Islam, Europa

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Islam, Europa
Roma, 23 aprile 2015 Ore 10.30 – 13.30 Sede nazionale ACLI Via G. Marcora 18/20 – Salone del primo piano ISLAM, EUROPA
Un’occasione per comprendere e per discernere Materiali di approfondimento
Intervento di Pietro Pisarra all’incontro “Après le 7 Janvier...
Quello che non abbiamo visto, quello che non abbiamo
capito” (Parigi, 30 gennaio 2015)
Franco Cardini, Europa, “Occidente”, Islam: profilo storico e
prospettive (dal sito arab.it)
Adel Jabbar, Musulmani, jihad e nonviolenza
Non medioevo ma globalizzazione. Intervista a Lorenzo Declich
(Reset Libri)
Islam, istruzioni per l’uso. Intervista a Stefano Allievi di Lidia
Baratta (Linkiesta, 9 gennaio 2015)
Demonizzare l'Islam aiuta i terroristi. Intervista al teologo
Mokrani (Radio Vaticana, 14 gennaio 2015)
In collaborazione con Après le 7 Janvier...
Quello che non abbiamo visto, quello che non
abbiamo capito
Incontro di riflessione sui tragici fatti di Parigi organizzato da
ACLI France, Mairie 12° Arrondissement de Paris, ACLI Italia,
Federazione ACLI Internazionale, Patronato ACLI, Missione
Cattolica Italiana di Parigi, EuropaNova, LIBERA France
Parigi, 30 gennaio 2015
Trascrizione intervento di Pietro Pisarra
Il testo è stato trascritto dalla registrazione, conservando il tono colloquiale,
comprese alcune ripetizioni
Che cosa non abbiamo visto? Che cosa non abbiamo fatto? E che cosa
stiamo vivendo?
La prima indicazione utile ci viene dall’insegnamento della scuola delle Annales,
cioè dalla nuova storiografia francese di Lucien Febvre, Fernand Braudel e dei
grandi medievisti Georges Duby e Jacques Le Goff: per capire bisogna liberarsi
dalla “dittatura dell’evento”.
Facile a dirsi se l’evento è di pochi giorni fa. Eppure, se vogliamo capire,
dobbiamo liberarci dalla dittatura dell’evento, come dicevano appunto i fondatori
della scuola delle Annales. Dobbiamo non perdere di vista la «lunga durata», il
lungo periodo, le strutture profonde della società e non fare dell’avvenimento un
feticcio.
C’è - è vero - un prima e un dopo il 7 gennaio, così come c’è stato un
prima e dopo l’11 settembre. Ma per capire qual è lo spartiacque bisogna
collocarsi nel lungo periodo.
È anche opportuno liberarsi da una visione troppo facile e semplicistica, quella
delle “parole gelate”. Nel Quarto Libro di Rabelais, Pantagruel naviga, con i
compagni, ai confini del mare ghiacciato e, navigando, ode degli strani rumori,
suoni di piffero o di clarino, bestemmie, insulti, ma anche richieste di perdono:
erano le “parole gelate”. In quel luogo si era svolta tempo prima una battaglia e le
parole si erano rapprese, erano diventate, nell’immaginazione di Rabelais, pezzi di
ghiaccio; bisognava riscaldarle per farle risuonare di nuovo. Io credo che ci siano
anche oggi, nella società francese così come in quella italiana, delle “parole
gelate” da cui dobbiamo liberarci, perché ci legano all’immediatezza, all’attualità
nella sua forma meno nobile, e non ci fanno capire.
Queste “parole gelate”, dopo il 7 gennaio, sono: «identità», «scontro di
civiltà», «sicurezza».
Su questi temi abbiamo assistito anche a nuovi interventi della destra identitaria
francese, alimentati peraltro da un folto gruppo di intellettuali. Ma l’identità
Après le 7 Janvier... Trascrizione intervento P. Pisarra – Parigi, 30 gennaio 2015 1 francese e quella europea, rivendicate come l’elemento forte da opporre all’Altro,
al diverso, all’immigrato, l’identità come “parola gelata” è una costruzione
sociale recente. Come ha notato lo storico Eric J. Hobsbawm, espressioni come
“identità collettiva”, “politiche di identità”, “gruppi identitari” fanno parte del
nostro vocabolario quotidiano e sono così frequenti da farci dimenticare che esse
sono apparse solo da pochi decenni: negli anni ’60 non si parlava ancora di
identità, nel senso di “identità etnica” o “nazionale”.
Prima del 1972, secondo Hobsbawm, non c’è traccia nel dibattito pubblico di
questo tema. È importante allora cercare di capire come il concetto di identità sia
emerso e come sia stato brandito per alimentare lo scontro di civiltà.
Scontro di civiltà: altra “parola gelata”. Quando parlo di costruzione ideologica,
mi riferisco anche alla costruzione del nemico a cui opporre la i valori della nostra
civiltà. A volte però la costruzione non funziona, proprio perché si fonda su
numerose ambiguità. L’ultimo tentativo di alimentare lo scontro di civiltà è stato
quello cui abbiamo assistito poco prima degli attentati con l’uscita del libro di Eric
Houellebecq, Sottomissione (pubblicato da Flammarion in Francia e Bompiani in
Italia). Ma il tema principale del libro non è l’Islam, bensì l’opportunismo degli
intellettuali, la trahison des clercs, per dirla con Julien Benda. Un tema che ha
certamente un minore appeal mediatico rispetto all’Islam e all’islamofobia presente
nelle nostre società e che per questo è passato in secondo piano.
La terza “parola gelata” è «sicurezza», soprattutto se pensiamo a ciò che
accade quotidianamente nella società francese e nelle banlieue, nei ghetti urbani
che circondano le nostre metropoli. Ha fatto molto discutere la dichiarazione del
primo ministro Manuel Valls secondo cui ci sarebbe l’“Apartheid” nelle banlieue.
Valls è stato per questo fortemente criticato dalla destra, eppure c’è qualcosa di
vero nelle sue parole: c’è una frattura molto forte tra la France d’en haut et la
France d’en bas, quella che vive sempre più isolata nelle città-dormitorio. La
“mixité à la française”, cioè quell’ideale di integrazione, di melting pot, su cui
tanto si è detto e scritto, sembra non funzionare più.
In questa chiave e senza minimizzare il ruolo di altri fattori (primo fra tutti, la
propaganda – sempre più diffusa – di un Islam radicale e fondamentalista), gli
attentati sono l’ultima espressione di un fenomeno che ha radici antiche, l’anomia.
La Francia insiste sull’importanza dell’integrazione, ma il contrario
dell’integrazione è l’anomia, la rottura dei legami sociali.
Quando si analizzano le biografie dei terroristi, quella di Amedy Coulibaly ma
anche quelle dei fratelli Kouachi, non si può negare la sconfitta del modello
francese di integrazione. Se noi ci soffermiamo sul percorso dei terroristi,
dobbiamo constatare che si tratta, nei tre casi, di ragazzi che hanno avuto un
percorso scolastico confuso, caotico, e che si sono trasformati prima in piccoli
delinquenti e poi in criminali. Il classico esempio di non integrazione. Il classico
esempio di un ascensore sociale che non funziona più. L’unica risorsa
diventa così il riferimento a un Islam fantasmatico e molto spesso
Après le 7 Janvier... Trascrizione intervento P. Pisarra – Parigi, 30 gennaio 2015 2 immaginario. Un Islam violento, che ha bisogno dell’Infedele, del Nemico, per
esistere. In un articolo di Libération del 28 gennaio, la testimonianza di un amico
di Amedy Coulibaly terminava con queste parole: «Ce l’hanno preso, l’hanno
programmato per uccidere, strumentalizzando deliberatamente le sue ferite intime
e quelle dei quartieri popolari. Qui noi non siamo Charlie, non per il piacere di non
esserlo ma per obbligo: il Profeta è l’ultima cosa che ci resta».
Bisogna riflettere su questa frase. Qui l’Islam è percepito come la religione
dei diseredati, di quelli che non hanno più nulla da perdere, dei dannati
della terra. Vera o falsa che sia questa visione, è comunque una visione diffusa
nelle banlieue e fa parte di un universo simbolico.
Sarebbe illusorio pretendere di risolvere tutto in termini di sicurezza proprio
perché il nemico vive in un universo simbolico del quale spesso ci sfuggono tutti i
significati. La risposta più efficace dello Stato deve tener conto dell’universo
simbolico in cui i terroristi, ma non solo i terroristi, sono inseriti. Non
dobbiamo meravigliarci del fatto che nelle scuole alcuni bambini e ragazzi abbiano
rifiutato di partecipare al minuto di silenzio per le vittime. Quest’atteggiamento è
il risultato di alcuni simboli che sono ancora vivi e ben operanti nella società
francese. Ed è su ciò che giustifica e nutre questi simboli che bisogna interrogarsi.
Qual è stata la risposta dello Stato a questi tragici avvenimenti? È stata una
risposta in termini di sicurezza, di maggiore sicurezza. E poi una risposta che ha
fatto appello alle molteplici risorse dell’universo simbolico francese, che è quello
della laicità “alla francese”, dei valori della Repubblica.
La manifestazione dell’11 gennaio ha mostrato la solidità di questo universo
simbolico. L’insistenza sulla solidarietà, il rifiuto di farsi ingabbiare nella logica
amico-nemico, ha permesso anche di mettere da parte, di isolare alcune realtà
come il Front National che invece hanno fatto dello scontro di civiltà il loro punto
di forza. Non a caso con questa risposta Marine Le Pen è stata messa alle corde.
Quindi alla forza dei simboli si può rispondere con altri simboli, altrettanto
forti, se non più forti. L’illusione è quella di chi crede di poter risolvere il problema
facendo a meno di questa risorsa simbolica che poi vuol dire una risorsa culturale,
di civiltà, che nasce dalla nostra storia. E la nostra storia di cittadini europei è
stata fatta anche dall’Islam. Senza gli Arabi, non ci sarebbe arrivata la filosofia
di Aristotele, dobbiamo ai filosofi di Al Andalus la conservazione di molti
manoscritti che sono a fondamento della nostra cultura. «All’origine stessa
dell’identità europea», scrive il filosofo e storico della filosofia medievale Alain de
Libera, «ci sono i traduttori ebrei di Toledo e i filosofi arabi di Andalusia, e al di là
– ai confini dell’VIII e del IX secolo, quando l’Occidente era ancora parzialmente
nelle tenebre – le molteplici luci dell’Oriente e il regno di Baghdad, luogo
dell’incontro e della collaborazione tra gli arabi cristiani e gli arabi musulmani».
Quindi, insistere sulla forza dell’universo simbolico significa anche recuperare
il senso di un’identità multipla, collettiva, che non può essere limitata a una sola
espressione come quella della laicità che sconfina spesso nel laicismo.
Après le 7 Janvier... Trascrizione intervento P. Pisarra – Parigi, 30 gennaio 2015 3 Certo, gli Italiani fanno fatica a capire l’insistenza sulla laicità alla francese. È una
specificità culturale della sinistra francese, ma non soltanto. Da cristiani e da
cattolici, per noi la laicità è la separazione tra il temporale e lo spirituale – la
definizione classica – che non vuol dire svalutare il temporale e dare un’eccessiva
importanza allo spirituale. Ma riconoscere semplicemente l’autonomia di queste
due componenti. La laicità alla francese è qualcosa d’altro. È una cosa
importante quando si trasforma in progetto educativo, ma mostra i suoi limiti
quando pretende di creare nuovi simboli e nuovi riti. Tra le cose più ridicole che ci
è capitato di sentire in questi giorni c’è quella di instaurare nuovi riti repubblicani.
Un italiano, non per forza cattolico e di sinistra, sorride a questa proposta. I nuovi
riti non si creano con la bacchetta magica o per una decisione dall’alto. Non
dimentichiamo che la creazione di nuovi riti, artificiali, è stata spesso nella
storia una caratteristica delle dittature. Noi conosciamo i riti inventati dal
Fascismo o quelli della gioventù sovietica. Ma se non sono l’espressione di un
immaginario simbolico con profonde radici nella cultura di un popolo o di una
comunità, i riti diventano un surrogato, un simulacro, un vuoto contenitore.
Qui può soccorrerci ancora la sociologia con il vecchio Émile Durkheim che diceva
che il rito è ciò che ci consente di canalizzare l’angoscia, ciò che ci
consente di limitare i danni dell’anomia, cioè della rottura del legame sociale.
Il rito quindi ha una funzione determinante nelle nostre società, a condizione che
si tratti di riti ancorati nell’immaginario e nelle credenze di un popolo e non di riti
fasulli.
I riti repubblicani io non so cosa siano. Può essere una risposta ma è senz’altro
una risposta parziale. Qual è una possibile risposta? Il rifiuto di ogni
“determinismo”,
di
ogni
automatismo,
di
ogni
facile
equazione:
banlieue/terrorismo; banlieue/emarginazione; Islam/l’Altro, il nemico.
Liberarci da questi automatismi consente forse di cogliere la vera posta in gioco
che non è lo scontro di civiltà ma è qualcosa di diverso.
C’è anche una componente che è di scontro di civiltà ma che è strumentalizzata
per altri fini: basta vedere chi sono i finanziatori dei terroristi per rendersi
conto dei fini perseguiti. Liberarsi da ogni determinismo significa anche
evitare di pensare che tutto ormai è scritto, che non c’è più niente da
fare, che siamo prigionieri di una storia e che quindi non potrà esserci
possibilità di dialogo, per esempio tra l’Islam e le culture nate dalla rivoluzione
francese, dall’Illuminismo. Liberarci da ogni determinismo vuol dire anche liberarci
dalla maledizione del passato.
E su questo aspetto credo che possa esserci di aiuto un libro Antonio Muñoz
Molina, Tout ce que l'on croyait solide (Seuil, Parigi, 2013), sulla Spagna
dell’ultima, grande crisi economica. Muñoz Molina è uno scrittore, un romanziere,
non un sociologo. Ma la sua analisi, molto profonda, ci può far capire ciò che sta
accadendo anche qui.
Nel suo libro c’è una bella riflessione su un verso di Antonio Machado; «Ni està el
Après le 7 Janvier... Trascrizione intervento P. Pisarra – Parigi, 30 gennaio 2015 4 mañana ni el ayer escrito», «Né il domani né il passato sono scritti una volta
per tutte». Una frase che avrebbe fatto inorridire Aristotele e San Tommaso
d’Aquino. Come? Il passato non è scritto? Assurdo. Il passato è passato e non si
può cambiare. Con la libertà dei poeti, Machado sembra sfidare la logica e il
fondamento stesso della nostra razionalità. Ma non è così. Machado ci dice
semplicemente che non siamo prigionieri di una visione del passato data
una volta per tutte. Chi vuole rinchiuderci nella logica dello scontro di civiltà
considera il passato come già scritto. Machado – e con lui Muñoz Molina – ci
ricordano, invece, che il passato e il futuro che dobbiamo ancora vivere non
sono una gabbia. Tocca a noi scrivere sia il passato (l’interpretazione del
passato) sia il futuro.
Scrivere il passato vuol dire non essere prigionieri delle proprie radici, non essere
prigionieri di un’identità unica, che come dice un altro scrittore, Amin Maalouf, si
trasforma in identità omicida. Ci salva soltanto l’identità multipla, plurale. Io
credo che questa sia ancora oggi la sfida della società francese, non solo del
governo Valls, del presidente Hollande, ma di tutta la società francese. Liberarsi
del feticcio dell’identità unica, esclusiva, e cercare di capire che cosa sta
succedendo veramente in questa società.
Pietro Pisarra
Sociologo e giornalista, insegna Sociologia generale e Sociologia dei media all’Institut
Catholique (Facoltà di Scienze sociali ed economiche) di Parigi, dove vive da vent’anni.
Dal 1997 al 2000 ha diretto «Segno Sette», con la collaborazione di redazione del
giornalista Marco Damilano.
Après le 7 Janvier... Trascrizione intervento P. Pisarra – Parigi, 30 gennaio 2015 5 EUROPA, “OCCIDENTE”, ISLAM:
PROFILO STORICO E PROSPETTIVE
di Franco Cardini*
Due fondamentalismi da smascherare
Esiste senza dubbio un "fondamentalismo" islamico: è ormai così che siamo abituati e definire con un termine preso a prestito dal lessico delle sette cristiane statunitensi - l'atteggiamento di
una quantità di gruppi e di scuole (peraltro differenti e sovente in conflitto tra loro), nati intorno
agli Anni Venti e sviluppatisi soprattutto nei Sessanta-Settanta del XX secolo, alcuni dei quali
postulano un'applicazione della normativa giuridica emergente dal Corano e dalla Tradizione
(sunna) letteralmente accettati e senz'alcuna elaborazione esegetica, mentre altri sostengono di
voler reinterpretare l'Islam nel suo complesso per ricondurlo alla purezza delle origini.
Atteggiamenti del genere, com'è noto, sono stati e in qualche misura sono propri anche di
alcune sètte o Chiese cristiane che, dal medioevo alla Riforma fino ai giorni nostri, hanno
proposto un impossibile "ritorno alle origini" della "Chiesa primitiva", quella "degli Apostoli". Nel
mondo islamico, le pretese accampate da questi gruppi fondamentalisti possono in realtà, in
qualche misura, rifarsi alle tesi di movimenti religioso-politici del passato (si sono di recente
chiamati in causa, un po' impropriamente, gli sciiti ismailiti della cosiddetta "Setta degli
Assassini", fra XI e XIII secolo).
Ma nell'insieme si tratta di istanze nuove, che ben si potrebbero qualificare come "moderniste":
anche - e soprattutto - quando pretendono di rifarsi a un passato remoto. La loro nascita e il loro
sviluppo di situano significativamente tra l'indomani della prima guerra mondiale e la sconfitta
araba nella "Guerra dei Sei Giorni" del giugno 1967: dinanzi alla frustrazione profonda del mondo
arabo-islamico e islamico ingenerale, che alla fine del Settecento aveva accolto con quasi
unanime entusiasmo le proposte di modernizzazione che gli provenivano dall'Occidente ma che
ormai si sentiva da esso ripetutamente ingannato, tradito e umiliato (inganni, tradimenti e
umiliazioni che non erano affatto solo immaginari), nasceva quasi spontanea l'idea di tornare alla
purezza della tradizione musulmana come unico rifugio e unica base per una nuova partenza
spirituale, sociale e politica. Ma l'implausibilità delle tesi fondamentaliste - respinte difatti dalla
stragrande maggioranza del mondo islamico - consiste tanto nell'impossibilità obiettiva
d'un'applicazione letterale e normativa di Corano e di Tradizione come fondatrice d'una vera
convivenza civile, quanto nell'arbitrarietà di tale strada mai proposta finora e quanto, infine, nel
carattere non religioso bensì politico della tesi secondo cui il dovere principale del musulmano sia
la lotta contro il "satana occidentale".
Questa tesi è una sorta di leninismo politico applicato alla fede, che sostituisce la lotta di classe
con la lotta religioso-culturale: dovere del musulmano è, semplicemente, uniformarsi con intimo
consenso alla volontà di Dio. Tale il significato della parola Islam, la radice della quale è la
stessa della parola Salam ("pace"). Sarebbe bene non confondere quindi il sostantivo "Islam" e
l'aggettivo "islamico" (o, meglio, "musulmano", che rispetta di più il termine originario), che indica
il fedele dell'Islam, con i brutti neologismi "islamismo" e "islamista", che tuttavia potrebbero venir
usati per indicare le idee e i sostenitori della sciagurata riduzione dell'Islam a ideologia politica.
Una manovra, questa, che si autodefinisce antioccidentale: mentre al contrario - accettando
proprio uno dei peggiori prodotti della cultura occidentale, l'ideologismo politico - denunzia
proprio una perniciosa dipendenza dall'Occidente nei suoi aspetti meno positivi.
Esiste d'altronde, com'è noto, anche un "fondamentalismo" occidentalistico: figlio della
caratteristica intolleranza illuminista, che usa com'è noto travestirsi da tolleranza ma che al
contrario è profondamente convinta che il mondo delle democrazie liberali e del liberismo
economico sia il migliore dei mondi possibili e l'unico, finale e necessario traguardo possibile di
qualunque umana cultura.
Questo disprezzo per l'"Altro-da-sé", capace di tollerare culture differenti dalla sua solo nella
misura in cui le ritiene fasi transitorie da percorrere per giungere alla "maturità" occidentale e
che in ultima analisi non concepisce niente che nella breve o nella lunga durata possa sfuggire
al suo Pensiero Unico e ai modi di vita e di produzione da esso proposti, sembra aver di recente
guadagnato anche alcuni ambienti cattolici, magari d'origine "tradizionalista".
Siamo dinanzi a un nuovo, inatteso totalitarismo. E difatti, ne ha i connotati. Annah Arendt
sosteneva che il totalitarismo, in quanto tale, ha bisogna di un "nemico metafisico": ed ecco il
"borghese" per il comunismo, l'"ebreo" per il nazismo.
Ma alla luce dello sviluppo di parte del pensiero liberal-liberista in Europa e nel resto
dell'Occidente, segnatamente negli Stati Uniti, nell'ultimo mezzo secolo, si direbbe che
anch'esso sia o stia diventando un totalitarismo - pur non avendone i segni espliciti esteriori e
apparenti: l'organizzazione del consenso, il controllo delle masse eccetera - perché,
sperimentalmente anche se non teoricamente, non sembra poter fare a sua volta a meno di un
"nemico metafisico".
Tale è stato e rimane per sempre il nazismo; tale è stato, dopo la sconfitta di esso, il comunismo (o
quanto meno, come riduttivamente qualcuno preferisce sostenere, lo stalinismo e i suoi postumi).
Spariti questi due mostri, rispettivamente del tutto nel 1945 e in una certa misura nel 1989, sembra
che i liberal-liberisti non si siano sentiti comunque del tutto a loro agio finché non hanno individuato
un nuovo mortale avversario nell'Islam. A tale scopo, naturalmente, una manovra riduzionistica era
necessaria: ed ecco che i fondamentalisti nostrani - con la pretesa di monopolizzare l'intero pensiero
democratico e di rappresentare il Bene e il Giusto - hanno decretato che tutto l'Islam è per sua
natura fondamentalista o suscettibile di divenirlo; e che tutti i gruppi fondamentalisti sono filoterroristi
o potenzialmente fiancheggiatori e simpatizzanti del terrorismo.
E, con una caratteristica manovra ricattatorio-intimidatoria tipica di tutte le Cacce alle Streghe
che si rispettino, gli studiosi, i politici e i pubblicisti che si oppongono a questa manipolazione
livellatrice e fanatica della realtà, sono accusati di essere filoislamici (quindi, si sotintende,
filofondamentalisti e filoterroristi) essi stessi.
E' un comportamento identico a quello tenuto, tra Quattro e Cinquecento, dai teologi e dai
giuristi fautori della realtà dei poteri stregonici: chi non ci credeva, veniva segnato letteralmente
a dito come stregone o protettore di streghe egli stesso.
Diciamo la verità. Siamo dinanzi al pericolo di un vero contagio intellettuale e massmediale, che
potrebbe dar luogo a un nuovo fenomeno maccartista. D'altronde, l'immagine dell'Islam come
"millenario avversario" del nostro Occidente ha largo corso in un mondo disinformato, dotato di
scarsa e superficiale conoscenza della storia, abituato agli schemi scolastico-bignameschi, poco
abituato a pensare per categorie religiose incline quindi a sottovalutarle e a considerare
semplicisticamente i fenomeni che le riguardano, senza far le dovute distinzioni) e infine
profondamente scosso dopo i tragici fatti dell'11 settembre del 2001.
Bisogna dire che questo errore di prospettiva, irresponsabilmente avallato da alcuni mass media
e opinion makers, riceve purtroppo un'apparente conferma indiretta nel comportamento di alcuni
ambienti musulmani, essi stessi molto poco informati sia della sostanza della loro fede, sia della
-del resto molto complessa - realtà politica e culturale del nostro mondo, nel quale essi magari si
trovano per esigenze di lavoro o di sopravvivenza, che credono di conoscere sufficientemente
perché ne parlano un po' le lingue e ne guardano i programmi televisivi, ma che nel nucleo
profondo sfugge loro tragicamente.
In questo modo, i fondamentalisti nostrani e quelli islamici, magari entrambi in buona fede, fanno
entrambi il gioco degli agenti terroristi il fine dei quali è, appunto, tradurre in pratica l'infausta
profezia di Samuel Hungtington e giungere allo scontro fra civiltà.
Esiste un antidoto? Sì: ma va assunto subito, e in massicce dosi, prima che sia troppo tardi. Non
è verso il melting pot multiculturale che bisogna andare, bensì verso il salad bowl della
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convivenza entro uno stesso quadro pubblico e istituzionale, nel rispetto delle medesime leggi e
nel mantenimento di quelle tradizioni proprie a ciascuna cultura che con tali leggi non siano in
contrasto.
Bisogna moltiplicare - a cominciare dalle istituzioni, dai posti di lavoro, dalle scuole - le occasioni
d'incontro, approfondire le nostre rispettive identità e al tempo stesso studiare e conoscere
meglio e più da vicino quelle altrui. Io non credo nella tolleranza astratta: valore debole e
retorico, che vacilla al primo soffiar del vento della retorica e del fanatismo, che crolla alla prima
ingiusta violenza di cui si sia vittime o spettatori e che non si riesca a razionalizzare e ad
analizzare nella sua struttura storica.
Io credo nell'incontro, nell'interesse e nella simpatia reciproci che ne nascono, nel confronto tra le
tradizioni e le culture condotto nel rispetto reciproco e nel desiderio di rafforzare la propria identità
attraverso l'accettazione di quel che è accettabile nelle culture altrui e l'arricchimento che ne
deriva. A chi è più vicino un credente cattolico occidentale: a un ateo occidentale o a un ebreo o a
un musulmano che condividono la sua fede nel Dio d'Abramo e nella Rivelazione, nel dialogo tra
Dio e l'uomo? A chi è più vicino un euro-meridionale: a un arabo-mediterraneo o a un baltico?
Occidente e Islam: le sei fasi di un confronto storico
Un primo nemico da battere è proprio il pregiudizio psuedostorico, l'aberrante - e a prima vista
del tutto naturale, verosimile e fededegna - presupposto della tesi di Samuel Hungtington. Che
potrebbe essere anche buon profeta, dal momento che il futuro storico è inipotecabile, che la
storia non ha alcun senso immanente e che non c'è futurologia che tenga; ma senza dubbio è
un cattivo storico, un incompetente nelle questioni del nostro passato. L'aberrante presupposto
di Hungtington è che quattordici secoli di storia dimostrano che fra Occidente e Islam la guerra è
stata continua: da tale presupposto errato egli fa derivare - con sconcertante semplicismo
deterministico - la conseguenza che così sarà anche in futuro. La grottesca fragilità di tale
inconsistente ragionamento è palese.
Tuttavia, anche se esso fosse rigorosamente corretto, il presupposto resterebbe errato. L'arabo,
l'arabo-musulmano, il musulmano tout court come nemici costanti dell'Occidente (e lasciamo
perdere il fatto che tra Europa e Occidente è ormai molto discutibile esista una perfetta e totale
identità dopo il XVI secolo).
Diciamolo chiaro. Questa della guerra costante e della continua inimicizia tra Occidente e Islam
è una balla che può esser bevuta solo dagli ohimè troppi nipotini del benemerito garibaldino ed
editore Enrico Bignami, inventore del sapere scolastico ridotto in pillole. I molti pacifisti che ieri
accusavano di "revisionismo" gli storici i quali si ostinavano a sostenere che la crociata era
qualcosa di molto differente da quella guerra di religione ispirata dal fanatismo che essi
credevano (Voltaire ridotto appunto in bignamesche pillole...) e che oggi invece si fanno fautori
di nuove necessarie crociate per la difesa della libertà, del progresso e magari anche della
Borsa, debbono rassegnarsi a tornare a scuola.
E arrendersi all'evidenza che la storia, quella vera, insegna. Che cioè i lunghi secoli del confronto
tra Europa e Islam furono certo caratterizzati da crociate e controcrociate, e non certo senza
episodi violenti e sanguinosi; ma che la crociata non era affatto, non fu mai guerra "totale"; che in
quei lunghi secoli - nei quali le guerre guerreggiate furono nel complesso endemiche, ma brevi e
quasi sempre poco cruente - quel che di gran lunga prevalse fu il costante, continuo, profondo
rapporto amichevole fra cristiani e musulmani nel teatro del mare Mediterraneo. Un'amicizia che si
riscontra continua: a livello economico, diplomatico, culturale. A questo rapporto dobbiamo la
rinascita dei commerci e della civiltà urbana dopo la stasi altomedievale; gli dobbiamo la nascita
del sistema monetario e creditizio moderno; gli dobbiamo - grazie a uno stuolo d'instancabili
traduttori arabi, ebrei e cristiani che lavoravano di comune accordo, soprattutto in Spagna - la
stessa nascita scientifica e culturale della teologia, della filosofia, dell'astronomia, della fisica, della
chimica, della medicina, della matematica, della tecnologia moderne.
Senza l'apporto dell'Islam - riciclatore della cultura ellenistica e divulgatore di quelle persiana,
indiana e cinese altrimenti sconosciute all'Europa - non sarebbe mai nata la splendida Europa
Cardini - Europa, “Occidente”, Islam: profilo storico e prospettive – arab.it
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delle cattedrali e delle università, l'Europa dalla quale è scaturita quella stessa modernità di cui
tanto andiamo fieri. Gloria e riconoscenza eterna, diciamolo da europei e da moderni, all'Islam
di Avicenna, di Averroè, di Ibn Khaldun: senza i quali non avremmo avuto né Abelardo, né
Tommaso d'Aquino, né Dante, né Machiavelli, né Galileo. Certo, l'Islam di oggi non è più quello
di allora. Ma anche su ciò, bisogna intenderci. Europa e Islam hanno potuto trattare da pari a
pari finché sono stati più o meno sullo stesso piano. Cerchiamo di distinguere i loro rapporti in
sei specifiche fasi.
Prima fase
Fino all'XI secolo, musulmani e bizantini erano incommensurabilmente più colti, più civili, più
ricchi dei rozzi euro-occidentali scaturiti dalla decadenza della pars Occidentis dell'impero
romano e dall'incontro - del resto fecondissimo - con le culture eurasiatiche.
Seconda fase
Tra XIII e XVI secolo europei occidentali e musulmani poterono trattare su un sostanziale piede
di parità. Si fecero crociate e controcrociate, si affermarono una letteratura, un diritto, una
finanza della crociata. Intanto, però, gli scambi economici, diplomatici e culturali properavano.
A metà del XII secolo si organizzò a Toledo la prima traduzione del Corano. Dante usò un libro
mistico-allegorico arabo-iberico come testo ispiratore della Divina Commedia. Abelardo,
Raimondo Lullo e Nicola Cusano scrissero trattati per dimostrare che le tre fedi nate dal ceppo
di Abramo erano sorelle e sostanzialmente convergenti sui grandi temai del primato dell'uomo
nel creato e dell'irruzione di Dio nella storia, la Rivelazione.
Terza fase
A partire dalla seconda metà del Cinquecento - grosso modo all'indomani della morte di
Solimano il Magnifico, nel 1566 - l'Occidente, nonostante la dura crisi economico-finanziaria che
stava affrontando, cominciò a distanziarsi decisamente da qualunque altra cultura. Le
invenzioni, le scoperte geografiche e soprattutto la navigazione oceanica costituirono l'autentica
, irripetibile e irreversibile "eccezione occidentale" nella storia del mondo. Fino ad allora le
differenti culture sparse nell'ecumène avevano comunicato tra loro in modo rapsodico, spesso
casuale: ora, le navi e i cannoni occidentali travolsero questo mondo a "compartimenti stagno" e
avviarono quell' "economia-mondo" ch'è la prima fase di quel processo di globalizzazione che
solo ai giorni nostri sembra giungere alla sua fase più matura e alle sue conseguenze (forse
perfino alla sua conclusione, qualunque essa sia: ed è ancora presto per dire quale).
La culture islamiche (e bisogna tener presente che l'Islam è unico e unito nella sua comunità
religiosa, l'umma: diviso però in una pluralità di culture, si stati, di scuole, di gruppi confraternali)
non furono da allora più in grado di dialogare e di competere con l'Occidente. Tra XII e XVI
secolo, esse avevano funto da tramite temporale e spaziale: avevano passato all'Europa la
cultura ellenistica antica da essa dimenticata o sconosciuta, avevano svolto una funzione di
tramite delle ricche merci estremo-asiatiche verso il Mediterraneo sia per terra (la "Via della
Seta"), sia per mare (le rotte monsoniche dell'Oceano Indiano). Ma ora, gli europei padroni degli
strumenti e delle rotte che circumnavigavano il mondo potevano aggirare i tra grandi imperi
musulmani esistenti nel continente eurasiatico moderno, cioè il turco ottomano, il persiano
safawide, il turco-mondolo-indiano moghul. Ed essi, aggirati, cominciarono prima a decadere
progressivamente sul piano economico e commerciale, poi a chiudersi su se stessi e a
sclerotizzarsi su quello spirituale e culturale (gli arabi erano già entrati in crisi almeno a partire
dal primo Trecento).
Quella che agli occidentali è sembrata la "seconda ondata" dell'immaginario "assalto islamico
all'Europa", dopo la fase espansionistica dei secoli VII-X, cioè l'insieme delle guerre combattute
dai turchi ottomani nel Mediterraneo e nella penisola balcanica, è stata in realtà una sorta di
partita di giro con le differenti potenze europee, in cui le alleanze cristiano-musulmane si
allacciavano e si scioglievano di continuo. E' noto che la corona francese tra Cinque e
Settecento fu costantemente un' alleata occulta - ma non troppo - della Sublime Porta: e che il
lavoro dei pubblicisti e degli eruditi francesi di quel tempo, che inventarono l'epopea delle
Cardini - Europa, “Occidente”, Islam: profilo storico e prospettive – arab.it
4
crociate come gloria europea ma soprattutto francese costruendo così la trappola nella quale
sarebbero caduti i nipotini dell'editore Bignami, nacque proprio per fornire al Re Cristianissimo,
costante alleato del Turco, un alibi come scudo e spada della Cristianità.
E' non meno noto che i principi protestanti, l'Inghilterra e a turno Venezia e l'imperatore romanogermanico si allearono con gli ottomani contro i loro fratelli in Cristo.
E' risaputo che dietro il massacro turco degli otrantini, nel 1480. Non c'era la volontà del sultano,
bensì la diplomazia di Venezia (e forse quella di Firenze) tesa a creare guai al re aragonese di
Napoli e a contendergli la supremazia sullo sbocco dell'Adriatico. E' notissimo che il Sacro
Romano Imperatore non concedette né un soldo né un soldato per la "splendida vittoria
cristiana" di Lepanto del 1571 (della quale certi fondamentalisti cattolici vanno tanto fieri), e che
il solo a rallegrarsi sul serio di essa fu lo shah di Persia, musulmano sì, ma sciita e nemico
giurato del sultano sunnita di Istanbul. E' cosa detta e ridetta che i francesi e i protestanti (e, nel
primo caso, perfino il papa, allora in guerra con Carlo V) furono lietissimi dei due assedi di
Vienna, quello del 1529 e quello del 1683. E' arcinoto e facilmente verificabile che tra musulmani
e cristiani ci sono state molte meno guerre, e molto meno gravi, che non fra tedeschi e francesi
o tra spagnoli e inglesi. Lo sanno o dovrebbero saperlo tutti i mediocri conoscitori di storia che le
vere guerre di religione combattute nella nostra storia sono state quelle fra cattolici e protestanti
dalla Germania del primo Cinquecento alla Francia della seconda parte di quel medesimo
secolo all'Inghilterra, alla Scozia, all'Irlanda e a tutta l'Europa della prima metà del Seicento. Lì sì
che c'erano odio e fanatismo.
Quinta fase
Fino al Settecento, il mondo islamico rimase sostanzialmente - a parte la sua periferia sudorientale, tra Giava, Sumatra e Borneo, e alcune zone dell'India - non toccato dagli interessi e
dagli appetiti colonialistici degli occidentali. La Spagna cercò ripetutamente d'impadronirsi di
alcune zone dell'Africa settentrionale arabizzata e islamizzata, i portoghesi e più tardi gli inglesi
mangiucchiarono qualche frangia dell'islam estremo-asiatico: e fu tutto. Ma col Sette-Ottocento
le cose cambiarono. Francesi e inglesi si misurarono in India durante la "Guerra dei Sette Anni";
nel 1798 il generale Bonaparte sbarcò in Egitto, cercò di sollevare i musulmani di quel paese
contro il loro sovrano turco nel nome del trinomio rivoluzionario Liberté-Egalité-Fraternité ch'egli
presentò magistralmente come l'essenza dello stesso Islam. E i musulmani ci credettero.
Così francesi e inglesi si apprestarono a conquistare Africa settentrionale - e non solo - e Vicino
Oriente asiatico, spartendosi l'immensa regione tra Caucaso e Golfo di Aden; intanto inglesi e
russi, tra Mar Caspio e Himalaya, si misurarono nel Great Game tanto ben descritto da Rudyard
Kipling per spartirsi l'area centro-meridionale dello sterminato continente asiatico; e lo czar, ora
in accordo ora in lotta con l'impero austriaco, cercò di appropriarsi di quelle parti dell'impero
turco che gli avrebbero altrimenti impedito di affacciarsi sul Mar Nero e sull'Adriatico.
Mentre gli europei suscitavano e appoggiavano in funzione antiturca i nazionalismi serbo, greco
e armeno, s'immettevano cultura e modo di vivere occidentali fra le borghesie sirolibanesi ed
egiziane esportando fra loro anche un'idea nuova per il mondo musulmano, quella di patria, e
inducendole a credere che grazie all'appoggio dell'Occidente il mondo arabo sarebbe pervenuto
alla nahda ("rinnovamento", "rinascita"), liberandosi progressivamente dallo sclerotico e
oppressivo giogo turco e godendo dei frutti del progresso europeo. E i musulmani in genere, gli
arabo-musulmani, ci caddero in pieno. I figli degli sceicchi e dei ricchi mercanti accorsero a
studiare a Oxford, a Cambridge, a Parigi (dove purtroppo credettero alla triste fiaba romantica
delle crociate come guerre coloniali avant la lettre: e diffusero quell'idea nel mondo musulmano,
gettando le basi per l'inizio del risentimento "secolare").
Da istanbul a Damasco ad Alessandria si diffusero le logge massoniche musulmane, all'interno
delle quali si approfondiva il tema del rapporto tra razionalismo e umanitarismo occidentale da
una parte, etica islamica dall'altra.
Nella prima guerra mondiale, il mondo arabo partecipò alla "rivolta nel deserto" raccontata da
Thomas E. Lawrence contro i turchi: in cambio, francesi e inglesi avevano promesso al
Guardiano dei Luoghi Sacri della Mecca, lo sharif ("nobile", "discendente del profeta") Hussein
Cardini - Europa, “Occidente”, Islam: profilo storico e prospettive – arab.it
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l'unità e l'indipendenza di una "grande Arabia" dall'Oronte al Nilo al all'Eufrate al Golfo di Aden
da sottoporre al suo scettro. Nulla di ciò avvenne. Inglesi e francesi, al contrario, frazionarono
dopo la guerra il mondo arabo in piccoli stati cui imposero una veste vagamente
occidentalizzante, affidarono l'Arabia intera alla tribù fondamentalista dei wahabiti guidati dalla
dinastia dei Beni Saud (i "sauditi") e favorirono l'insediamento dei coloni sionisti in Palestina,
curando intanto di far imn modo di gestire direttamente o indirettamente la nuova fondamentale
ricchezza dell'Oriente della quale l'Occidente era ghiotto: il petrolio. Tra 1918 e 1967, tra
Versailles e la Guerra dei sei Giorni, arabi e musulmani passarono, nei confronti dell'Occidente,
da una delusione e da una frustrazione all'altra.
Sesta fase
Dopo l'ondata della conquista dei secoli VII-X e quella della intermittente guerra turco-ottomana
contro l'Europa, ecco quella che qualcuno chiama la "terza ondata" dell' immaginario assalto
musulmano all'Europa. Quello degli extracomunitari e dei clandestini. Quello ancora privo di armi
nel senso vero del termine, ma tuttavia "armato" di aggressività culturale e di vitalità
demografica e sostenuto dalla propaganda fondamentalista che mina con l'immigrazione
dall'interno quel "Satana occidentale" che vuol colpire con il terrorismo all'esterno.
E' un'interpretazione folle: che tuttavia è condivisa tanto da alcuni estremisti islamici ("islamisti",
appunto, come si dovrebbero più propriamente chiamare: e nelle ragioni dei quali la religione ha
ben poco posto) quanto da alcuni fanatici occidentalisti che hanno bisogno d'identificare
nell'Islam il nuovo "nemico metafisico".
Diagnosi e possibili terapie
E' fondamentale gestire la sesta fase dei rapporti tra Occidente e Islam, nella quale attualmente
ci troviamo, con saggezza e moderazione. Tagliando l'erba sotto i piedi alla velenosa campagna
demagogica dei fondamentalisti islamici: vale a dire distinguendo nettamente gli ambienti, i filoni
e i fini dei differenti ambienti musulmani; stringendo sempre più i rapporti con la stragrande
maggioranza islamica che desidera articolare un rapporto di convivenza tra modernità e Islam;
collaborando a risolvere alcuni problemi cruciali - come quello israeliano-palestinese o quello
dell'inutile e vergognoso embargo all'Iraq che non intacca il potere di Saddam Hussein e causa
sofferenze indicibili al suo popolo - che, irrisolti, procurano al fondamentalismo e forse allo
stesso terrorismo simpatìe e connivenze mentre, se fossero risolti, contribuirebbero
straordinariamente a rasserenare gli animi. Bisogna colpire il terrorismo non solo nei suoi
"santuari" politico-militari, ma anche nelle sue prospettive propagandistiche, combattendo le
"sacche di disperazione" che nel mondo musulmano alimentano la folle speranza che quella
infame forma di lotta possa condurre a una qualunque redenzione politica e sociale.
E' necessario rivedere la politica censoria e sanzionistica contro i cosiddetti "stati-canaglia", una
definizione diplomaticamente imprudente e politicamente oltraggiosa, e favorire un loro
riavvicinamento al mondo occidentale. E' importante alleviare in ogni modo l'ingiustizia e la
sperequazione nel mondo, perché i popoli poveri questo aspettavano dall'Occidente e questo gli
rimproverano di non aver fatto: Perché senza giustizia non può esserci - come ha ricordato
giovanni paolo II - vera pace. E' fondamentale, nel caso sia assolutamente inevitabile ricorrere
alla forza militare contro i terroristi, accertare e dimostrare prima le loro responsabilità e non
coinvolgere in rappresaglie di sorta nessun innocente: il contrario, fornirebbe ai terroristi quello
che cercano, nuovi martiri seme di nuovi adepti.
E' inoltre indispensabile che i nostri mass media abbandonino una volta per tutte quell'infame
oltre che pericolosa pratica che consiste nel dar ragione ai terroristi dipingendo continuamente
l'Islam come non è ma come essi vorrebbero ridurlo ad essere: una fede guerriera e
sanguinaria, che ha come scopo l'assoggettamento del mondo e la lotta alla libertà di religione e
di coscienza. A tale riguardo, non mancano purtroppo i politici e i pubblicisti semicolti che
prestano orecchio ai seminatori nostrani di menzogne o di mezze verità.
Dev'esser chiaro che non corrisponde al vero, e che non giova a nessuno, distribuire spezzoni di
teologia o di diritto musulmani e sparare raffica di citazioni coraniche avulse dal loro contesto e
Cardini - Europa, “Occidente”, Islam: profilo storico e prospettive – arab.it
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prive di qualunque sistemazione critica per dimostrare che la fede coranica è violenta e
sanguinaria. A colpi di estrapolazioni, di citazioni manipolate, di confusione fra teorie teologiche
e avvenimenti storici a loro volta decontestualizzati, si potrebbero provare anche la natura
violenta e sanguinaria della Bibbia, perfino del Vangelo ("non sono venuto a portare la pace, ma
la spada", Matteo, 10,34); si potrebbe sostenere il carattere feroce e liberticida anche
dell'ebraismo e del cristianesimo, perfino di certi ambienti buddhisti, per non parlare dalle varie
ideologie occidentali rezionaliste e laiciste, a cominciare dall'illuminismo (e stendiamo un velo
sui pensatori dei liberi Stati Uniti, dal "padre" Cotton Mathers fino a Jefferson e a Monroe).
Se faremo tutto questo, riusciremo a spezzare la spirale di violenza che ci sta avvolgendo, e
della quale siamo certo in parte vittime - ma non siamo i soli ad esserlo - in parte tuttavia anche
coprotagonisti. Se cercheremo di alimentare nuove crociate, sia pure per replicare agli
sconsiderati jihad scatenati contro di noi da minoranze irresponsabili che pretendono di agire nel
nome di tutto l'Islam, forse vinceremo molte battaglie. Ma la guerra sarà dura, lunga, dolorosa: e
finiremo - non illudiamoci - col perderla tutti.
************
* Il Prof. Franco Cardini, docente di Storia medievale presso le Università di Firenze e San Marino, è il
presidente di IDENTITA’ EUROPEA (www.identitaeuropea.org), un’Associazione Culturale Internazionale
che si propone di favorire la conoscenza delle radici storiche, culturali e spirituali dell’Europa.
Fonte: www.arab.it/vari/profilostorico_cardini.htm
Cardini - Europa, “Occidente”, Islam: profilo storico e prospettive – arab.it
7
Musulmani, jihad e nonviolenza
Adel Jabbar*
Nella costruzione del musulmano come minaccia si sostiene che l’Islam è
intrinsecamente violento e prova ne sarebbe il jihad, tradotto automaticamente come
“guerra santa contro gli infedeli”, in primo luogo contro l’Occidente. Eppure jihad
letteralmente può essere tradotto con “sforzarsi”, “applicarsi”. Nella tradizione islamica
jihad fi sabil Allah significa “impegnarsi sulla via di Dio” e non contiene alcuna
implicazione di natura violenta o aggressiva.
(…) da un punto di vista etimologico la parola araba [jihad] non ha alcuna accezione che possa
in un qualche modo avvicinarla ai concetti occidentali. Jihad, infatti, è etimologicamente parola
derivata dalla radice Jhd, che indica 'sforzarsi', 'applicarsi con zelo' e implica una lotta, un
impegno, sia contro un nemico visibile, sia contro il demonio, sia anche contro se stessi1.
Lo sforzo, il jihad, maggiormente gravoso, è quello richiesto dal vivere in armonia
seguendo gli insegnamenti religiosi. Secondo i seguenti hadith, detti del Profeta:
Il jihad più meritevole è un pellegrinaggio compiuto piamente2,
Il più eccellente jihad mira alla conquista di se stessi3.
Uno sforzo minore richiede la difesa, eventualmente, della comunità da aggressioni
esterne. Il che significa anche che l'impegno più faticoso è quello individuale, è quello
riguardante se stessi, mentre lo sforzo minore è quello dato dall'azione collettiva.
La concezione originaria del jihad si riassume dunque nell'impegno con cui i
musulmani mettono in pratica l'insegnamento di Dio. Quello che la traduzione del
termine jihad presente nel Corano spesso rende come "combattimento", va invece
concepito come "sforzo". Ne è un esempio il seguente versetto
Ma tu non ubbidire a quelli che rifiutano la fede, ma combattili con la Parola in guerra grande4.
1
2
3
4
Giorgio Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, Torino, 1996, p. 27.
Gabriele Mandel (a cura di), Maometto, Rusconi, Milano, 1996, p. 78
Ziauddin Sardar, Zafar Abbas Malik ( a cura di), Maometto, Feltrinelli, Milano, 1995 p. 40.
Corano, Sura della salvazione (al-Furqan), XXV - 52
1
Di fatto l'utilizzo della Parola come strumento di combattimento denota un uso
metaforico anche del termine guerra. D'altra parte in alcuni casi il termine è stato
tradotto nella sua corretta accezione, come nel versetto seguente, dove la coniugazione
duale della terza persona del termine Jihad (Jiahadaka), viene resa da Bausani con il
verbo “industrieranno”.
Ma se tuo padre e tua madre si industrieranno a che tu associ a Me quel che non conosci, tu non
ubbidire loro, fa loro dolce compagnia in questo mondo terreno, ma tu segui la Via di chi si è
volto a Me (…).5
In un altro passaggio del Corano che si riferisce ancora ai rapporti con i genitori, lo
stesso termine viene tradotto da Bausani con “insisteranno”6. Quindi un'interpretazione
del jihad come guerra santa può essere considerata errata oltre che fuorviante.
Chiamarlo guerra santa induce chi è estraneo ai termini del problema a considerare un tal
richiamo come ennesima espressione di fanatismo nei confronti di chi musulmano non è, tanto
da tentare di equiparare le motivazioni di fondo al solito spirito di crociata, ben noto
all'Occidente.7
Ciò non significa che nel Corano non vi sia alcun riferimento al combattimento, ma
questo concetto è espresso non come jihad, appunto, bensì come al-qital, o harb
(guerra), e soprattutto in termini difensivi. In effetti, se l'obiettivo ultimo dell'Islam è la
giustizia e la pace, tuttavia sono considerate nel Corano le condizioni che possono
creare conflitto.
Combattete [qatulu] sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti, ché
Dio non ama gli eccessivi8.
5
6
7
8
Corano, Sura di Luqman XXXI - 15.
Corano, Sura del ragno, (al-'Ankabut)XXIX - 8
Biancamaria Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell'Islam, Sansoni, Firenze,
1974, p. 27
Corano, Sura della vacca (al-Baqara), II - 190
2
Dopo aver chiarito l'origine etimologica del termine jihad, cerchiamo di calarne il
significato nelle fasi storiche, e nello specifico di comprendere come nell'Islam è stato
gestito il conflitto nel rapporto con l'altro.
Si è visto che, durante il primo periodo, il Corano invita i musulmani ad essere pazienti,
a vivere quella che oggi viene definita una resistenza passiva di fronte alla durezza degli
eventi che caratterizzano gli anni della missione del profeta nella città di La Mecca
(610-622).
Successivamente, nel periodo della Medina (622-632), il tono dei versetti sicuramente
muta: dall'invito alla pazienza si passa a consentire la difesa della Umma al-Islamiyya
(comunità islamica) - ora non più solo religiosa ma anche politica e continuamente
aggredita dall'esercito della Mecca - e quindi al combattimento in termini difensivi
(come nella sopracitata Sura II - 190).
Jihad viene ad essere utilizzato dai musulmani stessi come elemento simbolico di
impegno e di lotta. E l'appello ad un principio di origine religiosa non rappresenta
d'altro canto un aspetto insolito nell'etica dell'impegno sociale e individuale. Questo non
implica un’inclinazione violenta o aggressiva nei confronti degli altri.
E’ proibito a musulmani di entrare in guerra
per acquisire ricchezze, territori o potere.
Impossibile anche far guerra a fini di proselitismo; il testo coranico è chiaro: Non c’è costrizione
nella religione.9
Vale la pena sottolineare, per inciso, che in tutte le epoche, in ogni caso, il
riconoscimento di Dar al-Islam, basato su riferimenti islamici, non ha implicato
l'esclusione della gente non musulmana che vive dentro la comunità, né di quella
proveniente da Dar al-Harb10 (territori non islamici). Questo perché nella società
islamica sempre si è mantenuta quella connotazione di pluralità che ha preceduto e
accompagnato il suo affermarsi.
9
10
Jacques Neirynck e Tariq Ramadan, Possiamo vivere con l’islam?, Ed. Al Hikma, Imperia,
2000, p. 113.
Sul concetto di Dar al-Harb (letteralmente Casa della guerra, dove il musulmano non era
garantito poiché non godeva della tutela di Dar al-Islam. Si veda Giorgio Vercellin,
Istituzioni del mondo musulmano, cit, p. 25-29.
3
Dunque, consapevole della continuità esistente fra i diversi messaggi dei profeti esistiti
prima del profeta Muhammad, la società islamica è portata ad inglobare dentro di sé e a
riconoscere la pluralità, secondo gli insegnamenti stessi del Corano.
Dì: Crediamo in Dio e in quel ch'è stato rivelato a noi e in quel ch'è stato rivelato ad Abramo e a
Ismaele e a Isacco e a Giacobbe e alle Tribù, e in ciò che fu dato a Mosè, e a Gesù e ai Profeti
dal loro Signore senza far distinzione alcuna fra loro, e a Lui noi tutti ci diamo11.
Tornando ora al percorso storico del jihad, nel periodo ottomano l'accezione del termine
nel senso di combattimento viene ulteriormente marcata. In tempi ancora più recenti, e
precisamente con l'impatto contro le potenze coloniali europee12, diversi pensatori
islamici hanno operato una rilettura del jihad alla luce di questi nuovi eventi. In base a
tale rilettura è emersa un'interpretazione in termini di resistenza all'ingerenza esterna.
Lo shock coloniale viene infatti a mettere in discussione i tre elementi fondanti della
concezione islamica di comunità: l'unità della Umma al-Islamiyya, la sacralità di Dar
al-Islam e l'alta dignità dell'etica islamica.
Fino ad allora la società islamica, seppure indebolita, aveva mantenuto rapporti di
scambio con i vicini tutto sommato paritari. Da questo momento in poi il declino
comincia ad essere marcato e soprattutto viene avvertito da tutti i musulmani.
E' solo nell'ottocento che si produce una drammatica inversione di rotta in questi rapporti:
l'Europa si rivela più forte nella scienza e nella tecnologia, nella potenza delle armi e nelle arti
diplomatiche, nel piegare gradualmente gran parte della società di tradizione musulmana al suo
dominio coloniale13.
11
12
13
Corano, Sura della famiglia di 'Imran, (Ahl 'Imran) III, 84.
Sulle origini del colonialismo europeo si veda Peter Partner, Il Dio degli eserciti. Islam e
Cristianesimo: le guerre sante, Einaudi, Torino, 1997, cap. VIII, pp. 178-203; Biancamaria
Scarcia Amoretti, Il mondo musulmano. Quindici secoli di storia, cit., pp. 171-204;
Dominique Chevallier, "Grande guerra, risveglio dei popoli" in Dominique Chevallier,
André Miquel (a cura di), Gli arabi. Dal messaggio alla storia, Salerno editrice, Roma
1998, cap. XIII, pp. 402-418; Reinhard Schulze. Il mondo islamico nel XX secolo. Politica
e società civile, Feltrinelli, Milano 1998.
Enzo Pace, Sociologia dell'Islam, Carocci, Roma, 1999, p. 164.
4
Il mondo musulmano che oggi ci troviamo di fronte rappresenta l'esito di questo
sconquasso, che influenza tutto lo sviluppo successivo di questa società, in termini
storici, sociali ma anche economici e politico-istituzionali.
Il jihad acquisisce dunque in questo momento un significato di resistenza all'invasore, in
un contesto in cui l'Europa coloniale viene vissuta come sopraffazione, anche se,
almeno inizialmente, con una certa curiosità.
Sconcerto per la rapidità dei cambiamenti, ammirazione per le impensabili novità tecniche e
scientifiche, senso di impotenza, curiosità, anelito all'imitazione: tutti questi sentimenti
convissero nell'anima degli intellettuali musulmani, posti di fronte a questa mutata situazione.
Ma presto subentrarono altri sentimenti, ridestati dalla stessa rapacità e arroganza degli invasori
(o amministratori) europei: il senso di umiliazione, lo spirito di rivalsa, l'odio verso le élite
musulmane “europeizzanti” e “collaborazioniste”.14
A questo riguardo, Tariq Ramadan ci parla di un rapporto di attrazione-repulsione tra
Occidente e Islam.
Per il Sud essere attratti dai miraggi tecnologici del Nord è quasi normale: c’è qualcosa che ha
la stessa forza della magia e del fascino. Contemporaneamente, la stessa attrazione fa nascere
una repulsione quasi epidermica e a volte violenta. Il sentimento generalmente condiviso è
quello di una vera e propria espropriazione di sé, un’alienazione nel senso forte del termine. Si
sente l’attrazione ma non si sopporta di essere anche costretti, “nonostante il cuore”, a negare la
propria identità con l’ondata che ci porta via.15
La questione del jihad e le sue diverse manifestazioni hanno via via acquisito sempre
più importanza ed urgenza nel mondo e all'interno della società islamica, soprattutto alla
luce dei suoi rapporti con l'occidente. Indicativa è la riflessione di Mohammad Khatami,
oggi presidente dell’Iran, su come il musulmano vive nel mondo di oggi e sul potenziale
ruolo dell'Islam.
14
15
Carlo Saccone, Allora Ismaele si allontanò nel deserto. I percorsi dell'Islam da Maometto
ai nostri giorni, edizioni Messaggero, Padova, 1999, p. 288.
Jacques Neirynck e Tariq Ramadan, Possiamo vivere con l’islam?, cit., p.127.
5
Per quanto riguarda “noi“, (…) intendo questo termine nel senso di “noi musulmani”; (…) noi
musulmani nel passato abbiamo creato una civiltà, abbiamo svolto un ruolo nella storia
dell'umanità, mentre oggi la nostra situazione è differente, non ricopriamo più quel ruolo;
eppure desideriamo ritrovarci nel tessuto profondo della storia, e se possibile costruirci un
futuro che sia diverso dal nostro presente e persino dal nostro passato, senza voler togliere
spazio a chi non fa parte di noi, e senza trascurare le conquiste della scienza, degli studi e del
pensiero speculativo e pratico dell'umanità. Quale è, invece, il significato che attribuisco all'altro
termine, “il mondo di oggi”? In breve, per “mondo di oggi” intendo la “civiltà occidentale”.
Ovvero, tutto quanto in questa fase domina e gestisce il mondo e l'umanità, esercita una
influenza potente sulla nostra vita economica, politica, culturale e sociale, e senza di cui - senza
la sua impronta, senza le sue conquiste - la vita sarebbe impossibile anche per chi non è
occidentale. (…). Il mondo di oggi, o è esso stesso occidente (un occidente di concezioni, di
valori, di pensieri e teorie, non per forza l'occidente geografico), e dunque la sua vita è
occidentale in tutte le sue dimensioni; oppure pur non essendo collocato all'interno
dell'occidente geografico o nell'ambito della civiltà occidentale, ne subisce intensamente
l'influenza, e non ha alcuna possibilità di vivere senza di esso. Tale è il nostro mondo attuale.16
Un mondo dunque che viene inglobato dall'Occidente, e da questo Occidente tuttavia è
lasciato ai margini, alla periferia, sia in senso geografico sia in senso economico,
politico, sociale, e perennemente svalutato del suo valore, oggi come ieri, come
all'inizio di quel processo di colonialismo che ha prodotto la realtà odierna, molto ben
descritto da Bichara Khader.
La spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto e in Palestina segna una svolta cruciale nei
rapporti fra Oriente e Occidente: si apre la corsa coloniale. Fino ad allora al centro di curiosità,
l'Oriente diventa una posta geopolitica, mira di tutti gli appetiti, zona di passaggio per potenze
avide di affermazione. E' un oggetto di conquista. L'Occidente non osserva più, brama e non si
afferma nel ripiego difensivo, ma nell'esplosione offensiva.
Fino al XIX secolo, l'Europa ha preso coscienza di sé opponendosi all'Islam arabo (…). Ora
cerca di espandersi dominandolo ed invadendo la sua terra, sfruttandone le risorse, riducendone
la cultura a mero folclore. In breve, lo colonizza. I viaggiatori non sono più avventurieri in cerca
di esotismo e di sapere, ma partono per sondare. (…).
16
Mohammad Khatami, Religione, libertà e democrazia, Editori Laterza, Bari, 1999, pp. 4243.
6
Quanto è stato detto e scritto di denigratorio sugli arabi, sui musulmani, o sugli orientali, nei
secoli precedenti, viene rispolverato ed utilizzato. Se questi, fino ad allora, potevano essere
odiati, di rado erano disprezzati, poiché, in qualità di avversari ideologici erano riconosciuti per
il loro sapere scientifico (XIV secolo) e per alcuni pregi sul piano umano. Con il colonialismo,
per provare la superiorità dell'Occidente, si deve denigrare l'Oriente ambito, avvilirne la
religione, disprezzarne la gente. L'apologia incondizionata di sé, va di pari passo con la
demonizzazione dell'Altro.
(…)
Nel XIX secolo, il colonialismo condiziona ogni concezione in Europa. L'etnocentrismo
giustifica il predominio; tale è il senso di superiorità che quanto non è occidentale viene privato
di valore, destituito della propria dignità storica, ridotto ad un livello periferico e folcloristico17.
La visione etnocentrica, continua Khader, è stata sostenuta da molti pensatori europei,
fra cui Lamartine, che hanno portato avanti la concezione dei popoli colonizzati come
fardello dell'uomo bianco di Kipling. Una concezione che del resto permane tutt'oggi in
molti settori del pensiero europeo.
A fronte della consapevolezza che vede nelle condizioni economiche, materiali e
culturali dettate dall'Occidente una realtà con la quale oggi è necessario confrontarsi,
accogliendo quanto di positivo esiste, vi è tuttavia nell'Islam la coscienza dei limiti
intrinseci a questa egemonia, alla sua idea di libertà "rigida e unidimensionale" che
"continua ad esigere un prezzo pesante dall'umanità"18. Soprattutto vi è la coscienza di
un ruolo culturale che proprio l'Islam, con la sua diversa visione del mondo, con la sua
diversa concezione etica - può dialetticamente proporre. Non con la forza, con la
violenza, ma attraverso la conoscenza, la critica e il rigore intellettuale.
Per comprendere l'Occidente, lo strumento migliore è la razionalità, non l'emotività eccitata che
agita le bandiere. Non solo qui, ma ovunque, la forza non è in grado di fornire una risposta
efficace a un modo di pensare che consideriamo deteriorato (…)19.
Se dobbiamo fare nostri i tratti positivi della civiltà occidentale, e nel medesimo tempo rigettare
le sue mancanze (…) dobbiamo capire l'Occidente in modo corretto ed omnicomprensivo; (…)
17
18
Bichara Khader, L'Europa e il mondo arabo. Le ragioni del dialogo l'Harmattan Italia,
Torino, 1996, pp.12-13,
Mohammad Khatami, Religione, libertà e democrazia, cit. pp. 127
7
A questo punto avranno efficacia la riflessione approfondita, la razionalità e l'obiettività, non la
brutalità verbale e la violenza20.
Anche nell'Islam - come nell'ambito di altre religioni, pensieri, correnti - sono comparse
delle figure che hanno svolto un ruolo importante nell'ambito della testimonianza sulla
non violenza come, ad esempio, Abdul Ghaffar Khan, chiamato Badshah Khan21, il
quale, entrato in contatto con Gandhi e con altri pensatori musulmani indiani, ne assorbì
l'influenza, si impegnò per i diritti dei poveri, investendo molte energie nell'ambito
dell'educazione, considerata una via importante anche per la conquista della libertà,
prestando attenzione anche all'emancipazione della donna. Egli fondò il primo esercito
nonviolento della storia, Khudai Khidmatgar (servi di Dio), il cui giuramento recitava:
Sono un Khudai Khidmatgar, e poiché Dio non ha bisogno di essere servito, ma servire la sua
creazione è servire lui, prometto di servire l'umanità nel nome di Dio.
Prometto di astenermi dalla violenza e dal cercar vendetta.
Prometto di perdonare coloro che mi opprimono o mi trattano con crudeltà.
Prometto di astenermi dal prendere parte a litigi e risse e dal crearmi nemici. (…).22
Il binomio Islam-violenza è dunque molto discutibile. Come abbiamo visto, si tratta di
“calare nella storia” la dottrina. Solo così si potrà carpire la complessità del mondo
islamico e abbandonare visioni dell’Islam monolitiche, statiche, dottrinali e
propagandistiche.
Adel Jabbar,
sociologo dei processi migratori e relazioni transculturali
([email protected]).
Ha insegnato sociologia delle culture e delle migrazioni all’Università Ca' Foscari di
Venezia e Comunicazione interculturale all’università di Torino. Libero docente
incaricato nell’ambito della sociologia della migrazione in diverse università italiane.
Collaboratore della rivista Fenomenologia e Società(To), Cem Mondialità(BS) e
19
20
21
22
Mohammad Khatami, Religione, libertà e democrazia, cit. p. 125.
Mohammad Khatami, Religione, libertà e democrazia, cit. p. 130.
A questo riguardo si veda Eknath Easwaran, Badshah Khan. Il Gandhi musulmano,
Edizioni Sonda, Torino, 1990.Nell'ambito della teorizzazione e della riflessione su Islam e
non violenza si veda anche Chaiwat Satha-Anand, Islam e non violenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino, 1997.
Eknath Easwaran, Badshah Khan. Il Gandhi musulmano, cit., p. 132.
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Islam, istruzioni per l’uso
“È in atto uno scontro all’interno dell’Islam, e le guerre fratricide sono le peggiori”
Intervista a Stefano Allievi di Lidia Baratta
9/01/2015
Oltre alle vittime della violenza nella redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato
kasher di Parigi, ce n’è un’altra, ed è proprio l’Islam. Dopo le uccisioni nel cuore di Parigi in
nome di Allah, la convivenza già esistente tra noi e i musulmani, 1,7 milioni in Italia, oltre
15 milioni in Occidente, rischia di sgretolarsi e trasformarsi in diffidenza. Mentre stavamo
imparando a conoscere cosa c’era dietro veli e moschee, le 16 uccisioni nel cuore di Parigi
sono un duro colpo al dialogo e all’integrazione di chi vive nelle nostre città, prega Allah,
ma non pensa di uccidere nessuno. «L’immagine simbolo dell’attacco a Charlie Hebdo è
quella di uno degli attentatori che spara al poliziotto già a terra», spiega Stefano Allievi,
sociologo autore de Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del Paese. «Quel
poliziotto a terra era un musulmano, certamente più praticante del terrorista, da quello che
sappiamo, e molto integrato, tant’è che vestiva la divisa di poliziotto. Da questa immagine
simbolo non viene fuori uno scontro tra Islam e Occidente, Islam ed Europa, ma uno
scontro tra due modi diversi di vedere la stessa cosa».
Partiamo dall’abc. Si può parlare di un solo Islam?
Non si può parlare di un unico Islam a livello mondiale. Così come non c’è un Islam europeo e
non c’è neanche un unico Islam nello stesso Paese. È come dire che esiste un unico
Cristianesimo. Esistono differenze culturali, linguistiche e dottrinali. I marocchini non sono turchi,
i turchi non sono pakistani. Basti pensare che esistono quattro diverse scuole giuridiche.
Cosa sta accadendo nel mondo musulmano?
L’immagine simbolo dell’attacco a Charlie Hebdo è diventata quella di uno degli attentatori
che spara al poliziotto già a terra. Non tutti sanno che anche il poliziotto a terra era anche
lui musulmano, certamente più praticante del terrorista da quello che sappiamo e molto
integrato, visto che era un poliziotto. Il quotidiano Libero ha usato questa immagine in
prima pagina titolando “Questo è l’Islam”, magari senza neanche sapere che si trattava di
un musulmano contro un musulmano. Da questa immagine si vede chiaramente che non
c’è uno scontro tra l’Islam e l’Occidente o l’Islam e l’Europa, c’è uno scontro all’interno
della comunità musulmana tra due modi diversi di vedere la stessa cosa. D’altronde le
guerre peggiori sono le guerre fratricide.
Chi paga il prezzo maggiore di questi atti violenti?
Il prezzo maggiore degli atti violenti dei musulmani lo pagano i musulmani che non
c’entrano niente. Il terrorismo di matrice islamica danneggia le comunità musulmane,
generando diffidenza e paura.
L’immagine simbolo dell’attacco a Charlie Hebdo è
quella del terrorista che spara contro il poliziotto,
anche lui musulmano. C’è uno scontro tra due modi
diversi di vedere la stessa cosa
Ma l’Islam è una religione moderata o no?
L’espressione “Islam moderato” non ha senso. Andrebbe cancellata dal vocabolario. È
come se dicessimo “Cristianesimo moderato”: è un’espressione senza senso. L’aggettivo
moderato applicato a una religione non ha senso. Una religione ha dentro tutto e il
contrario di tutto. Islam moderato è un’espressione ambigua, anche perché si chiamano
Paesi arabi moderati solo gli alleati dell’Occidente, come l’Arabia Saudita ad esempio, che
moderata non è. Tunisia, Turchia e Indonesia che invece potrebbero essere definiti
moderati, invece non vengono definiti tali.
Con l’espressione Islam moderato si intende nel senso comune una religione non
fondamentalista, non violenta.
Se si intende con moderato un’Islam non violento, allora sì, esiste ed è la maggioranza.
Nell’Islam esistono varie tendenze. La maggioranza è di tipo quietista, di coloro che sono
musulmani senza voglia di qualificarsi come tali, senza scriverselo sulla maglietta insomma.
È la parte più secolarizzata dell’Islam e che si impegna di più nel dialogo e nell’integrazione.
Poi c’è una parte più islamizzata, che non vuol dire più radicale, più impegnata socialmente
o anche politicamente. E infine c’è una frangia radicale che sostiene il califfato e la violenza.
Tutte queste tendenze convivono insieme. È come dire che tutti abbiamo letto Marx, ma
Renato Curcio sparava, io no. D’altronde tra i musulmani quelli che vanno in moschea sono
una minoranza, a differenza dal Ramadan, seguito invece dall’80 per cento. Un po’ come i
cattolici: a messa ci va il 20%, ma il 90% viene battezzato. Se per moderato si intende uno
che è musulmano ma beve birra, non è necessariamente così. Spesso i più praticanti sono
anche i più integrati e anche più “moderati”.
Quali sono le principali caratteristiche dell’Islam italiano?
L’Islam italiano è frammentato tra linee etniche e linguistiche diverse. In Italia un terzo dei
musulmani sono marocchini. Il resto è molto frammentato tra egiziani, tunisini,
mediorientali, senegalesi, albanesi. E c’è un tessuto di moschee molto forte: ci sono circa
700 luoghi di culto, spesso molto piccoli e instabili, tra garage, capannoni, retrobottega,
ma le moschee vere e proprie, invece, sono quattro o cinque. All’inizio una moschea viene
creata da un gruppo omogeneo, della stessa etnia. La lingua che predicano è la loro
lingua, come è normale. Non puoi obbligarli, come si dice, a predicare in un’altra lingua.
Allora dovresti farlo anche con i pentecostali nigeriani o con i cattolici filippini. Poi con il
tempo nelle moschee entrano anche altre etnie, e allora magari arrivano anche i sermoni
in italiano, per farsi capire anche dagli altri musulmani o semplicemente dalle seconde e
terze generazioni per le quali la lingua dominante non è più quella del Paese d’origine.
Perché c’è ancora questa forte diffidenza verso le moschee?
Le moschee sono tra i posti più controllati da tutti i servizi segreti italiani, europei e non
solo. Lo sanno benissimo gli imam. C’è un interesse reciproco al controllo. L’imam è il
primo ad avere interesse a non avere teste calde nella sua moschea, salvo casi
eccezionali accaduti in passato e subito identificati. Così come una testa calda se vuole
partire per arruolarsi nell’Isis non passa prima dalla moschea, che è un posto molto
controllato. Le moschee sono come le parrocchie cattoliche. Sono strumenti di controllo
sociale. Sono gli individui singoli isolati, con pochi legami sociali, a essere pericolosi. È
sociologicamente idiota considerare le moschee un nemico quando sono il nostro migliore
alleato. Nel mondo ci sono 1 miliardo e 600mila musulmani non radicali: noi dobbiamo
stare dalla loro stessa parte, riconoscere loro gli stessi diritti. Se dici che sono tutti uguali
fai il gioco dei radicali. Alla fine si stufano di essere trattati sempre come terroristi e lo
diventano davvero. L’integrazione è sinonimo di sicurezza, la demonizzazione reciproca
no. Le moschee sono mezzi di integrazione, questo non possiamo negarlo.
Il prezzo maggiore degli atti violenti dei musulmani
lo pagano i musulmani che non c’entrano niente
A che punto è l’Italia nell’integrazione dei musulmani?
La religione con l’integrazione c’entra assai poco. Non c’è nessun indicatore al mondo che
dice che i musulmani sono meno integrati degli altri. La religione non è esplicativa per
stabilire il grado di integrazione, lo è invece l’origine etnica. Alcuni, ad esempio, sono
meno propensi ai matrimoni misti rispetto ad altri. Altri ancora vivono in alcune periferie più
isolate. Ma parliamo di etnie, la religione è un’altra cosa. Prendiamo la comunità cinese,
una delle comunità più chiuse che però non è musulmana. Molti indicatori poi sono
temporanei, dipende dal fattore tempo. È chiaro che 30 bengalesi arrivati un mese fa non
sono integrati non perché siano musulmani ma perché sono arrivati 30 giorni fa.
C’è un dialogo tra le comunità islamiche e gli enti locali?
La normalità in Italia è il dialogo continuo tra le comunità islamiche, gli enti locali, le
parrocchie, le associazioni di volontariato. Difficile è invece il dialogo con quei sindaci che
nemmeno ti vogliono ricevere.
Perché tanta diffidenza?
La difficoltà non è solo italiana, ma è condivisa a livello europeo. È comprensibile. L’Islam
è diventata la seconda religione d’Europa, è un cambiamento gigantesco che nessuno
però ci ha spiegato. Avere un’opinione negativa non è necessariamente razzista. Ci sono
problemi veri, come quando l’80% dei bambini in una scuola è straniero, e problemi finti.
Se ti cambia il quartiere intorno è normale che tu abbia un pregiudizio. I pregiudizi ci
aiutano a vivere meglio, a classificare le persone, perché abbiamo bisogno subito di
risposte. Dopo la conoscenza di una realtà, però arriva il giudizio. Il musulmano diventa
tuo compagno di classe o collega di lavoro e allora puoi confermare o non confermare il
pregiudizio, litigarci o invitarlo a cena. Bisogna spiegare meglio l’Islam: devono farlo le
élites, gli intellettuali, gli insegnanti nelle scuole. Negli ospedali si stanno ad esempio
seguendo dei corsi per avere a che fare con utenze di altri Paesi. Gli impiegati della
pubblica amministrazione lo stesso. Devono farlo anche i politici!
L’integrazione è sinonimo di sicurezza, la
demonizzazione reciproca no. Le moschee sono
mezzi di integrazione, come le parrocchie cattoliche
Ma esiste un problema tra libertà d’espressione e Islam?
Prima di Charlie Hebdo, ci sono stati i casi di Salman Rushdie e Theo van Gogh. Esiste un
problema reale che si risolverà con il tempo. Uno si può anche offendere perché prendono
in giro Maometto, ma se la tiene. Charlie Hebdo probabilmente non era la lettura di
riferimento di molti, a molti quelle vignette davano fastidio, ma non siamo mica andati ad
ammazzarli. Quella di Charlie Hebdo era un’ironia greve che può anche non piacere. Ma
le opinioni vanno bene, gli atti violenti no. Un esempio: c’erano alcuni lavoratori musulmani
in Veneto che si sono licenziati perché non ne potevano più dei loro colleghi che
bestemmiavano in continuazione, ma non li avrebbero mai ammazzati, si sono licenziati e
basta. Questa è civiltà.
Qual è stata la reazione dei musulmani davanti agli attentati di Parigi?
Questa volta c’è stata una presa di coscienza forte dei musulmani. La denuncia di quello
che accadeva in Siria, ad esempio, è avvenuta troppo tardi. Questa volta anche se quelli
di Charlie Hebdo stavano sulle scatole a tanti, molti musulmani sono andati in piazza,
hanno condannato l’attentato e hanno manifestato ancora prima degli italiani. Questa volta
nel mondo musulmano c’è una presa di coscienza maggiore dell’11 settembre. Sarà un
processo lungo, ma come tutti i conflitti familiari sul momento stai male ma poi ti aiutano e
creano maggiore equilibrio.
Teologo Mokrani: demonizzare l'islam aiuta i
terroristi
14/01/2015
“Condannare la violenza è un dovere morale; tanto più condannare la violenza che si
compie in nome dell’islam e dunque da persone che pretendono di essere più
musulmane delle altre. E, dunque, per difendere i principi islamici, per non creare
confusione tra terrorismo e islam, il dovere della leadership religiosa, dei saggi
musulmani, è quello di denunciare e spiegare il vero messaggio dell’islam”. Lo afferma
Adnane Mokrani, teologo musulmano, docente alla Pontificia Università
Gregoriana e al Pontificio Istituto di studi arabi e islamistica (Pisai),
commentando l'invito rivolto da Papa Francesco ai leader religiosi, politici ed
intellettuali musulmani a condannare qualsiasi interpretazione fondamentalista ed
estremista della religione, volta a giustificare atti di violenza.
La denuncia non basta
“Ma la condanna non basta - aggiunge Mokrani - perché la denuncia può essere
occasionale: abbiamo bisogno di un programma di educazione, un lavoro continuo per
raggiungere i giovani, le fasce sociali più lontane maggiormente a rischio di essere
contaminate da questo virus del fondamentalismo. Così possiamo prevenire e
intervenire presto, prima che si cada nel peggio”.
Il fondamentalismo è blasfemo
“Il fondamentalismo religioso rifiuta Dio stesso - ha affermato nella stessa occasione il
Papa - lo relega a un mero pretesto ideologico”. “Sicuramente - commenta Mokrani perché l’esclusivismo radicale dell’estremismo religioso non solo rifiuta l’altro umano,
l’altro religioso, ma si presenta come un giudice che giudica al posto di Dio e solo Dio
sa cosa c’è nei cuori degli uomini e solo Dio può giudicare la nostra fede e le
nostre intenzioni”. “Dichiararsi giudice delle anime - aggiunge Mokrani - è una
blasfemia, è un atto antireligioso e antislamico”.
Non cadiamo nella trappola
Come presidente del Cipax, Centro interconfessionale per la pace, Adnane Mokrani
sostiene che demonizzare i musulmani e la loro religione aiuti i terroristi. “L’obiettivo
dei terroristi è di creare una spaccatura, una polarizzazione tra i due campi
opposti”, spiega ai nostri microfoni. “Noi non dobbiamo cadere in questa trappola
perché i musulmani in Europa sono cittadini, fanno parte di questa società come
immigrati e anche come cittadini. Sono esseri umani, hanno i loro diritti e dunque
dobbiamo uscire dall’emozione, dalla reazione emozionale e ragionare per non fare
quello che i terroristi vogliono: dividere e seminare odio”. “Così - conclude il teologo rischiamo di perdere l’anima e se perdiamo i nostri valori universali, basati
sull’uguaglianza, sulla dignità umana, sulla libertà, reagendo male alla provocazione
terroristica, significa che rischiamo di perdere la guerra contro il terrore”.
(Fabio Colagrande)