza!
Ho avuto inoltre occasione di partecipare ad un bellissimo convegno europeo tenutosi a Barcellona
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per le rappresentanti di donne filippine in Europa. Io rappresentavo anche in questa occasione il
Nord-Est Italia, mi hanno dato l’invito tramite la Ambasciata di Roma e il meeting è durato 5 giorni.
Il tema era “Empowerment of the Filipino women in Europe”, si incoraggiava a costituire forum di
donne filippine per organizzare un confronto su varie tematiche che all’epoca l’Italia non era ancora
preparata e non conosceva come le organizzazioni sindacalizzate del lavoro domestico femminile
migrante, l’associazionismo di donne straniere immigrate, modalità di organizzazione di comunità
femminili con contatti con l’Ambasciata a Roma, mi avevano anche chiesto di trasferirmi a Roma
per sviluppare lì attività di associazionismo, ma ho preferito rimanere a Treviso.
Mi piacerebbe una maturazione delle associazioni filippine nel Veneto, che non si limitino più solo
alle feste per loro e non siano ridotte nel loro potenziale per sola ignoranza o mancanza di
intraprendenza e desiderio di essere maggiormente protagoniste nelle realtà cittadine dove sono
presenti.
Qui a Treviso siamo l’unica associazione che ha cominciato e concluso un torneo di basket, le altre
comunità non riuscivano a terminarli perché si interrompevano a causa di litigi è disaccordi, anche
se tra i filippini c’è il valore del pakikisama. Ora anche altre comunità filippine nel Veneto cercano
di organizzare e concludere iniziative di tornei sportivi come è successo qui a Treviso.
Quello filippino è effettivamente un popolo che potrei definire cantante, praticamente in ogni
comunità filippina c’è un gruppo canoro, anche perché le comunità e associazioni filippine sono
“figlie di parrocchie” qui in Italia, a Treviso si fa eccezione e anche per questo ….si è un po’ fuori
dal coro!
Il coro è sentito un po’ come vetrina del talento, a molti filippine/i giovanissime/i piace intrattenere
un po’ esibirsi e dare spettacoli, anche se per un po’ tutto il resto effettivamente c’è la cultura del
hiye, che non è esattamente traducibile con “vergogna” ma l’idea di non perdere la faccia”.
(da un’intervista a Rosette Buenaventura, associazione comunità filippina a Treviso)
Oltre i Flores de Mayo nelle Filippine ci sono molte altre festività, la maggior parte a carattere
locale e legate a ricorrenze religiose cristiane, a livello nazionale si festeggiano le principali date del
calendario cattolico (natale, Pasqua e settimana santa) con processioni e fiestas neele strade e nelle
piazze, la più importante festa civile è il 12 Giugno, il giorno dell’indipendenza.
Il Veneto ha cominciato a diventare meta di Filippini a metà degli anni Ottanta. A quell’epoca
arrivavano quasi esclusivamente donne che trovavano lavoro come colf a tempo pieno presso
famiglie benestanti che fornivano loro oltre allo stipendio anche vitto e alloggio. Le donne filippine
che si stabilivano in Veneto spesso erano già presenti in Italia da qualche tempo nei grandi centri
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metropolitani, Milano Roma, soprattutto. Già dai primi anni ’90 si assiste ad un cambiamento
piuttosto significativo che vede i Filippini iniziare a lavorare negli hotel e nei ristoranti e
conseguentemente a cercare alloggi indipendenti. L’inserimento dei Filippini nei servizi al turismo è
continuato per tutto il decennio e ha provocato un riequilibrio del rapporto fra uomini e donne (che
rimangono ancora la maggioranza), talvolta con nuclei familiari che comprendono tre generazioni,
probabilmente l’unica realtà dell’immigrazione con tale caratteristica assieme ad alcune famiglie
cinesi. Formatasi in tale senso la popolazione immigrata filippina in Veneto, fin dalla fine degli anni
’80 è via via cresciuta la vita comunitaria con proprie caratteristiche e modalità di vita collettiva
influenzate sia da fattori culturali che dai legami instaurati con le parrocchie locali per la importanza
dell’elemento religioso cattolico dato come fattore aggregativo e di coesione degli immigrati
filippini.
Le attività principali sono infatti legate a momenti di festa o incontro all’interno delle sedi
parrocchiali e al più vi è informale passaparola su possibilità di lavoro e promozione dei diritti di
cittadinanza.
Il ruolo aggregativi dato dalla Chiesa e dalla religione è evidente e significativo in considerazione
pure del fatto che all’interno della comunità filippina esistono alcuni gruppi religiosi di preghiera.
Nel 1985 è nato a Manila il gruppo carismatico El Shaddai (uno dei nomi dell’Antico Testamento)
autodefinito ecumenico per il desiderio di superare le divisioni tra cristiani e da qualche anno
proposto come esclusivamente cattolico, fondato dall’uomo d’affari e costruttore edile Mike
Velarde. In Italia vi sono 5 gruppi di preghiera riconosciuti di cui uno a Venezia.
Un altro gruppo di preghiera di organizzazione filippina si chiama “Couples for Christ”.
La religiosità cristiana delle comunità filippine acquista un dato di ulteriore singolarità per il fatto
che le medesime sono anche legate a moltissime superstizioni e credenze anche locali. Un libro
sulla cultura filippina scritto da due autori di Manila tra superstizioni legate a eventi che potrebbero
presagire morte, malattia, sfortuna o fortuna in amore, fortuna o sfortuna col denaro, rapporti con
amici e con gli spiriti di antenati ne elenca ben 280!
Vale la pena per curiosità qui citare alcune di queste superstizioni
•
Se una farfalla nera si ferma attorno d una persona, significa che un suo parente è appena
morto
•
Nessuno dovrebbe uscire prima di avere pulito e messo via le posate usate per mangiare,
altrimenti un membro della famiglia morirà
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•
Mentre la madre sta partorendo ogni ingresso e fessura della casa deve essere coperto o
chiuso altrimenti potrebbero entrare spiriti malvagi e uccidere il neonato
•
Una persona non dovrebbe decorare un abito con perle perché significa che spargerà lacrime
•
Una persona non dovrebbe pagare o dare soldi attraverso una finestra perché lo renderà
povero
•
Se si porta via il piatto ad una donna nubile mentre sta ancora mangiando, questa resterà
zitella tutta la vita
•
Se la mano sente un improvviso forte prurito senza particolare ragione, presto riceverà
denaro
•
Se un bambino piange durante il battesimo, avrà lunga vita
•
Dormire con i capelli bagnati causa cecità
•
Una persona starà male se farà il bagno di Venerdì
•
Se una persona regala ad un’atra come dono un paio di scarpe, diventeranno nemici
•
Non si spazza il pavimento della propria casa dopo le sei di serao di notte perché sic unifica
buttare via fortuna e ricchezza
•
Se una coppia riceve un crocifisso come dono di nozze avrà vita armoniosa e pacifica
•
Se sono sparse lacrime sopra la bara del morto la sua anima non avrà vera pace
•
Sono giorni sfortunati il 18 marzo, il 18 agosto e il 18 Settembre
(da “Understandig the Filippino” di T. D. Andres e P. B. Ilada – Andres, 2001 New Day Publishers,
Quezon City; Philippines)
Il supporto e appoggio delle chiese locali diventa spesso punto logistico di riferimento e
aggregazione per la principale modalità di vita associativa, anche per il valore dato al fattore
tradizionale de pakikisama, comportamento sociale traducibile con l’espressione “vivere e stare
assieme d’accordo in armonia” la cui esistenza non richiede la veste giuridica di un’associazione
riconosciuta ma al più di un luogo accettato da tutti come da punto d’incontro e alcuni portavoce –
promotori. Pakikisama significa secondo molti Filippini “considerazione”, comportarsi in modo da
ottenere considerazione e ammirazione dagli altri. E’ collegato all’utang na loob. Ha a che fare con
quello che le persone si aspettano come comportamento nelle relazioni sociali.
“Utang na loob vuol dire reciprocità. Letteralmente significa ‘debito (utang) del cuore’ (loob). Uno
che ha aiutato qualcuno e si aspetta di esserne ripagato in futuro. Non con i soldi, ma con una
reciprocità sicura, che si mantiene nel tempo. Utang na loob resiste ancora nelle Filippine, è molto
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importante. In Italia meno, specie tra i ragazzi, che non sanno più cos’è utang na loob, non tra loro,
almeno. Nelle Filippine è molto importante. Ad esempio, io ho aiutato un mio capogruppo (della
comunità) a trovare un lavoro in ospedale. Non ci conoscevamo bene, non ci frequentavamo tanto
ma lui sa di essere in debito con me. Si crea un legame che non si chiude mai. E’ su questa
reciprocità che si basa la solidarietà dei Filippini. Utang na loob è come una religione, dipende dal
carattere morale della persona. Nelle Filippine è una cosa fortissima, qui è forte tra gli adulti ma tra
i loro figli è debole. E’ un debito che non si estingue mai del tutto. In famiglia, utang na loob è un
modo di garantire la continuità familiare: ecco perché dipende dai genitori trasmettere questa cosa ai
figli. Io, ai miei figli, ogni volta che andiamo a tavola spiego loro queste cose della vita. Ma la
maggior parte dei ragazzi filippini che crescono qui diventano troppo italiani. Tra i ragazzi che sono
qui da poco, invece, questa cosa resiste ancora. Utang na loob non è diverso fuori e dentro la
famiglia, è su questa reciprocità che si basa la solidarietà. Ma gli italiani sono poco sensibili a
questa cosa.
D.: cosa succede a chi non rispetta l’utang na loob?
E’ un bastardo, uno che non capisce le cose della vita. E’ un makasarili, un egoista, uno che pensa
solo a se stesso. [….]. Makasarili è un termine molto brutto per noi”
(tesimone privilegiato, figura leader della comunità agostiniana, organizzatore di eventi e attività
per giovani Filippini, da “Asia a Milano”, pag. 187)
Un principale aspetto rilevato da molti sociologi è dato dal particolare riguardo che viene attribuito
in ogni situazione all’approccio interpersonale e ai valori che regolano anche le più semplici
relazioni fra le persone come ad esempio i saluti e i convenevoli, così da porre come elemento
prioritario l’insieme delle Buone Relazioni Interpersonali (Smooth Iterpersonal Relationships).
Con tale definizione i sociologi intendono indicare il fatto che i Filippini abitualmente adottano un
linguaggio di cortesia e di gentilezza molto formale, a prescindere dalla esistenza di possibili ordini
gerarchici o altri rapporti di subordinazione determinati dall’esterno (lavoro, istituzioni…), non
tanto o non solo per evitare a sé stessi e agli interlocutori la manifestazione esteriore dei propri
sentimenti e stati d’animo, come succede ad esempio nella società giapponese, ma piuttosto per un
quasi naturale e spontaneo atteggiamento di disponibilità quale espressione di rispetto nei confronti
dell’interlocutore ed una intima sicurezza di tranquillità nelle relazioni interpersonali.
Un esempio può essere offerto dall’atteggiamento indicato con l’espressione difficilmente
traducibile hele-hele bago quiere, consistente nell’usanza nei rapporti privati -normalmente quindi
estranei all’ambiente lavorativo- di rifiutare inizialmente un’offerta, anche se gradita e accertarla
solo in un momento successivo, se vi è insistenza da parte dell’offerente, oppure ancora l’utang na
- 74 -
loob, ossia “debito di gratitudine”, secondo il quale i favori ricevuti anche da molto tempo non
vanno dimenticati e dovranno essere comunque resi in futura occasione, e il mancato rispetto può
portare a grande biasimo o l’emarginazione dal gruppo.
Questa naturale propensione all’atteggiamento sereno, beneducato ed altruistico è determinato non
esclusivamente dalla morale cattolica, che valorizza il prestare aiuto a chi ne ha bisogno, ma
piuttosto dall’alto valore che i Filippini riconoscono e attribuiscono al pakikisama, concetto il cui
significato può essere tradotto con la espressione “sentirsi d’accordo”, “mantenere buoni rapporti”,
“agire in armonia”. In tal senso è facile osservare che all’interno del proprio gruppo o nel contesto
di un ambiente di lavoro dove è alta l’interazione personale i Filippini considerano fondamentale
evitare aperti conflitti o disaccordi e sono propensi ad adeguarsi alla volontà della maggioranza con
la idea del valore positivo dell’agire per un bene comune.
Abituati a porre il proprio comportamento in relazione se non anche in funzione strumentale ai
desideri e alle aspettative espresse dalla collettività a sacrificio della volontà reale individuale
secondo i parametri del pakikisama, il vedere disapprovato e posto come cattivo esempio il proprio
agire perché deludente o negativo crea nel Filippino la impressione di avere commesso un atto di
particolare gravità che difficilmente può venire riparato in tempi brevi e tale da avere
irrimediabilmente compromesso il pakikisama esistente nell’ambito dove ha agito (famiglia, lavoro,
comunità religiosa, rapporti tra singolo e istituzioni).
Strettamente connesso al concetto di hiya nelle dinamiche relazionali filippine è infatti il concetto di
porma, la “faccia”, che condiziona il comportamento delle famiglie filippine adeguandolo alle
regole della comunità, ingenerando forme di conformismo diffuso.
La tranquillità sociale e la capacità di inserirsi nel mercato del lavoro e nel contesto sociale senza
creare tensioni forse anche a causa di questi loro fattori culturali non deve far pensare ad una
migrazione del tutto priva di potenziali problematicità.
“Il fenomeno di gran lunga più importante per il processo d’integrazione degli immigrati filippini
[….] è il forte sviluppo che ha avuto la sua componente minorile. Mentre il sistema delle rimesse,
che disincentiva gli adulti rispetto allo sviluppo di strategie di inserimento economico diverse da
quelle attuali (l’avvio di attività imprenditoriali comporterebbe l’assunzione di costi e rischi iniziali
che la maggior parte dei primomigranti non si sentiva – né si sente tuttora – in grado di sostenere),
tende a chiudere la collettività filippina nelle proprie nicchie occupazionali, l’avvento di una
seconda generazione nata e cresciuta in Italia potrebbe aprire la collettività filippina a nuovi
orizzonti di opportunità. Le condizioni di lavoro degli adulti (quasi sempre al lavoro da soli in case
o in uffici vuoti o in attività di backstage di alberghi e ristoranti) non consentono di apprendere
- 75 -
facilmente la lingua italiana, e il fatto che molte persone alternino lavori diversi nell’arco della
giornata riduce di molto le possibilità di frequentare corsi di lingua italiana” (da “Asia a Milano,
pag. 47)
Nasa taong matapat ang huling halakhak
(ride bene chi ride ultimo)
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI RIFERIMENTO
•
“Fatti urbani innovativi e nuove centralità – gli immigrati e la loro immagine della città di
Venezia” Tesi di Laurea all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia elaborata da Mirko
Marzadro, Anno Accademico 2002/2003
•
"ASIA A MILANO - Famiglie, ambienti e lavori delle popolazioni asiatiche! a cura di D.
Cologna, Ed. Abitare Segesta Cataloghi, Milano 2003
•
Filippine, Collana “L’arca”, Edizioni Pendragon, Bologna
•
S. Vecchia e G. Licini (a cura di), “Le Filippine. L’arcipelago dei contrasti”, 1998, Il segno dei
Gabrielli ed., Verona
•
T. D. Andres / P. B. Ilada-Andres, “Understanding the Filipino”, 2001, New Day Publishers,
Philippines
•
M. La Rosa e L. Zanfrini (a cura di): “Percorsi migratori tra reti etniche, istituzioni emercato del
lavoro”, Fondazione ISMU – FrancoAngeli Editore, 2003
- 76 -
Banghladesh
A colpo d'occhio
•
Nome completo del paese: Repubblica Popolare del Bangladesh
•
Superficie: 144.000 kmq
•
Popolazione: 141.340.476 abitanti (tasso di crescita demografica 2,08%)
•
Capitale: Dhaka (8.942.300 abitanti, 10.356.500 abitanti nell'area metropolitana)
•
Popoli: 98% bengali, 250.000 bihari, altre popolazioni indigene
•
Lingua: bengali, inglese
•
Religione: 83% musulmana, 16% induista, 1% buddhista, cristiana, altre religioni
•
Ordinamento dello stato: repubblica parlamentare
•
Primo ministro: Khaleda Zia
•
Presidente: Iajuddin Ahmed
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Le migrazioni dal Bangladesh
La realtà delle migrazioni di massa dal Bangladesh è un elemento legato alla storia stessa del Paese.
Il Bangladesh è un Paese di recente creazione ma di lunga storia. In passato era una regione
dell'India, facente parte del Bengala. "Bangladesh" significa infatti "stato del Bengala".
“Bengalese”, “Bangladeshi”, “Bangla” o “Bangladese”? “Si è preferita la dizione “bengalese” a
quella “Bangladeshi” (cittadino del Bangladesh), vocabolo in lingua bengali (impiegato anche nella
lingua inglese), che, sebbene più corretta, nella lingua italiana non è di uso corrente. Il termine
“Bengalese” in questo capitolo si intende dunque riferito soltanto ai cittadini del Bangladesh e non a
tutti coloro che per lingua, etnia, tradizioni o residenza geografica possono essere riconosciuti come
appartenenti all’entità culturale, linguistica e territoriale del Bengala. Tale territorio risulta oggi
diviso dalla linea di confine tra l’Unione Indiana (che annovera tra i propri Stati il Bengala
occidentale e dunque conta milioni di “bengalesi” tra i propri cittadini) ed il Bangladesh (che
incorpora il territorio che al tempo dell’ultimo Raj britannico era noto come Bengala occidentale”
(da "Asia a Milano", Abitare Segesta, Milano, 2003, pag. 42)
“Bengalese riso e pesce”, così si dice nel Sud dell’Asia a proposito degli abitanti del Bangladesh.
Ed in effetti i tre elementi delle persone, della terra coltivata e dell’acqua sono presenti in quantità
veramente abbondante in questo Paese.
Ampio quanto circa metà dell’Italia, ma con una popolazione superiore al doppio di quella italiana
(intorno ai 140 milioni), caratterizzato da un’immensità di corsi d’acqua dei delta del Gange e del
Brahmaputra che sfociano nel Golfo del Bengala, il Bangladesh possiede un territorio pianeggiante
intensamente coltivato ed aree con rigogliosa vegetazione selvaggia quale ad esempio la più grande
foresta di mangrovie del mondo, foreste subtropicali e giungle.
In Bangladesh ci sono 6 stagioni, di due mesi ciascuna. Il nome delle stagioni è primavera, estate,
stagione della pioggia, autunno, inverno.
Il Bangladesh è uno Stato giovane, anche se ricco di storia e tradizioni quanto l’India stessa, sorto
da sofferte vicissitudini e che ancora soffre per episodici tumulti interni o catastrofi naturali.
Il senso del territorio, la fierezza, il sangue versato molti anni fa ricordare per associazione di idee
l’animale più noto di questa parte del mondo: la tigre del Bengala.
Dopo la indipendenza dell'India dal colonialismo della Gran Bretagna nell’immediato dopoguerra,
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nel 1948, questa regione ha i subito l’esperienza della separazione dall’India, pur essendone stata
parte per due millenni come regno del Bengala, per costituire il Pakistan orientale, amministrato dal
Pakistan occidentale (l’attuale Pakistan).
Tale fatto ha determinato una grossa migrazione di famiglie dalla area che diventava Pakistan
orientale alla area del Bengala che rimaneva parte dell'India.
Nel 1971, a seguito di una sanguinosa guerra civile d’indipendenza, è diventata l’attuale Repubblica
Popolare del Bangladesh, unificata dalla lingua e dalla tradizione bengalese e dalla religione
musulmana (è il terzo Paese musulmano al mondo in termini di popolazione).
Gli effetti della dominazione coloniale e del post-colonialismo e della indipendenza sono stati
subito evidenti e pesanti: molte risorse sono state ancora gestite dalla Gran Bretagna che aveva
esclusive commerciali e aveva pesantemente condizionato l'assetto produttivo monopolizzando la
creazione e import-export di eleganti e costosi muslim sari e aveva imposto il sistema di
"permanent settlement", inoltre la inesperienza del Governo indipendente non ha favorito un rapido
sviluppo e la ricchezza che si desiderava, causando disordini e per molti il bisogno di cercare
benessere per sé e le propria numerose famiglie all'estero.
Sorto da una violenta rivoluzione costata migliaia di vite umane, il Bangladesh spese i primi dieci
anni di esistenza come stato indipendente nel tentativo di ricostruire le forze duramente colpite dalla
guerra e dalla carestia che seguì negli anni 1973-74. Il secondo decennio fu caratterizzato dalla crisi
petrolifera aggravata dalle inondazioni degli anni 1987-88. Gli anni '90, invece, hanno visto la
devastazione dei cicloni nella zona sud-orientale del paese, mentre le zone a nord furono colpite da
violente alluvioni.
Già dagli anni '70 sono cominciati alcuni movimenti migratori con specifiche aree di partenza e
destinazioni: vi sono stati molti immigrati che partivano dalla regione della provincia di Sylhet
verso la metropoli londinese e in generale la Gran Bretagna per merito di facilitazioni di ingresso
per studi e lavoro per la condizione di ex-coloni, con poi successivi ricongiungimenti familiari,
mentre da un po' tutto il Paese tra gli anni ’70 e ‘80 si muovevano migranti per lavoro temporaneo
nella penisola araba; Malaysia, Corea del Sud e Singapore per attività nelle industrie e nei servizi, e
dopo anche in Giappone, Stati Uniti (soprattutto New York) e Canada.
Dagli anni '90 sono comparsi immigrati provenienti dal Bangladesh anche nel resto di Europa, ed in
particolare in Italia.
"Sviluppatasi a partire dal 1990, l'immigrazione dal Bangladesh all'Italia rappresenta oggi la più
importante corrente migratoria diretta da quel Paese all'Europa continentale, e la collettività
bengalese presente in Italia (oltre 20.000 persone secondo il Dossier Caritas di Roma 2002) è la
seconda in Europa dopo quella stabilitasi nel Regno Unito. Fino alla sanatoria del 1990 (la
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cosiddetta "Legge Martelli") l'Italia non aveva rappresentato una meta importante per i Bengalesi.
Alla fine degli anni '90 i bengalesi residenti all'estero erano ufficialmente circa tre milioni, (poco più
del 2% della popolazione ). [... ] L'Italia emerse come destinazione importante in conseguenza della
crescente chiusura nei confronti degli emigranti e rifugiati (il 1989 è l'anno del crollo del muro di
Berlino e la Germania si troverà presto a dover rendere più severe le procedure delle richieste di
asilo) dei Paesi del Nord e Centro Europa, e i bengalesi che vi giunsero attratti dalla Legge Martelli
nel 1990 furono molto abili nell'auto-organizzarsi per agevolare il processo di regolarizzazione per i
propri connazionali.
C’è un termine specifico in lingua bengali e diffuso e di uso comune per i cittadini di Bangladesh
emigrati per esprimere il percorso e le catene migratorie e di solidarietà che si impegnano a creare
un percorso che passi dalla irregolarità ad una stabile regolarità dei migranti. Questa espressione è
“adam bepari”, traffico di migranti, inizialmente legato all’idea di illegalità e ora progressivamente
associato alla idea di catena migratoria e rete di solidarietà entro i canali della sponsorizzazione (ora
abrogata), del ricongiungimento familiare e della chiamata nominativa per lavoro in occasione dei
Decreti quote.
Un’altra espressione dei reticoli sociali che si sviluppano nelle comunità immigrate dal Bangladesh
è costituito dai legami di famiglie transnazionali e amici compaesani immigrati che operano il
sistema dell’hundi, la gestione delle rimesse secondo canali informali extra-bancari, anche se il
Bangladesh ha creato il sistema degli istituti di microcredito della Grameen Bank con Mohammed
Yunus, modello di “economia etica” che ha influenzato sistemi in tutto il mondo.
Dal 1990 l'immigrazione bengalese è tra quelle che ad ogni nuova sanatoria fa registrare i più alti
tassi di incremento, a testimonianza del progressivo radicamento delle nuove catene migratorie" (da
"Asia a Milano", Abitare Segesta, Milano, 2003, pag.40)
L’immigrazione dal Bangladesh in Italia è dunque un dato relativamente recente. Iniziata nei primi
anni ’90 dapprima interessando solo Milano e Roma, negli anni ‘93-94 si è concentrata e cresciuta
nelle città di Roma e Bari, costituendo in tali città le comunità storiche e si è intensificata nella
seconda metà dello scorso decennio cominciando anche a interessare anche altre Città e Regioni
come Bologna, Torino, Brescia e Gorizia e il Veneto. In questa Regione vi si sono sviluppati in
particolare due insediamenti geografici legati a diverse realtà economiche e produttive locali. Una è
in Provincia di Vicenza, nell'area di Schio ed Arzignano, determinata dal lavoro nel distretto del
tessile e conciario, l'altra in provincia di Venezia, in particolare l’area di Mestre e Marghera, a
causa del richiamo di forza lavoro nel settore degli alberghi e ristoranti e nella cantieristica navale,
determinando così una catena migratoria sia all’interno del territorio italiano che dall’estero che per
rapidità di crescita di numeri in valori assoluti e incidenza statistica non ha forse eguali nell’area.
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L’insediamento di Bengalesi nell’area Veneziana è un caso di estremo interesse sul piano sociale ed
economico e culturale nel territorio e nel Veneto.
Nel 1993 i Bengalesi erano al 43° posto nella lista dei gruppi più numerosi presenti in Provincia di
Venezia. A detta di un intervistato in una rivista che tratta il tema immigrazione i Bengalesi nel
1996, regolari e non, presenti a Venezia erano circa 50. Nel 2000 risultano al 7° posto della lista con
478 presenze in ambito provinciale di cui il 73% a Venezia e terraferma, e un altro 16% fra Jesolo,
Meolo e Spinea. Attualmente nel solo Comune di Venezia si calcola che complessivamente siano
presenti in 3000 circa, se non addirittura quasi 4000, e la loro residenzialità si è estesa con alcuni
nuclei familiari anche in vari Comuni della Riviera del Brenta e dell’alto veneziano, col più alto
tasso di acquisti di immobili e richieste di ricongiungimenti familiari tra gli stranieri residenti nel
territorio.
Una stima precisa del numero dei bengalesi presenti nella Provincia di Venezia non è possibile
perchè in molti non sono residenti ma sono semplicemente soggiornanti come ospiti presso
abitazioni di loro compaesani. E' frequente l'espressione "murghi" (letteralmente "gallina") per
indicare la diffusa pratica del subaffitto di posti letto in abitazioni sovraffollate con ospitalità a
causa delle difficoltà di prezzi del mercato dell'abitare e degli affitti e della necessità di avere un
alloggio per il rinnovo del permesso di soggiorno
Attualmente quindi i migranti provenienti dal Bangladesh vengono in Italia per due motivi: per
lavoro e per ricongiungimento familiare.
"Vi sono rilevanti differenze, in termini di grado di istruzione e di status economico-sociale, tra gli
immigrati provenienti dalle città, in particolare da Dhaka, che appartengono tendenzialmente alla
classe media e dimostrano livelli di istruzione piuttosto elevati, e quelli originari delle aree rurali,
spesso semi-analfabeti" (da "Asia a Milano", Abitare Segesta, Milano, 2003, pag.40)
La differenza tra i gruppi di immigrati dal Bangladesh non è tanto per la fede religiosa, in
maggioranza musulmana e con una ridotta ma significativa presenza anche di induisti (questo è più
un limite per convivenze domestiche tra famiglie bengalesi di religioni diverse se si abita “murghistyle”), ma legata al distretto di provenienza.
L'area di Venezia è interessata da migrazioni provenienti da precise città e regioni, non sempre
identiche agli insediamenti di bengalesi in altre città italiane. In Provincia di Venezia arrivano
lavoratori e famiglie dalle aree di Greater Dhaka, Faridpur, Comilla; Noakhali, Sylhet e
Kishoregonj, Barisal, Chittagong, Kulna, aree rurali di Madaripur, Shariatpur. Alcune aree di
provenienza non interessano altre zone di immigrazione nelle medesime proporzioni. A Roma
risulta predominare la comunità originaria di Shariatpur, mentre ad esempio a Milano quella
originaria del distretto di Madaripur. Nel Nord-est, a Gorizia è numericamente ridotta la comunità
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proveniente da Shariatpur, mentre è molto numerosa a Venezia. Ci sono molti che vengono
nell’area metropolitana veneziana dall'area di Chittagong anche perché lì nella zona verso la riva del
mare si lavora molto con le navi.
Venezia ha più possibilità di lavoro in Fincantieri e ristoranti e hotel e molti bengalesi preferiscono
questa città di altri posti come Monfalcone e Gorizia.
L'emigrazione dal Bangladesh é sicuramente diventata una valvola di sfogo per abbassare il tasso di
disoccupazione. Tuttavia chi emigra non è chi realmente non ne ha le possibilità. Le persone senza
lavoro e più povere delle campagne si spostano in città, ma non hanno soldi e contatti per uscire dal
Bangladesh. Chi emigra appartiene a una middle class che ha spesso studiato alle superiori o
Università ed ha già lavorato ed in qualche modo può sostenere le spese di viaggio.
Da alcuni anni è cresciuto sempre di più un secondo motivo di migrazione in Italia dal Bangladesh.
Dopo le sanatorie e il lavoro stabile molti uomini di Bangladesh che vivono in Italia e a Venezia
hanno iniziato a chiamare le mogli e i figli che vivono ancora in Bangladesh, facendo
ricongiungimenti familiari.
Ora dal Bangladesh arrivano sia giovani ragazzi dai 18 ai 30 anni per lavoro sia le mogli e i bambini
di immigrati da Bangladesh che vivono già da anni a Venezia.
Tra i Paesi che nel Comune di Venezia hanno avuto i maggiori incrementi percentuali immigratori
tra la situazione al 31.12.1999 e il 31.12.2000, oltre alla Macedonia, per la quale l’eccezionale
aumento (+57,4%) è comprensibile se si tiene in considerazione la vicinanza geografica e la sua
situazione politica, vi è il Bangladesh, che ha avuto un aumento del 54,1%, ed è così diventata già
nel 2001 la terza nazionalità straniera presente nel Comune (fonte: Servizio statistica e ricerca-Città
di Venezia/Elaborazione a cura del Dott. Gianfranco Bonesso del Servizio Immigrati Comune di
Venezia).
Esso è anche il Paese che tra il 1999 e il 2000 ha avuto in assoluto il maggiore aumento percentuale
su scala nazionale, con un incremento del 41% (fonte:”Anticipazioni Dossier statistico
immigrazione 2001 della Caritas”).
Nella città di Venezia secondo il Servizio Statistica e Ricerca nel registro di Stranieri iscritti
all'anagrafe e residenti al 31/12/2003 si contavano in totale 1236 Bengalesi residenti nel Comune di
Venezia, dei quali 908 maschi e 328 femmine. L'anno precedente erano registrati invece 768
Bengalesi residenti nel Comune di Venezia,. In un anno sono arrivati e diventati residenti 328
uomini e 140 donne, per un totale di 468 nuovi bengalesi iscritti all'anagrafe di Venezia in un anno,
corrispondente ad un aumento del 60,94%.
Al 1° Agosto 2004 il totale dei bengalesi residenti a Venezia risulta essere 1532, 1120 uomini e 412
donne.
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Il numero continua ad aumentare perché molti chiedono ricongiungimento familiare e mogli e figli
arrivano dopo mesi.
Non ci sono matrimoni misti tra persone di cittadinanza del Bangladesh e persone con cittadinanza
italiana, solo qualche raro caso a Roma e forse Milano, mentre a Venezia c'è al momento un solo
caso conosciuto di un matrimonio misto tra un bengalese e una donna marocchina.
Normalmente gli immigrati bengalesi celibi che riescono ad avere una situazione abbastanza stabile
di permesso soggiorno, casa, lavoro quando tornano temporaneamente nel proprio Paese si sposano,
spesso con matrimoni combinati dai familiari. I matrimoni tra bengalesi celebrati in Italia sono
praticamente inesistenti, ed è al momento impossibile prevedere i comportamenti e le scelte
familiari con la seconda generazione residente, al momento ancora troppo giovane.
Ci sono sempre più famiglie riunite che vivono in città di Venezia, gli adulti sono quasi tutti con età
dai 20 ai 40 anni, i ragazzi sono quasi tutti bambini piccoli che solo in questi ultimi 3 – 4 anni
cominciano ad andare a scuola.
“Il sistema scolastico in Bangladesh è abbastanza diverso da Italia.
Le famiglie hanno da 1 a 3 bambini, fino a poco tempo fa in Bangladesh normalmente si avevano 4
o 5 figli.
Non c'è l'asilo, per molte mamme che arrivano dal Bangladesh è una cosa nuova. In Bangladesh la
scuola elementare d'obbligo dura 5 anni e si comincia all'età di 6 anni. La frequenza a scuola
d'obbligo non prevede tasse di iscrizione e non vi sono spese per i libri scolastici.
La scuola media (ancora di 5 anni, si finisce a 16 anni) e le superiori e Università invece non sono di
obbligo e costano molto per le tasse di iscrizione e i libri. Per questo motivo molte persone in
Bangladesh vanno solo alla scuola d'obbligo, perché continuare a studiare costa troppo per le
famiglie povere. Si calcola che su 100 bambini che frequentano la scuola d'obbligo elementare poco
meno di 50 continuano la scuola andando alle medie e high school.
Molte famiglie immigrate da Bangladesh in città di Venezia sono felici di iscrivere e fare
frequentare l'asilo e le scuole elementari e medie inferiori ai propri figli, ma anche desiderano che i
loro figli abbiano la possibilità di imparare e mantenere viva la lingua cultura e tradizione del
Bangladesh.
In molti desiderano che si faccia una scuola per i bambini bengalesi nati in Italia o arrivati da
Bangladesh molto piccoli.
Alcuni vogliono una vera scuola di bengali, altri dicono che si potrebbero organizzare dei corsi
doposcuola per i bambini bengalesi che vivono a Venezia o nel Veneto per mantenere i legami col
Paese della famiglia. C'è anche chi pensa che una scuola o doposcuola per bambini all'interno di
una moschea potrebbe essere una buona idea.
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Ora cominciano anche le donne immigrate dal Bangladesh in Provincia di Venezia per riunione
familiare a volere lavorare, a volte con parenti in Bangladesh non d'accordo. Molte donne ancora
non sono abituate a lavorare e hanno figli piccoli e si trovano spesso in piazza a Mestre e Marghera,
sempre vestite con i nostri tradizionali abiti e sari.
Ora nel centro di Mestre e a Marghera sono stati aperti molti negozi da persone di Bangladesh con
molti connazionali che ci vanno: alimentari , negozi di cd videocaddette e DVD, vestiti e bigiotteria,
phone centres, ristoranti, alcune bancarelle in centro storico a Venezia: si potrebbe dire che ora
esiste una piccola “Bangla Town”! A immigrati da Bangladesh manca paesaggio e natura che c'è in
nostro Paese e non si trova in Italia.
Nel mio Paese c'è molta agricoltura con la iuta, il riso e il the. In Bangladesh c'è tanta buona frutta e
verdura: il mango e la banana, il lici, la papaia, l'ananas, il jackfriut, il cocco, il cachi, il cocomero
il melone il pompelmo e l'arancio, l'uva, la mela e fiori che hanno molti profumi.
Anche qui si trovano questi frutti ma solo nei negozi e sono cari e fanno sentire la mancanza di
natura in città, come è vicina in mio Paese.” (da un’intervista ad una giovane madre bengalese
corsista in mediazione culturale, Settembre 2004: da notare che in essa emerge un segnale di
emancipazione femminile legato all’esperienza migratoria in Veneto e la nascita di attività
nell’area urbana create per soddisfare le esigenze degli immigrati bengalesi stessi, fatta forse
eccezione per i ristoranti e alcuni phone centres con clientela multinazionale).
La “connotazione etnica” del bengalese in Italia esclusivamente come irregolare e venditore
ambulante di fiori e/o ombrelli comincia ad essere superata, anche se una questo tipo di presenza è
ancora diffusa, ma ora sempre più spesso in qualità di secondo lavoro occasionale con valida
licenza.
La comunità di Bangladesh a Venezia è molto numerosa e negli ultimi anni ha organizzato 4
associazioni, di cui una di cultura induista, e secondo alcuni le altre sono legate alle città di origine
dei diversi immigrati di Bangladesh o anche alle correnti dei partiti politici al governo e di
opposizione nel Paese, e per questo c’è difficoltà ad una unione delle comunità e spesso emergono
tensioni tra i diversi gruppi associativi bengalesi.
Le associazioni hanno fatto grosse feste in molte occasioni anche in ampi spazi pubblici come al
parco Bissuola di Mestre o anche a Marghera, iniziative organizzate talvolta con il Comune e altre
volte con associazioni italiane.
Ci sono tradizionali feste sia civili che religiose.
Il 21 Febbraio si festeggia “Amar Ekushe” o “Shahedd Day”, la festa della lingua Bengali (fino al
1952 ai bengalesi era stata imposta dai Pakistani occidentali l’uso della lingua urdu e dell’inglese e
non la loro lingua madre, causando le rivolte separatiste iniziate questo giorno con la morte di 12
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studenti), il 26 Marzo il giorno della liberazione (dichiarazione della liberazione dal Pakistan del
1971) , il 13/14 Aprile c’è il capodanno Bengalese, “Pohela Boishak” (comune anche alla regione
del Bengala Indiano) e il 16 Dicembre come “Biganj Dibash” (giorno della Indipendenza dal
Pakistan e della costituzione politica dello Stato del Bangladesh).
Come giorni di festa sono anche il 1° Maggio, il 25 e il 31 Dicembre.
Sono quasi tutti mussulmani, le associazioni hanno aiutato a organizzare preghiera e festa nelle
giornate di fine Ramadan e altre legate al calendario islamico.
Ci sono anche Hindu che hanno organizzato loro feste legate al calendario induista.
Ci sono dunque lavoratori, sempre più donne e figli con ricongiungimenti familiari, aumento di
inserimenti scolastici, distinti distretti di provenienza e diverse modalità di interagire tra i vari
appartenenti alle comunità, presenza di almeno due comunità religiose.
Tutti elementi che fanno pensare a migrazioni anziché migrazione dal Bangladesh, con aspetti e
dinamiche di realtà ancora in evoluzione e definizione.
Un articolo con una intervista spiega bene il percorso di immigrato dl Bangladesh da irregolare a
lavoratore con famiglia come succede a molti anche qui a Venezia.
"FACEVO L'ATTORE, ORA FACCIO CONOSCERE LA MIA CULTURA AI
VICENTINI"
Nel 1992 sono emigrato dal Bangladesh. nonostante io volessi andare in Svizzare, l'Italia fu,
praticamente, una scelta obbligata; a Roma, infatti c'era già un mio lontano parente, l'unico punto di
riferimento che avessi in Europa. Dal '92 al 95 feci l'ambulante tra Roma e il lungomare. Ero
clandestino ma, diversamente da altri, non ho mai avuto problemi; la fortuna mi ha sempre
accompagnato e con quel lavoro, devo dire, guadagnavo bene.Poi nel novembre 1995 ho
regolarizzato la mia posizione e nel 1996 sono riuscito a ritornare in Bangladesh dove mi sono
finalmente sposato.
Quando sono ritornato a Roma mi sono dato da fare per 'sistemarmi' come dite voi, in modo da
offrire a mia moglie il meglio che potevo. Così, grazie alle conoscenze mi sono trasferito al nord.
Per un anno ho lavorato in una fabbrica a Piazzola sul Brenta; stavo bene ma, in previsione
dell'imminente arrivo di mia moglie, ho preferito trasferirmi in una zona dove fossero presenti altri
connazionali. Temevo si potesse sentire sola.... A Piazzola ero infatti l'unico Bengalese.
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Un giorno sono andato a Schio, ho parlato con degli amici e ho trovato subito un lavoro e un letto in
una casa assieme a dei connazionali. Nel 1997 quando è arrivata mia moglie abbiamo vissuto per
alcuni mesi assieme ad altri amici, poi nel 1998 ho trovato una casa tutta nostra e abbiamo deciso di
avere il nostro primo figlio. Pur continuando a lavorare nel 2000 quando il Comune di Schio ha
organizzato il primo corso provinciale per mediatori interculturali mi sono iscritto. Mi è sempre
piaciuta la cultura e la possibilità di collaborare ad attività socio-culturali anche qui nel vicentino mi
interessava; in Bangladesh ero attore, me qui, non potendo esprimermi in quest'ambito, ho preferito
far conoscere la cultura bengalese ai vicentini. Assieme a dei connazionali in questi ultimi due anni
abbiamo organizzato feste con musica, teatro e cucina bengalese che sono state molto apprezzate.
Poi, lo scorso anno per dare un lavoro a mia moglie, che non fosse però troppo faticoso, hon deciso
di aprire un negozio di oggettistica a Schio. E' mia moglie che lo segue, che sceglie assieme a me i
tessuti, gli accessori, i vestiti e gli oggetti da proporre. E' stato un rischi, in termini economici, ma
nonostante le difficoltà teniamo duro sperando di decollare. intanto la cosa bella è che tra qualche
giorno nascerà il nostro secondo bambino"
da "Cittadini Dappertutto di Dicembre 2003, pag. 21
Si ringrazia Rozina Akter e Suman Thakur per l'aiuto di parte di stesura della ricerca
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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DOSSIER CARITAS 2002, ROMA
•
DOSSIER CARITAS 2003, ROMA
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RIVISTA "CITTADINI DAPPERTUTTO" DI DICEMBRE 2003
•
"LA TORRE DI BABELE" DI G.SAVINI, VENEZIA 2004
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"BANGLADESHIS IN ROME: THE POLITICAL, ECOPNOMIC AND SOCIAL STRUCTURE
OF A RECENT MIGRANT GROUP" DA DA "QUESTIONI DI POPOLAZIONE IN EUROPA.
UNA PROSPETTIVA GEOGRAFICA", BOLOGNA 1996
•
“Fatti urbani innovativi e nuove centralità - gli immigrati e la loro immagine della città di
Venezia” Tesi di Laurea all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia elaborata da Mirko
Marzadro, Anno Accademico 2002/2003
•
“L’immigrazione familiare tra Bangladesh e la provincia di Venezia” Tesi di Laurea in Scienze
Politiche all’Università di Padova a cura di Laura Tegon, Anno Accademico 2002/2003
•
"ASIA A MILANO - Famiglie, ambienti e lavori delle popolazioni asiatiche! a cura di D.
Cologna, Ed. Abitare Segesta Cataloghi, Milano 2003
•
M. Yunus, “Il banchiere dei poveri”, Feltrinelli
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