Porthos 23

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Porthos 23
Il vino fa bene
Gli investimenti finanziari nel mondo del vino – seconda parte
damiano maurizio raschellà
Tutta colpa della posta, quella transoceanica. Per
settimane ho scrutato la cassetta della posta,
destando più di un sospetto nei vicini e nei postini.
Certamente non avranno immaginato che la mia
attesa si consumava per un paio di libri, necessari
al completamento di un articolo annunciato su
Porthos 21. Fortuna che i rapporti tra vino e
finanza sono come gli esami: non finiscono mai. E
se si è costretti a lasciare momentaneamente un
filone, se ne presenta subito un altro, intersecandosi
con altri ancora e costringendo il cronista a
modificare i propri piani. Infatti, mentre mi
struggevo attendendo i bramati volumi, prendeva
corpo un nuovo testo, che potete leggere di seguito.
A margine di ciò, una cosa è chiara: il binomio
vino e finanza merita un’attenzione non episodica,
quindi il nostro viaggio continuerà ancora.
Per la cronaca, dei due volumi che attendevo n’è
arrivato finora uno soltanto, seguito, giorni dopo,
da un gentile messaggio della libreria californiana,
che si scusava per il ritardo imprecisato del secondo
libro, colpa della dogana, del clima impazzito, del
caro petrolio.
Milano, capitale dell’economia italiana, ha
molto da dire a chi cerca tracce dei rapporti che
il vino ha stabilito con la finanza. Nel nostro
caso, cominciamo da un gruppo d’illustri
produttori di vino bordolesi, che hanno scelto
proprio Milano per presentare i propri vini.
Il lussuoso albergo è in periferia, lontano da
Piazza Affari e dalla Borsa, ma i Bordolesi hanno
il mercato nel sangue, la location conta poco, si
può vendere ovunque e comunque. L’evento,
come usa dire, è consacrato alla presentazione
dei vini dell’Union des Grands Crus de
Bordeaux. Alla presenza di un manipolo di
sedicenti giornalisti, il presidente
dell’associazione, Patrick Maroteaux, produttore
anch’egli, illustra le doti dell’annata 2003, che
gli italiani ricordano per la calura opprimente.
A sentire Maroteaux, l’annata è stata
“interessante” per le eccellenti condizioni
climatiche, dalla fioritura alla vendemmia. Se
fino al 15 agosto il caldo ha dominato, il 16 è
arrivato un temporale, seguito da un altro a
pochi giorni di distanza. Ottime anche le
condizioni di luce, una vendemmia davvero
fortunata, ma nulla in confronto alle seguenti.
Inutile dire che i volumi produttivi sono stati
scarsi, tanto che viene voglia fin d’ora di
comprare queste meraviglie annunciate, peccato
dover aspettare. Niente paura, i francesi pensano
a tutto: chi non riuscisse ad attendere, può
comprare en primeur. Vale a dire, acquistare, a
pochi mesi dalla vendemmia, un vino che sarà
in commercio solo dopo qualche anno.
Il mercato principale del vino en primeur è
ovviamente Bordeaux, dove è attivo da secoli. Le
negoziazioni, nate per gli operatori, cominciano
ad aprile, quando i produttori presentano le
prime tranche dei loro vini. Nei due o tre mesi
seguenti, sono presentate di solito altre tranche.
I pagamenti si fanno alla firma del contratto, la
consegna del vino, usualmente in casse da 12
bottiglie, dopo un anno o due. Nell’aprile 2005,
ad esempio, sono andati in vendita vini della
vendemmia 2004, per consegne dal 2006 in
avanti.
Le vendite sono organizzate da brokers, che
fanno da intermediari fra i produttori e i
négociants, che a loro volta vendono agli
importatori, ai dettaglianti, ai privati.
I prezzi sono stabiliti dai produttori e il broker
negozia con i possibili acquirenti le quantità e le
modalità di trasporto e consegna. Soltanto una
parte del vino bordolese affronta il mercato en
primeur, si parla del 5 per cento circa, forse
perché, come spiega Bertrand Carles, manager
della divisione Great Growth di Ginestet, uno
dei négociant più famosi, il produttore più
adatto per vendere en primeur è «quello con
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produzione relativamente scarsa ma grande
notorietà». Non tutti, quindi, eppure il
fenomeno appare in crescita, secondo qualcuno
per l’aumento della domanda da parte dei
privati, secondo altri per l’impegno dei
produttori, che hanno tutto da guadagnarci. In
realtà, sottolinea Carles, «E’ vantaggioso per
tutti. Il produttore è in una posizione migliore
quando la domanda è maggiore dell’offerta, e
può chiedere un prezzo più alto. Incassa anche
della liquidità. Il négociant, con un margine in
percentuale, vende più vino. Il consumatore può
accedere al vino con il miglior prezzo del
mercato». Non desta quindi sorpresa la
previsione di Carles, secondo cui l’en primeur
«può soltanto crescere, poiché nuovi grandi
potenziali mercati si stanno aprendo: Cina,
Russia, India».
Gioca un ruolo anche Internet, moltiplicando le
possibilità commerciali e facilitando, ad
esempio, la modulazione dell’offerta (lotti da sei
bottiglie, casse miste, magnum ecc ecc). Inoltre,
aggiunge Carles, «sarebbe una fantastica
opportunità per una migliore distribuzione
mondiale».
La crescita si accompagna ad altri cambiamenti.
«Ai vecchi tempi – ricorda Carles – importatori
o distributori usavano immagazzinare e offrire
quei vini molto tempo dopo. Oggi il
consumatore finale è contattato molto presto,
piazza gli ordini e paga il vino
immediatamente».
L’apertura verso i privati è quindi benvista: «I
négociant non sono in diretto contatto con i
consumatori. Essi sono più un’opportunità che
una minaccia. Il négociant deve distribuire il
vino in tutto il mondo con la sua rete
d’importatori e distributori e deve selezionare i
più efficienti per raggiungere il consumatore.
Non dobbiamo dimenticare che chi prende la
decisione finale è il consumatore».
Comprare en primeur è un rischioso privilegio,
specie per gli operatori che affrontano
quantitativi ingenti: il prezzo deve considerare
l’anticipo nel pagamento e il rischio assunto
dall’acquirente, che paga subito un prodotto che
sarà commercializzato negli anni a seguire. E’
possibile fare buoni affari, comprando, ad
esempio, un vino che migliorerà in bottiglia e
quindi spunterà prezzi molto alti alla rivendita,
ma può anche andare male, vuoi per
l’imprevedibilità del vino, vuoi per quella del
mercato.
Per una campagna en primeur di successo sono
necessari molti fattori. Carles ne elenca quattro:
«Primo, l’annata. E tutti sanno che le annate
sono grande parte del successo di Bordeaux. C’è
una grande differenza tra l’annata ‘82 e quella
‘84, tra il ‘92 e il ‘96, tra il 2000 e il 2002… E
così via. Secondo, il prezzo. E’ ovvio, ma è
legato all’annata che crea o no la domanda.
Terzo: il rapporto di cambio fra euro e dollaro,
yen, sterlina ecc. Quarto, l’influenza dei media,
che dieci o vent’anni fa non esisteva». Oggi i
media ci sono e, come vedremo, fanno sentire il
loro peso in un mercato nel quale alcuni
châteaux collocano fino all’80 per cento della
produzione e che genera fra 300 e 600 milioni
di euro l’anno (fonte INRA). Lo scarto fra le cifre
trova una risposta nelle parole di Jean-Marc
Guiraud, portavoce dell’UGCB: «Il mercato en
primeur è un affare privato tra un produttore e
un compratore. Ciò significa che non ci sono
statistiche ufficiali sull’argomento». In realtà,
qualche statistica sul fenomeno esiste, come si
può scoprire leggendo una ricerca francese
pubblicata nel settembre scorso da tre ricercatori
dell’INRA, l’Istituto Nazionale per la Ricerca
Agronomica. Lo studio si propone di esaminare
l’influenza del più famoso tra i critici enologici,
Robert Parker, sui prezzi dei vini en primeur.
I tre autori hanno tentato di esprimere in cifre
qualcosa che, intuitivamente, chi si occupa di
vino sa bene: le parole e i giudizi di Parker
pesano sul destino commerciale dei vini, a
cominciare da quelli en primeur. Una possibile
spiegazione è che i consumatori, privi di facile
accesso a tale mercato, non possono giudicare il
prodotto da soli e quindi chiedono l’aiuto di un
esperto.
Tutto nasce da un appuntamento mancato.
Infatti, ogni primavera, da molti anni a questa
parte, Robert Parker va a Bordeaux per
assaggiare un certo numero di vini en primeur,
cioè dell’ultima vendemmia. Il numero di aprile
di Wine Advocate pubblica i risultati delle sue
degustazioni, con punteggi a intervalli (es. 88,
90). Poiché il mercato en primeur di solito inizia
alla fine di aprile e chiude a giugno, i produttori,
nel fissare i prezzi, hanno la possibilità di tener
conto delle valutazioni di Parker. E’ ragionevole
pensare che, ove confortati da una valutazione
positiva, fissino un prezzo più elevato di quello
che avrebbero scelto in caso contrario.
Nella primavera del 2003, per motivi non
rilevanti ai fini dello studio, Mr Parker saltò
l’appuntamento di aprile e giunse a Bordeaux tra
agosto e settembre, quando i prezzi en primeur
erano già stabiliti, anzi il mercato era finito.
Come spiegano serenamente gli autori, «i
proprietari degli châteaux dovettero determinare
i loro prezzi senza sapere i punteggi che Parker
avrebbe attribuito». Non senza perfidia, Jancis
Robinson, autorevole giornalista del vino citata
nello studio, scrisse che «i Bordolesi dovranno
re-imparare l’arte di vendere un’intera
vendemmia, la 2002, senza il suo aiuto».
L’appuntamento mancato fra Parker e i vini en
primeur ha quindi messo a disposizione degli
studiosi dell’INRA i prezzi di un’annata
(vendemmia 2002) evidentemente non
influenzati dai giudizi del guru.
Lo studio si è avvalso di raffinati strumenti
statistici, applicati a un campione di 233
châteaux, per i quali sono stati confrontati i
prezzi en primeur di due vendemmie
consecutive, 2001 e 2002. Esaminando i
punteggi di Parker, gli studiosi scoprono che la
qualità delle due vendemmie è simile, mentre
un’occhiata ai i prezzi regalano una sorpresa:
quelli dei vini 2001 vantano prezzi mediamente
superiori di 3 euro rispetto a quelli del 2002.
Inoltre, la correlazione fra punteggi e prezzi è
più forte per il 2001 che per il 2002.
Con scientifico candore, gli autori annotano
che, poiché i prezzi del 2001 erano stati fissati
dopo la pubblicazione dei punteggi di Parker,
«quest’ultima scoperta suggerisce che più
informazione porta a maggiori variazioni di
prezzo». In altre parole, sembrerebbe che, nel
2003, senza il sostegno dei punteggi di Parker,
quei timidoni di produttori non se la siano
sentita di fissare prezzi superiori a quelli
dell’anno precedente.
Lo studio dimostra che non è possibile calcolare
l’effetto Parker su un singolo vino, quindi si
ragiona solo su valori medi, ma le conclusioni
sono comunque interessanti: l’effetto Parker
riscontrato è mediamente di 2,80 euro a
bottiglia e aumenta fortemente con il salire della
valutazione; vale zero per un vino valutato 84,5
e diventa 14 se il punteggio è 93,5.
Insomma, non solo c’è un effetto medio
stimabile, ma c’è anche un effetto specifico
legato alle valutazioni in centesimi, che per
giunta non è mai negativo.
Sébastien Lecocq, uno degli autori dello studio,
ha accettato di rispondere a qualche domanda.
– Il prezzo dei Bordeaux en primeur è aumentato
negli ultimi dieci anni? Si deve biasimare Parker
per questo?
– Sì, il prezzo è aumentato, ma io non ritengo
che Parker vada biasimato per questo. Ci sono
molti altri aspetti che possono giocare un ruolo
nell’aumento dei prezzi nel tempo (sul lato della
domanda e dell’offerta, fattori internazionali
ecc).
– Chi dovrebbe essere più riconoscente verso Parker?
Produttori o consumatori?
– Non saprei, suppongo entrambi.
– Comprare en primeur è davvero meno costoso?
Ci sono dati su questo?
– Non c’è uno studio preciso sull’argomento,
ma, secondo la stampa enologica, i prezzi,
secondo i raccolti, sono tra il 15 e il 25 per
cento più bassi dei prezzi che sono fissati
quando i vini sono imbottigliati. Io non so se
esistano dati in merito, ma sono sicuro che sia
possibile raccoglierne alcuni sulla stampa o in
Internet.
– Alla morte di Parker, nel 3000 d.C., che
succederà a Bordeaux? Come se la caveranno con i
prezzi?
– Possono fare come facevano prima di lui o
possono trovare un altro guru, o… Si spera che
trovino un modo. Parker ha una significativa
influenza sui prezzi, ma non vuol dire che li
faccia lui.
– Dopo aver letto il vostro lavoro, abbiamo provato
ad immaginare il prezzo privo dell’effetto Parker
con l’aiuto dei vostri grafici. E’ soltanto un gioco,
vero?
– Sì, lo è.
– Avete mandato una copia del vostro studio a
Parker?
– Sì, l’abbiamo fatto, ma non abbiamo avuto
risposta.
Il mercato, si sa, ormai non ha frontiere.
Nessuna sorpresa quindi nello scoprire che l’en
primeur non è più un’esclusiva bordolese, ma un
fenomeno che ha preso piede anche in Italia e
non da oggi. Già nel 1998 l’azienda vinicola di
Paolo Panerai, Castellare di Castellina, emise
certificati en primeur, affidandone la vendita a
Banca di Roma. Ad otto anni da
quell’esperienza, si può costatare che, sebbene
privi di una tradizione secolare come quella
francese e non potendo contare neppure
sull’aiuto di Parker, gli operatori italiani dell’en
primeur, grandi e piccoli, si sono inventati un
mercato.
Fra i protagonisti dell’en primeur all’italiana va
segnalata Wine Tip, azienda milanese fondata
all’inizio del millennio da alcuni giovani
imprenditori di estrazione eterogenea, ma
accomunati da un profondo interesse per il vino.
Oggi si definiscono i primi in Italia nel campo
dei certificati en primeur, documenti che
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garantiscono la consegna futura (da 2 a 5 anni)
di una determinata quantità di vino (per Wine
Tip usualmente 6 bottiglie), contro il
pagamento immediato di un prezzo tale da
assicurare un risparmio fino al 30 per cento,
secondo Wine Tip, rispetto a quello che lo stesso
vino dovrebbe avere sul mercato alla data di
consegna.
La formula base (compro e pago oggi per bere
domani) è simile a quella bordolese, ora come
allora, ma la novità su cui inizialmente puntò
Wine Tip era il canale Internet, che a sua volta
apriva scenari di tipo finanziario. Vino, finanza,
Internet: in quel tempo sembravano parole
magiche.
Immaginiamo di comprare del vino oggi per
consegna fra tre anni. Se prima della consegna,
per motivi insondabili, si scatenasse la corsa al
vino che si ha diritto a ricevere, il certificato
potrebbe essere venduto a qualcuno disposto a
pagare qualcosa in più di quanto sia costato
inizialmente. E’ evidente che i passaggi di mano
del certificato possono essere molteplici, da cui
la possibilità di creare un vero e proprio
mercato, con tanto di quotazioni denaro-lettera.
Era questo l’ambizioso progetto iniziale di Wine
Tip: sfondare su Internet con i certificati en
primeur, creare una vasta community virtuale
alimentando un mercato fino allora limitato a
un ristretto circolo di iniziati. Il progetto attirò
l’interesse di soci importanti come SIA, la Società
Interbancaria per l’Automazione, e Wisequity,
nota società di venture capital e private equity,
sponsorizzata all’epoca da SEAT e DeAgostini.
L’obiettivo finale era la quotazione in Borsa, ma
i volumi non crebbero abbastanza, la bolla
Internet si sgonfiò e Piazza Affari restò un
sogno. Usciti dalla compagine Wisequity e SIA, i
soci rimasti di Wine Tip si sono concentrati
sulla vendita di vino. Oggi Wine Tip è
essenzialmente un’azienda che commercia in
bottiglie pregiate, mentre il mercato dei
certificati resta vivo ma contenuto.
E’ rimasto anche il gusto per i progetti
ambiziosi, come quello di un fondo
d’investimento wine-focused, affidato ad una
società satellite di Wine Tip e gestito in
partnership con una banca. Punterà su vini
italiani per almeno il 50 per cento, comprando
da tutti (privati, aste, produttori ecc) e vendendo
a tutti. Nel frattempo, spiega il direttore
commerciale Alberto Cristofori, «abbiamo creato
una società di dimensioni minori che funziona
come un fondo dedicato a bottiglie importanti.
La società si chiama WineInv, è gestita da Wine
Tip, è attiva da oltre un anno (nel 2005 ndr) e
ha dato ottimi risultati».
In fondo è andata meglio a loro che ad altri
sognatori di quegli anni. Pensiamo all’esperienza
di Winefex Bordeaux, di cui non è rimasta
neppure la polvere. Contratti future come quelli
in uso da tempo sui mercati finanziari e delle
commodities, basati però sui vini en primeur, da
negoziare sul sistema borsistico parigino
Euronext, di questo si trattava. I future, in
breve, avrebbero consentito di vendere o
comprare a termine determinate quantità di vino
ad un prezzo stabilito, creando via via un vero e
proprio “price management tool” per operatori
professionisti, non diversamente da come si fa
nelle Borse Merci. Roboanti comunicati stampa,
corsi di formazione, raffinati articoli di analisi
finanziaria: tutto inutile, il magico strumento
che avrebbe dovuto ridurre la volatilità dei prezzi
dei grandi vini di Bordeaux non interessava né ai
commercianti né alle banche, quindi si arenò. La
spiegazione, dice un esperto, è che mancava un
benchmark, in altre parole un punto di
riferimento per le quotazioni, il che rimanda alla
complessità e alla varietà del vino, per fortuna.
(Porthos ospitò sul proprio sito web un articolo
di uno dei fondatori di Winefex, Sam Mezhrai:
www.porthos.it/winezone/winefex.htm).
Un’altra azienda che si è votata senza risparmio
ai certificati en primeur è la livornese Futurwine,
focalizzata su vini italiani e toscani in
particolare.
Per stessa ammissione di Futurwine, la filosofia
aziendale si colloca «su un piano molto distante
dall’en primeur classico, quello cioè che prende
ispirazione dal modello francese».
– Come funzionano, in breve, i vostri certificati?
– I “nostri” certificati vengono acquistati en
primeur e i vini consegnati successivamente
durante la “Cerimonia di Consegna”
espressamente organizzata per gli acquirenti dei
certificati Futurewine presso l’azienda
produttrice, oppure spediti al cliente
nell’eventualità che questi non possa intervenire
alla cerimonia.
– Ci sono zone privilegiate, per gli acquisti e per le
vendite?
– Non in maniera evidente.
– Quanto vale il mercato dell’en primeur in
Italia?
– Se si parla di en primeur classica, quella cioè
che segue il modello francese, il mercato italiano
non è a nostro avviso tra i più competitivi.
– Chi sono gli attori principali del mercato? Chi
sono i vostri competitors?
– Gli attori sono sempre gli stessi: da un lato
l’azienda produttrice e il territorio, dall’altro un
consumatore più evoluto e interessato a un
prodotto, il vino, che ha trovato una sua
collocazione forte e precisa all’interno di un
turismo sempre più specializzato, il cui target è
rappresentato da utenti sempre più esperti,
motivati ed esigenti. I competitors sono “uno,
nessuno, centomila”, nel senso che l’originalità
della formula del servizio offerto da Futurewine
ci rende ancora gli unici, ma naturalmente molte
sono le offerte di vini venduti en primeur, così
come il turismo del vino è una realtà ormai
consolidata.
– Cosa pensate del ruolo delle banche nel mercato
dei certificati?
– I diversi esperimenti tentati da aziende di varie
regioni, come la Campania e la Sicilia, non
hanno riscosso un evidente successo. Caso a
parte per Montalcino che vive di un retaggio
culturale che la rende una realtà a se stante.
– Chi compra i certificati?
– Tra i “nostri” acquirenti ci sono esperti del
settore, sia a livello amatoriale che professionale,
che acquistano i vini per le proprie cantine ed
enoteche, ma anche semplici appassionati a cui
la Cerimonia di Consegna dà l’opportunità di
programmare una vacanza per scoprire o
approfondire la conoscenza di un territorio.
– E perché? Passione o investimento?
– Nella nostra realtà sicuramente più per
passione, non mancano però casi di
professionisti (enotecari e/o chef ) che acquistano
un particolare vino da noi, in quanto esclusiva
Futurewine.
– Che caratteristiche deve avere un vino per essere
venduto attraverso i certificati?
– Sicuramente ottimo, possibilmente raro,
apprezzata anche la “confezione particolare” e di
conseguenza non reperibile sul mercato anche
dopo l’uscita del vino. Valido sempre e
comunque anche il formato bordolese offerto
in lotto da più bottiglie, secondo il più classico
esempio di en primeur, che permette la
conservazione e l’assaggio del vino seguendone la
sua evoluzione negli anni (naturalmente per chi
ha una cantina che ne assicuri il corretto
invecchiamento).
– E l’azienda produttrice? Che requisiti deve avere
per accedere al mercato dei certificati?
– Abbracciare a “tutto tondo” la filosofia di
questo nuovo modo di vivere l’en primeur e,
naturalmente, rispondere agli attuali requisiti
necessari a una adeguata accoglienza.
– Che garanzie ci sono per chi compra? Ad
esempio, se fallisce la cantina oppure la società che
cura l’emissione, cosa succede al certificato? E’ mai
successo?
– Le aziende partners sono tutte aziende dalla
solida realtà ma, qualora si verificasse un
qualsiasi tipo di inconveniente, Futurewine
interverrebbe in prima persona offrendo, magari,
un altro lotto in alternativa.
– Sono sempre tirature limitate e pensate
specificamente per il certificato? Voglio dire, quel
particolare lotto di bottiglie sarà venduto solo
attraverso i certificati? Oppure si potrà comprarlo
anche in enoteca, prima o poi?
– I formati particolari sono generalmente offerti
in esclusiva a Futurewine, ma questa non è una
regola.
– Addebitate una commissione a chi compra o
siete pagati dai produttori?
– Il nostro è un rapporto di partnership con
l’azienda in tutto e per tutto.
– Quali sono le tendenze del mercato italiano dei
certificati? Ci sono prospettive di crescita? In che
misura?
– Le tendenze del mercato italiano dei certificati,
in senso molto ampio, sono strettamente legate
a quelle del mercato in generale. Quando il
mercato avrà recuperato nuovamente fiducia e
trovato nuovi stimoli, allora ci saranno
sicuramente nuove prospettive di crescita,
sempre che, a nostro avviso, al certificato, e
quindi all’acquisto en primeur, venga
affiancato... qualcos’altro. Vino e territorio sono
oramai due elementi di uno stesso valore
aggiunto e, se ben gestiti, possono beneficiare di
idee originali come riteniamo essere la nostra.
Consideriamo fondamentale a questo proposito
la collaborazione tra i vari settori coinvolti nel
mondo del vino; solo lavorando insieme è
possibile far fronte alle aggressive politiche
promozionali di paesi come Australia e Sud
America, ai vini a basso costo, ma “purtroppo”
di alta qualità, che stanno emergendo
dall’Europa dell’Est, alle multinazionali, ecc.
– Nello scenario di crisi odierno, i certificati
tengono?
– Come detto sopra, sono anche loro travolti
dalla “crisi odierna”, ma la voglia di conservare
nella propria cantina un grande vino o di
concedersi un fine settimana in uno dei
meravigliosi angoli del nostro Paese sicuri di
essere accolti da persone esperte, in un clima di
estrema cordialità, per un evento intimo e
privilegiato... questo fortunatamente sopravvive
a qualsiasi crisi!
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Da quanto abbiamo letto, emerge come l’en
primeur all’italiana abbia una dimensione
domestica e punti decisamente sul consumatore
finale, saltando i professionisti del commercio.
Cambiano, ovviamente, i quantitativi. In
mancanza dei négociant che possono comprare
migliaia di bottiglie da rivendere, i lotti si fanno
piccoli, un cartone da sei al massimo, roba da
cantinetta familiare.
Per allettare l’acquirente, non si lesina sul
packaging: ceralacca, pergamene, cassette di
legno coi nodi a vista, marchi a fuoco. Vino coi
fiocchi, insomma.
Cruciale, in tutto ciò, l’intervento di un gruppo
di protagonisti piuttosto ingombranti: le banche.
Le aziende vinicole italiane che tentano la strada
della vendita en primeur sono numerose, attratte
dalla possibilità di piazzare subito una parte della
produzione e di incassare anzitempo. La
partnership con una banca appare la scorciatoia
più diffusa per fruire di questi vantaggi. Oltre
alla competenza finanziaria, le banche possono
offrire ai certificati un canale distributivo
fortemente privilegiato, lo sportello, nonché la
forza della relazione banca-cliente. Inoltre,
possono suscitare un forte interesse dei media,
che di certo non guasta. Sono molte le banche
impegnate con questo o quel produttore: Banca
di Roma (un’antesignana) e Banco di Sicilia,
Deutsche Bank, Sanpaolo Imi, Banca
dell’Irpinia, Banca Antonveneta e altre che
certamente sfuggono all’elenco. Un esperto del
settore, che lasciamo anonimo, fa notare che per
le banche il vino è “molto sexy”, ma il rischio è
che il vino sia venduto «da chi non sa a chi non
sa». La competenza tecnica di un venditore non
è, per chi compra, una garanzia in sé, tuttavia il
commento del nostro esperto evidenzia come,
dal meccanismo dell’en primeur, siano esclusi
alcuni protagonisti del mercato del vino. In
generale, la disintermediazione fa sempre
qualche vittima: se il vino passa dalla banca,
l’enoteca resta a guardare, così come il
rappresentante e il grossista. E’ pur vero che il
volano delle vendite bancarie potrebbe portare a
un aumento dei consumi, del quale
beneficerebbe tutto il settore, ma per ora non se
ne ha notizia. Resta il fatto che, a parte alcuni
intermediari, al tavolo dell’en primeur
guadagnano tutti. Il produttore vende e incassa,
la banca rimedia qualche commissione sui
certificati, entrambi sfruttano l’effetto vetrina
che il vino sembra regalare, grazie anche
all’immancabile retorica su territorio, tradizione,
cultura e qualità. Il consumatore, per parte sua,
elimina uno dei rischi tipici dell’en primeur, cioè
la mancata consegna del vino, poiché le banche,
di solito, garantiscono che le bottiglie siano
davvero consegnate all’acquirente.
Da un punto di vista strettamente finanziario, si
assiste a un curioso scambio di ruoli: non sono
più le banche a finanziare i produttori di vino,
ma i consumatori e gli appassionati, grazie al
pagamento anticipato dei certificati. Il punto è
che le banche, quando finanziano i produttori di
vino, se tutto va bene guadagnano qualcosa.
Resta da vedere se questo succede anche ai
consumatori.
Prendiamo il Furat 2002, vino siciliano venduto
en primeur da Banca di Roma. Chi avesse fruito
della vantaggiosa offerta della banca e del
produttore, avrebbe potuto aggiudicarsi sei
bottiglie da 75 cl con largo anticipo, pagandole,
spedizione compresa, 120 euro. I ritardatari,
poverini, avrebbero potuto arrangiarsi
comprandone sei bottiglie sul web, al prezzo di
97 euro, spedizione compresa.
Chi invece avesse fruito dell’offerta riservatagli
per il Cusumano Noà, avrebbe potuto
accaparrarsi sei bottiglie del prezioso liquido ai
soliti 120 euro, ovviamente con largo anticipo. I
ritardatari, guarda caso, avrebbero potuto
comprarne sei su Internet, sborsando 107,40
euro più spese di spedizione. A quanto pare, non
sempre chi tardi arriva male alloggia.
I casi citati riguardano vini reperibili e
confezionati in formati standard. I confronti si
fanno difficili quando il formato è particolare e
il vino diventa introvabile, ma la possibilità di
vedere frustrate le proprie aspettative
d’investimento rimane.
Va detto che qui non parliamo di contratti
miliardari: l’investimento è giocoforza limitato,
tenuto conto che il taglio medio degli en
primeur italiani non si allontana dalle poche
centinaia di euro. A meno di non comprare un
camion di certificati, il singolo consumatore
rischia poco in valore assoluto, difficilmente farà
la fine di Gardini coi futures sulla soia. E questo
lo sanno anche i venditori. Dove si rischia poco,
raramente si guadagna molto. E’ bene tenerlo a
mente se si pensa all’en primeur come
investimento. Non ci vuole un premio Nobel
per capire che, investendo 200 euro per sei
bottiglie, quand’anche si rivendessero a 300, il
guadagno sarebbe comunque limitato. Sempre
ammesso che si trovi a chi vendere, perché
abbiamo visto che il mercato dei certificati è
poca cosa. Insomma, con l’en primeur ci si può
divertire e persino risparmiare o guadagnare
qualche soldo, ma la finanza è lontana.
Un altro dei rischi insiti nell’acquistare en
primeur è la bontà del vino. Sembra banale, ma
non è detto che un assaggio en primeur sveli con
certezza matematica il destino di un vino. Per
quanto si ricorra a valutazioni di esperti, il
rischio rimane insito nella natura stessa del
liquido odoroso e serve a poco trincerarsi dietro
nomi noti.
L’entusiasmo dei media sull’en primeur
all’italiana ha giustificazioni ovvie, il vino fa
notizia e il connubio con la finanza offre
l’opportunità per più di un redazionale. Fra gli
addetti ai lavori il dibattito sembra sopito,
soltanto la promessa dell’anonimato ha convinto
un guru a dirci cosa pensa dell’en primeur: «Non
ci ho mai creduto, men che meno ora. Sono
sempre meno per il vino investimento e sempre
più per il vino da bere, al momento giusto. E
sempre più per le aziende che vendono il vino al
momento giusto: se il mio lavoro è fare da
mangiare e dare accoglienza e da bere, quello
delle cantine di fare bene il vino, venderlo al
momento giusto quindi quando è pronto da
bere. “Sarà buono tra...” è un gioco da indovini
che mi piace sempre meno: le aziende mettano
in commercio il vino che si beva. Il discorso en
primeur inteso come intuire il grande vino è un
dono di pochi (che “abbiamo” in pochi?), ma è
sempre assolutamente aleatorio. Come
investimento penso sia una bufala!»
Di ben diverso avviso, ovviamente, il bordolese
Carles, che a un appassionato al primo
approccio con l’en primeur, suggerisce così: «Vai
e compra il vino che ami. Una volta che hai
fatto la tua scelta, vai avanti. Comprare en
primeur è “la Voie royale”, poiché sei il più
vicino possibile all’origine».
Alcuni commentatori anglosassoni, con il senso
pratico di chi ha già pagato certi slanci,
consigliano di comprare en primeur soltanto quei
vini che davvero si ha voglia di bere e che sono
difficili da reperire altrimenti. Mal che vada, ci si
fa una bevuta e coi certificati si gioca a tombola.
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