Canone Occ. PROSA pp 1-559

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Canone Occ. PROSA pp 1-559
Il metodo
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Il metodo
1. Gli elementi della narrazione
1. Che cos’è una narrazione
1) “Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che
avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una
festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione”.
(John Ronald Reuel Tolkien Il Signore degli Anelli)
2) “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino a Ognuna, e ad Aci Castello,
tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sem1 Generale in
brava dal nomignolo, come dev’essere”.
capite – Coman(Giovanni Verga I Malavoglia)
3) “Il generale in capite1 Napoleone Buonaparte (così lo chiamavano
allora) dimorava in casa Florio. Chiesi di abboccarmi2 con essolui3
affermando di aver a fare gravissime comunicazioni per cose avvenute
nella provincia, e siccome egli mestava nel torbido4 coi malcontenti
veneziani, così mi venne concessa un’udienza. Questo perché non lo
seppi che in appresso5.
Il Generale era nelle mani del suo cameriere che gli radeva la barba;
allora non disdegnava di farsi vedere uomo, anzi ostentava una certa
semplicità catoniana6, cosicché al primo aspetto7 rimasi confortato
d’assai. Era magro sparuto irrequieto: lunghi capelli stesi gli ingombravano la fronte, le tempie e la nuca fin giù oltre il collare del vestito”.
(Ippolito Nievo, Confessioni d’un Italiano)
4) “Nella città d’Asti, in Piemonte, il dì 17 di gennaio dell’anno 1749,
io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti”.
(Vittorio Alfieri Vita)
5) “Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di
Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena”
(Francesco de Sanctis, Storia della letteratura italiana)
dante in capo.
2 Abboccarmi –
Incontrarmi privatamente.
3 Essolui – Lui
(forma arcaica).
4 Mestava nel torbido – Cercava di
approfittarne
senza scrupoli.
5 In appresso – In
seguito.
6 Catoniana –
Uno stile di vita
estremamente
rigoroso e povero,
come quello di un
personaggio dell’antica Roma,
Catone il Censore,
rimasto famoso
per la sua moralità
irreprensibile e
severa.
7 Al primo aspetto
– A prima vista.
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Canone Occidentale - Prosa
Abbiamo scelto cinque brani in prosa, molto diversi tra loro, per cercare di rispondere alla
domanda preliminare: che cos’è una narrazione?
In linea generale dovremmo dire innanzitutto che “narrazione è qualunque atto comunicativo complesso che comprenda la rappresentazione di eventi, luoghi e personaggi, veri o
d’invenzione, legati insieme in una determinata catena temporale”.
Ora osserviamo i brani scelti.
- Dal primo all’ultimo quale mutamento si nota, in relazione alla definizione appena fornita?
- Il mutamento presenta un ordine, procede per gradi?
Il punto nevralgico della definizione è dove si parla di eventi, luoghi e personaggi, veri
o d’invenzione. In effetti, una netta linea di confine passa tra il “vero” e “l’invenzione”.
La storia e la fiction (finzione) sembrano l’una l’opposto dell’altra, tuttavia nei racconti
sono molte le possibilità di commistione tra le due.
Rileggiamo adesso i cinque frammenti narrativi, tenendo a mente questo primo filtro: la
presenza della fiction:
1) “Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che
avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una
festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione”.
(John Ronald Reuel Tolkien Il Signore degli Anelli, 1954-55)
a) È l’inizio, famosissimo, de Il Signore degli Anelli. Presenta luoghi, personaggi ed
eventi completamente d’invenzione (Bilbo Baggins, gli Hobbit, la cittadina di
Hobbiville). Si tratta cioè non solo di situazioni nate dalla fantasia dell’autore (la
vicenda dell’Anello del Potere), ma anche di località fittizie (la Terra di Mezzo). E,
soprattutto, di creature non appartenenti al mondo reale. Il mondo creato da Tolkien è
in buona parte composto di elementi che non esistevano prima del suo romanzo. Solo
gli Elfi e i Nani provengono dalle saghe nordiche, mentre gli Hobbit o gli Orchi sono
una invenzione originale tolkieniana, così come tutta la dettagliata topografia del suo
continente.
2) “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino a Ognuna, e ad Aci Castello,
tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere”.
(Giovanni Verga I Malavoglia, 1881)
b) Così comincia I Malavoglia di Giovanni Verga. Come sopra, eventi e personaggi sono
frutto di finzione, mentre i luoghi sono veri, e altrettanto gli aspetti della realtà narrata. I poveri pescatori della costa orientale della Sicilia alla metà del secolo XIX non
erano affatto diversi da quelli di cui parla Verga. Non avviene nulla nel romanzo che
non sarebbe potuto accadere davvero. Per di più, i fatti della storia (l’Unità d’Italia, la
battaglia di Lissa in cui muore Luca Malavoglia), sono assolutamente autentici.
3) “Il generale in capite Napoleone Buonaparte (così lo chiamavano
allora) dimorava in casa Florio. Chiesi di abboccarmi con essolui affer-
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mando di aver a fare gravissime comunicazioni per cose avvenute nella
provincia, e siccome egli mestava nel torbido coi malcontenti veneziani, così mi venne concessa un’udienza. Questo perché non lo seppi che
in appresso.
Il Generale era nelle mani del suo cameriere che gli radeva la barba;
allora non disdegnava di farsi vedere uomo, anzi ostentava una certa
semplicità catoniana, cosicché al primo aspetto rimasi confortato d’assai. Era magro sparuto irrequieto: lunghi capelli stesi gli ingombravano
la fronte, le tempie e la nuca fin giù oltre il collare del vestito”.
(Ippolito Nievo, Confessioni d’un Italiano, 1867)
c) Si tratta di un passo proveniente del decimo capitolo di un grande romanzo del nostro
Ottocento, Confessioni d’un Italiano. Qui la contaminazione tra realtà e fantasia fa un
passo avanti. Un personaggio inventato, il protagonista e narratore Carlo Altoviti,
incontra un personaggio storico, Napoleone, durante la campagna d’Italia nel 1796. Lo
scenario e la cornice temporale sono veritieri. Lo scrittore mette a confronto sulla
scena del romanzo una sua creatura e uno dei protagonisti reali della storia d’Europa.
4) “Nella città d’Asti, in Piemonte, il dì 17 di gennaio dell’anno 1749,
io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti”.
(Vittorio Alfieri Vita, 1803)
d) Con queste parole inizia La Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso, una delle più
belle autobiografie di un secolo, il Settecento, impareggiabilmente ricco di autobiografie, tra Rousseau e Casanova, Goldoni e Da Ponte (il poeta che scriveva i libretti per
le opere di Mozart). L’autobiografia, ossia il racconto della propria esistenza fatto in
prima persona dal narratore/protagonista – nella sezione 4 spiegheremo le differenze
tra i ruoli – è un genere letterario che incrocia verità e finzione in modo particolarissimo. Di solito si pensa che una autobiografia sia basata sul racconto di eventi accaduti.
È vero, ma le carenze della memoria, o il pudore, o la volontà di chi scrive di presentarsi migliore, o altri motivi ancora, alterano in qualche misura sempre la fedeltà del
resoconto.
5) “Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di
Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena”
(Francesco de Sanctis, Storia della letteratura italiana, 1870-71)
e) Altro genere di narrazione, senza più necessità di finzione, è quella cui ricorre il grande critico letterario Francesco de Sanctis, quando decide di metter mano alla sua opera
più ambiziosa, il racconto di sette secoli di storia letteraria italiana. L’Italia come
nazione era appena nata, e de Sanctis ne inventa l’unità culturale, la Storia della
Letteratura scritta in Italiano, potremmo dire, estesa dal Duecento al presente. Questo
esempio dimostra che si può fare una straordinaria opera d’arte narrativa senza passare per la fiction. Anche la critica letteraria ha i suoi racconti.
Ricapitolando: tante azioni differenti possono avvalersi della narrazione come modalità, e
non tutte appartengono alla pratica della letteratura.
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Canone Occidentale - Prosa
Definizione:
Narrazione è qualunque atto comunicativo complesso che comprenda la rappresentazione di eventi, luoghi e personaggi, veri o d’invenzione, legati insieme in una
determinata catena temporale.
2. La comunicazione letteraria
Torniamo alla definizione generale: “narrazione è qualunque atto comunicativo complesso che comprenda la rappresentazione di eventi, luoghi e personaggi, veri o d’invenzione, legati insieme in una determinata catena temporale”.
Soffermiamoci su un altro aspetto. Si parla di “atto comunicativo complesso”. Che cosa
significa?
Spiegare una cosa vuol sempre dire mostrare come funziona.
Qualsiasi messaggio complesso prodotto dall’uomo funziona in base al rapporto tra sei
elementi. Ma, invece di elencarli o di mostrarli in un nudo schema, li rintracceremo all’interno di una pagina romanzesca:
“Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo
quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più
curiosità e attenzione che ogni messo o esploratore. Nella vita degli
imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli;
un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla
groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la
protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in
metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento
disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la
somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la
sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della
loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la
filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”.
(Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)
Perché vi sia comunicazione deve esserci scambio, dunque c’è un asse orizzontale che
congiunge:
a) un emittente (lo scrittore)
b) un destinatario (il lettore)
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Vale a dire chi produce il messaggio e chi lo riceve:
lo scrittore Italo Calvino è l’emittente, il lettore, ognuno di noi, è il destinatario.
Se invece restiamo dentro la finzione della scena, nel nostro caso l’emittente è il veneziano Marco Polo e il destinatario è l’imperatore dei tartari Kublai Kan.
C’è poi anche un asse verticale che comprende:
a)
b)
c)
d)
il contesto
il messaggio
il codice
il contatto
(tutto ciò a cui si fa riferimento nel brano)
(il brano de Le città Invisibili)
(la lingua italiana)
(il libro)
A) Il contesto, sempre dentro la finzione della scena, è la Cina di cui Kublai Kan è l’imperatore:
- l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato
- i fiumi e le montagne istoriati sulla groppa dei planisferi
ma anche la storia della dominazione che questo sovrano ha costruito nel tempo:
- i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in
sconfitta
- re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate
- tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine
Il contesto di un’opera letteraria è la tradizione culturale di un’epoca e di una nazione.
B) Il messaggio ovviamente sono i racconti di Marco Polo, esploratore e novellatore che
- descrive le città visitate nelle sue ambascerie
In letteratura il messaggio è la forma stessa dell’opera d’arte, sia essa un racconto, un
romanzo, un poema, un ciclo di canzoni o altro, ed anche il suo contenuto.
C) Il codice è l’insieme di conoscenze comuni che permette a due persone di intendersi.
Per esempio la lingua.
In questo caso è particolarmente evidente la necessità di un codice condiviso, perché
Marco Polo è
- il giovane veneziano
mentre Kublai Kan è
- l’imperatore dei tartari
Dunque l’uno parla veneziano, l’altro mongolo. È ovvio, anche se Calvino non lo dice,
che uno dei due (naturalmente Marco Polo) utilizza il codice dell’altro.
La lingua è uno strumento di comunicazione ma anche una forma di dominazione dell’altro: Marco Polo è un suddito, dunque parla la lingua del suo signore.
La lingua usata non è l’unico esempio di codice. Se pensiamo alla letteratura, possiamo intendere come codice anche il genere letterario.
Marco Polo è un esploratore. Descrive delle regioni e delle città, per quanto fantastiche, all’uomo che governa su tutta la Cina. Da lui Kublai Kan si aspetta di sentire alcune cose e non altre. Se Marco Polo fosse un giullare, da lui ci si aspetterebbero burle,
giochi di parole e magari qualche battuta satirica sui potenti. Se fosse il poeta di corte
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Canone Occidentale - Prosa
ci si attenderebbe un poema in lode di Kublai Kan.
Questo è l’orizzonte d’attesa del lettore, che è differente a seconda del genere letterario scelto.
D) Il contatto è ciò che fisicamente permette lo scambio di informazioni tra emittente e
destinatario. Nel caso del nostro testo è la voce di Marco Polo:
- l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni messo o esploratore
Il fatto che Kublai spenda curiosità e attenzione dimostra non soltanto che l’argomento gli
sta a cuore, ma anche che il contatto non è sempre privo di difetti. Se il sovrano non stesse attento, o se sentisse poco chiaramente le parole, il messaggio risulterebbe incompleto
o addirittura incomprensibile.
Pensiamo a una telefonata: se la linea è disturbata, il contatto difettoso influisce in maniera importante sulla comunicazione.
Pensiamo infine al libro come oggetto, che è un altro tipo di contatto: se le pagine di un
libro sono strappate, o macchiate, o invertite, il senso del testo può alterarsi o perdersi del
tutto.
Un romanzo, o una novella, o un racconto, sono soltanto una delle tante forme possibili
di narrazione, una tra le innumerevoli inventate dall’uomo.
In che cosa questo tipo di narrazione si distingue?
a) In primo luogo nell’essere consegnata alla parola scritta. La narrazione orale, o per
immagini in movimento (film) o per simboli grafici (pittura) sono sue parenti strette
ma hanno anche delle caratteristiche a sé stanti.
b) In secondo luogo dall’essere mossa da una intenzione artistica e interpretata come tale.
Chi legge un quotidiano ogni giorno vi trova il resoconto delle vicende accadute ma
non le interpreta come oggetti artistici né come finzioni narrative.
Di questo tipo, insomma, ci occuperemo nel libro che va a incominciare.
Definizione:
Ogni atto comunicativo funziona grazie a un emittente / un destinatario / un messaggio / un codice / un contesto / un contatto
3. Il titolo
Il titolo di un libro o di un romanzo è, insieme al suo autore, il suo segno distintivo, quello che lo differenzia da qualsiasi altra opera e lo rende riconoscibile. Quando uno scrittore decide un titolo, con esso intende riassumere il significato complessivo della sua opera.
È la prima parola che viene incontro al lettore, la chiave d’accesso al mondo ancora inesplorato creato dall’autore.
Dunque converrà soffermarcisi un po’.
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Il titolo scelto da Alessandro Manzoni (1785 –1873) per I promessi sposi condensa in
sole tre parole il percorso del suo grande romanzo.
Ci troviamo di fronte due fidanzati, che saranno Renzo e Lucia, e una “promessa”. La loro
contrastata storia d’amore attraversa tante avventure, tanti luoghi, si popola di numerosi
personaggi, ed è tutta annunciata nello spazio della parola intermedia. «Promessi», appunto.
Come un viaggio, ogni racconto vive tra una partenza e un arrivo. La distanza, dilatata in
maniera enorme, tra la promessa e il mantenimento del matrimonio, è ciò che Manzoni ha
voluto raccontare, raccontando nel frattempo molto di più e d’altro. Ma se non ci fosse
stata quella promessa di matrimonio, o se la promessa si fosse concretizzata senza contrattempi, non ci sarebbe stato nulla da scrivere.
Il titolo di un’opera è esso stesso una promessa. È in posizione di forte rilievo, una anticipazione dichiarata. Dunque è naturale che sia intensamente caricato di significati.
I titoli possono essere di diversi tipi:
A) Descrittivi: presentano in evidenza il personaggio o l’evento intorno a cui ruoterà tutta
la trama.
- La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (Romanzo di Laurence Sterne
1713-1768)
C’è un protagonista, di nome Tristram Shandy. Sappiamo che è un “gentiluomo”,
ossia un aristocratico (siamo nel Settecento), e sappiamo che ci verranno raccontate
la sua vita e il suo modo di vedere il mondo.
- Le avventure di Huckleberry Finn (Romanzo di Mark Twain 1835-1910)
Anche qui abbiamo il nome di un protagonista, e l’informazione che a lui sono capitate delle “avventure”. Perciò dobbiamo aspettarci delle vicende non comuni e sorprendenti.
- Il processo (Romanzo di Franz Kafka 1883-1924)
Non più una persona, stavolta è un evento a essere al centro dell’attenzione. Ciò
significa che “il processo” sarà il cuore del romanzo. Naturalmente immaginiamo
che vi sarà un imputato, una giuria, un reato, ma lo scrittore ha deciso di mantenere
tutto nell’impersonalità e indirizzare la nostra attenzione solo sull’inquisitoria in sé.
- Delitto e castigo (Romanzo di Fjodor Michajlovic Dostoevskij 1821-1881)
Un fatto e la sua conseguenza. Come sopra, ma in maniera meno oscura, capiamo
che conta di più la relazione tra questi due momenti, “il delitto” e “il castigo” appunto, che gli uomini e le donne coinvolti.
- I Buddenbrook (Romanzo di Thomas Mann 1875-1955)
Invece che il nome di un personaggio, abbiamo un plurale. Dal racconto della vita di
un singolo, come Tristram Shandy o Huck Finn, si passa alla storia di una famiglia.
- Gente di Dublino (Racconti di James Joyce 1882-1941)
Questo è un caso ulteriore: il titolo viene a dirci che protagonista del libro non sarà
una persona né un gruppo familiare, bensì una intera comunità. È il tentativo di raccontare lo spirito di un luogo (Dublino) attraverso le persone che lo abitano.
B) Emblematici: spesso sono costituiti da una frase ad effetto, pensata per colpire il lettore.
- Niente di nuovo sul fronte occidentale (Romanzo di Erich Maria Remarque 18981970)
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Canone Occidentale - Prosa
È il titolo di un famoso romanzo antimilitarista scritto sulla Prima Guerra Mondiale.
L’efficacia del titolo sta nel fatto che la morte del protagonista, colpito in un giorno
qualsiasi di guerra, viene liquidata con questa frase indifferente da un dispaccio militare su cui termina il libro.
- A volte ritornano (Raccolta di racconti di Stephen King 1947-vivente)
Si tratta di un racconto dell’orrore, e per questo il lettore subito intuisce chi sia il soggetto taciuto, ossia quelli che “a volte ritornano”: sono coloro che nel mondo reale
per eccellenza non ritornano mai, cioè i morti. Il titolo funziona molto bene perché
è tutto costruito sull’idea della violazione di una regola. “A volte” sottolinea l’eccezionalità dell’evento soprannaturale. In realtà l’originale inglese è Night Shift, cioè
Turno di notte. Il merito del bel titolo italiano va dato alla traduttrice Hilia Brinis.
- Sputerò sulle vostre tombe (Romanzo di Boris Vian 1920-1959).
È un racconto di genere noir e lo dimostra subito con la durezza del titolo. Il gesto
di profanare per disprezzo delle tombe evoca un protagonista spietato e senza valori. Il fatto che le tombe siano definite “vostre”, inoltre, fa sentire chiamati in causa e
minacciati tutti i lettori.
- Viaggio al termine della notte (Romanzo di Louis Ferdinand Céline 1894-1961)
La suggestione in questo caso deriva dal contrasto tra l’idea di “viaggio”, cioè di
spostamento nello spazio, e “il termine della notte” che è invece un fattore temporale. Nel suo titolo Céline ci impone di pensare la notte non come un tempo ma come
un luogo da percorrere, anzi in cui scendere fino al fondo. Sarà dunque una discesa
verso il cuore dell’oscurità.
C) Citazioni: ci sono titoli che nascono dalla citazione di parole di un altro testo. A volte
ne conservano il significato, talvolta invece lo piegano a un senso nuovo. Devono parte
della loro efficacia al fatto che il lettore comprenda l’allusione che contengono.
- L’urlo e il furore (Romanzo di William Faulkner 1897-1962)
Deriva da un passo della tragedia shakespeariana Macbeth, dove si definisce la vita
umana: “A tale / Told by an idiot, full of sound and fury / signifying nothing” (“una
favola / narrata da un pazzo, piena di suono e di furia / che non significa nulla”).
Faulkner sceglie questi versi perché uno dei protagonisti-narratori del suo romanzo
è appunto un minorato mentale, Benjy.
- E duro campo di battaglia il letto (Romanzo di Una Chi)
È un romanzo erotico contemporaneo che deriva provocatoriamente il proprio titolo da un verso di Francesco Petrarca. L’inquietudine notturna del poeta medievale,
innamorato e solitario, diventa una metafora per indicare la passione degli amanti.
D) Depistanti: sono titoli solo apparentemente descrittivi. Al contrario, la storia narrata è
spesso molto differente da quella che ci si aspettava. L’effetto cercato dallo scrittore è
proprio quello di “spiazzare” le attese del lettore.
- L’educazione sentimentale (Romanzo di Gustave Flaubert, 1821-1880)
Sembrerebbe il più tipico titolo per una storia romantica: l’amore che educa il protagonista ai sentimenti. Ed è così, solo che quello tra il protagonista Fréderic Moreau
e Madame Arnoux è un amore mancato, e l’educazione non è altro che una lunga
serie di fallimenti e disillusioni.
- Il fu Mattia Pascal (Romanzo di Luigi Pirandello, 1867-1934)
Pirandello non si limita a fornirci il nome del suo eroe: ci avverte anche, con il “fu”,
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del particolare che contrassegna la trama e la sua novità. Il fatto cioè che, a un certo
punto del libro, Mattia Pascal viene per errore dichiarato morto. Approfittando di
questo errore, egli inizia una vita paradossale di vivo defunto, ricca di imprevisti.
- L’idiota (Romanzo di Fjodor Michajlovic Dostoevskij 1821-1881)
Qui ci aspetteremmo probabilmente la storia di una malattia mentale. Invece il prinˇ
cipe Myskin,
protagonista della vicenda, non viene indicato con il suo nome né per
quello che è davvero, bensì come viene percepito dagli altri. La sua “diversità”, la
sua infantile autenticità, è il tema centrale del romanzo.
E) Enigmatici: ci sono infine titoli che fondano la loro forza sul fatto di non essere immediatamente comprensibili.
- Il rosso e il nero (Romanzo di Stendhal 1783-1842)
Uno dei più grandi racconti dell’Ottocento francese. Ma chi non lo ha letto non può
dedurre in nessun modo di cosa tratti la vicenda. Eppure a libro chiuso siamo costretti a immaginare un qualche significato per la coppia di colori nel titolo.
Scartiamo subito l’ipotesi che il libro parli di una squadra di calcio. È stato scritto
in Francia nell’Ottocento, dunque occorre pensare ad altro. Però pensando a una
squadra di calcio avevamo pensato a una bandiera, a dei colori sociali. Non eravamo
molto lontani dalla verità. I colori parlano, hanno sempre una forte carica simbolica. Possono esprimere dei significati.
Abbiamo, affrontati sulla soglia del romanzo, un colore caldo, che rappresenta la
passione e il fuoco, quindi l’amore ma anche la distruzione, e un non-colore, che è
immagine di non-vita, di notte, e di nascondimento, poiché il nero copre tutte le altre
tinte. Leggendo il libro scopriremo cosa davvero significano il Rosso e il Nero, ma
già la nostra ipotesi, che non può andare oltre e fin qui è necessariamente generica,
coglie lo spirito di quanto Stendhal intendeva rappresentare.
- Cronaca di una morte annunciata (Romanzo di Gabriel Garcia Marquez 1928 vivente)
Ulteriore esempio di titolo enigmatico e descrittivo insieme: abbiamo tre elementi
che tra di loro creano una fortissima tensione. Tensione tra le informazioni che trasmettono, e l’incertezza che seminano.
Vi si parla, nell’ordine:
a) Di una cronaca, ossia del resoconto dettagliato e solitamente distaccato di un
evento o di una serie di eventi;
b) Del fatto che la cronaca sarà di una morte, presumibilmente di un essere umano;
c) Del fatto che questa morte è annunciata: siccome la morte è l’evento certo ma
imprevedibile per eccellenza, il fatto che sia annunciata suscita una serie di domande. Su tutte, una: perché nessuno, nemmeno il diretto interessato, l’ha impedita o
scansata? O, detto altrimenti, come mai non è stato possibile sventare quella morte,
e si è potuto solo farne, a posteriori, una cronaca?
Tutto il romanzo va letto per l’appunto come una risposta a tale questione.
- Fame (Romanzo di Knut Hamsun 1859-1952)
Si tratta di un termine del tutto generico, fino a che non si legge il libro. Non si può
dire neanche chi sia il soggetto di questa “fame”. Non sappiamo neppure se sia un
uomo o un animale, un singolo o una collettività.
Ciò nonostante Fame si orienta con forza in direzione di un svolgimento. Esprime
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Canone Occidentale - Prosa
un bisogno, dunque richiede spiegazioni: da una parte su come tale bisogno sia
diventato così pressante da diventare il titolo di una storia, dall’altra su cosa comporterà il tentativo di soddisfarlo.
Laboratorio
1
Verifica
Scegliete alcuni dei titoli indicati di seguito, e cercate di ricostruire a quale genere letterario o a quale tipo di argomento possono riferirsi:
- Non dimenticare mai …
- John lo sapeva
- Le illusioni perdute
- Assassinio sull’Orient-Express
- L’amore è una cosa meravigliosa
- Fanteria dello spazio
1
- Agguato al Passo del Nibbio
- Cioccolato a colazione
- Progetto per una rivoluzione a New York
- Il saccheggiatore di relitti
- Tre millimetri al giorno
- Il ladro e la mela
Ora provate l’esperimento inverso: inventare un titolo adatto per i seguenti tipi di storia:
- L’amicizia che nasce tra un vecchio e un bambino.
- Un poveretto vince al superenalotto e diventa improvvisamente molto ricco.
- Un tale viene coinvolto in un incidente stradale, rimane illeso e si prodiga per salvare gli altri; i giornali e le televisioni ne parlano, e improvvisamente diventa un
eroe da mass-media.
- Una storia d’amore tra adolescenti contrastata dalle famiglie di entrambi
- La storia di una famiglia di contadini, per tre generazioni
- La storia dell’amicizia tra un ragazzo e un cane
4. La ricetta e gli ingredienti
“Si chiamava Gaal Dornick ed era un semplice ragazzo di campagna
che non era mai stato prima d’allora a Trantor. Conosceva però il panorama di questa città per averlo osservato sullo schermo dell’ipervideo e
sugli enormi trasmettitori tridimensionali che trasmettevano le notizie
dell’Incoronazione Imperiale e dell’apertura del Consiglio Galattico”
(Isaac Asimov, Cronache della Galassia, 1951)
L’opera di uno scrittore mentre inventa un romanzo, o un racconto, non è poi tanto diversa da quella di un bravo cuoco: ha bisogno di alcuni ingredienti, e di una ricetta per metterli insieme nel modo giusto. E non tutti gli ingredienti sono adatti a qualunque pietanza.
Dunque scegliere certi elementi orienta già il “sapore” della storia che sta nascendo.
Nel caso qui riportato, è evidente che l’ingrediente “Consiglio Galattico” o gli ingredienti “ipervideo” ed “enormi trasmettitori tridimensionali” (specie in un romanzo scritto a
metà del secolo scorso) ci portano in direzione di un piatto denominato “fantascienza”.
Se invece avessimo letto di un cowboy che danza con un lupo intorno al fuoco e viene
osservato da lontano da un gruppo di pellerossa, avremmo compreso di essere nel bel
Il metodo
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mezzo di una storia western.
Un maggiordomo inglese, una grande casa nobiliare, un cadavere nello studio, ci preparano quasi inevitabilmente a un giallo.
“Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli starnuti e i colpi di tosse
delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle
rive del Don”.
(Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve, 1953)
L’accenno al “grasso sul fucile mitragliatore arroventato” e il rimando a un luogo reale il fiume Don, in Russia – ci fanno capire che siamo di fronte a un racconto di guerra.
Naturalmente un racconto può avere sviluppi sorprendenti e imprevedibili, ma ogni elemento che vi figura si salda con gli altri secondo una logica interna.
Non c’è niente che accade o compare per caso in un racconto, se l’autore sa quello che
fa.
Tanto più è bravo il cuoco-scrittore, tanto meglio verrà il suo piatto-romanzo.
Non dimentichiamo che un bravo cuoco lo si riconosce da due aspetti, solo in apparenza
opposti: per un verso dalla precisione con cui segue le indicazioni della ricetta, per un altro
verso dalle libertà che si prende nell’interpretarla.
Lo stesso vale per uno scrittore: chi pensa soltanto a produrre racconti ben fatti, tenderà a
rispettare le regole/ricette della narrazione, chi invece assomiglia a un cuoco creativo
saprà rinnovare le forme del genere letterario.
5. Come si racconta una storia?
5.1. Fabula e intreccio
Come si racconta una storia?
«Iniziate dall’inizio – disse il Re gravemente – e continuate fino alla
fine: poi fermatevi»
(Lewis Carroll Alice nel paese delle meraviglie, 1872)
A dispetto del buon senso del Re di Alice, spesso i narratori non seguono il suo consiglio.
Naturalmente, non c’è mai un solo modo per raccontare una storia:
A) “Da due ore il ladro, nascosto nella cantina, sentiva quel passo misurare spietatamente le stanze di sopra, scotendo le vecchie travature,
facendole scricchiolare, distaccandone a tratti minuti pezzi di calcina; non andava dunque mai a letto quella gente? Spesso anche, nel
silenzio della notte, lo raggiungevano scoppi repentini di voce, irata
o beffarda; poi, dopo lunghe pause, erano risate alte e sinistre, da
gelare il sangue.
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Canone Occidentale - Prosa
Il ladro era un novellino, egli voleva evitare ogni scandalo e ogni violenza. Sperava soltanto di trovare in questa vecchia casa qualche masserizia, magari delle cibarie, roba da nulla in fondo per il ricco proprietario, ma che avrebbe tuttavia fornito da vivere un po’ a lui ladro e alla
sua piccola famiglia. Ecco a che cosa era ridotto coi suoi capelli grigi!
Tanto novellino era, che impiegò due ore ad accorgersi come quei passi
lassù fossero i passi di un’unica persona: certo il signore. Ma pure con
chi parlava egli, s’adirava rideva?”
(Tommaso Landolfi, Il ladro, da la spada, 1942)
B) “Il ladro era un novellino, egli voleva evitare ogni scandalo e ogni violenza. Sperava soltanto di trovare in questa vecchia casa qualche masserizia, magari delle cibarie, roba da nulla in fondo per il ricco proprietario, ma che avrebbe tuttavia fornito da vivere un po’ a lui ladro e alla
sua piccola famiglia. Ecco a che cosa era ridotto coi suoi capelli grigi!
Da due ore il ladro, nascosto nella cantina, sentiva quel passo misurare
spietatamente le stanze di sopra, scotendo le vecchie travature, facendole scricchiolare, distaccandone a tratti minuti pezzi di calcina; non
andava dunque mai a letto quella gente? Spesso anche, nel silenzio
della notte, lo raggiungevano scoppi repentini di voce, irata o beffarda;
poi, dopo lunghe pause, erano risate alte e sinistre, da gelare il sangue.
Tanto novellino era, che impiegò due ore ad accorgersi come quei passi
lassù fossero i passi di un’unica persona: certo il signore. Ma pure con
chi parlava egli, s’adirava rideva?”
Confronta i due esempi:
- il primo è l’inizio de Il ladro, un racconto di grande scrittore italiano, Tommaso Landolfi
- il secondo è lo stesso testo che ha subito una piccola manipolazione.
C’è una differenza fondamentale tra loro. Proviamo ad analizzarli.
TESTO A
TESTO B
Da due ore il ladro, nascosto nella cantina,
sentiva quel passo […]
Il ladro era un novellino […] Sperava soltanto di trovare in questa vecchia casa qualche
masserizia, magari delle cibarie […]
Il ladro era un novellino […] Sperava soltanto di trovare in questa vecchia casa qualche
masserizia, magari delle cibarie […]
Da due ore il ladro, nascosto nella cantina,
sentiva quel passo […]
Tanto novellino era, che impiegò due ore ad
accorgersi come quei passi lassù fossero i
passi di un’unica persona […]
Tanto novellino era, che impiegò due ore ad
accorgersi come quei passi lassù fossero i
passi di un’unica persona […]
Gli elementi di cui noi lettori fin qui disponiamo sono:
Luoghi:
- una vecchia casa presumibilmente ricca (si parla del “ricco proprietario”)
- la cantina all’interno della casa
Personaggi:
- il ladro
- il padrone della casa
Il metodo
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Motivazioni:
- Il ladro vuole rubare qualcosa, anche solo del cibo
- Il ladro non è più giovane (“ha i capelli grigi”) ma è inesperto di furti (“novellino”)
- Il ladro non vuole usare nessuna violenza
Tempi:
- Il ladro decide di rubare nella casa
- Il ladro penetra nella casa e si nasconde in cantina
- Il ladro aspetta due ore in cantina
Mentre tutto il resto rimane immutato, tra il testo A e il testo B cambia l’ordine dei tempi.
Landolfi incomincia il suo racconto con il ladro già nella casa. Solo qualche riga più
avanti spiega chi era quest’uomo, spiegando anche come e perché lo troviamo in cantina
da due ore.
Invece il testo B comincia rappresentando “l’antefatto” della scena. Dunque la povertà del
ladro e la sua intenzione di rubare. Poi arriva l’azione vera e propria, che a sua volta si
sdoppia in due tempi: penetrare nella casa / attendere nascosto per due ore che tutti dormano.
Ogni scrittore, quando decide di rappresentare un insieme di eventi, vero o di fantasia,
trova sempre di fronte a sé due vie:
a) può rimanere fedele alla successione temporale degli avvenimenti (come nel nostro
testo B)
b) può decidere di alterarla e poi di ricostruirla in base a un criterio differente (come qui
ha fatto Landolfi)
Per questo, gli studiosi della narrativa hanno inventato una distinzione molto importante
tra la fabula e l’intreccio. È stato dato il nome di fabula (“racconto”, in latino) all’originario svolgersi delle vicende – il nostro testo B – e di intreccio al modo in cui esso viene
narrato – il testo di Landolfi –.
La medesima opposizione in area francese e anglosassone viene espressa con termini differenti ma sinonimi: histoire e récit, oppure story e discourse. In ogni caso, il primo termine si riferisce al livello del contenuto, il secondo a quello dell’espressione.
Se la fabula e l’intreccio coincidono, come nel testo B, avremo un tipo di racconto:
Questo modello di narrazione offre garanzie di comprensibilità e scorrevolezza. Dentro vi
opera l’idea che ciò che viene prima spiega sempre quanto viene dopo. Il suo prototipo
può essere il racconto della vita di un uomo. Dalla nascita fino alla morte, passando per
tutte le tappe della sua esistenza. Chiaro, e logico.
Però contiene un rischio: il rischio della noia. È meccanico al limite del prevedibile.
Se la fabula e l’intreccio non coincidono, come nel testo A, avremo un altro tipo di racconto:
Questo secondo modello di narrazione consente di arricchire e variare moltissimo la presentazione di una storia. Permette di sorprendere il lettore, di lasciarlo in sospeso in
momenti cruciali, di svelargli all’improvviso dettagli che non conosce.
Contiene anch’esso un rischio, esattamente inverso: se la vicenda è troppo complessa il
lettore può perdercisi, come in un labirinto.
Immagina che ogni racconto abbia una sorta di doppio fondo: la fabula è come un nocciolo nascosto all’interno dell’intreccio. Ed è sempre possibile riportarla alla luce come
28
Canone Occidentale - Prosa
abbiamo fatto sopra, trasformando il testo A nel testo B.
Ma non è solo possibile: è necessario. Leggendo un romanzo, noi ci troviamo di fronte a
un intreccio, ed è solo ricostruendo mentalmente la fabula, ossia la successione degli
eventi, che possiamo capirlo e apprezzarlo.
È importante sottolineare infine che la scelta tra l’una e l’altra soluzione dipende dalla volontà del singolo scrittore e dalle esigenze della storia. Non c’è una scelta migliore dell’altra.
5.2. Analessi e prolessi
Ci sono molti modi per non far combaciare la fabula e l’intreccio. I più frequentemente
usati sono l’analessi e la prolessi.
L’Analessi (o flashback, così detta soprattutto in ambito cinematografico) è l’apertura di
una finestra, a interrompere la continuità del racconto. Questa finestra contiene fatti anteriori rispetto al presente della storia.
Può essere di due tipi:
a) Il narratore o il protagonista all’improvviso ricorda qualcosa che gli è accaduto nel
passato.
“Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a
torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro
ardeva nel caminetto e la piccola tavola da tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante […].
L’orologio della Trinità dei Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell’appartamento; poi aprì
un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche
cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione lo pungeva
così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di
distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente
un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando
rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi8 fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell’aspettante un ricordo. Proprio innanzi a
quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi,
dopo un’ora di intimità. Elena aveva molt’arte nell’accumular gran
8 Tizzi – Tizzoni.
pezzi di legno sugli alari”.
(Gabriele d’Annunzio, Il Piacere, 1889)
In questo brano d’Annunzio prepara gradualmente l’apparizione del ricordo. Il ricordo di Elena Muti, la donna amata dal suo protagonista Andrea Sperelli.
- Prima lo scrittore ci informa che Sperelli sta aspettando un’amante. Per il momento
senza nome.
Il metodo
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- In seguito insiste sulla grande impazienza dell’uomo, e sui gesti che egli compie
distrattamente per ingannare il tempo. Questi gesti, sottolineati dalla ripetizione “poi
diede alcuni passi […] poi aprì un libro […] poi cercò intorno qualche cosa […]”,
conducono fino al caminetto. È una figura retorica che si chiama anafora.
- Il caminetto era comparso già dalla seconda riga (“Il legno di ginepro ardeva nel
caminetto”).
- Qui d’improvviso si apre la finestra della memoria: “Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare…”.
b) L’autore sospende il filo del racconto e informa i lettori di eventi accaduti in precedenza.
“Erano passati sedici anni, al tempo in cui avvenne quanto narriamo, da
quando, in una bella mattina della domenica in Albis, una creatura viva
era stata deposta dopo la messa nella chiesa di Notre-Dame, sulla lettiera fissata al pavimento del sagrato […]. Su quella lettiera era uso
esporre i trovatelli alla carità pubblica. Se li pigliava chi li voleva.
Davanti alla lettiera, era disposto un bacile di rame per le elemosine.
Quella specie di creatura umana che giaceva sulla detta tavola la mattina della domenica in Albis dell’anno del Signore 1467 sembrava eccitare al più alto grado la curiosità del gruppo piuttosto numeroso che si
era affollato intorno alla lettiera, composto in gran parte di donne: vecchie quasi tutte”.
(Victor Hugo, Notre-Dame de Paris, 1831)
È il ritrovamento del piccolo Quasimodo, che diventerà il deforme campanaro della cattedrale di Parigi.
In questa seconda tipologia di analessi, non solo il racconto è in terza persona, ma per
giunta non c’è nessuna persona che ricorda direttamente. È lo scrittore stesso che impone una sosta al racconto, e recupera alcune informazioni che i lettori devono sapere, per
poter meglio capire lo sviluppo della vicenda.
La Prolessi è l’esatto contrario dell’analessi, cioè un salto temporale in avanti. Invece che
spostare le lancette della trama all’indietro, lo scrittore anticipa parte degli svolgimenti
futuri. Per non svelare troppo di quanto deve ancora accadere, la prolessi spesso è di breve
estensione e non completamente esplicita. A volte allude più che esporre.
Come nel caso dell’analessi, l’anticipazione può essere offerta:
a) Dal narratore e dal protagonista:
“La signora Ferrars morì nella notte di giovedì, dal 16 al 17 settembre.
Mi vennero a chiamare alle 8 di mattina, venerdì, 17. Non c’era più
niente da fare, era già morta da qualche ora.
Quando ritornai a casa, erano appena suonate le nove. Aprii la porta
d’entrata e indugiai per qualche minuto nel vestibolo per appendere il
cappello e il soprabito. Non voglio con questo dire che in quel momento avevo una premonizione degli eventi che si sarebbero verificati nella
settimana successiva. Ma l’istinto mi diceva che qualcosa stava per
accadere.”
(Agatha Christie, L’assassinio di Roger Ackroyd, 1926)
30
Canone Occidentale - Prosa
b) Oppure dall’autore:
“Sei decenni più tardi avrebbe spiegato di quando a tredici anni aveva
trovato la propria strada attraversando l’intera storia della letteratura,
partendo da fiabe che affondavano le proprie radici nel folklore popolare europeo, per passare all’azione drammatica dal semplice intento
morale, e infine approdare a un imparziale realismo psicologico, scoperto tutto da sola, in una mattina molto speciale durante l’ondata di
caldo del 1935”.
(Ian McEwan, Espiazione, 2001)
Ricapitolando, la differenza tra analessi e prolessi si può sintetizzare in tre punti:
a) Tempo: Memoria del passato (analessi) / proiezione nel futuro (prolessi).
b) Dimensioni: una analessi può essere anche molto lunga e comprendere racconti assai
dettagliati, mentre la prolessi è in genere più concisa.
c) Chiarezza: l’analessi spiega qualcosa che è avvenuto, dunque chiarifica. La prolessi
annuncia qualcosa che avverrà, dunque di solito mantiene un velo di mistero.
Esiste anche il caso, particolarissimo, in cui prolessi e analessi siano incardinate l’una nell’altra:
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello
Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in
cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era
allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito
sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto
di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo
era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”.
(Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, 1976)
L’invenzione geniale di Garcia Marquez, in questo che è uno degli inizi più famosi del
romanzo contemporaneo, è quella di muoversi contemporaneamente in due direzioni
opposte.
Il “Molti anni dopo” d’apertura ci informa che l’istante della fucilazione di Aureliano
Buendìa è ancora un futuro lontano da quando questa storia comincia. In effetti la scena
arriva dopo ben centoventi pagine.
Ma immediatamente i lettori sono anche trascinati nel passato, fino alla remota infanzia
del colonnello, che di fronte al plotone d’esecuzione ripensa a quando, da bambino, per la
prima volta aveva veduto il ghiaccio.
Così, il presente – di cui non sappiamo ancora nulla – viene scavalcato in due direzioni,
prima in avanti e poi all’indietro.
Il metodo
31
6. L’inizio del racconto
Se il titolo è così importante, molto importante è anche l’inizio di ogni racconto. La prima
impressione del lettore è fondamentale. Un libro che non ci conquista subito, probabilmente smetteremo di leggerlo e lo sostituiremo con qualcos’altro.
Per rapire l’attenzione di chi legge, le strategie sono varie.
6.1. Inizio descrittivo
“Sulla bella costa della riviera francese, a mezza strada tra Marsiglia e il
confine italiano, sorge un albergo rosa, grande e orgoglioso. Palme deferenti ne rinfrescano la facciata rosata, e davanti a esso si stende una breve
spiaggia abbagliante. Recentemente è diventato un ritrovo estivo di gente
importante e alla moda; dieci anni fa, quando in aprile la clientela inglese andava verso il Nord era quasi deserto. Ora molte villette vi si raggruppano intorno; ma quando questa storia incomincia, soltanto i tetti di una
dozzina di villette marcivano come ninfee in mezzo ai pini ammassati tra
l’Hôtel des Étrangers di Gausse e Cannes, cinque miglia più in là”.
(Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte, 1934)
a) Questo è un esempio tradizionale di inizio descrittivo. Come una inquadratura cinematografica, la narrazione si apre con una panoramica sullo scenario che ospiterà la
storia, o almeno la sua prima frazione.
Nota quanti aggettivi insistono sul fascino esclusivo del luogo: la “bella costa”, l’albergo “grande e orgoglioso”, le “palme deferenti”, la “spiaggia abbagliante”. Non stupisce che i frequentatori siano “gente importante e alla moda”. Molto probabilmente,
lo saranno anche i personaggi del libro ambientato qui.
Questo tipo di inizio è frequente nel romanzo ottocentesco: il cinema non esisteva
ancora, e gli scrittori cercavano di rappresentare nel modo più preciso ai loro lettori i
luoghi in cui si svolge la narrazione.
6.2. Inizio narrativo
“Il primo di giugno dell’anno scorso Fontamara rimase per la prima
volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno, il
quattro di giugno, Fontamara continuò a rimanere senza illuminazione
elettrica. Così nei giorni seguenti e nei mesi seguenti, finché Fontamara
si riabituò al regime del chiaro di luna. Per arrivare dal chiaro di luna
alla luce elettrica, Fontamara aveva messo un centinaio di anni, attraverso l’olio di oliva e il petrolio. Per tornare dalla luce elettrica al chiaro di luna bastò una sera.
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Canone Occidentale - Prosa
I giovani non conoscono la storia, ma noi vecchi la conosciamo. Tutte
le novità portateci dai Piemontesi in settant’anni si riducono insomma
a due: la luce elettrica e le sigarette. La luce elettrica se la sono ripresa.
Le sigarette? Si possa soffocare chi le ha fumate una volta sola. A noi è
sempre bastata la pipa”.
(Ignazio Silone, Fontamara, 1930)
b) Un buon esempio di inizio narrativo. Senza indugiare, fin dalla prima frase l’autore
comincia a esporre i fatti.
La rivolta della povera gente del Sud contro lo sfruttamento da parte dei nuovi padroni dell’Italia unita (i Piemontesi), inizia con un ritorno alle origini. La luce elettrica,
che nessuno nel paese di Fontamara pagava, viene tagliata.
Osserva la contrapposizione insistita con il chiaro di luna. L’elettricità è un simbolo
forte del progresso, ma di un progresso che costa, ed è imposto dall’alto.
Il disprezzo verso i presunti doni della modernità, sigarette ed elettricità, introduce i
lettori al carattere fiero della gente di Fontamara.
6.3. Inizio dialogato
“Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice.
Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise, e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda.
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra.”
(Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926)
c) Un altro tipo che si incontra di frequente: l’inizio dialogato. Invece di rappresentare o riassumere la situazione, lo scrittore lascia direttamente parlare i suoi personaggi.
Per quanto breve, la scena è cruciale. Da questo minimo scambio di battute, il protagonista dell’ultimo romanzo di Pirandello, Vitangelo Moscarda, scopre una piccola
deformità fisica di cui non s’era mai accorto. Tanto basta per mandare in pezzi l’idea
che aveva di se stesso. Scoprire che gli altri ci vedono diversi da come noi ci immaginiamo, porta Moscarda alla perdita della propria identità.
6.4. Inizio sentenzioso
“È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo largamente
provvisto di beni di fortuna debba sentire il bisogno di ammogliarsi.
Il metodo
33
Per quanto poco si conoscano, di costui, i sentimenti e le intenzioni,
fino dal suo primo apparire nelle vicinanze, questa verità si trova così
radicata nelle teste delle famiglie circostanti che queste lo considerano
senz’altro come la legittima proprietà dell’una o dell’altra delle loro
figliuole”.
(Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio, 1797)
d) Molto spesso, specie nel primo Ottocento, a inaugurare un racconto si incontra un
inizio sentenzioso. Cioè l’espressione di una sorta di legge generale. L’autore la mette
in rilievo perché il lettore sappia fin dall’inizio qual è il senso della vicenda che va a
incominciare.
Orgoglio e pregiudizio infatti è un romanzo dominato dal tema del matrimonio.
In questo caso il tono sentenzioso è alleggerito dal tocco di ironia da parte di Jane
Austen. La scrittrice sorride delle famiglie che considerano ogni scapolo ricco come
una loro “legittima proprietà”.
6.5. Inizio «in medias res» (o in situazione)
Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la
gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che facevano le
calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo
seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto.
“Mamma sta vestendosi,” ella disse avvicinandosi “e verrà giù tra
poco”.
“L’aspetteremo insieme,” disse l’uomo curvandosi in avanti; “vieni qui
Carla, mettiti qui.” Ma Carla non accettò questa offerta.
(Alberto Moravia, Gli Indifferenti,1929)
e) Le prime due parole di questo romanzo (“Entrò Carla”) equivalgono all’entrare sulla
scena di un personaggio a teatro. Ma il breve dialogo tra i due, Carla e Leo, sembra un
frammento qualsiasi di una conversazione qualsiasi. È il cosiddetto inizio «in medias
res» (una formula latina che significa “nel mezzo della situazione”).
- Incontriamo la storia già in pieno svolgimento
- Carla e Leo si conoscono, siamo noi lettori a non saper niente di loro, né del luogo
in cui si trovano, né del tempo in cui si svolge la vicenda.
- L’autore per il momento non ci informa di nulla. Scopriremo ogni cosa solo andando avanti con la lettura. È il tipo di inizio preferito dagli scrittori americani di oggi.
Attenti alle esigenze commerciali, questi scrittori di grande successo (come Stephen
King, John Grisham, Tom Clancy, Dan Brown) sanno bene che il lettore va catturato fin dalla prima pagina. Perciò confezionano i loro romanzi in modo che la “trappola” della narrazione scatti subito e il lettore non abbandoni il libro.
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Canone Occidentale - Prosa
6.6. Inizio con anticipazioni
Sollecitato dal conte Trelawney, dal dottor Livesey e dal resto della brigata di scrivere la storia della nostra avventura all’Isola del Tesoro, con
tutti i suoi particolari, nessuno escluso, salvo la posizione dell’isola, e
ciò perché una parte del tesoro vi è ancora nascosta, io prendo la penna
nell’anno di grazia 17… e mi rifaccio al tempo in cui mio padre teneva
la locanda dell’ “Ammiraglio Benbow” e il vecchio uomo di mare dal
viso abbronzato e sfregiato da un colpo di sciabola prese per la prima
volta alloggio presso di noi.
(Robert Louis Stevenson, L’Isola del Tesoro, 1881)
f) Quando il narratore de L’Isola del tesoro, il più celebre romanzo di Stevenson, inizia
a parlare, tutto è già accaduto. E non se ne fa mistero. Questo è un esemplare inizio
con anticipazioni. Ci viene detto subito che:
- c’è stata una “avventura”
- si è svolta in un luogo chiamato l’Isola del Tesoro
- l’avventura ha coinvolto almeno chi racconta, più “il conte Trelawney”, il “dottor
Livesey” e qualcun altro ancora (“il resto della brigata”). Così il narratore presenta
subito per nome i suoi personaggi.
- tutti costoro sono sopravvissuti all’avventura, se hanno spinto il narratore a raccontarla
- il tesoro che dà il nome al romanzo, è stato trovato: infatti si tace la posizione dell’isola “perché una parte del tesoro vi è ancora nascosta”.
Laboratorio
Verifica
1
Quale fra gli inizi qui riportati ti ha incuriosito di più? Quale ti sembra più efficace
per conquistare il lettore e perché?
2
Quale tipo di inizio richiede secondo te uno stile scarno ed essenziale?
3
Quale invece ha bisogno di una scrittura lenta e accurata?
4
Dov’è che l’autore si preoccupa del lettore e dove invece sembra ignorarlo?
5
Immagina un possibile sviluppo narrativo per i racconti che cominciano con questi
inizi.
6
Immagina di trasformare in un film o in uno spettacolo teatrale questi testi. Quali vi
si prestano più facilmente e quali invece meno?
Il metodo
35
7. Le sequenze
Ogni racconto o romanzo è composto di “cellule” narrative o unità minori collegate tra
loro che vengono chiamate sequenze (Come flashback, anche sequenza è un termine di
provenienza cinematografica).
Scomporre un testo in tanti nuclei è sempre una violenza che si fa all’unità di un’opera.
Però è sempre possibile perché un libro, proprio come un organismo vivente, funziona
grazie alle varie parti che lo compongono.
La forma più evidente di organizzazione per grandi sequenze è la suddivisione in capitoli.
Ma già un capitolo è una macro-sequenza, e può essere suddiviso a sua volta in sequenze più brevi.
Lasciare una spaziatura bianca tra due parti di testo segnala spesso l’interruzione di una
sequenza.
Anche il semplice capoverso e la creazione di un nuovo paragrafo indica uno “stacco” da
quanto precedeva.
Non esiste un criterio unico per definire dove cominci o dove si concluda una sequenza.
Tuttavia i quattro segnali più forti del mutare episodio sono:
a) l’ entrata in scena di un personaggio fino a quel momento assente
Cominciò a salire a passi lenti i gradini disegnati dalla familiare luce
delle torce. Tutto era tranquillo nel cunicolo mentre avanzava a passo
regolare e le lunghe torce nelle rastrelliere illuminavano a sufficienza la
rozza pietra. Raggiunta una porta chiusa in cima alle scale, si fermò ad
ascoltare, avvicinando l’orecchio a una fessura fra le cerniere di ferro.
Non udendo alcun rumore, prudentemente aprì uno spiraglio e lanciò
un’occhiata verso le sale antiche di Paranor. Aveva raggiunta la sua
meta. Aprì un po’ di più la porta ed entrò cautamente nel corridoio
silenzioso.
La morsa d’acciaio di una scarna mano scura calò sul suo braccio proteso e lo sospinse brutalmente avanti.
(Terry Brooks, La spada di Shannara, 1977)
Di chi è “la morsa d’acciaio” che improvvisamente irrompe? Il brano finora mostrava un
personaggio aggirarsi da solo in un castello in apparenza deserto. Quel che accade segnala l’arrivo inatteso di una nuova figura, dunque l’inizio di una nuova sequenza. E il fatto
che non ne vediamo il viso, ma solo “una scarna mano scura”, aumenta la curiosità e il
timore del lettore.
b) l’uscita di scena di un personaggio fino a quel momento attivo
“Afferra qualcosa!” gridò il druido. “Aggrappati!”
Shea tentava inutilmente di aggrapparsi alla ripida parte rupestre, e proprio sull’orlo del dirupo riuscì ad afferrarsi a uno spuntone roccioso.
“Tieniti forte, Shea !” lo incoraggiava Allanon. “Prendo una corda. Non
muoverti!”
36
Canone Occidentale - Prosa
Allanon gridò per richiamare gli altri che si erano allontanati sul sentiero, ma quale aiuto potessero dargli, Shea non lo seppe mai. Mentre il
druido li chiamava, un secondo tremito scosse la montagna, facendo
cadere il disgraziato giovane dal suo precario appoggio. Agitando freneticamente le braccia e le gambe, cadde a testa in giù nelle acque veloci del fiume. Allanon osservava impotente il giovane che cadeva con
violenza, e veniva trascinato via verso est, sobbalzando e sussultando
nel fiume come un pezzo di sughero.
(Terry Brooks, La spada di Shannara, 1977)
La sequenza mostra una scena drammatica: c’è un personaggio che rischia di precipitare
dal fianco di una montagna. Però quando effettivamente cade, non si schianta sulle rocce
né svanisce tra gli alberi né affonda in un lago: finisce nelle acque tumultuose di un fiume
e viene portato via. L’autore fa chiaramente intendere che Shea è in pericolo, ma non è
morto. Qui il fiume agisce come un mezzo per far uscire di scena un personaggio. E conclude la sequenza.
c) il verificarsi di un fatto imprevisto, o che comunque modifica la situazione
Menion, che si era volto apprensivamente verso la Spada, vide l’impossibile accadere sotto i suoi occhi. Il grande blocco di Triplice Pietra e il
suo prezioso contenuto cominciarono a tremolare e a svanire davanti ai
suoi occhi esterrefatti. In pochi secondi l’intera immagine svanì in
fumo, poi in una nebbia pesante, e infine nell’aria stessa, finché i cinque uomini si ritrovarono soli, gli occhi spalancati sul vuoto.
“Una trappola, la terza trappola!” ruggì Menion, riprendendosi dallo
stupore iniziale.
Ma alle sue spalle già sentiva l’enorme lastra di roccia oscillare, scricchiolando e gemendo mentre i cardini arrugginiti cedevano al peso
mostruoso. Il giovane si lanciò attraverso la stanza, abbattendosi sulla
porta proprio mentre si chiudeva e la serratura scattava con un secco
rumore metallico. Crollò lentamente sul pavimento di pietra, il cuore
che gli batteva per il furore e la cocente delusione. Gli altri rimasero
immobili, disperati, mentre l’esile figura accanto alla porta si nascondeva il volto fra le mani. L’eco debole ma inconfondibile di una risata
echeggiò dalle gelide mura, deridendo la loro follia e la loro amara, inevitabile sconfitta.
(Terry Brooks, La spada di Shannara, 1977)
Niente più di un inganno, per giunta dovuto ad un incantesimo, lascia stupefatti e cambia
radicalmente le carte in tavola. Qui i personaggi scoprono – quando è ormai troppo tardi
– di essere stati vittima di una trappola. La sequenza del ritrovamento della Spada magica di Shannara sembrava preannunciare la vittoria degli eroi positivi. Invece all’improvviso tutto si ribalta. La Spada svanisce, e la stanza in cui si trovava diventa una prigione.
Le sequenze nel brano sono addirittura due:
- La prima termina quando la Spada scompare (vanificarsi del tesoro)
- La seconda quando cala la pietra (imprevista reclusione)
Il metodo
37
d) il trapasso di luogo o di spazio (dal chiuso all’aperto, dalla notte al giorno ecc.)
Lo stesso mattino che vide Shea e i suoi nuovi compagni alle prese con
la terribile verità dello gnomo fuggito con la Spada di Shannara, trovò
Allanon e i rimanenti membri della compagnia alle prese con varie difficoltà.
(Terry Brooks, La spada di Shannara, 1977)
Questo è il caso in cui semplicemente lo scrittore abbandona il capo della storia seguito
fino a quel momento (“Shea e i suoi nuovi compagni alle prese con la terribile verità dello
gnomo fuggito”) e ne riprende un altro lasciato in sospeso (“Allanon e i rimanenti membri della compagnia alle prese con varie difficoltà”).
A unire i due fili non è nient’altro che il fatto di avvenire in contemporanea. Nello stesso
momento in cui da una parte accade il fatto A, dall’altra accade il fatto B. La sequenza slitta dal primo al secondo.
Definizione:
Per sequenza possiamo intendere una unità narrativa che comprende un episodio
coerente e compiuto
8. Tipi di sequenze
Le sequenze di un testo si possono paragonare agli organi di un essere vivente: sono tante
unità minori che funzionano insieme, connesse tra loro ma autonome. E, proprio come gli
organi, sono diverse le une dalle altre.
Analizziamone alcuni esempi:
8.1. Sequenza descrittiva
“Dietro il Parco Paolino e la facciata d’oro di San Paolo il Tevere scorreva al di là di un grande argine pieno di cartelloni: e era vuoto, senza
stabilimenti, senza barche, senza bagnanti, e a destra era tutto irto di
gru, antenne e ciminiere, col gasometro enorme contro il cielo, e tutto
il quartiere di Monteverde, all’orizzonte, sopra le scarpate, con le sue
vecchie villette come piccole scatole svanite nella luce. Proprio lì sotto
c’erano i piloni di un ponte non costruito con intorno l’acqua sporca che
formava dei mulinelli; la riva verso San Paolo era piena di canneti e di
fratte”.
(Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, 1957)
a) Ecco una sequenza descrittiva. Nel brano di Pasolini trovi fianco a fianco tre componenti:
- Gli elementi della natura (il fiume, i canneti, le fratte)
38
Canone Occidentale - Prosa
- Il paesaggio urbano contemporaneo (gru, antenne e ciminiere, il gasometro)
- Lo splendore della Roma del passato (la facciata d’oro di San Paolo)
Gli elementi sono come stipati insieme in una visione unica. Ma l’aspetto dominante è
l’invasione della città moderna, che degrada tutto il resto (il ponte non è finito, l’acqua
intorno ai piloni è sporca, il gasometro è enorme e occupa gran parte del cielo).
8.2. Sequenza narrativa
“Quel giorno l’esercito, dopo aver vinto la battaglia di Ligny, stava
marciando dritto su Bruxelles. Era la vigilia di Waterloo. A mezzogiorno – pioveva ancora a dirotto – Fabrizio sentì qualche colpo di cannone. Era felice, non pensava più alla rabbia e alla disperazione che aveva
provato a essere imprigionato ingiustamente. Camminò fino a notte
fonda. Incominciava ad avere un po’ di buon senso, adesso, e andò a
chiedere alloggio in una casa di contadini molto lontana dalla strada. Il
contadino piangeva, diceva che gli avevano portato via tutto. Fabrizio
gli diede uno scudo, e quello fece saltar fuori un po’ di avena. […] Andò
a dormire nella stalla.
Il giorno dopo, un’ora prima dell’alba, Fabrizio era già sulla strada. A
furia di carezze era riuscito a mettere il cavallo al trotto. Verso le cinque sentì sparare i cannoni. Era l’inizio di Waterloo”.
(Stendhal, La Certosa di Parma, 1839)
b) Una sequenza narrativa si riconosce perché è interamente composta di azioni. Al centro c’è il giovane Fabrizio Del Dongo, protagonista del romanzo. Fabrizio è cresciuto
sognando grandi battaglie, imprese valorose, e il suo eroe è Napoleone Bonaparte.
Quando viene a sapere che Napoleone è tornato a capo del suo esercito, si precipita, da
solo, sui luoghi del conflitto per unirsi all’armata.
- Lo scrittore ne sottolinea spesso l’inesperienza di ragazzo (“Incominciava ad avere
un po’ di buon senso, adesso”/ “A furia di carezze era riuscito a mettere il cavallo al
trotto”).
- Nello stesso tempo, Stendhal ripete due volte il nome della storica battaglia
(“Waterloo”) verso cui Fabrizio sta dirigendosi. Il giovane non sa, a differenza di noi
lettori, che lo scontro sarà una catastrofe, l’ultima sconfitta di Napoleone.
- Tale contrasto ci fa parteggiare per Fabrizio e aumenta il desiderio di sapere cosa gli
accadrà.
8.3. Sequenza dialogica (o dialogo)
“Salirono in macchina e ripartirono per Amiens. Una sottile pioggia
calda cadeva sui nuovi boschi e sottoboschi stenti, e oltrepassarono
grandi pire funerarie di cimeli: proiettili, bombe, granate, elmetti, baionette, calci di fucile e cuoio marcio abbandonati alla rinfusa per terra da
sei anni. E improvvisamente, dietro una curva, i bianchi coperchi di un
gran mare di tombe. Dick chiese allo chauffeur di fermarsi.
– C’è quella ragazza; e ha ancora la corona.
Il metodo
39
Rimasero a guardarlo mentre scendeva e si avvicinava alla ragazza che
stava incerta sul cancello con una corona in mano. Il taxi l’aspettava.
Era del Tennessee e aveva i capelli rossi; l’avevano incontrata sul treno
quel mattino, venuta da Knoxville a deporre un ricordo sulla tomba del
fratello. Aveva sul viso lacrime di disperazione.
– Il Ministero della Guerra deve avermi dato un numero sbagliato – balbettò. – È dalle due che cerco, e c’è una tale quantità di tombe.
– Allora al vostro posto la poserei su una tomba qualunque, senza guardare il nome – la consigliò Dick.
– Credete che debba fare così?
– Credo che lui avrebbe voluto che faceste così.”
(Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte, 1934)
c) Malgrado una parte descrittiva iniziale, questa è senz’altro una sequenza dialogica.
L’incontro tra due sconosciuti nello sterminato cimitero di Verdun si risolve in poche
parole, sufficienti però a raccontare la tragedia della Prima Guerra Mondiale.
- Di fronte al “gran mare di tombe” è impossibile per la ragazza ritrovare quella del
proprio fratello.
- L’errore del Ministero permette all’autore di farci capire la cecità dei grandi poteri di
fronte alle tragedie dei singoli. Un soldato caduto è solo il numero di una lapide, facile da confondere.
- Per sua sorella invece significa una ricerca interminabile e vana, sottolineata dalle
“lacrime di disperazione”.
8.4. Sequenza riflessiva
“Il rumore mi rapiva: il sentire andare tutta la fabbrica come un solo
motore mi trascinava e mi obbligava a tenere con il mio lavoro il ritmo
che tutta la fabbrica aveva. Non potevo trattenermi, come una foglia di
un grande albero scosso in tutti i suoi rami dal vento. La gente non esisteva più e io pensavo che per quanto nella fabbrica si lavori tutt’insieme, stretti nei reparti, con le fresatrici su tre file ad intervalli regolari, e
così i torni e le presse, o tutt’in fila nelle catene di montaggio o nei controlli, o si mangi in tanti nella mensa e si viaggi tutti sulle corriere, è
difficile poter avere delle compagnie e degli aiuti dagli altri”.
(Paolo Volponi, Memoriale, 1961)
d) Il narratore del primo romanzo di Paolo Volponi, Memoriale, è un operaio gravemente
malato. Negli anni Cinquanta l’Italia si sta industrializzando velocemente, sono gli anni
del boom economico. Per raccontare gli effetti delle catene di montaggio e del lavoro in
fabbrica lo scrittore dà la parola a un personaggio alienato, incapace di vedere la realtà dei
fatti. Per questo nel libro si trovano molte sequenze riflessive, come quella qui riportata.
Nel brano troviamo due piani diversi di lettura:
- L’allucinazione dell’operaio affascinato dalla fabbrica (“Il rumore mi rapiva” / Non
potevo trattenermi, come una foglia di un grande albero”)
- La solitudine imposta dai ritmi di lavoro e l’impossibilità di avere rapporti umani
(“La gente non esisteva più” / “è difficile poter avere delle compagnie e degli aiuti
dagli altri”).
40
Canone Occidentale - Prosa
8.5. Sequenza lirica
9 Andromeda – È
il nome della nave
su cui si trova il
narratore.
10 Teorie – Cortei
(grecismo).
11 Rameggiavano
– Le costellazioni
si distendono in
mille direzioni nel
cielo come i rami
di un albero.
12 Massime – Soprattutto (latinismo, da maxime).
“Tutta la notte che durò la traversata, mia madre me la fece passare sul
ponte sopra una sedia a sdraio[…].
L’occhio verde di Andromeda9 brillava in cima all’albero maestro. Gli
anelli cigolavano con voce di uccelli notturni. Una sottile trepidazione
animava lo scafo. Un tenue nastro di vapore saliva e offuscava le scintillanti teorie10 delle divinità e degli eroi, passava tra le costellazioni
che rameggiavano11 per il vasto polo e, nero, traversava l’argento della
via lattea.
Nel silenzio soffuso di umido vento, il cuore di Andromeda pulsava con
ritmo perfetto. Era nell’aria limpidissima una calma animata d’una
inquietudine profonda. La marcia all’avventura si andava affermando in
modo sempre più preciso.Quel che di vago, di misterioso emana il mare
massime12 se coperto dalla notte, infondeva in me l’angoscia eccitante
del pericolo e della libertà”.
(Alberto Savinio, Tragedia dell’infanzia, 1937)
e) Questo “notturno” sul mare è una tipica sequenza lirica. Tutta l’attenzione si concentra
sullo stato d’animo del personaggio, un bambino che per la prima volta attraversa il
mare.
La scrittura cerca di comunicare non dei fatti ma delle emozioni. E l’emozione principale qui è la meraviglia.
Dunque abbiamo un gran numero di espressioni metaforiche (il motore della nave
diventa “il cuore” che “pulsava con ritmo perfetto”, il faro in cima all’albero è “l’occhio verde”, gli anelli hanno “voce di uccelli notturni”, il cielo notturno è percorso
dalle figure degli dei e degli eroi mitologici).
Laboratorio
Verifica
Centuria n. 52
13 Eterogeneo –
Letteralmente: di
un’altra natura.
GIORGIO MANGANELLI
Il drago, ovviamente, è stato ucciso dal cavaliere.
Solo un cavaliere può uccidere un drago – ad esempio, non un militare
di carriera, né un campione sportivo. Ci sono cavalieri che si vantano di
aver ucciso più draghi: mentono. Non è nel disegno del mondo consentire l’uccisione di più di un drago ad un cavaliere; e a molti anche questo è negato; taluno, anzi, viene dal drago abbattuto, prima che questi
cada sotto i colpi di altro, predestinato cavaliere.
Il drago giace trafitto, dissanguato e tuttavia esangue, in mezzo a bisce,
rane, conchiglie; codesti animali non mostrano la parentela del drago,
ma al contrario la sua totale estraneità. Infatti, il punto che non deve
sfuggire è che il drago è eterogeneo13 rispetto al luogo della propria
morte, rispetto agli animali, al cielo, e soprattutto rispetto al cavaliere.
Dei draghi non si sa molto, ma in genere i cavalieri ignorano anche il
poco che se ne conosce. Che esistano regioni in cui i draghi dimorano,
41
Il metodo
regioni lontane e forse tecnicamente inaccessibili, molti credono, e pare
verosimile.
Da quella regione si allontanano; viaggiano sempre soli: nessuno ha
mai saputo di una coppia di draghi, una famiglia, due draghi amici.
Il drago si dirige verso la propria uccisione. Che si sappia, questo è il
solo modo di morire consentito ai draghi. Il drago si dirige verso le
mura della città, in cui tuttavia non penetra mai; non ha interesse per i
villani, ma cerca cavalieri, giacché solo da uno di questi otterrà la
morte.
Talora il drago si apparta in una grotta, se ne fa ricetto14, accumula sassi
sulla soglia. Il drago emette dalla bocca fuoco: che tiene luogo di favella15. Egli ha verosimilmente molte cose da dire, ma la lunga solitudine
l’ha reso disavvezzo16, e l’intima fatica esce in lingua di fiamma.
Colpisce, in tutta la vicenda del cavaliere e del drago, la assoluta inintelligenza17 del cavaliere nei confronti del drago. Non ne avverte le
distanze, la solitudine, la grandezza immane e deforme, né decifra i
segni del fuoco. Ignora le fatiche che il drago ha voluto affrontare per
giungere puntuale ad un terribile appuntamento.
Il cavaliere ignora di essere egli stesso giunto ad un appuntamento.
Se, fermo sul suo bel cavallo, poggiasse la lancia al suolo, reggendola
pianamente, senza ira e paura, il drago, vedendo delusa la sua brama18
di morte, inizierebbe il colloquio.
14 Ricetto –
Riparo, tana.
15 Che tiene
luogo di favella –
Che sta al posto
della parola.
16 Disavvezzo –
Non più abituato
(a parlare).
17 Inintelligenza –
Mancanza di comprensione (dal
latino intelligere,
che significa comprendere).
18 Brama –
Desiderio bruciante.
(da Centuria. Cento piccoli romanzi fiume, Milano, Adelphi 1995)
Esercizi
FABULA E INTRECCIO
1
Estrai dal racconto una serie di fatti in forma di brevi proposizioni.
2
Ordina i fatti secondo una successione cronologica
3
Osserva se la fabula che hai ottenuto e l’intreccio del racconto
- Coincidono
- Non coincidono
4
Ci sono delle analessi (flashback) nel racconto?
- Se ritieni di sì, indicale
- Se ritieni di no, prova a inserirne qualcuna tu
5
Ci sono delle prolessi (anticipazioni) nel racconto?
- Se ritieni di sì, indicale
- Se ritieni di no, prova a inserirne qualcuna tu
L’INIZIO
1
Quale tipologia di inizio ti sembra vicina a quella del racconto di Manganelli?
42
2
Canone Occidentale - Prosa
Prova a inventare un diverso inizio basandoti sugli esempi che hai letto
LE SEQUENZE
1
Rileggi il racconto e cerca di individuare le sequenze che lo compongono.
(Tieni presente che anche la presenza dei capoversi è significativa)
2
Indica la tipologia delle sequenze
3
Quali sono i temi del racconto?
4
Osserva i tempi verbali. Quasi tutto il racconto è scritto al presente tranne poche
frasi. Per quale motivo l’autore ha usato il presente?
Sarebbe possibile raccontare la storia per esempio al passato remoto?
In tal caso, cosa cambierebbe?
5
Prova a immaginare svolgimenti alternativi della storia.
Il metodo
43
2. I personaggi
9. Il protagonista e i personaggi
Gandalf s’interruppe qualche secondo e poi disse con voce lenta e
grave: «Questo è l’Anello Sovrano, quello che serve a dominarli tutti.
È quell’Unico Anello che Sauron, l’Oscuro Signore, perse molto tempo
fa, affievolendo di parecchio la propria potenza. Lo desidera più di
qualsiasi altra cosa al mondo, ma non deve mai più riaverlo».
Frodo rimase muto ed immobile. Il terrore, giganteggiante come una
nuvola nera sorta da est per inghiottirlo, sembrava stringerlo in una
morsa. «Quest’anello!», balbettò. «Ma com’è possibile che l’abbia io?»
(John Ronald Reuel Tolkien Il Signore degli Anelli)
Il breve brano qui riportato dal Signore degli Anelli è di grande importanza, perché vi succede un fatto fondamentale: il giovane Frodo Baggins scopre il suo destino. Diventa il
Portatore dell’Anello («Com’è possibile che l’abbia io?»), dunque il protagonista del
romanzo.
Abbiamo già detto che una storia si compone di:
a) eventi
b) tempi
c) luoghi
d) personaggi
È impossibile pensare a una storia senza dei personaggi. I personaggi si muovono nei luoghi, si evolvono nel tempo, compiono o subiscono azioni che sono gli eventi del racconto.
Ma che cos’è davvero il protagonista di un racconto?
Non è semplicemente la figura che sta più a lungo in scena rispetto a tutte le altre.
È piuttosto quel personaggio senza il quale la storia sarebbe completamente differente.
Di solito il protagonista, uomo donna o bambino che sia, è un essere umano. Spesso però
nelle fiabe o nei racconti per ragazzi può essere un animale (come il lupo in Zanna
Bianca – romanzo di Jack London – o i maiali ne La fattoria degli animali – romanzo di
George Orwell – o nei film di Rin Tin Tin, o in tanti lungometraggi Disney).
Può essere anche un’idea astratta (La Gelosia), o perfino un oggetto.
Senza dubbio l’Anello del Potere nel libro di Tolkien è il protagonista tanto quanto Frodo.
Tutta la vicenda ruota intorno al possesso dell’Anello. Dunque la scena che abbiamo letto
è ancora più importante, perché mostra l’incontro tra i due protagonisti del libro, Frodo e
l’Anello.
Se il protagonista è il personaggio di cui non si può fare a meno, ci saranno due tipi di
vicende:
- Quelle in cui il protagonista sorregge la storia da solo. È il caso del naufrago Robinson
Crusoe per oltre metà del romanzo omonimo di Daniel Defoe (1660-1731). Robinson
vive in piena solitudine sulla sua isola fino a quando non incontra l’indigeno che chiamerà Venerdì. Tuttavia questo è un caso piuttosto raro.
44
Canone Occidentale - Prosa
- Quelle in cui attorno al protagonista incontriamo altri personaggi, di importanza via via
decrescente. La maggioranza dei racconti appartiene a questo secondo gruppo.
Quelli che hanno un ruolo “forte” nella storia sono i personaggi principali. Accanto a
Frodo abbiamo visto lo stregone Gandalf, che è un comprimario, cioè quasi un altro protagonista.
Poi ci sono personaggi secondari: agiscono solo in alcune sequenze del racconto.
Infine le comparse, cui sono riservate piccole apparizioni.
Il sistema dei personaggi: un esempio di analisi
- Che cos’è quel baraccone? - domandò Pinocchio, voltandosi a un
ragazzetto che era lì del paese.
- Leggi il cartello, che c’è scritto, e lo saprai.
- Lo leggerei volentieri, ma per l’appunto oggi non so leggere.
- Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello
a lettere rosse come il fuoco c’è scritto: GRAN TEATRO DEI BURATTINI...
- È molto che è incominciata la commedia?
- Comincia ora.
- E quanto si spende per entrare?
- Quattro soldi.
Pinocchio, che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno, e disse senza vergognarsi al ragazzetto, col quale parlava:
- Mi daresti quattro soldi fino a domani?
- Te li darei volentieri, - gli rispose l’altro canzonandolo, - ma oggi per
l’appunto non te li posso dare.
- Per quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta, - gli disse allora il burattino.
- Che vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove
su, non c’è più verso di cavartela da dosso.
- Vuoi comprare le mie scarpe?
- Sono buone per accendere il fuoco.
- Quanto mi dài del berretto?
- Bell’acquisto davvero! Un berretto di midolla di pane! C’è il caso che
i topi me lo vengano a mangiare in capo!
Pinocchio era sulle spine. Stava lì lì per fare un’ultima offerta: ma non
aveva coraggio; esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse:
- Vuoi darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo?
- Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi, - gli rispose il suo
piccolo interlocutore, che aveva molto più giudizio di lui.
- Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io, - gridò un rivenditore di
panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione.
E il libro fu venduto lì sui due piedi. E pensare che quel pover’uomo di
Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!
(Carlo Collodi, Pinocchio, 1883)
In questa sequenza dialogica di Pinocchio abbiamo sottolineato quattro diverse figure,
una per ogni tipo di personaggio:
Il metodo
45
- Pinocchio, naturalmente: è il protagonista.
- Suo babbo, Geppetto, è uno dei personaggi principali e ricompare lungo l’intero arco
del libro. Qui è assente, ma viene ricordato al termine della scena.
- “Un ragazzetto che era lì del paese” è un personaggio secondario. Non ha nome, lo si
incontra soltanto in questo capitolo. Però è molto ben descritto: ci appare come un
ragazzo astuto, ironico e non privo di cattiveria, dalla battuta sempre pronta. In mezza
pagina, Collodi ha creato un carattere che rimane nella memoria.
- Infine, “un rivenditore di panni usati” è una comparsa. Serve soltanto per quell’unica
battuta che pronuncia, e per quell’unico gesto che compie, di comprare l’Abbecedario a
Pinocchio.
A seconda del loro ruolo, cambia anche il trattamento che lo scrittore riserva ai personaggi.
Un abile narratore può raffigurare in maniera assai vivace anche una comparsa. Di norma
però il maggior impegno nella descrizione è dedicato ai caratteri principali.
10. Gli elementi del personaggio
“Il burattinaio Mangiafoco (questo era il suo nome) pareva un uomo
spaventoso, non dico di no, specie con quella sua barbaccia nera che, a
uso grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo
poi non era un cattiv’uomo. Prova ne sia che quando vide portarsi
davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando
``Non voglio morire, non voglio morire!’’, principiò subito a commuoversi e a impietosirsi e, dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non
ne poté più, e lasciò andare un sonorissimo starnuto.
A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come un salcio19 piangente, si fece tutto allegro in viso, e chinatosi
verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:
- Buone nuove, fratello. Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che
s’è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo.
Perché bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini, quando si sentono
impietositi per qualcuno, o piangono o per lo meno fanno finta di
rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s’inteneriva
davvero, aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per
19 Salcio – salice.
dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore”.
(Carlo Collodi, Pinocchio, 1883)
Di cosa si compone un personaggio?
Questa scena di Pinocchio insieme ce lo racconta e ce lo fa vedere:
- Abbiamo un nome minaccioso (“Mangiafoco”)
- L’aspetto del burattinaio (“quella sua barbaccia nera che, a uso grembiale, gli copriva
tutto il petto e tutte le gambe”), che il narratore stesso definisce “spaventoso”
- Poi una azione inattesa: lo starnuto
- Dell’azione ci viene data l’interpretazione da Arlecchino (che qui è un personaggio
secondario): “questo è segno che s’è mosso a compassione per te”
46
Canone Occidentale - Prosa
- Infine, il narratore offre una spiegazione più generale: ci aveva già anticipato nelle
prime righe che Mangiafoco “nel fondo non era poi un cattiv’uomo”. Ora spiega che per
lui starnutire è dare un segno della “sensibilità del suo cuore”
Un personaggio è composto esattamente di questi tratti:
a) il suo aspetto
b) il suo carattere
c) le sue azioni
Non sempre, come proprio Collodi ci spiega, i tratti vanno tutti nella stessa direzione.
Mangiafoco appare come un orco terribile, ma poi si commuove facilmente, e sarà in
seguito molto generoso con Pinocchio.
I tratti sono degli insiemi di elementi. Infatti, l’aspetto di un personaggio principale è
composto da tanti particolari. Altrettanto il suo carattere. E tante sono le sue azioni nel
corso della storia.
Nessuno di questi tre insiemi è indipendente dagli altri.
Per comprendere l’unità di un personaggio il lettore deve considerarli tutti insieme.
In questo caso si parla di personaggi a tutto tondo (secondo la definizione di uno scrittore inglese, Edward Morgan Foster). Vuol dire che il personaggio è come una statua, e
bisogna girarci attorno per vederla tutta, non basta un solo punto di vista.
Invece un personaggio piatto (o monodimensionale) è qualcuno in cui i tratti sono pochi,
e tutti coerenti. Di solito si tratta dei personaggi secondari. Esempio classico è l’impeccabile maggiordomo inglese in un romanzo giallo.
11. Presentazione dei personaggi
11.1. Autopresentazione
A) “Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare
che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che io ho per cacciare la
malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo
di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende
come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe
funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre
un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in
strada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto”.
(Hermann Melville, Moby Dick,1851)
Fin dalla frase iniziale, il lettore capisce di avere di fronte un’autopresentazione: il narratore dichiara prima di tutto il suo nome (“Ismaele”). E lo dichiara a noi lettori, come se
Il metodo
47
stesse direttamente parlando a un pubblico (“Chiamatemi”).
Subito dopo, annuncia la decisione fondamentale da cui prende avvio il romanzo: “pensai
di darmi alla navigazione”. Moby Dick è uno dei più famosi romanzi di mare di tutti i
tempi, dominato dalla lotta tra il Capitano Achab e la Balena Bianca.
Non è tutto. Ismaele ha già dato una prima motivazione per cui ha scelto il mare: bisogno
di soldi (“avendo pochi o punti denari in tasca”) e noia (“nulla di particolare che m’interessasse a terra”). Però decide di spiegarsi meglio. E allora scrive una frase lunghissima,
in cui descrive gli effetti della sua malinconia crescente. Da qui la volontà di curarla, mettendosi a navigare.
Questo è un tratto del suo carattere. Non tutti pensano che stare a terra provochi malumori. Ma noi da ora sappiamo che per Ismaele è così. L’oceano per lui rappresenta l’evasione dal grigiore della vita di tutti i giorni.
11.2. Presentazione da parte di un altro personaggio
B) “Rimasto nell’angolo dietro la porta, così che lo vedevamo appena,
il nuovo era un ragazzo della campagna, sui quindici anni, e più alto
di tutti noi. Aveva i capelli tagliati di netto sulla fronte, come un
chierico di paese, l’aria giudiziosa e molto impacciata. Benché non
fosse largo di spalle, la giubba di panno verde e bottoni neri doveva
stargli tirata nel giro di manica e lasciava apparire, dalle fenditure
dei risvolti, due polsi rossi avvezzi ad essere nudi. Le gambe, nelle
calze turchine, sbucavano fuori dai pantaloni di un colore gialliccio,
con le bretelle molto tese. Portava scarpe robuste, malamente lustrate, fornite di chiodi”.
(Gustave Flaubert, Madame Bovary, 1856)
Siamo in una scuola francese, nell’Ottocento. Nessun lettore ancora sa chi sia il ragazzo
di cui si parla in queste righe. La sua presentazione vien fatta da un altro personaggio che
si trova nella medesima aula (“lo vedevamo appena / era più alto di tutti noi”).
La tecnica adoperata qui è totalmente diversa: il personaggio è descritto dettagliatamente
dall’esterno.
- Ha i capelli tagliati come un prete di campagna
- Ha l’aria “molto impacciata”
- È vestito malamente e in maniera povera
- È un ragazzo abituato a vivere all’aria aperta (i polsi sono rossi, cioè abbronzati, e
nell’Ottocento l’abbronzatura era solo di chi lavorava sotto il sole, ossia dei contadini).
Non sappiamo ciò che pensa o prova questo ragazzo. Possiamo però dedurlo da quel che
ci vien fatto vedere di lui.
Immaginiamo, per esempio, che sia in imbarazzo perché resta in un angolo dietro la
porta.
Inoltre, possiamo leggere tra le righe quel che pensa di lui chi lo sta descrivendo. Non
è difficile sentire, nel tono generale del brano, una forma di disprezzo. Sono i dettagli a
trasmetterla:
- la pettinatura da chierichetto
- la giubba che sta tirata
- il colore “gialliccio” dei pantaloni
- le scarpe “malamente lustrate”
48
Canone Occidentale - Prosa
Infine, c’è un aspetto ancor più notevole. Ed è che questo ragazzo non ha faccia. L’occhio
spietato di chi scrive lo percorre dalla testa ai piedi, dai capelli alle calzature, ma non dice
nulla sul suo viso, tranne che ha l’aria “giudiziosa e molto impacciata”.
È un modo molto sottile per far capire la sua estraneità rispetto alla classe in cui è appena arrivato.
11.3. Presentazione da parte di un narratore esterno
C) “«In un borgo della Mancha», il cui nome non mi viene in mente,
non molto tempo fa viveva un cavaliere di quelli con lancia nella
rastrelliera, un vecchio scudo, un ronzino magro e un levriero corridore. Un piatto più di vacca che di castrato, un tritato di carne fredda in insalata tutte le sere, frittata coi ciccioli il sabato, lenticchie il
venerdì, qualche piccioncino in soprappiù la domenica, consumavano tre quarti della sua rendita. Il resto se ne andava tra un mantello
di fino panno nero, calzoni di velluto per i giorni festivi, con soprascarpe della stessa stoffa, e un vestito di lana greggia della migliore
per tutti i giorni. […] L’età del nostro gentiluomo rasentava i cinquant’anni: era di complessione robusta, asciutto di corpo, magro di
viso, molto mattiniero e amante della caccia. […]
Bisogna dunque sapere che il suddetto gentiluomo, nei momenti di
ozio (che erano la maggior parte dell’anno) si dedicava a leggere
libri di cavalleria…”
(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1605)
La terza modalità, la più classica, è quella della presentazione di un personaggio effettuata da un narratore esterno alla vicenda.
Nel brano appena citato troviamo, tutti insieme, molti tratti del personaggio Don
Chisciotte:
- tratti fisici: robusto, asciutto, magro
- tratti anagrafici: quasi cinquant’anni, provinciale (originario di un borgo della Mancia,
nel centro della Spagna)
- abitudini: mattiniero ma ozioso, amante della caccia, non veste con abiti vistosi o sontuosi
- posizione sociale: un “gentiluomo”, però non ricco (cibi frugali e sempre uguali gli consumano quasi tutta la rendita); ha un “vecchio” scudo, il suo cavallo è un “ronzino” ed
è per giunta “magro”
- caratteri culturali e ideologici: è appassionato di romanzi cavallereschi
Per completare il personaggio mancano ancora le sue azioni, ma certo il ritratto è ricco
ed esauriente.
11.4. Presentazione mista
D) “Fermo davanti alla porta della prigione di Tegel, era libero. Ancora
ieri insieme agli altri aveva raccolto patate nei campi dietro al penitenziario, vestito da forzato, ora se ne andava attorno con un sopra-
Il metodo
49
bito giallo, leggero, gli altri stavano ancora dietro a raccogliere patate, lui era libero. Lasciava i tram passargli dinanzi uno dopo l’altro
e lui teneva poggiata la schiena alla parete rossa e non si moveva. Il
custode gli passò dinanzi un paio di volte e gli mostrò il suo tram;
ma lui non si moveva. Il momento terribile era venuto (terribile,
Franz, perché terribile?). I quattro anni erano passati. I ferrei battenti neri della porta, che da un anno egli aveva osservato con crescente avversione (avversione, perché avversione?) s’erano chiusi dietro
a lui. L’avevano messo fuori”.
(Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz, 1929)
Questa quarta modalità infine la potremmo definire mista: si compone di una presentazione che unisce lo sguardo del narratore esterno e quello del personaggio stesso.
Qui abbiamo un uomo che è stato appena rilasciato da un carcere, a Berlino.
Il suo impatto con la libertà dopo quattro anni è raffigurato in modo complesso:
- Osserva l’uso delle ripetizioni: “era libero” […] “lui era libero” / “e non si moveva” […]
“ma lui non si moveva” / “Ancora ieri insieme agli altri aveva raccolto patate” […] “gli
altri stavano ancora dietro a raccogliere patate”.
- Questa tecnica ci mostra l’emozione del personaggio: fatica a rendersi conto che è tutto
vero, e ha paura di fronte al mondo fuori dal carcere
- È come se fossimo dentro la sua testa: sentiamo i suoi pensieri e i suoi stati d’animo
- C’è però anche un punto di vista descrittivo, che ce lo fa vedere dall’esterno: “ora se ne
andava attorno con un soprabito giallo, leggero”/ “Lasciava i tram passargli dinanzi uno
dopo l’altro e lui teneva poggiata la schiena alla parete rossa”.
- C’è poi una seconda voce, dentro le due parentesi. Una voce che dialoga con il personaggio e lo chiama anche per nome: Franz. In entrambi i casi, la voce “(terribile, Franz,
perché terribile?)” […] “(avversione, perché avversione?)” contesta quanto il personaggio sta pensando, gli chiede spiegazioni.
Questo può significare:
- Che si tratti della voce di una parte della sua coscienza, che lo esorta a non aver paura
- Oppure che il narratore prenda subito le distanze da lui
Tecniche miste di presentazione dei personaggi sono numerose e sempre diverse da un
racconto all’altro. L’esempio scelto dimostra quanto possono arricchire e rendere più credibile un testo.
12. Personaggi statici e personaggi dinamici
“Sotto il tavolo i piedi di Winston facevano certi movimenti convulsi.
Non si era mosso dal suo posto, ma mentalmente stava correndo, correndo con straordinaria rapidità, assieme alla folla, di fuori, e urlando
fino ad assordarsi. Guardò ancora una volta in alto, verso il ritratto del
Gran Fratello. Il colosso che aveva conquistato il mondo! La roccia
contro cui le orde dell’Asia si erano accanite invano! Pensò che solo
pochi minuti prima (sì, solo dieci minuti prima) c’era stata ancora dell’incertezza, nel suo cuore, mentre si chiedeva se le notizie dal fronte
sarebbero state di vittoria o di sconfitta. Ah, era assai di più che non la
notizia d’una armata eurasiana distrutta! Molte cose erano cambiate, in
50
20 Ministero
dell’Amore – Nel
romanzo è in realtà il luogo dove la
polizia del regime
tortura gli oppositori.
Canone Occidentale - Prosa
lui, fin dal primo giorno passato nel Ministero dell’Amore20, ma il
mutamento finale, e indispensabile, il tocco che lo aveva guarito completamente, non era avvenuto prima di quel preciso momento.
[…] Winston, sprofondato in un sogno di felicità, non si accorse nemmeno che il bicchierino gli veniva riempito. Non correva, non schiamazzava più. Era di nuovo nel Ministero dell’Amore, con tutti i suoi
peccati perdonati e rimessi, e l’anima candida come la neve. Era sul
banco degli accusati, e confessava tutto, e tradiva e comprometteva
tutti. […]
Guardò su, alla faccia enorme. Gli ci erano voluti quaranta anni per
imparare che specie di sorriso era nascosto sotto quei baffi neri. Oh, che
equivoco crudele, e inutile. Oh, quale indocile esilio volontario da quell’affettuoso seno. Due lacrime puzzolenti di gin gli sgocciolavano ai lati
del naso. Ma ogni cosa era a posto, ora, tutto era definitivamente sistemato, la lotta era finita. Egli era riuscito vincitore su se medesimo.
Amava il Gran Fratello”.
(George Orwell, 1984, 1949)
Questa è la scena di un pentimento. Un grande, definitivo e terribile pentimento. Il ribelle Winston Smith, cittadino di uno stato totalitario dominato da un dittatore chiamato
Grande Fratello, è stato costretto con la tortura fisica e mentale ad amare il Partito e il suo
capo. In questa, che è l’ultima pagina del libro, Winston capisce di “amare” il Grande
Fratello.
Il fatto che questo cambiamento sia stato estorto non lo rende meno impressionante, anzi.
Ed è il cambiamento che qui ci interessa.
Nota come il personaggio sia consapevole di essere diventato una persona diversa:
- Diverso da com’era nel passato, prima dell’arresto e della “rieducazione” (“Molte cose
erano cambiate, in lui, fin dal primo giorno passato nel Ministero dell’Amore”).
- Diverso anche da come si sentiva in quello stesso giorno (“solo pochi minuti prima c’era
stata ancora dell’incertezza, nel suo cuore”)
Sappiamo che esistono personaggi “a tutto tondo” e personaggi “piatti”. Le creature di
fantasia che popolano i romanzi possono dunque essere complesse - dotate di molti tratti
- oppure semplici - con pochi tratti elementari -.
Quando si parla di personaggi statici e di personaggi dinamici, si intende proprio la
capacità di “muoversi”, cioè di trasformarsi, nel corso della storia.
I personaggi statici di solito non subiscono grandi trasformazioni. La loro psicologia rimane abbastanza simile a com’era all’inizio del racconto.
Invece i personaggi dinamici, proprio perché sono più ricchi e complicati, presentano
quasi sempre un percorso evolutivo che va di pari passo con l’andamento della loro vicenda. Come gli uomini nella vita reale, i personaggi imparano da ciò che accade loro, dalle
persone che incontrano, dalle occasioni che li segnano.
Cambiano d’aspetto, e cambiano nel carattere.
Definizione:
Personaggi statici sono quelli che non cambiano i loro tratti nel corso del racconto.
Personaggi dinamici sono quelli che si trasformano in seguito alle avventure che
vivono.
Il metodo
Laboratorio
Il primo e l’ultimo incontro con Madame Arnoux
51
Verifica
GUSTAVE FLAUBERT
“Il 15 settembre 1840, verso le sei del mattino, il Ville-de-Montereau,
sul punto di partire, lanciava grosse spire di fumo davanti al quai21
Saint-Bernard.
Finalmente la nave partì; e le due rive cominciarono a svolgersi come
due larghi nastri trascinando via la loro processione di magazzini, fabbriche, cantieri.
Un giovane di diciott’anni, con i capelli lunghi, se ne stava vicino al
timone tenendo un album sotto il braccio. Guardava passare, nella nebbia, campanili e palazzi di cui non sapeva il nome; a un tratto, con
un’ultima occhiata, abbracciò l’Ile Saint-Louis, la Cité, Notre-Dame;
poi, mentre Parigi scompariva rapidamente, si lasciò sfuggire un gran
sospiro. […]
Fredric pensava alla stanza dove sarebbe andato a vivere, al soggetto
d’un dramma, a dei quadri da dipingere, alle sue future passioni. Era
convinto che la felicità dovuta alle sue doti spirituali fosse già in ritardo. […]
Fu come un’apparizione.
Sedeva, tutta sola, al centro della panchina; o almeno, egli non vide
altri, abbagliato dagli occhi di lei. Al suo passare, ella alzò la testa. […]
Aveva un cappello di paglia, largo, con dei nastri rosa che il vento faceva palpitare. I capelli neri le scendevano in lunghe bande lisce, sfiorando l’estremità dei grandi sopraccigli, come per serrare teneramente l’ovale del suo viso. […]
Mai aveva visto splendore come quello della sua pelle bruna, né grazia
pari a quella dei suoi fianchi, né la dolcezza fragile delle sue dita orlate dalla luce. Contemplava il suo cestino da lavoro con meraviglia,
come un oggetto straordinario”.
“Frequentò il mondo, ebbe altri amori. Ma il ricordo invincibile del
primo glieli faceva sembrare insipidi; e poi la violenza del desiderio, la
parte alta e viva dei sensi eran perdute. Anche le sue ambizioni intellettuali s’erano appassite. Passarono gli anni; l’inattività della mente, l’inerzia del cuore erano tanti pesi che doveva portare.
Verso la fine di marzo del 1867, al calare della sera, mentre se ne stava
solo davanti al suo scrittoio, una donna era entrata.
«Madame Arnoux!»
«Fredric!»
[…]
Quando rientrarono a casa, Madame Arnoux si tolse il cappello. La
lampada posata sulla console illuminò i suoi capelli bianchi. Federico
ne sentì come un colpo in pieno petto.
Per nascondere la sua delusione s’era messo ai suoi piedi, le prese le
mani, le disse delle cose tenere.
21 Quai – banchina, molo, ma
anche lungofiume
(francese).
52
Canone Occidentale - Prosa
[…]
Rapita, lei accettava d’essere adorata come la donna che non era più; e
Fredric, stordito dalle sue stesse parole, cominciava a provare le cose
che le andava dicendo.
[…]
Fredric andava avanti e indietro fumando. Nessuno dei due trovava più
niente da dire. Quando ci si separa, c’è un momento in cui la persona
amata è già lontana da noi.
La lancetta dell’orologio aveva già superato i venticinque minuti; lentamente, la signora raccolse per i nastri il suo cappello.
«Mio amico, mio caro amico, addio. Non ci rivedremo mai più. È stata
la mia ultima impresa di donna… Ma con l’anima le starò sempre vicina. Il cielo la benedica!»
E gli posò, come una madre, le labbra sulla fronte.
(Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale, 1869)
A dividere queste due sequenze, ci sono oltre trecentocinquanta pagine di romanzo.
Nella finzione della storia, sono trascorsi ventisette anni tra il primo e il secondo brano,
ossia tra il primo e l’ultimo incontro di Fredric Moreau con il grande amore della sua vita,
Madame Arnoux.
Che cosa è successo?
Metti a confronto i due brani, che per molti aspetti sembrano quasi speculari, cercando di
notare tutti i dettagli disseminati da Flaubert, ed evidenziati graficamente con delle sottolineature.
Esercizi
PRESENTAZIONE E TRATTI:
A) Come appare Fredric nel 1840?
- Chi presenta Fredric Moreau al lettore?
a) Egli stesso
b) Un altro personaggio della storia
c) Un narratore esterno
- Quali elementi del suo aspetto vengono messi in evidenza?
- Quali elementi del suo carattere traspaiono da quello che vediamo di lui?
- Sembra un personaggio incline alla fantasticheria, al romanticismo, o un uomo dagli
interessi concreti, con i piedi per terra?
B) Come appare Madame Arnoux nel 1840?
- Chi presenta Madame Arnoux al lettore?
a) Ella stessa
b) Un altro personaggio della storia
c) Un narratore esterno
- Quali elementi del suo aspetto esteriore vengono messi in evidenza?
- Riusciamo a farci un’idea della sua interiorità (aspirazioni, interessi, desideri) come
è successo con Fredric, oppure no?
Parte prima
53
C) Come ritroviamo Fredric nel 1867?
- Ci sono degli elementi ricorrenti rispetto al passato?
- Sembra cambiato? E in cosa?
D) Come ritroviamo Madame Arnoux nel 1867?
- Nella figura della donna, ci sono degli elementi ricorrenti rispetto alla sua immagine passata?
STATICITÀ E DINAMICITÀ:
- In base al confronto tra i brani, Fredric e Madame Arnoux appaiono come due personaggi statici o dinamici?
- È comunque possibile individuare una componente “statica” e una “dinamica” in loro?
- Prova a immaginare altri possibili svolgimenti della seconda scena, quella dell’ultimo
incontro:
- Con minori cambiamenti
- Con maggiori cambiamenti
13. Il sistema dei personaggi: ruoli e funzioni
Per capire come è fatto il sistema dei personaggi in un testo narrativo, e cosa sono le funzioni, prendiamo un racconto dello scrittore tedesco Heinrich von Kleist (1777-1811),
Michael Kohlhaas (1808).
È la storia di un uomo comune che subisce prima un torto e poi una lunga umiliazione da
parte di un nobile arrogante e dell’aristocrazia tutta. L’uomo cerca invano di ottenere giustizia affidandosi alla legge ma i tribunali non lo aiutano. Così, mano a mano che la sua
esasperazione cresce, egli suscita una vasta rivolta popolare. Si pone a capo di una banda
armata e mette a ferro e fuoco il paese sulle tracce del barone e di un intero sistema statale corrotto che lo ha offeso. Alla fine sarà catturato e messo a morte.
13.1. Il protagonista
“Sulle rive della Havel viveva intorno alla metà del sedicesimo secolo
un mercante di cavalli di nome Michael Kohlhaas, figlio di un maestro,
uno degli uomini più retti e insieme più terribili del suo tempo.
Quest’uomo non comune avrebbe potuto passate per il modello del
buon cittadino fino ai trent’anni. Possedeva una fattoria in un villaggio
che porta ancora il suo nome, e vi campava tranquillamente del proprio
mestiere, cresceva nel timor di Dio ed educava alla lealtà e al lavoro i
figli che sua moglie gli dava; né v’era uno solo dei suoi vicini che non
avesse da lodare la sua generosità e la sua dirittura […]”.
54
Parte prima
A) Tra i personaggi di ogni storia abbiamo già detto che ne esiste uno principale, senza il
quale la vicenda non ci sarebbe affatto o sarebbe del tutto diversa. È il protagonista.
Qui è appunto il mite Michael Kohlhaas.
Definizione:
Il protagonista è il personaggio principale della narrazione.
13.2. L’oggetto del desiderio
“Insomma, il mondo ne avrebbe dovuto benedire la memoria se egli
non avesse ecceduto in una virtù. Il senso della giustizia fece di lui un
brigante e un assassino”.
B) Il protagonista di solito ha un obiettivo. Non si tratta necessariamente dell’obiettivo
ultimo della sua vita, ma certo è l’obiettivo principale per quella porzione di vita che
viene raccontata.
Dunque per lui è molto importante (“il senso della giustizia fece di lui un brigante e
un assassino”).
Ciò che egli fa per ottenere l’oggetto del desiderio mette in moto la trama:
- può essere l’amore per una persona
- può essere l’affetto di qualcuno (un figlio verso il padre o un amico)
- può essere la ricerca della salvezza da qualcosa o da una minaccia (la protezione di
un testimone da un assassino / la difesa di una città da un’invasione)
- può essere il raggiungimento di una determinata condizione sociale (per esempio un
lavoro)
- può essere l’inserimento in una comunità (per esempio, per un emigrante)
- può essere la scoperta di se stesso (per un giovane che sta crescendo)
- può essere una vendetta o la ricerca della giustizia (come nel caso di Michael
Kohlhaas)
- può essere la realizzazione di un progetto (la scrittura di un libro / la costruzione di
un’impresa / la fondazione di un regno)
- può essere la conquista di un oggetto (come nelle leggende sulla ricerca del Santo
Graal)
- può essere la soluzione di un mistero (per esempio la spiegazione di un omicidio)
Definizione:
L’oggetto del desiderio è lo scopo a cui punta un personaggio.
13.3. Il destinatario
“Kohlhaas se ne stava ancora lì a districare i crini dei cavalli, riflettendo su cosa gli convenisse fare in quella situazione, quando improvvisamente […] il barone Wenzel von Tronka con uno stuolo di cavalieri,
Il metodo
garzoni e cani, di ritorno dalla caccia alla lepre, irruppe nella corte.
Quando domandò che fosse accaduto, il castaldo22 prese subito la parola e […] svisando odiosamente il fatto, accusò quel sensale23 di cavalli
di mettere il campo a rumore perché s’erano usati un po’ i suoi morelli. E sghignazzando aggiunse che si rifiutava di riconoscerli per suoi.
Kohlhaas gridò:
«Questi non sono i miei cavalli, signore. Questi non sono i cavalli che
valevano trenta fiorini d’oro! Voglio riavere i miei cavalli sani e ben
nutriti!»
Il barone, sbiancando per un attimo in viso, scese di sella e disse:
«Se […] non vuole riprendersi i cavalli, che li lasci. Vieni Gunther!
Hans! Venite!» mentre con la mano scuoteva polvere dai calzoni.
«Portate vino» gridò ancora quando con i cavalieri fu sotto il portone.
Ed entrò in casa.
Kohlhaas […] lasciò i cavalli dov’erano, senza più curarsi di loro, balzò
sul suo baio24, giurando che avrebbe saputo farsi giustizia, e partì”.
55
22 Castaldo –
L’amministratore
della corte di un
signore, il fattore.
23 Sensale –
Intermediario
nella compravendita di prodotti
agricoli o di animali. Kohlhaas,
appunto.
24 Baio – Cavallo
dal mantello
rosso-bruno con la
coda, la criniera e
l’estremità delle
zampe nere.
C) Le azioni compiute in una storia per raggiungere l’oggetto del desiderio vanno a ripercuotersi su un destinatario,vantaggi o svantaggi che siano.
In molti casi protagonista e destinatario coincidono. Prendiamo il più classico degli
esempi fiabeschi:
a) un cavaliere sposa la dama di cui è innamorato;
b) l’amore della donna è l’oggetto del desiderio;
c) ottenerla in sposa è il coronamento dell’azione del cavaliere.
d) dunque il cavaliere (oltre che la dama) riceve vantaggio dalle sue azioni (corteggia
la dama / la sottrae agli altri pretendenti o al marito o alla famiglia / la protegge dai
pericoli)
Anche nel caso della pretesa di giustizia - come per Michael Kohlhaas - il destinatario è
lo stesso protagonista.
Come destinatario possiamo avere anche un’altra persona o un principio ideale o una
comunità. Avviene quando il protagonista si mette al servizio di qualcun altro:
- l’avvocato che difende un innocente ingiustamente accusato (l’innocente è il destinatario)
- il detective che svela il colpevole di un omicidio (lavora per la legge)
- l’eroe che difende la sua città dal nemico (combatte per il suo popolo)
Definizione: Il destinatario è colui che riceve le conseguenze dell’operato del protagonista.
13.4. L’antagonista (o gli antagonisti)
“Kohlhaas partì alla volta di Dresda per presentare la sua querela in tribunale. Qui, con l’aiuto di un giurisperito che conosceva, stese un ricorso in cui, dopo una descrizione circostanziata del sopruso che il barone
Wenzel von Tronka aveva commesso contro di lui e il suo garzone
Herse, chiedeva che quello fosse punito a norma di legge, che i cavalli
56
Canone Occidentale - Prosa
fossero restituiti allo stato di prima, e il risarcimento dei danni sofferti
sia da lui che dal suo servo. La causa, infatti, era chiara. Che i cavalli
fossero stati trattenuti illegalmente gettava una luce decisiva su tutto il
resto”.
D) Ottenere l’oggetto del desiderio non è mai semplice. Di solito perché nella trama troviamo almeno un personaggio antagonista. Qui è l’arrogante barone von Tronka, che
ha sottratto a Kohlhaas quasi per capriccio i suoi cavalli e non accetta mai di ascoltarlo né di risarcirlo.
L’antagonista svolge una funzione molto importante: è colui che si oppone al protagonista. Ha mire esattamente opposte alle sue, lo ostacola e lo minaccia, è l’elemento di
disturbo che bisogna necessariamente affrontare e superare.
- Mentre il protagonista di solito è uno solo, gli antagonisti in una storia possono essere più d’uno.
- Possono comparire uno dopo l’altro, per esempio in un racconto impostato su una
serie di prove da superare, oppure tutti insieme.
- L’antagonista può essere anche un intero ambiente. Per esempio quando una comunità fortemente religiosa si schiera contro un suo membro che ne abbia violato i valori.
- Infine, se la trama si incentra sulla persecuzione di un antagonista nei confronti del
protagonista, quest’ultimo si configura come vittima.
- Non sempre il cosiddetto “eroe” riesce vittorioso.
Definizione:
L’antagonista è colui che si oppone al protagonista.
13.5. L’aiutante (o gli aiutanti)
a) “Raccontò quindi a Lisbeth, sua moglie, come s’era svolta tutta la
storia e che cosa c’era sotto, e dichiarò che era deciso ad appellarsi
alla pubblica giustizia, ed ebbe la gioia di vedere che ella lo confortava con tutta l’anima in questo suo proposito. Disse infatti che
parecchi altri viaggiatori, forse meno pazienti di lui, sarebbero passati per quel castello, che sarebbe stata un’opera benedetta porre
subito un freno a disordini come quelli, e avrebbe pensato lei a mettere insieme i fondi necessari per far fronte alle spese del processo”.
b) “Ma passarono mesi ed era vicino a compiersi l’anno, senza che egli
ricevesse dalla Sassonia neppure una dichiarazione circa la causa da
lui intentata, e tanto meno la sentenza. Dopo aver più volte reclamato presso il Tribunale, chiese al suo avvocato in una lettera confidenziale la ragione di un ritardo così eccessivo; e apprese che l’istanza,
per un alto intervento, era passata agli atti. Il mercante gli scrisse
una nuova lettera esprimendo il suo stupore e chiedendo ragguagli,
e quegli l’informò che il barone Wenzel von Tronka era imparentato con due nobiluomini, Heinz e Kunz von Tronka, di cui uno era
coppiere e l’altro addirittura ciambellano presso il Principe”.
Il metodo
57
E) Il protagonista e l’antagonista rappresentano due forze contrapposte. A volte il bene e
il male, a volte la giustizia e l’illegalità, a volte le ragioni del corpo e quelle dello spirito, e così via. Sempre, comunque, due forze in tensione. E spesso hanno bisogno di
aiutanti.
Qui sopra abbiamo riportato due brani perché in essi troviamo:
a) Un personaggio aiutante dalla parte del protagonista: la moglie Lisbeth offre prima
conforto e comprensione, poi un concreto aiuto economico al marito;
b) Un personaggio aiutante dalla parte dell’antagonista: i due parenti del barone von
Tronka, vicini al Principe. Pur senza che venga detto esplicitamente, appare chiaro che
costoro hanno fermato il processo intentato da Kohlhaas (“l’istanza, per un alto intervento, era passata agli atti”).
L’aiutante, buono o cattivo che sia, ricopre tanto la funzione di un personaggio principale
che di uno secondario, in base alle esigenze della storia.
- L’aiutante può essere il compagno del protagonista o dell’antagonista lungo tutto l’arco
della vicenda (personaggio principale).
- Oppure può comparire solo qualche volta a fianco del protagonista o dell’antagonista –
al limite anche una sola volta – e aiutarlo a svolgere un determinato compito, a uscire
da una certa situazione, ottenere un qualche risultato (personaggio secondario)
- Se l’aiutante partecipa attivamente alle relazioni tra le persone in un racconto, lo si definisce intermediario. Un servo astuto, un segretario intrigante, un parente curioso, possono costruire rapporti complessi e ambigui tra i personaggi: possono raccontare bugie o
mezze verità o svelare notizie che dovevano restare segrete. Possono distorcere i fatti o
tacerli o denunciarli e causare così reazioni che modificano lo svolgimento dell’azione.
Definizione:
L’aiutante è colui che viene in aiuto di personaggi più importanti di lui, il protagonista o l’antagonista.
13.6. Il destinatore
“Verso mezzogiorno tornò Herse e gli confermò […] che il barone si trovava nel convento di Erlabrunn presso la vecchia badessa Antonia von Tronka, sua zia.
[…]
La badessa, bianca come lino, discese la scalinata e con tutte le sue donzelle si gettò ai
piedi del suo cavallo. Mentre Herse e Sternbald riducevano all’impotenza il castaldo, che
era senza spada, e lo conducevano prigioniero tra i cavalli, Kohlhaas le chiese dove fosse
il barone Wenzel von Tronka; e poiché essa, sciogliendo dalla cintola un grosso mazzo di
chiavi, rispondeva «A Wittemberg, degno Kohlhaas» e aggiungeva con voce tremante:
«Temi Iddio e non far del male!», Kohlhaas, ricacciato nell’inferno della vendetta inappagata, voltò il cavallo ed era lì per gridare «Appiccate il fuoco», quando un terribile fulmine cadde proprio accanto a lui.
[…]
Kohlhaas si placò. Un improvviso e pauroso scroscio di pioggia, che si abbatté sul lastrico della corte spegnendo le fiaccole, sciolse il dolore nel suo petto infelice; sollevando
appena il cappello davanti alla dama, voltò il cavallo e diede di sprone dicendo:
«Seguitemi fratelli, il barone è a Wittemberg!» e lasciò il convento”.
58
Canone Occidentale - Prosa
F) Esiste in alcuni racconti anche un elemento esterno, superiore alle parti in causa, che
muove la vicenda. Può assumere molti nomi, ma in sostanza è sempre lo stesso principio: nei Promessi Sposi lo incontriamo spesso col nome di Provvidenza, altrove è il
caso, o la volontà degli Dei o del Fato. Quando in una storia è presente, si manifesta
indirizzando gli eventi in un modo o in un altro. È il destinatore.
In questo caso l’intervento divino (prima il fulmine, poi la pioggia) impedisce a
Kohlhaas di dar fuoco al convento dal quale il suo nemico era già scappato.
Definizione:
Il destinatore è una forza al di sopra delle parti che guida gli eventi.
Personaggi e funzioni nella teoria di V. J. Propp
Morfologia della fiaba è uno dei grandi
classici del XX secolo nell’indagine delle
forme narrative. Lo pubblicò nel 1928 a
Leningrado uno studioso del folklore russo
di nome Vladimir Jakovlevicˇ Propp (18951970), dopo aver raccolto e confrontato per
anni un patrimonio composto da centinaia
di fiabe di magia.
Propp fu il primo a osservare che nella
fiaba ciò che conta sono le azioni: mentre i
personaggi cambiano dall’una all’altra narrazione, le azioni rimangono le stesse. E
sempre nella stessa sequenza. Ne può mancare qualcuna, ma l’ordine non si sovverte
mai.
Lo studioso russo isolò trentuno momenti
dell’azione, e le chiamò funzioni.
Tali momenti costituiscono le tappe necessarie dello svolgimento di una fiaba.
Dunque le «funzioni» non sono nient’altro
che l’operato di un personaggio in relazione allo svolgimento della vicenda. Ecco
l’elenco di Propp:
I.
Allontanamento Uno dei membri
della famiglia si allontana da casa.
II. Divieto All’eroe è imposto un divieto
(o un ordine o un invito).
III. Infrazione Il divieto viene infranto.
IV. Investigazione L’antagonista (che
entra in scena ora) cerca di scoprire
qualcosa che possa danneggiare l’eroe.
V. Delazione L’antagonista ottiene
informazioni sull’eroe.
VI. Tranello L’antagonista tenta di
ingannare la vittima per impadronirsi
di lei o dei suoi beni.
VII. Connivenza La vittima cade nell’inganno e involontariamente favorisce
il suo avversario.
Le prime sette funzioni sono una parte
preparatoria del racconto.
Da qui comincia l’azione narrativa vera
e propria.
VIII. Danneggiamento L’antagonista arreca un danno a uno dei membri della
famiglia. Può trattarsi di un rapimento, di un furto, di una menomazione,
di una maledizione e simili.
VIII b. Mancanza A un membro della
famiglia manca qualcosa o viene il
desiderio di qualcosa. Questa funzione equivale alla precedente per il
senso di mancanza o di insufficienza,
dunque spesso la fiaba utilizza o
l’una o l’altra.
IX. Mediazione La sciagura o mancanza
diventa evidente: si prega l’eroe o gli
si ordina di intervenire: lo si manda o
lo si lascia partire. L’eroe sarà:
a) un cercatore (la favola ne segue la
ricerca)
b) una vittima (la favola ne rappresenta la persecuzione)
X. Inizio della reazione Il cercatore
acconsente o si decide a reagire.
Il metodo
XI. Partenza L’eroe abbandona la casa.
Qui compare il donatore.
XII. Prima funzione del donatore L’eroe è
messo alla prova, interrogato, aggredito: sono tutte prove che lo preparano a
ottenere un oggetto magico (aiutante).
XIII. Reazione dell’eroe L’eroe supera la
prova: risponde alle domande, sconfigge un rivale, oltrepassa un limite,
presta un servizio.
XIV. Conseguimento del mezzo magico Il
mezzo magico entra in possesso dell’eroe.
XV. Trasferimento nello spazio L’eroe
giunge o viene portato nel luogo dove
si trova ciò che sta cercando.
XVI. Lotta L’eroe e l’antagonista si scontrano direttamente o si sfidano in abilità.
XVII. Marchiatura All’eroe viene impresso un marchio. Può essere un segno,
una ferita, un oggetto o altro.
XVIII. Vittoria L’antagonista è sconfitto o
superato.
XIX. Rimozione Il danno o la sciagura iniziale vengono risarciti. Si ottiene l’oggetto della ricerca. Questo secondo
Propp è l’apice della narrazione.
XX. Ritorno L’eroe ritorna indietro.
XXI. Persecuzione L’eroe è perseguitato o
inseguito.
XXII. Salvataggio L’eroe si salva dal persecutore.
Qui - con il fallimento del persecutore terminano molte fiabe.
Ma la fiaba può anche “ripartire” con
nuove funzioni dette “di movimento”:
altre mancanze, altri antagonisti, altre
prove da superare
XXIII. Arrivo in incognito L’eroe arriva a
casa ma non si fa riconoscere.
XXIV. Pretese infondate C’è un falso eroe
(l’antagonista) che si attribuisce le
imprese dell’eroe.
XXV. Compito difficile All’eroe viene proposta una nuova prova da superare (di
valore, di abilità o di furbizia).
59
XXVI. Adempimento L’eroe supera la
prova.
XXVII. Identificazione L’eroe viene finalmente riconosciuto grazie anche a un
segno particolare.
XXVIII. Smascheramento Si smaschera il
falso eroe / antagonista che non riesce
a superare la stessa prova.
XXIX. Trasfigurazione dell’eroe L’eroe
cambia d’aspetto, spesso per magia.
XXX. Punizione L’antagonista viene punito.
XXXI. Nozze L’eroe ottiene una ricompensa, che di solito consiste nel matrimonio o nell’ascesa al trono, o entrambe.
Ricapitolando: gli elementi essenziali di una
fiaba sono le azioni e ciò che tali azioni
comportano all’interno dell’intreccio.
I personaggi, per quanto appaiano diversi in
superficie, ricoprono dei ruoli fissi:
Il protagonista (o l’eroe) Il personaggio
principale della storia, quello che la spinge
avanti. È sempre caratterizzato in senso
positivo.
L’antagonista Colui che si oppone in tutto
e per tutto all’eroe. È sempre caratterizzato
in senso negativo.
L’aiutante (o donatore) Colui che viene in
aiuto dell’eroe, dopo averlo messo alla
prova. Spesso ha poteri magici o possiede
oggetti dai poteri magici.
Il mandante Colui che affida all’eroe il
compito.
Avvertenza: l’analisi di Propp si riferisce
soltanto alle fiabe, e anzi a un insieme
particolare, le fiabe di magia. Però individuare i personaggi e le «funzioni» narrative è possibile in ogni tipo di narrazione.
La lezione più importante che si impara
da un libro come Morfologia della fiaba
è che ogni racconto è una macchina, un
congegno composto di tanti pezzi che
devono incastrarsi tra loro in maniera
funzionale.
60
Canone Occidentale - Prosa
3. Il tempo e lo spazio
14. Il tempo nel racconto
I modi per raccontare una storia sono probabilmente infiniti. Però ci sono due componenti che non si possono in nessuna maniera evitare: il tempo e lo spazio.
Dello spazio parleremo poi, ora occupiamoci del tempo, vera spina dorsale di ogni narrazione.
25 Higuerones –
Alberi tropicali di
legno duro, usati
per costruire
imbarcazioni.
“Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5.30 del
mattino per andare ad aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo. Aveva sognato di attraversare un bosco di higuerones25 sotto una
pioggerella tenera, e per un istante fu felice dentro il sogno, ma nel ridestarsi si sentì inzaccherato da capo a piedi di cacca d’uccelli. «Sognava
sempre di alberi» mi disse sua madre 27 anni dopo, nel rievocare i particolari di quel lunedì ingrato.”
(Gabriel Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata, 1981)
Il racconto di Marquez che così incomincia, ci informa di molte cose. Soprattutto, lega i
diversi fatti in una precisa relazione di tempi:
- un certo Santiago Nasar è stato ucciso
- l’ultima giornata della sua vita è cominciata di prima mattina
- noi sappiamo già che, qualunque direzione prenda la trama, dalle 5.30 del mattino in poi
Santiago Nasar avrà da vivere solo poche ore, ma non sappiamo quante: potrebbe essere stato ucciso a tarda sera, oppure appena uscito di casa. Questa notizia, insieme tanto
precisa eppure tanto vaga, suscita un forte effetto di suspense.
- chi racconta i fatti lo fa ventisette anni dopo l’omicidio, parlando con i testimoni sopravvissuti (qui per esempio con la madre di Santiago)
Osserva qui come in poche righe troviamo intrecciati:
- un fatto lontano, vecchio di quasi trent’anni (l’omicidio)
- il presente di chi ricorda (la madre e con lei il narratore)
- il presente di Santiago, che si alza ignaro di andare a morire
- il passato prossimo (per Santiago) dell’ultimo sogno fatto
- un passato ancora più remoto (sempre per Santiago ma anche per sua madre): il fatto che
il figlio “sognava sempre di alberi”.
- il futuro immaginato da Santiago per sé: andare al porto per l’arrivo del vescovo
L’arte di raccontare è quella di riuscire a tenere insieme in maniera comprensibile e credibile un numero a volte molto grande di personaggi e fatti diversi. Il filo del tempo è
essenziale per legare tutto.
La parola “testo”, con cui si indicano le opere di narrativa, deriva dal latino “textus”, che
sta a significare appunto “il tessuto”. Cioè una superficie composta di tanti fili annodati
insieme.
Il metodo
61
Per questo si parla del “filo del racconto”.
Il tempo in una vicenda comporta:
- successione degli eventi naturali - esempio: “Il giorno seguente pioveva a dirotto”
- successione delle azioni umane - esempio: “Scese da cavallo, lo legò a un palo, salutò
- alcuni passanti ed entrò nel saloon”
- trasformazione dei personaggi
- esempio: “Dopo quell’esperienza non ero più lo stesso”
- trasformazione dei luoghi
- esempio: “Per la lunga siccità la valle era diventata
- un deserto”
15. La descrizione
Anche la descrizione della perfetta immobilità, per esempio il catalogo di un insieme di
oggetti, quella che in pittura si chiama natura morta, in un testo si distende nel tempo:
“La prima porta darebbe in una camera col pavimento ricoperto di una
moquette chiara. Un largo letto inglese ne occuperebbe tutto il fondo. A
destra, ai lati della finestra, due scansie alte e strette conterrebbero alcuni libri instancabilmente ripresi, album, carte da gioco, collane, oggettini da nulla. A sinistra, un vecchio armadio di quercia e due servimuti
di legno e ottone avrebbero di fronte una poltroncina imbottita, ricoperta di seta grigia finemente rigata,e un mobile di toeletta. Una porta
semiaperta, comunicante con una stanza da bagno, lascerebbe intravedere spugnosi accappatoi, rubinetti di ottone a collo di cigno, un grande specchio girevole, un paio di rasoi inglesi e i loro astucci di pelle
verde, boccette, spazzole dal manico di corno, spugne”.
(Georges Perec, Le cose, 1965)
Il tempo della descrizione si può cogliere chiaramente nel brano qui riportato.
Al cinema, lo spettatore riesce ad afferrare e dominare l’immagine cinematografica tutta
insieme con un unico colpo d’occhio. L’interno di una abitazione, come questo, sarebbe
contenuto in una sola inquadratura.
Invece chi scrive è costretto a presentare gli oggetti uno per volta. Il lettore li scorge mano
a mano che li incontra nella lettura. Come se seguisse una telecamera che si muove dentro le stanze.
Ci sono cinque frasi che compongono il brano. Osserva come ogni frase concentra l’attenzione su uno specifico gruppo di particolari:
1) “La prima porta darebbe in una camera col pavimento ricoperto di una moquette chiara”
(l’occhio del lettore guidato dal narratore è obbligato a posarsi sul pavimento)
2) “Un largo letto inglese ne occuperebbe tutto il fondo”
(l’occhio si alza, e scorge il letto e la parete di fondo)
3) “A destra, ai lati della finestra, due scansie […]
(panoramica a destra, compare solo una metà della stanza)
4) “A sinistra, un vecchio armadio […]
((panoramica a sinistra, compare l’altra metà della stanza)
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Canone Occidentale - Prosa
5) “Una porta semiaperta […] lascerebbe intravedere […]”
(grazie alla porta semiaperta del bagno ci possiamo addentrare nella stanza vicina)
Questo esempio ci dimostra anche che il tempo e lo spazio in un racconto sono legati strettamente insieme, spesso dipendono l’uno dall’altro.
16. Tempo della fabula e tempo dell’intreccio
Tra il tempo nel mondo reale e il tempo all’interno di un testo narrativo esiste almeno una
differenza fondamentale.
Il primo è composto di istanti tutti uguali, e non può accelerare né rallentare.
Il secondo, ossia il tempo raccontato, può essere invece abbreviato o allungato a piacere
dallo scrittore.
16.1. Il tempo abbreviato
“Percorsi nuovi regni, nuovi imperi. Nell’autunno del 1066 militai sul
ponte di Stamford, non ricordo più se nelle file di Harold, che non tardò
a trovare il suo destino, o in quelle dell’infausto Harald Hardrada che si
conquistò sei piedi di terra inglese, o poco più. Nel settimo secolo
dell’Egira, nel sobborgo di Bulaq, trascrissi con lenta calligrafia, in un
idioma che ho dimenticato, in un alfabeto che ignoro, i sette viaggi di
Sinbad e la storia della Città di Bronzo. In un cortile del carcere di
Samarcanda ho giocato lungamente agli scacchi. A Bikanir ho professato l’astrologia, e così in Boemia. Nel 1638 mi trovai a Kolozsvár e
poi a Leipzig. Ad Aberdeen, nel 1714, mi sottoscrissi ai sei volumi
dell’Iliade di Pope; so che li lessi con diletto. Intorno al 1729 discussi
l’origine di quel poema con un professore di retorica, chiamato, credo,
Giambattista; le sue ragioni mi parvero inconfutabili. Il quattro ottobre
del 1921, il Patna, che mi portava a Bombay, dovette gettàr l’ancor in
un porto della costa eritrea. Scesi a terra; ricordai altre mattine, antichissime, trascorse anch’esse di fronte al Mar Rosso quand’ero tribuno
di Roma e la febbre, la magia e l’inazione consumavano i soldati”.
(Jorge Luis Borges, L’immortale in L’aleph, 1949)
Ecco un esempio macroscopico di quanto abbiamo detto.
Il narratore di questo racconto - come dichiarato fin dal titolo – ha il dono dell’immortalità. Qui in poche righe egli ripercorre quasi duemila anni di storia, da quando cioè era un
soldato dell’impero romano, fino al 1921.
È del tutto evidente che c’è una enorme differenza tra il tempo della fabula (i due millenni vissuti da questo personaggio) e il tempo dell’intreccio (occorrono pochi minuti al
narratore per compilare il suo elenco di ricordi).
Nel racconto di Borges il tempo della fabula è immensamente lungo, viceversa il tempo
dell’intreccio è eccezionalmente breve.
Il metodo
63
16.2. Il tempo dilatato
“Pr-prego, entri. Come sta?”. Il direttore si appoggiò con entrambe le
mani ai braccioli della poltrona per farsi forza e, mantenendo la testa
rivolta ai fogli che aveva sul tavolo, fece per alzarsi. Quando fu definitivamente in piedi, mi guardò con interesse. Aggirò la scrivania e mi
raggiunse, tendendomi la mano. Sembrava una presentazione e in effetti, da tre anni che lavoravo al giornale, quella era la prima volta che
entravo nel suo ufficio. Con me avevano sempre trattato i marescialli,
ogni tanto qualche ufficiale26. Il Colonnello si sprecava per la prima
volta.
“Stavo pe-pensando a quando ero un giovane cronista come lei, Bauer”,
continuò. Muoveva la testa in avanti con impercettibili tremiti ogni
volta in cui gli si inceppava in gola l’emissione di una parola. Non era
una vera e propria balbuzie, era piuttosto un tic di linguaggio, un tic che
probabilmente aveva dovuto nascondere agli inizi della carriera, correggere, forse vincere, ma che ora lasciava correre senza problemi, anzi
con una specie di compiacimento, come si mostrano le cicatrici ottenute in un combattimento. Voleva semplicemente dire: da questa poltrona
posso permettermi di parlare come voglio e tu sei obbligato a capire”.
26 I marescialli…
qualche ufficiale –
Espressione ironica per intendere i
redattori, sottoposti al direttore del
giornale e superiori ai singoli corrispondenti.
(Pier Vittorio Tondelli, Rimini, 1986)
Il secondo esempio rappresenta il caso contrario. Qui il tempo di un rapido scambio di battute si dilata in virtù di tre fattori:
- la ricchezza di particolari descrittivi: osserva come le prime due frasi scompongono il
semplice gesto del direttore di alzarsi. Tondelli lo analizza in quattro tempi.
a) Appoggiarsi ai braccioli
b) Continuare a guardare i fogli (il direttore di un giornale è sempre molto impegnato)
c) “Fece per alzarsi”
d) Essere “definitivamente” in piedi.
- La breve analessi contenuta tra la prima e la seconda battuta del direttore: “Con me avevano sempre trattato i marescialli, ogni tanto qualche ufficiale. Il Colonnello si sprecava per la prima volta”.
- Le riflessioni del protagonista che commenta tra sé prima l’inatteso gesto di vedersi
tendere la mano, poi il difetto di pronuncia del direttore.
In questo caso il tempo della fabula è molto breve, mentre il tempo dell’intreccio appare
lungo e rallentato.
16.3. Il tempo effettivo
-
Ehi, galantuomo, dove andate?
Alla città.
Ci sapete dire un po’ che razza di bestia siete?
Io sono… molto… un uomo.
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Canone Occidentale - Prosa
-
Voi siete poco un uomo, di uomo mi sembra non abbiate che le scarpe.
Di dove venite?
Di lassù.
Bel discorso, ehi galantuomo, lo sapete con chi parlate?
Con la scorta del Re.
Meno male, allora le ciarle sono inutili.
Dimandiamogli di che cos’è.
Domandaglielo te imbecille.
Di che cosa siete fatto, signore?
Io sono… molto leggero.
Volevo dire: di quale materia è formato il vostro corpo?
Fumo.
L’avevo detto! Ecco! Ecco! È un uomo di fumo. Un uomo di fumo!
Fumo! Fumo! Fumo!
Taci marmocchio, se non vuoi andare anche te in fumo.
Ma egli ha ragione!
Perché ostinarsi poi?
Non si vede bene tutti?
Fumo! Fumo! Fumo!
Taci…
Ma no che è vero, ha ragione.
A voi sta a cuore la vostra scommessa, ecco.
Come sono belle quelle scarpe!
Tacete…
Ma è inutile, è vero.
Fumo! Fumo! Fumo!
Lo vediamo tutti.
Andiamo a dirlo al Re?
Andiamo a dirlo al Re.
Sì sì, andiamo.
Può aver piacere di vederlo.
Chi sa che cosa dice!
Un uomo di fumo!
Fumo! Fumo! Fumo!
(Aldo Palazzeschi, Il codice di Perelà. 1911)
Questo terzo e ultimo caso presenta una coincidenza perfetta tra tempo della fabula e
tempo dell’intreccio.
Si tratta di una sequenza interamente dialogica, perciò il lettore assiste allo svolgersi dei
fatti – in questo caso al primo incontro tra gli uomini del Re Torlindao e l’Uomo di Fumo
Perelà – senza che ci siano né rallentamenti né accelerazioni.
Perché non ci sono rallentamenti:
Mancano sia le pause descrittive sia i commenti del narratore sia i pensieri dei personaggi.
Tutti questi elementi potrebbero arricchire e dilatare la scena. Abbiamo invece solo uno
scambio di battute, come se fossimo a teatro e ascoltassimo degli attori che recitano.
Perché non ci sono accelerazioni:
Lo scrittore non ha tralasciato le ripetizioni nel dialogo e il battibecco tra i soldati della
guardia. Palazzeschi riporta ogni parola di questo immaginario incontro, così che noi
abbiamo l’impressione di seguirlo interamente, dall’inizio alla fine.
Il metodo
65
Avvertenza:
Chi costruisce un racconto non è affatto obbligato a limitarsi a una sola di queste tre modalità.
Di solito gli scrittori le contaminano liberamente, a seconda degli effetti che desiderano
ottenere.
Definizione:
Il tempo della fabula corrisponde alla durata effettiva degli eventi, mentre il tempo
dell’intreccio si osserva in base alla durata della narrazione.
Laboratorio
La scoperta dell’alfabeto
Al tramonto Ambanelli smetteva di lavorare e andava a sedersi a casa
con il figlio del padrone perché voleva imparare a leggere e a scrivere.
«Cominciamo dall’alfabeto,» disse il ragazzo che aveva undici anni.
«Cominciamo dall’alfabeto.»
«Prima di tutto c’è A.»
«A,» disse paziente Ambanelli.
«Poi c’è B.»
«Perché prima e dopo?» domandò Ambanelli.
Questo il figlio del padrone non lo sapeva.
«Le hanno messe in ordine così, ma voi le potete adoperare come volete.»
«Non capisco perché le hanno messe in ordine così,» disse Ambanelli.
«Per comodità.» rispose il ragazzo.
«Mi piacerebbe sapere chi è stato a fare questo lavoro.»
«Sono così nell’alfabeto.»
«Questo non vuol dire,» disse Ambanelli, «se io dico che c’è prima B e
poi c’è A forse che cambia qualcosa?»
«No,» disse il ragazzino.
«Allora andiamo avanti.»
«Poi viene la C che si può pronunciare in due modi.»
«Queste cose le ha inventate della gente che aveva tempo da perdere.»
Il ragazzo non sapeva più che cosa dire.
«Voglio imparare a mettere la firma,» disse Ambanelli, «quando devo
firmare una carta non mi va di mettere una croce.»
Il ragazzino prese la matita e un pezzo di carta e scrisse “Ambanelli
Federico”, poi fece vedere il foglio al contadino.
«Questa è la vostra firma.»
«Allora ricominciamo da capo con la mia firma.»
«Prima c’è A,» disse il figlio del padrone, «poi c’è M.»
«Hai visto?» disse Ambanelli, «adesso cominciamo a ragionare.»
«Poi c’è B e poi A un’altra volta.»
Verifica
LUIGI MALERBA
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Canone Occidentale - Prosa
«Uguale alla prima?» domandò il contadino.
«Identica.»
Il ragazzo scriveva una lettera alla volta e poi la ricalcava a matita
tenendo con la sua mano quella del contadino.
Ambanelli voleva sempre saltare la seconda A che a suo parere non serviva a niente, ma dopo un mese aveva imparato a fare la sua firma e la
sera la scriveva sulla cenere del focolare per non dimenticarla.
Quando vennero quelli dell’ammasso del grano e gli diedero da firmare la bolletta, Ambanelli si passò sulla lingua la punta della matita
copiativa e scrisse il suo nome. Il foglio era troppo stretto e la firma
troppo larga, ma a quelli del camion bastò “Amban” e forse è per questo che in seguito molti lo chiamarono Amban, anche se poco alla volta
imparò a scrivere la sua firma più piccola e a farla stare per intero sulle
bollette dell’ammasso.
Il figlio dei padroni diventò amico del vecchio e dopo l’alfabeto scrissero insieme tante parole, corte e lunghe, basse e alte, magre e grasse
come se le figurava Ambanelli.
Il vecchio ci mise tanto entusiasmo che se le sognava la notte, parole
scritte sui libri, sui muri, sul cielo, grandi e fiammeggianti come l’universo stellato. Certe parole gli piacevano più di altre e cercò di insegnarle anche alla moglie. Poi imparò a legarle insieme e un giorno
scrisse “Consorzio Agrario Provinciale di Parma”.
Ambanelli contava le parole che aveva imparato come si contano i sacchi di grano che escono dalla trebbiatrice e quando ne ebbe imparate
cento gli sembrò di aver fatto un bel lavoro.
«Adesso mi sembra che basta, per la mia età.»
Su vecchi pezzi di giornale Ambanelli andò a cercare le parole che
conosceva e quando ne trovava una era contento come se avesse incontrato un amico.
(da Luigi Malerba, La scoperta dell’alfabeto, 1963)
Esercizi
Prova a individuare e isolare nel racconto di Malerba esempi di tutti e tre i rapporti tra
tempo della fabula e tempo dell’intreccio:
- Dov’è che il tempo della fabula è lungo mentre il tempo dell’intreccio è breve?
- In che modo l’autore ha ottenuto questa accelerazione?
- Dov’è che il tempo dell’intreccio è lungo mentre il tempo della fabula è breve?
- In che modo l’autore ha ottenuto questo rallentamento?
- Dov’è che il tempo dell’intreccio coincide con il tempo della fabula?
- In che modo l’autore ha realizzato la coincidenza?
Che aspetto ha il tempo in questo racconto?
a) Lineare e concentrato in un solo episodio
b) Lineare con accelerazioni e rallentamenti e vari episodi
c) Circolare con ritorni indietro (analessi) e spostamenti in avanti (prolessi)
67
Il metodo
Sono presenti delle parti descrittive? Quale funzione temporale hanno?
a) Ci sono e conducono comunque avanti la vicenda
b) Ci sono e servono a recuperare aspetti o vicende del passato
c) Ci sono e approfondiscono il carattere dei personaggi tenendo ferma l’azione
d) Non ci sono, il racconto non si ferma mai
Sono presenti sequenze dialogiche?
Sono presenti commenti del narratore o altri tipi di digressioni?
17. Il sistema dei tempi verbali
Se il tempo, come abbiamo sottolineato, è così importante in ogni racconto, sarà necessario osservare anche l’uso dei tempi del verbo nella narrazione.
Eccone alcuni esempi:
17.1. Il passato remoto
1) “Quando la campana suonò la terza Messer Grande entrò nella stanza e mi disse che aveva l’ordine di rinchiudermi nei Piombi27. Lo
seguii. Su un’altra gondola, dopo un giro attraverso piccoli canali,
imboccammo il Canal Grande e scendemmo davanti alle prigioni.
Dopo aver salito alcune rampe di scale, traversammo il ponte alto e
coperto28 che mette in comunicazione il Palazzo Ducale con le prigioni traversando il canale detto Rio di Palazzo. Attraversammo poi
una galleria ed entrammo in una seconda sala dove Messer Grande
mi presentò ad un patrizio che, dopo avermi osservato, disse: «È
lui; mettetelo in deposito».
(Giacomo Casanova, Storia della mia fuga dai Piombi, 1787)
27 Piombi - Le
terribili prigioni
della Repubblica
di Venezia, così
chiamate perché
sistemate sotto il
tetto del Palazzo
Ducale, tetto per
l’appunto ricoperto
da lastre di piombo. A causa dell’alta conducibilità
termica del metallo, erano freddissime d’inverno e
asfissianti d’estate.
28 Il ponte alto e
coperto - Il famoso Ponte detto dei
Sospiri.
Come la maggior parte dei racconti, questo brano è scritto al passato remoto.
Fa parte di un racconto autobiografico del libertino Giacomo Casanova, e contiene ricordi di fatti reali, avvenuti circa trent’anni prima: la sua reclusione e poi la sua fuga dalla
prigione più temuta e sicura d’Europa, il carcere dei Piombi di Venezia.
Di solito, sulla linea del tempo della fabula, si posizionano prima i fatti; in seguito un narratore può raccontarli.
Poiché ogni storia, da un semplice aneddoto quotidiano a un intero poema epico, prende
forma dopo gli avvenimenti di cui tratta, la scelta del passato sembrerebbe obbligata.
68
Canone Occidentale - Prosa
2) “Remigio, svegliandosi, sentì ch’era sudato. Un senso di scontento,
quasi di rimpianto, gli invadeva l’anima; e, ricordandosi, come un
peso improvviso, che suo padre era stato sotterrato la sera innanzi,
richiuse gli occhi; credendo di poter dormire ancora. Ma, sbadigliato due o tre volte, andò ad aprire la finestra.
Lontano, dalla Montagnola, bubbolava; e le nuvolette primaverili
attraversavano il cielo come se sobbalzassero. Il ciliegio, dinanzi
alla finestra, aveva messo le foglie; e i tralci delle viti, le gemme. I
grani, d’un pallore quasi doloroso, luccicavano; perché la notte era
piovuto.
Tutte queste cose le aveva viste anche i giorni innanzi; ma, quella
mattina, capì che gli sarebbero piaciute per la prima volta; e che
doveva amarle, perché non c’era altro per lui.
Vestitosi in fretta, scese le scale; evitando di parlare con quelli di
casa; e si trovò con Berto.
Il saluto dell’assalariato gli destò simpatia per tutti gli altri; e, perché si sentiva arrossire d’essere ormai il padrone, non gli rispose.
L’assalariato, credendo che fosse per superbia, gli voltò le spalle; e
se n’andò nel campo, fischiettando”.
(Federigo Tozzi, Il podere, 1918)
Questo secondo brano appartiene a un romanzo dello scrittore senese Federigo Tozzi. Qui
di realmente avvenuto non c’è nulla, è una normale pagina d’invenzione. Ma anche qui, a
parte alcune descrizioni paesaggistiche all’imperfetto, tutti i verbi sono al passato remoto. Eppure nessun lettore pensa che l’autore stia parlando di fatti avvenuti tanto tempo
prima.
Infatti il passato remoto è considerato per eccellenza il tempo della funzione narrativa.
Esprime quello che si definisce l’aspetto puntuale dell’azione. Cioè il fatto che sia conclusa, come circoscritta in un punto.
Per questo motivo non è necessario che il narratore si riferisca a eventi molto lontani dall’oggi, come accade nella conversazione comune (o come nel primo caso fa Casanova).
Ciò che il passato remoto segnala ai lettori, piuttosto, è il fatto che siamo in presenza di
un racconto. La vera lontananza che rappresenta è quella tra il mondo reale e l’invenzione narrativa.
17.2. L’imperfetto
29 Claustrale –
Come di una
suora che vive
chiusa in un convento (da
chiostro).
30 Cilicio – Un
crudele strumento
medievale di penitenza. Si indossava sotto le vesti e
martoriava le
carni.
“Finalmente, la Baronessa!
Letteralmente uscita dalle voluttuose pagine del Verga più frivolo e
mondano, talora ella vestiva di un pallore claustrale29, quasi di un cilicio30 espiatorio, la sua austerità; e passava le giornate in letture ascetiche, pallida e fiera: il massimo dello chic.
Talaltra, invece, fresca come una rosa! Labbro color di rosa, rosee narici frementi di sdegno, insomma tutta rosea sotto il padiglione di velluto cremisi, o addirittura più rossa delle fucsie che aveva sul cappellino,
quando un’ondata di sangue saliva rapida al viso, una specie di vertigine, e tra gli aranci del giardino, tra le rose canine sempre fiorite, prendeva volentieri un altro po’ di fragole!
Il metodo
Era civetta, orgogliosa, egoista, marmo di Carrara dentro e fuori; tal
quale si vedeva, con quel sorriso glaciale, si diceva avesse spinto al suicidio il solo uomo che avesse mai amato, e amato alla follia, un amore
da leonessa, da tigre reale31, da pantera nera, da gattoparda rosa32;
aveva tutte le avidità, tutti i capricci, tutte le sazietà, tutte le impazienze nervose di una natura selvaggia e d’una civiltà raffinata – era boema,
e cosacca, e parigina – e nella pupilla felina corruscavano33 delle bramosie indefinite e ardenti mentre stendeva verso il fuoco le mani pallide e scintillanti di gemme, e fissava in volto gli occhi febbrili, e faceva
manovre machiavelliche, e dava uno sguardo circolare sulla folla al
ballo, e scoppiava in un riso stridente che la faceva tossire e le imporporava le gote…”
(Alberto Arbasino, Specchio delle mie brame, 1974)
31 Da tigre
reale –
Allusione a
uno dei
romanzi giovanili di
Giovanni
Verga, Tigre
reale (1873).
32
Gattoparda
rosa – Ironica
contaminazione tra un
personaggio
69
dei fumetti, la
Pantera Rosa, e il
Gattopardo, famoso romanzo di
Giuseppe Tomasi
di Lampedusa
(1896-1957) sulla
decadenza dell’aristocrazia siciliana.
33 Corruscavano
– Mandavano
lampi di luce.
Questo brano fortemente ironico di Arbasino è invece tutto costruito con verbi all’imperfetto.
Nel ritratto – quasi una caricatura – che ci viene fatto di questa Baronessa, all’autore interessa sottolineare l’aspetto della ripetizione.
L’imperfetto è infatti un tempo iterativo (dal latino iterum = due volte) e ci comunica non
tanto la dimensione del passato quanto il fatto che una certa cosa si ripresenta sempre
uguale. Infatti l’autore non descrive una singola giornata o una singola festa nella quale la
Baronessa si comporta in quel modo, ma il suo modo ricorrente di atteggiarsi.
Arbasino rende manifesta la sua intenzione anche con degli avverbi di tempo indeterminati: “Talora…vestiva…passava […] / talaltra…prendeva…”.
17.3. Il presente indicativo
1) “Il mare è appena increspato e piccole onde battono sulla riva sabbiosa. Il signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un’onda. Non
che egli sia assorto nella contemplazione delle onde. Non è assorto,
perché sa bene quello che fa: vuole guardare un’onda e la guarda.
Non sta contemplando, perché per la contemplazione ci vuole un
temperamento adatto, uno stato d’animo adatto, e un concorso di
circostanze adatto: e per quanto il signor Palomar non abbia nulla
contro la contemplazione in linea di principio, tuttavia nessuna di
quelle condizioni si verifica per lui. Infine, non sono «le onde» che
lui intende guardare, ma un’onda singola e basta: volendo evitare le
sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso”.
(Italo Calvino, Lettura di un’onda, in Palomar, 1983)
Ora abbiamo un esempio tutto al presente indicativo.
È una modalità di racconto entrata in uso soprattutto nella narrativa contemporanea. Chi
70
Canone Occidentale - Prosa
parla lo fa come se fosse direttamente presente sulla scena e vedesse svolgersi i fatti
davanti ai propri occhi. Perciò sulla linea del tempo della fabula, l’attimo in cui le cose
accadono e l’attimo in cui le si riporta vengono a coincidere.
Qui l’intento di Calvino è quello di scrivere nella maniera più descrittiva possibile, e il
presente è il tempo che meglio si adatta alla descrizione: è il tempo della presenza, appunto.
Ma può essere usato anche per ottenere un altro effetto:
2) “L’auto che mi insegue è più veloce della mia; a bordo c’è un uomo
solo, armato di rivoltella, buon tiratore, come ho visto dai colpi che
mi hanno mancato per pochi centimetri. Nella fuga mi sono diretto
verso il centro della città; è stata una decisione salutare; l’inseguitore è sempre alle mie spalle ma siamo separati da parecchie altre
macchine; siamo fermi a un semaforo, in una lunga coda.”
(Italo Calvino, L’inseguimento, in Ti con zero, 1967)
Questa volta è lo stesso protagonista a parlare al presente indicativo, e lo fa con un’ottima ragione. Si trova nel bel mezzo dell’azione, con un misterioso assassino che lo sta
inseguendo per ucciderlo, ma bloccato dentro un ingorgo del traffico. Dunque la storia è
in corso e allo stesso tempo forzatamente immobile.
La scelta del tempo verbale fatta da Calvino mette noi lettori al fianco del suo protagonista, ci fa entrare nell’intreccio come se lo stessimo vivendo a nostra volta.
Nota bene: Se nel testo avessimo trovato il passato remoto, noi avremmo saputo, fin dalle
prime righe, che quella pericolosa avventura era finita bene, e che l’assassino non era
riuscito ad uccidere il narratore. Infatti il narratore sarebbe lì, virtualmente davanti a noi,
a raccontarcela.
Invece in questo modo i lettori non conoscono il futuro, alla pari del protagonista della
storia.
17.4. Il presente storico
«Dove ha imboscato la grana ‘sta carogna?» dice a voce alta.
Ma non articola queste parole, le pensa soltanto, e gli escono in un
groppo dalla gola come uno sputo. È un rantolo.
Va da un mobile all’altro. Si spazientisce. Si spezza le unghie nelle scanalature. Lacera stoffe. Cerca di recuperare il sangue freddo, si ferma a
riprendere fiato e (nel silenzio), in mezzo a oggetti che hanno perduto
ogni significato, ora che chi li usava abitualmente non è più, si sente tutt’a un tratto in un mondo mostruoso, fatto dell’anima dei mobili, delle
cose: il panico lo afferra con violenza. Si gonfia come un pallone,
diventa enorme, capace di inghiottire il mondo e se stesso insieme, poi
si sgonfia. Vuole scappare. Il più lentamente possibile. Non pensa più
al corpo dell’assassinato né al denaro perduto, né al tempo perduto, né
all’atto perduto.
(Jean Genet, Notre-Dame-des-Fleurs, 1944)
Il metodo
71
Solo in apparenza questo brano si confonde con i due precedenti. Anche qui il tempo verbale usato è il presente indicativo, ma stavolta si tratta di un presente storico.
Si parla di “presente storico” quando, all’interno di una narrazione al passato remoto,
d’improvviso lo scrittore passa all’uso del presente per rendere con maggiore immediatezza una sequenza particolarmente importante. Di solito il presente storico serve a:
- conferire rilievo drammatico (nel nostro esempio, un ladro che fruga in cerca di soldi
nella casa di un anziano dopo averlo ucciso)
- aumentare la velocità dell’esposizione (una scena concitata, con molte azioni)
17.5. Il futuro
E) E lui lo interromperà e si metterà a correre, e in quel momento sentirà urlare: “Guarda!” e voltandosi di scatto vedrà il colonnello col
dito puntato verso il basso, la bocca ancora aperta, e finalmente lui
sentirà il rumore degli spari, il fitto scrosciare della fucileria per
tutta la campagna, e vedrà la lunga fila di giubbe bianche avanzare
sui prati allentandosi e tendendosi come una corda mentre dal bosco,
una fila dopo l’altra, continueranno a uscire, lente e ostinate, centinaia di giubbe bianche, e poi il colonnello gli passerà davanti correndo, rotolando, cadendo e rialzandosi per ricominciare a correre,
e allora anche lui si metterà a correre trascinato dallo slancio giù per
la discesa, e guardando verso il paese vedrà un cavallo senza cavaliere, la sella allentata sotto la pancia, attraversare la piazza quasi
volando, le magre gambe legnose aperte in una falcata inverosimile
da un capo all’altro della piazza, mentre il colonnello continuerà a
gridare “Guarda! Guarda!”…
(Emilio Tadini, Le armi l’amore, 1963)
Quest’ultimo esempio, piuttosto singolare, presenta tutti verbi al futuro. È un caso senza
dubbio molto raro, ma interessante. Qui l’autore ha voluto rappresentare una sequenza
immaginata dal protagonista, come in un sogno o in una visione.
È possibile e persino facile trasformare la scena in un racconto convenzionale, voltando
tutti i verbi al futuro in passati remoti:
“E lui lo interruppe e si mise a correre e in quel momento sentì urlare: “Guarda!” e voltandosi di scatto vide il colonnello col dito puntato verso il basso […] ”
Però quel che andrebbe perduto è l’aspetto di possibilità trasmesso dal futuro.
Nel testo originale c’è una atmosfera vagamente allucinata, da incubo, causata proprio
dalla scelta dei tempi verbali. Invece nel nostro testo trasformato al passato remoto avremmo davanti una normale sequenza d’azione, descritta in maniera serrata.
Definizione:
a) Il passato remoto = azione puntuale, conclusa nel passato (“se ne andò”)
b) L’imperfetto = azione ripetuta, in corso nel passato (“ogni mattina se ne andava”)
c) Il presente = azione in corso nel presente (“se ne va”)
d) Il presente storico = azione compiuta nel passato ma vista come presente
e) Il futuro = azione immaginata o desiderata nel futuro (“se ne andrà”)
72
Canone Occidentale - Prosa
Laboratorio
Verifica
Notre-Dame-des-Fleurs
JEAN GENET
Prendiamo una porzione più ampia del brano di Jean Genet che hai già letto in precedenza.
Analizziamo l’uso dei tempi verbali:
«Dove ha imboscato la grana ‘sta carogna?» dice a voce alta.
Ma non articola queste parole, le pensa soltanto, e gli escono in un
groppo dalla gola come uno sputo. È un rantolo.
Va da un mobile all’altro. Si spazientisce. Si spezza le unghie nelle scanalature. Lacera stoffe. Cerca di recuperare il sangue freddo, si ferma a
riprendere fiato e (nel silenzio), in mezzo a oggetti che hanno perduto
ogni significato, ora che chi li usava abitualmente non è più, si sente tutt’a un tratto in un mondo mostruoso, fatto dell’anima dei mobili, delle
cose: il panico lo afferra con violenza. Si gonfia come un pallone,
diventa enorme, capace di inghiottire il mondo e se stesso insieme, poi
si sgonfia. Vuole scappare. Il più lentamente possibile. Non pensa più
al corpo dell’assassinato né al denaro perduto, né al tempo perduto, né
all’atto perduto. La polizia deve essere appostata lì vicino. Andarsene
alla svelta. Dà una gomitata a un vaso posato su un comò. Il vaso cade
e ventimila franchi si spargono graziosamente ai suoi piedi.
Aprì la porta senz’ansia, uscì sul pianerottolo, si sporse e guardò, in
fondo a quel pozzo silenzioso che divide gli appartamenti, la sfera di
cristallo sfaccettata e scintillante. Poi, sul tappeto notturno e nell’aria
notturna, attraverso un silenzio che è quello degli spazi eterni, scese, di
gradino in gradino, nell’Eternità.
La strada. La vita non è più immonda. Leggero, corre verso un alberghetto, che si rivela essere un albergo a ore e prende una camera. Là,
per conciliargli il sonno, la notte vera, la notte degli astri, scende a poco
a poco, un fremito d’orrore gli dà la nausea: è il disgusto fisico dei
primi momenti, che l’assassino prova per la sua vittima, e di cui mi
hanno parlato in molti”.
(Jean Genet, Notre-Dame-des-Fleurs, 1944)
Esercizi
Una volta che hai individuato i vari tempi usati, prova a interpretarne il valore:
- Genet usa un unico tempo verbale o li alterna nel corso del racconto?
- Puoi suddividere delle sequenze in base all’uso dei tempi?
- Secondo te che cosa significa nel brano in questione il passaggio dal presente al passato remoto?
- Che cosa significa invece il passaggio dal passato remoto al presente?
Trasforma l’uso dei tempi in questo racconto:
a) Come cambia l’atmosfera del brano se si usa soltanto il passato remoto?
b) È possibile utilizzare qui soltanto l’imperfetto?
c) È possibile utilizzare soltanto il presente indicativo?
d) Quale ti sembra più adatto al brano, il tempo della presenza o il presente storico?
e) Come cambia il tono del brano se lo si volge al futuro?
Il metodo
73
18. La distanza
Ogni volta che leggiamo una storia, in qualche modo vi prendiamo parte. Complice la bravura dell’autore, il fascino della trama, la nostra capacità di immedesimarci. E, ancora una
volta, il trattamento del tempo è un elemento cruciale.
Confronta queste due favole russe:
Un vecchio, dopo aver raccolto la legna nel bosco, se la caricò sulle
spalle. Doveva andare lontano con quel carico. Poco dopo, affranto,
depose la legna al suolo e disse:
«Ah, meglio la morte che questa vita!»
La morte accorse.
«Eccomi» disse, «Che vuoi da me?»
Preso dalla paura, il vecchio le rispose: «Voglio che tu mi aiuti a rimettermi sulle spalle la mia legna».
(Lev N. Tolstoj, Il vecchio e la morte, da I quattro libri di lettura, 1875)
a) In questo caso il racconto, dopo un minimo antefatto, si risolve tutto nella conversazione tra il vecchio e la morte. Non è la morale della favola a interessarci, ma notare
che il tempo del racconto e il tempo della lettura coincidono. La conversione del vecchio, che un istante prima si augurava la morte, avviene in presa diretta davanti a noi.
Due cavalli tiravano ognuno il proprio carro. Il primo cavallo non si fermava mai; ma l’altro sostava di continuo. Allora tutto il carico venne
messo sul primo carro. Il cavallo che era dietro e che ormai tirava un
carro vuoto, disse sentenzioso al compagno: «Vedi? Tu fatichi e sudi!
Ma più ti sforzerai, più ti faranno faticare».
Quando arrivarono a destinazione, il padrone si disse: «Perché devo
mantenere due cavalli, mentre uno solo basta a trasportare i miei carichi? Meglio sarà nutrir bene l’uno, e ammazzare l’altro; ci guadagnerò
almeno la pelle del cavallo ucciso!»
E così fece.
(Lev N. Tolstoj, I due cavalli, da I quattro libri di lettura, 1875)
b) La seconda favola è concisa quanto la prima, ma a ben guardare si articola in più tappe:
- i due cavalli tirano due carri
- a causa delle soste di uno, il carico viene spostato tutto all’altro
- il cavallo “pigro” apostrofa quello “lavoratore”
- i due cavalli, uno carico l’altro libero, continuano fino a destinazione
- il padrone a questo punto riflette sull’inutilità del cavallo “pigro”
- il padrone fa uccidere il cavallo “pigro”
Ogni tappa ha una estensione temporale che lo scrittore ha semplificato. È una caratteristica dello stile fiabesco. Tolstoj ci ha raccontato insomma in poche frasi qualcosa che è
avvenuto nell’arco di un tempo più lungo, magari una giornata o in alcune ore.
Si poteva verificare anche il procedimento inverso, quello di allungare i passaggi. Per
esempio Tolstoj poteva commentare l’avventatezza del cavallo pigro, che crede di risparmiarsi dalla fatica e invece si condanna a morte.
74
Canone Occidentale - Prosa
Qual è dunque la differenza tra le due favole?
È la visibilità del lavoro dell’autore.
A) Più l’autore scompare, cioè più si annulla nel resoconto dei fatti, e più il lettore ha la
sensazione di essere vicino a ciò che accade nella storia.
Se lo scrittore fosse un regista, diremmo che tende verso lo stile del documentario.
Nelle scene interamente dialogate il tempo della fabula, il tempo dell’intreccio e il
tempo della lettura si identificano alla perfezione.
B) Al contrario, quanto più l’autore si fa sentire, per esempio inserendo commenti o lunghe descrizioni, oppure manipolando il tempo del racconto, tanto più il lettore si trova
distanziato dal racconto stesso.
Perciò nel caso della favola Il vecchio e la morte diciamo che il modo del racconto è
mimetico (dal greco mímesis = imitazione). Con “imitazione” si intende una rappresentazione il più possibile diretta e immediata delle cose che accadono. Da documentario,
appunto.
È una tecnica molto usata dai narratori veristi perché riduce al minimo la sensazione che
esista un filtro (l’autore) tra chi legge e la vicenda descritta.
Serve insomma ad aumentare l’impressione di realismo.
Nel caso invece della favola I due cavalli il modo del racconto è di tipo diegetico (dal
greco diéghesis = narrazione), perché è più facile riconoscervi l’intervento di colui che
racconta.
Definizione:
Si parla di distanza per indicare il rapporto tra il tempo dei fatti raccontati e il
tempo del lettore.
19. Durata e ritmo narrativo
Abbiamo più volte paragonato i racconti a dei viaggi, a dei percorsi nel tempo e nello spazio in compagnia di una storia.
Come qualunque viaggiatore reale, anche un racconto non va sempre alla stessa velocità.
Vediamo allora in che modo si individuano la durata del racconto e il ritmo narrativo.
34 Paltò –
Cappotto.
35 Ragnata –
Logora, lisa.
“Aprì la grossa scatola davanti a lui, per dargli soddisfazione, perché
quando un vecchio fa un regalo a una ragazzina che mantiene, è un
regalo importante e bisogna che la ragazzina si dimostri felice, e al principio, quando vide quello che c’era nella grossa scatola, stava già atteggiando il viso alla scena di gioia, poi non poté, perché l’ombra dei suoi
quattro unici paltò34 che aveva avuto nella sua vita era davanti a lei: il
paltò verde di quando aveva undici anni, ricavato forse da una giacca
ragnata35 del padre, e il freddo che conteneva dentro negli implacabili
inverni torinesi; quando l’aveva addosso, sentiva più freddo che senza.
E se l’era portato appresso, per non andare in vestina per le strade
ghiacciate, fino a quindici anni. Poi il paltò nero, della mamma, quando la mamma era andata all’ospedale dei cronici, e non ne era più usci-
Il metodo
ta; sembrava legno, non scaldava niente e quando sedeva in tram quasi
faceva cric. E il paltò marrone fatto con una pezza ottenuta in regalo,
meglio in elemosina? Gliel’aveva cucito la zia e sembrava un cartoccio,
si vergognava di portarlo, così lungo, melenso e sbilenco. E poi l’altro
paltò nero, se l’era comprato da sé, non certo con la paga dello stabilimento. E poi aveva trovato quel vecchio, gentile, borbonico36, generoso meridionale che l’aveva portata con sé, e la teneva nascosta in un
quartierino vicino a casa sua, deplorevole ma bellissimo vizio segreto,
nutrita, ingioiellata, vestita, adorata.
«È visone», disse lui, con senile vanità.
Lei tirò fuori la pelliccia dalla scatola, un sorriso acre in viso.
Adesso, adesso!, il visone, lì a Catania la solare, dove neppure a dicembre riusciva a mettere il golf e le calze le davano fastidio, dopo tutti
quegli inverni di freddo e paltò stracci.
«Bellissimo», disse acre.
75
36 Borbonico –
Letteralmente
“suddito del regno
dei Borboni”, cioè
meridionale.
Nell’aggettivo
però è contenuta
l’allusione a qualcosa di elegante
ma passato, fuori
moda.
(Giorgio Scerbanenco, Un regalo alla ragazzina, in Il Cinquecentodelitti, 1994)
Malgrado la sua brevità, questo intenso racconto presenta un uso molto variegato del ritmo
narrativo. Analizziamolo insieme:
a) C’è prima di tutto il tempo delle azioni compiute.
Una sola scena di estensione temporale minima: una ragazza apre un regalo, vede di
che si tratta, lo estrae e formula un apprezzamento di circostanza. In tutto, lo scambio
di due battute.
Come una cornice, questa scena contiene il racconto nella sua interezza.
b) Dentro la cornice si apre un’articolata analessi della ragazza che riceve il regalo.
È una serie di quattro ricordi, quattro momenti del suo passato incasellati insieme, la
cui comparsa è causata proprio dal regalo.
Il presente svanisce, scalzato dai quattro flash della memoria.
Il tempo fa un balzo istantaneo all’indietro.
c) Il filo che unifica i ricordi è l’oggetto-cappotto. Quattro ne ha avuti la ragazza, e quattro sono stati i momenti della sua vita che lei rivede. Li rivede uno dopo l’altro, come
in un film che scorre a velocità estremamente accelerata.
Il movimento all’indietro del tempo si rovescia subito in un moto in avanti.
d) I quattro ricordi non sono tutti trattati alla stessa maniera. Il primo e il secondo paltò
sono connessi con le figure dei genitori, con l’infanzia e con la sensazione del freddo.
Uno rimanda alla giacca lisa del padre (miseria), l’altro al ricovero della madre (malattia e morte). Entrambi vengono descritti e situati entro un arco di tempo. Dagli undici
ai quindici anni il primo, dal ricovero della mamma nella “casa dei cronici” alla sua
morte il secondo.
Le due sequenze trasmettono un’idea di tempo lento e lungo, di ripetizioni umilianti,
di un supplizio interminabile: “negli implacabili inverni torinesi; quando l’aveva
addosso, sentiva più freddo che senza. E se l’era portato appresso […] fino a quindici
anni […]. Sembrava legno, non scaldava niente e quando sedeva in tram quasi faceva
cric”.
Osserva l’uso degli imperfetti, che sono verbi iterativi, della ripetizione.
76
Canone Occidentale - Prosa
Dal punto di vista dell’azione, non sta accadendo niente. L’azione è in pausa.
Noi lettori seguiamo il corso dei ricordi della ragazza.
e) Si tratta comunque di una pausa necessaria a capire la storia e il carattere della protagonista. Se avessimo incontrato una descrizione più lunga e dettagliata, con altri aspetti marginali della sua infanzia, avremmo avuto una digressione.
In un racconto così breve non c’è spazio per digressioni, mentre ne troviamo sempre
nelle narrazioni più lunghe, specie nei romanzi.
f) Gli altri due paltò ci conducono all’adolescenza e alla giovinezza. Sono segnati ancora dal tema della miseria ma soprattutto della vergogna. Il terzo fa vergognare la ragazza perché è “melenso e sbilenco”.
La vergogna provata a mostrarsi in giro con quel cappotto rimane viva nella mente e
fa sì che il ricordo imbarazzante scivoli via in fretta. Questo ricordo infatti appare e
scompare molto più velocemente dei primi due.
g) Il quarto paltò è quasi del tutto taciuto. “L’altro paltò nero, se l’era comprato da sé, non
certo con la paga dello stabilimento”.
Questa, all’interno della pausa, è una ellissi, (dal greco élleipsis = mancanza). Il testo
ci dice abbastanza per farci capire che la ragazza ha ottenuto i soldi vendendosi, ma lo
fa con un brusco aumento della velocità. Chi ricorda, in questo caso, preme l’acceleratore della memoria per non vedere.
Nel caso più radicale di ellissi, cioè quando un periodo di tempo viene saltato, si dice
che il ritmo ha velocità infinita.
h) C’è poi un’ultima sequenza nell’analessi, ed è la più vicina al presente, tanto che vi si
ricollega. Veniamo a sapere che la ragazza torinese ha conosciuto un anziano signore
di cui ora è l’amante segreta: “E poi aveva trovato quel vecchio […] generoso meridionale che l’aveva portata con sé, e la teneva nascosta […] vicino a casa sua […],
nutrita, ingioiellata, vestita, adorata”.
In una sola frase appaiono condensati molti fatti: l’incontro con il vecchio, la partenza
dalla città natale di lei, Torino, per il sud Italia, la nuova sistemazione, una nuova vita
fatta di tutto quel che le era sempre mancato. Ha cibo, gioielli, begli abiti, perfino l’amore. I ricordi mano a mano che si fanno più vicini all’oggi della ragazza scorrono più
veloci. Non hanno la pesantezza dolorosa di quelli d’infanzia né la vergogna di quelli
della giovinezza.
Questa soluzione è quel che si definisce un riassunto, o sommario.
Definizione:
- Scena = il tempo della fabula è uguale al tempo dell’intreccio: ritmo normale
- Riassunto / Sommario = il tempo della fabula è maggiore del tempo dell’intreccio:
ritmo accelerato
- Pausa = il tempo dell’intreccio è maggiore del tempo della fabula: ritmo rallentato
- Digressione = come sopra, il tempo dell’intreccio è maggiore del tempo della fabula: ritmo rallentato
- Ellissi = una parte del tempo della fabula viene cancellato/evitato dal tempo dell’intreccio: velocità infinita
77
Il metodo
20. Spazio interno e spazio esterno
L’elemento dello spazio è anch’esso molto importante nella costruzione di un racconto.
Però è allo stesso tempo un problema, per ogni scrittore.
Che lo spazio nella narrativa sia meno fondamentale del tempo, deriva da un motivo molto
preciso: a ogni testo scritto manca la dimensione visiva, ed è soprattutto attraverso la vista
che noi misuriamo le grandezze spaziali. Non solo: sempre grazie alla vista, riusciamo a
capire di cosa è riempito lo spazio che ci circonda. Degli oggetti di una stanza, degli alberi in un bosco, delle dune in un deserto, delle case in una città, tutto questo è immediatamente visto e compreso dall’occhio.
Invece per ogni narratore la scenografia è un fondale che va allestito a parole, davanti agli
spettatori impazienti di vedere come la storia procede.
Mostriamo con alcuni esempi come gli scrittori affrontano questo compito.
20.1. Lo spazio interno
“Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione settentrionale,
allo scriptorium37 e quivi non potei trattenere un grido di ammirazione.
Il secondo piano non era bipartito come quello inferiore e si offriva
quindi ai miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte,
curve e non troppo alte (meno che in una chiesa, più tuttavia che in ogni
altra sala capitolare38 che mai vidi) sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre enormi
finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre cinque finestre
minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun torrione;
otto finestre alte e strette, infine, lasciavano che la luce entrasse anche
nel pozzo poligonale interno. […] Antiquarii39, librarii40, rubricatori41 e
studiosi stavano seduti ciascuno al proprio tavolo, un tavolo sotto ciascuna delle finestre. […] Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per
miniare42 e copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci
stavano affinando con un coltello sottile, pietra pomice per rendere
liscia la pergamena, regoli per tracciare le linee su cui si sarebbe stesa
la scrittura. Accanto a ogni scriba stava un leggìo, su cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la
linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostri
d’oro e di altri colori”.
(Umberto Eco, Il nome della rosa, 1981)
37 Scriptorium –
In una abbazia era
il luogo in cui i
monaci copiavano
i libri.
38 Sala capitola-
re – Sala dove si
riunivano i religiosi addetti a una
cattedrale o a una
chiesa collegiata.
39 Antiquarii –
Monaci studiosi
dell’antichità
classica, eruditi.
40 Librarii –
Monaci addetti
alla copiatura dei
testi.
41 Rubricatori –
Monaci che scrivevano con
inchiostro colorato le maiuscole o
i titoli.
42 Miniare –
Dipingere le
miniature sui
codici.
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Canone Occidentale - Prosa
A) Questa accurata descrizione presenta al lettore, che per la prima volta vi mette piede,
lo scriptorium di una abbazia medievale. Qui, tra monaci copisti, Umberto Eco ha
ambientato il suo primo e più famoso romanzo, Il nome della rosa.
Abbiamo davanti agli occhi uno spazio interno, un luogo molto vasto ma chiuso.
- Il narratore prima ne individua i confini:
a) Il soffitto a volta
b) Le pareti
c) Le finestre, indicate per posizione e in ordine decrescente di grandezza
- La luce riempie tutto lo spazio
- Poi compaiono gli uomini e l’arredamento, colti insieme: i monaci seduti ai tavoli
- Infine abbiamo la rappresentazione minuziosa degli oggetti da lavoro su ogni tavolo
Eco procede nella descrizione sempre dal grande al piccolo. Si va dalla “spaziosa immensità” dell’intero scriptorium fino alle singole righe di scrittura inquadrate dalla mascherina sui codici aperti.
Anche i nostri occhi prima individuano le cose più voluminose e centrali per poi mettere
a fuoco i dettagli e le parti marginali dell’immagine. In questo modo la sua rappresentazione dello spazio è molto vivida e realistica perché funziona in maniera simile ai nostri
sensi.
20.2. Lo spazio esterno
43 Aveva – Uso
arcaico dell’italiano che utilizza la
forma della terza
persona singolare
anche per la
prima. Qui sta per
“io avevo”.
“Volsi intorno gli occhi e mi ricorderò sempre l’abbagliante piacere e
quasi lo sbigottimento di maraviglia che ne ricevetti. Aveva43 dinanzi
un vastissimo spazio di pianure verdi e fiorite, intersecate da grandissimi canali simili a quello che avevo passato io, ma assai più larghi e più
profondi. I quali s’andavano perdendo in una stesa d’acqua assai più
grande ancora; e in fondo a questa sorgevano qua e là disseminati alcuni ponticelli, coronati taluno da qualche campanile. Ma più in là ancora l’occhio mio non poteva indovinar cosa fosse quello spazio infinito
d’azzurro, che mi pareva un pezzo di cielo caduto e schiacciatosi in
terra: un azzurro trasparente, e svariato da strisce d’argento che si congiungeva lontano lontano coll’azzurro meno colorito dell’aria. Era l’ultima ora del giorno; da ciò m’accorsi che io doveva aver camminato
assai assai. Il sole in quel momento, come dicono i contadini, si voltava indietro, cioè dopo aver declinato un fitto tendone di nuvole, trovava vicino al tramonto un varco da mandare alla terra un ultimo sguardo, lo sguardo d’un moribondo sotto una palpebra abbassata.
D’improvviso i canali, e il gran lago dove sboccavano, diventarono tutti
di fuoco: e quel lontanissimo azzurro misterioso si mutò in un’iride
immensa e guizzolante dei colori più diversi e vivaci. Il cielo fiammeggiante ci si specchiava dentro, e di momento in momento lo spettacolo
si dilatava s’abbelliva agli occhi miei e prendeva tutte le apparenze
ideali e quasi impossibili d’un sogno”.
(Ippolito Nievo, Confessioni d’un Italiano, 1867)
Il metodo
79
B) Il secondo esempio ci mostra uno scrittore alle prese con lo spazio esterno, addirittura con una panoramica che tende all’infinito. Il piccolo Carlo Altoviti, protagonista del
romanzo di Nievo, qui è solo un bambino che si è per la prima volta allontanato dal
castello dove vive. La pagina, famosa, è quella del primo incontro con il mare, descritto con tutta la meraviglia possibile.
Nota che in tutto il brano il bambino non pronuncia mai la parola “mare”, perché
appunto ancora non sa cosa sia lo spettacolo grandioso che ha dinanzi.
Laboratorio
Il colpo al portone del cortile
Si era in estate, una giornata molto calda. Sulla strada del ritorno a casa
passai con mia sorella davanti al portone di un cortile. Non so se lei
abbia dato di proposito o per sbadataggine un colpo al portone o se
invece abbia soltanto minacciato con il pugno di farlo e non abbia colpito niente.
Cento passi più in là, lungo la strada maestra che gira a sinistra, cominciava il villaggio.
Non lo conoscevamo, ma, subito dopo la prima casa, sbucò della gente
che ci faceva dei cenni, in segno di amicizia o per metterci in guardia,
essa stessa spaventata, piegata dallo spavento. Ci indicava il cortile
davanti al quale eravamo passati e ci rammentava il colpo dato al portone. I proprietari del cortile ci avrebbero denunciato, l’inchiesta sarebbe cominciata subito.
Io ero molto calmo e tranquillizzai anche mia sorella. Forse lei non
aveva neppure dato il colpo e, se anche lo avesse fatto, in nessun posto
del mondo si intenta una causa per questo motivo. Cercai di spiegarlo
anche a quella gente, la gente mi ascoltò ma si astenne dal dare un giudizio. Più tardi disse che non solo mia sorella, ma anch’io, come fratello, sarei stato denunciato. Annuii sorridendo. Tutti noi guardavamo
indietro verso il cortile, come quando si osserva lontano una nuvola di
fumo e si aspetta di vedere la fiamma. E, invero, subito vedemmo dei
cavalieri entrare nel portone completamente aperto. Si alzò la polvere,
velò tutto, luccicavano soltanto le punte delle alte lance. Il gruppo dei
cavalieri era appena sparito nel cortile, quando sembrò che avesse subito girato i cavalli e si fosse diretto verso di noi.
Volevo allontanare mia sorella, avrei chiarito tutto da solo. Lei non
volle lasciarmi solo. Le dissi di andare almeno a cambiarsi d’abito, per
presentarsi a quei signori con un vestito migliore. Alla fine mi ascoltò,
e prese la lunga via del ritorno a casa.
I cavalieri erano ormai presso di noi, da cavallo domandarono di mia
sorella.
«Momentaneamente non è qui», fu risposto con ansia, «ma verrà più
tardi».
Verifica
FRANZ KAFKA
80
Canone Occidentale - Prosa
La risposta fu accolta quasi con indifferenza; soprattutto sembrava
importante che avessero trovato me.
Spiccavano due signori, il giudice, una persona giovane e vivace, e il
suo silenzioso assistente che veniva chiamato Assmann. Fui invitato a
entrare nell’abitazione del contadino. Piano, dondolando la testa, aggiustandomi le bretelle, mi incamminai sotto gli sguardi taglienti dei signori. Credevo ancora che sarebbe stata sufficiente una parola per liberare
me, il cittadino, da quei bifolchi, magari con tutti gli onori. Ma, quando ebbi varcata la soglia della casa, il giudice, che era corso avanti e già
mi attendeva, disse: «Quest’uomo mi fa pena». Non c’era dubbio che si
riferisse non al mio stato di allora, ma a quel che sarebbe successo.
La casa somigliava a una prigione, più che a una casa di contadini.
Grandi mattonelle di pietra, pareti scure, interamente spoglie, in un
punto un anello di ferro infisso nel muro e al centro qualcosa, mezzo
pagliericcio e mezzo tavola operatoria.
Potrei mai sentire un’aria diversa da quella del carcere? Questa è la
grossa questione, o piuttosto lo sarebbe, se avessi ancora qualche possibilità di rilascio.
(da: Franz Kafka, Racconti postumi in Tutti i romanzi e i racconti)
Esercizi
Il racconto, come molti altri di Kafka, sembra la trascrizione di un sogno o di addirittura
di un incubo.
Per questo il trattamento del tempo e dello spazio è molto particolare.
TEMPO DEL LETTORE, TEMPO DELLA STORIA E TEMPO DELL’INTRECCIO
- Qual è la durata del racconto per il lettore?
- Cerca ora di stabilire la durata effettiva (cioè a livello della fabula) degli avvenimenti
narrati:
a) Pochi minuti
b) Poche ore
c) Alcuni giorni o più
d) Una durata impossibile da determinare
- In che rapporto si trova il narratore con i fatti del racconto?
a) Di anteriorità (cioè li immagina / prevede nel futuro)?
b) Di posteriorità (cioè li ricorda nel passato)?
c) In coincidenza (cioè li osserva nel presente durante il loro svolgersi)?
- Il rapporto del narratore con i fatti rimane stabile o si modifica? Cioè la tua risposta è
sempre a) b) o c) per qualunque punto del racconto?
LA DISTANZA
- In quali punti la distanza del testo dal lettore è minore?
Il metodo
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- In quali punti invece aumenta?
- Ci sono sequenze di tipo mimetico e sequenze di tipo diegetico?
- Quali sono quantitativamente in maggioranza?
LA DURATA E IL RITMO
- Come ti sembra il ritmo del racconto?
a) Rimane costante
b) Appare irregolare
- Riesci a trovare nel racconto delle scene, dei riassunti, delle pause e delle ellissi?
Evidenziale.
- Vi sono delle parti di dialogo?
- Vi sono delle digressioni?
LO SPAZIO
- Isola, sottolineandoli, gli spazi che figurano nel racconto.
- Ci sono spazi sia interni che esterni? Quali sono?Evidenziali, magari con colori diversi.
- Come sono rappresentati gli spazi?
a) Con ricchezza di dettagli
b) Con pochi tratti
- Ci sono dei momenti nel racconto in cui lo spazio, e il modo in cui è descritto, assume
un ruolo significativo nella storia?
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Canone Occidentale - Prosa
4. Autore, narratore, punto di vista
21. L’autore e il narratore: “CHI PARLA”
Fin qui abbiamo parlato dei vari elementi che compongono le storie: gli eventi, il tempo,
lo spazio, i personaggi.
C’è un ultimo aspetto, assolutamente necessario perché una narrazione prenda vita, da
considerare. È il ruolo di chi la storia la racconta.
21.1. L’autore
“L’indomani ero partita per il Vietnam. C’era la guerra in Vietnam e se
uno faceva il giornalista finiva prima o poi per andarci. Perché ce lo
mandavano, o perché lo chiedeva. Io l’avevo chiesto. Per dare a me
stessa la risposta che non sapevo dare a Elisabetta, la vita cos’è, per
ricercare i giorni in cui avevo troppo presto imparato che i morti non
rinascono mai a primavera. Ed ora mi trovavo a Saigon. [...] E pensai
che in quel momento, nel resto del mondo, la polemica infuriava sui trapianti del cuore: la gente, nel resto del mondo, si chiedeva se fosse lecito togliere il cuore a un malato cui restano dieci minuti di respiro per
darlo a un altro malato cui restano dieci mesi di vita, qui invece nessuno si chiedeva se fosse lecito togliere l’intera esistenza a un intero
popolo di creature giovani, sane, col cuore a posto. E l’ira mi avvolse
penetrandomi sotto la pelle, bucandomi fino al cervello, e promisi di
scrivere questa incoerenza, e da questa incoerenza crebbe un diario per
te, Elisabetta. [...] Tu che non sai come la vita sia molto più del tempo
che passa fra il momento in cui si nasce e il momento in cui si muore,
su questo pianeta dove gli uomini fanno miracoli per salvare un moribondo e le creature sane le ammazzano a cento, mille, un milione per
volta”.
(Oriana Fallaci, Niente e così sia, 1969)
Se qualcuno ci domanda, mettendoci di fronte a un romanzo o a un racconto, “chi ha scritto questa storia?”, la risposta più logica e immediata è quella di andare a leggere il nome
che figura in copertina, o sopra il titolo. E sarebbe, nella maggioranza dei casi, anche la
risposta giusta.
Nelle prime pagine del libro-reportage Niente e così sia, la giornalista e scrittrice Oriana
Fallaci spiega ciò che l’ha spinta a raccontare la sua esperienza di inviata durante la guerra del Vietnam.
La persona reale che materialmente ha scritto un testo è l’autore. In questo caso, Oriana
Fallaci.
Il metodo
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L’autore
Il nome che compare sulla copertina di
un libro o sopra il titolo di un racconto
indica l’autore.
Spesso è così, ma possiamo dire con certezza che sia sempre vero?
Ecco alcune eccezioni:
A) Il nome che troviamo sopra il titolo
potrebbe essere un nome di fantasia.
In questo caso l’autore ha usato uno
pseudonimo.
I motivi per cui si usa uno pseudonimo sono molti e diversi:
a) A volte l’invenzione di un autore
fantasma deriva dalla necessità di
non farsi riconoscere per ragioni
ideologiche o politiche, per aggirare la censura o evitare persecuzioni.
b) A volte nasce dal desiderio da
parte di uno scrittore di dar vita a
un personaggio cui attribuire racconti diversi da quelli che scrive
di solito.
Ci sono stati scrittori, come il
francese Stendhal (1783-1842) o
il portoghese Fernando Pessoa
(1888-1935), o l’argentino Jorge
Luis Borges (1899 - 1986), che
hanno creato molti autori di fantasia a cui attribuivano le loro
opere. Addirittura, Stendhal stesso
è già uno pseudonimo, perché in
realtà l’autore de Il Rosso e il
Nero si chiamava Henry Beyle.
c) A volte nasce come omaggio di un
autore a un altro. L’autore di fantascienza americano Philip José
Farmer (1918 - vivente) nel 1974
scrisse un romanzo intitolato
Venere sulla conchiglia e lo pubblicò con lo pseudonimo di
Kilgore Trout. Ebbene, Kilgore
Trout era il nome di un personaggio creato da un altro scrittore di
fantascienza, Kurt Vonnegut
(1923 - vivente). Tutto il libro di
Farmer è scritto alla maniera di
Vonnegut, e la scelta dello pseudonimo è come un suggerimento
offerto ai lettori per comprendere
il legame tra i due testi.
B) Il nome che troviamo sopra il titolo
potrebbe coincidere solo in parte con
l’autore.
a) Un esempio famoso è quello del
libro Il Milione. Vi sono narrate le
avventure di Marco Polo alla
corte dell’Imperatore della Cina, e
qualunque copia del libro reca il
nome di Marco Polo come autore.
In realtà il mercante veneziano
raccontò soltanto la sua storia,
durante la prigionia nelle carceri
genovesi, a un suo compagno di
cella, Rustichello da Pisa. Fu poi
Rustichello - il quale era uno
scrittore di romanzi - a mettere
per iscritto i ricordi di Marco
Polo.
b) Un altro esempio si ha quando un
personaggio noto, un campione
sportivo o un divo del cinema,
decide di pubblicare le proprie
memorie. Spesso i campioni e i
divi non se la cavano altrettanto
bene con la penna, e allora qualche professionista della scrittura li
aiuta.
Dunque, non sempre l’autore dichiarato
è il reale responsabile di quel che gli
viene attribuito.
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Canone Occidentale - Prosa
21.2. Il narratore
“Io e mia moglie entrammo nella sala. C’era odore di muffa e di umidità. Milioni di sorci e di topi si sparpagliarono da tutte le parti, quando rischiarammo quei muri che non avevano veduto la luce nel corso di
un secolo intero. Quando chiudemmo la porta dietro di noi, soffiò una
folata di vento e agitò dei mucchi di fogli che giacevano negli angoli.
La luce cadde su questi fogli e vedemmo dei caratteri antichi e delle
figure medievali. Sulle pareti, rese verdi dal tempo, erano appesi i ritratti degli avi. Essi ci guardavano alteri e arcigni [...]. I nostri passi rimbombavano per tutta la casa. Ai miei colpi di tosse rispondeva l’eco,
quella stessa eco che un tempo aveva risposto ai miei avi...
E il vento urlava e gemeva, Nella cappa del camino qualcuno piangeva
e in questo pianto si sentiva la disperazione. Grosse gocce di pioggia
picchiavano contro le opache e buie finestre e il loro rumore riempiva
d’angoscia”.
(Anton Cechov, Lo specchio deformante, in Tutti i racconti, 1883)
Qui abbiamo invece un inizio che, per ambientazione e atmosfera, sembra promettere un
classico racconto del terrore, o di fantasmi.
Se ora la domanda di sopra suonasse “chi racconta questa storia?”, ci accorgeremmo che
non si tratta della stessa domanda.
Perché qui chi racconta la storia è il narratore, cioè un personaggio di fantasia. Un personaggio inventato tanto quanto la vicenda in cui si trova.
L’autore è il novelliere e drammaturgo russo Anton Cechov (1860-1904), il narratore
invece è l’uomo senza nome che vediamo aggirarsi in compagnia della moglie per una
villa aristocratica chiusa da un secolo.
È molto raro che l’autore decida di raccontare la storia direttamente. Tanto è vero che il
primo caso che abbiamo citato non proviene da un testo di finzione, bensì da un diario di
guerra.
Per lo più l’autore inventa un narratore, che può ricoprire ruoli diversi all’interno del racconto.
Vediamo quali:
21.3. Narratore interno
I tre esempi che seguono ci presentano vari tipi di narratore interno:
A) “Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di
Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga – e di quanti
altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I
d’Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l’ultima guerra. Ma la
spinta, l’impulso a farlo veramente, l’ebbi soltanto un anno fa, una
domenica d’aprile del 1957”.
(Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, 1962)
Il metodo
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A) In questo primo caso abbiamo un testimone delle vicende che verranno narrate.
Il narratore si presenta come qualcuno che era presente ai fatti.
Non parlerà di sé se non in maniera marginale, e lo dice a chiare lettere: “Da molti anni
desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e
della signora Olga –”.
B) “Robert Cohn era stato campione dei pesi medi a Princeton. Non
dovete credere che questo come titolo sportivo faccia impressione a
me, ma Cohn ci teneva moltissimo. In realtà del pugilato non gli
importava, non gli piaceva affatto, ma l’aveva dolorosamente imparato alla perfezione per controbattere la sensazione di inferiorità e di
timidezza che l’essere trattato da ebreo a Princeton gli procurava.
C’era un certo intimo conforto nella coscienza di poter mettere a
terra chiunque fosse stato insolente con lui, per quanto Cohn, ragazzo molto timido e perbene, non facesse mai a pugni tranne che in
palestra”.
(Ernest Hemingway, Fiesta, 1926)
B) Nel secondo caso il narratore si offre come un personaggio tra gli altri della storia.
L’uomo di cui ci racconta, Robert Cohn, è un suo amico, ed egli lo tratta da pari a sé:
“Non dovete credere che questo come titolo sportivo faccia impressione a me”.
C) “È l’autunno del mio secondo anno a Parigi. Ci sono stato mandato per una ragione che ancora non sono riuscito a penetrare.
Non ho soldi, né risorse, né speranze. Sono l’uomo più felice del
mondo. Un anno, sei mesi fa, pensavo di essere un artista. Ora non
lo penso più, lo sono. Tutto quel che era letteratura, mi è cascato di
dosso. Non ci sono più libri da scrivere, grazie a Dio.
E questo, allora? Questo non è un libro. E libello, calunnia, diffamazione. Ma non è un libro, nel senso usuale della parola. No, questo
è un insulto prolungato, uno scaracchio in faccia all’Arte, un calcio
alla Divinità, all’Uomo, al Destino, al Tempo, all’Amore, alla
Bellezza… a quel che vi pare. Canterò per voi, forse stonando un
po’, ma canterò. Canterò mentre crepate, danzerò sulla vostra sporca carogna…
Per cantare bisogna prima aprire la bocca. Ci vogliono un paio di
polmoni, e qualche nozione di musica. Non occorre avere fisarmonica, o chitarra. Quel che conta è voler cantare. E dunque questo è
canto. Io canto”.
(Henry Miller, Tropico del Cancro, 1935)
C) Nel terzo e ultimo caso abbiamo invece il protagonista che assolve la funzione di narratore.
Si capisce fin dalle prime righe che sarà lui stesso l’oggetto della vicenda.
In tutti e tre i casi, il narratore si definisce interno perché fa egli stesso parte della vicenda.
Il narratore interno utilizza sempre la prima persona singolare.
Avvertenza: Il narratore interno può usare a volte anche la prima persona plurale, perché dire “noi” in un racconto equivale a dire “io più altri”.
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Canone Occidentale - Prosa
21.4. Narratore esterno
I due esempi che seguono ci presentano altrettanti tipi di narratore esterno:
A) “Nessun treno poteva partire se non dopo un attento esame della
linea. Molti venivano fucilati per rappresaglia, ma ciò non serviva a
nulla. [...] Il gelido odio s’accrebbe con l’inverno, quel tetro odio
silente, quell’odio fatto di attesa. [...] E l’odio fu profondo negli
occhi del popolo, sotto la superficie.
E avvenne che il conquistatore fu assediato, che gli uomini del battaglione furono soli tra nemici silenziosi e nessuno poteva allentare
la sorveglianza per un solo istante. Se lo faceva, scompariva e il suo
corpo era sepolto sotto un mucchio di neve. Se andava con una
donna, scompariva e il suo corpo era sepolto sotto un mucchio di
neve. Se beveva, scompariva. Gli uomini del battaglione potevano
cantare soltanto quand’erano insieme, potevano ballare soltanto
insieme, e il ballo a poco a poco cessò e le loro canzoni erano piene
di nostalgia per la loro casa. I loro discorsi si aggiravano su amici e
parenti che li amavano e i loro desideri erano per il tepore e gli affetti [...].
E gli uomini pensavano sempre a casa. Gli uomini del battaglione
finirono col detestare il luogo che avevano conquistato, ed erano
bruschi con la gente e la gente era brusca con loro; e a poco a poco
la paura cominciò a insinuarsi negli invasori, una paura che non se
ne sarebbe andata più, la paura che quella tensione non sarebbe più
cessata, ch’essi non avrebbero più potuto tornare a casa, che un giorno avrebbero dovuto rifugiarsi sulle montagne come lepri braccate,
perché i vinti non abbandonavano mai il loro odio. Le pattuglie di
ronda, vedendo delle luci, ne erano attratte come da un fuoco; ma
quando comparivano, le risa si smorzavano, il calore spariva e la
gente si mostrava fredda e remissiva. E i soldati, fiutando l’aroma
dei cibi caldi sulle soglie delle piccole trattorie, ordinavano cibi
caldi, per accorgersi poi che vi era stato messo troppo sale o troppo
pepe”.
(John Steinbeck, La luna è tramontata, 1942)
A) Il brano è tratto da un romanzo ambientato nella Seconda Guerra Mondiale. Le forze
in campo sono la resistenza norvegese e gli invasori nazisti.
Steinbeck sceglie per questa storia un narratore quasi totalmente impersonale, che
interviene poco o affatto nella descrizione degli eventi e dei personaggi.
Questo narratore vede ogni cosa dall’alto, è come se fosse dappertutto, e conosce i sentimenti sia degli oppressori che degli oppressi.
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Il metodo
B) “Nozdriòv era, sotto molti aspetti, un uomo poliedrico, vale a dire
un uomo pronto a qualsiasi cosa44. In un medesimo momento vi proponeva di partire per qualunque destinazione, fosse pure in capo al
mondo, di lanciarvi in qualunque altra impresa, cambiare qualunque
cosa con qualsiasi altra, a vostra volontà, un fucile, un cane, un
cavallo, tutto poteva essere oggetto di scambio, non per guadagnarci sopra ma per una certa irrequieta versatilità e arditezza di carattere. Se alla fiera gli capitava la fortuna di imbattersi in un sempliciotto e di pelarlo al gioco, andava a comperare mucchi di tutto quel che
aveva poco prima visto nelle vetrine: collari per cavalli, profumi da
bruciare, fazzoletti per la bambinaia, uno stallone, uva passa, un
bacile d’argento, tela d’Olanda, semolino, tabacco, pistole, aringhe
salate, quadri, una macchina per arrotolare vasi, stivali, un servizio
di Faenza, finché gli bastavano i soldi. Del resto, accadeva di rado
che tutte queste cose arrivassero fino a casa: quasi nello stesso giorno tutto passava nelle mani di un altro più fortunato giocatore e
qualche volta vi si aggiungeva anche la sua pipa personale, con la
borsa del tabacco e il bocchino [...] . Così era Nozdriòv! Forse i lettori lo giudicheranno un carattere superato, diranno che di Nozdriòv,
ora, non ne esistono più. Ahimè, non saranno nel giusto coloro che
diranno siffatte cose. Per un bel pezzo ancora Nozdriòv non scomparirà dal nostro mondo; è dappertutto fra di noi e, forse, porta soltanto un’altra giacca: ma la gente è leggera e superficiale: un uomo
con un’altra giacca le sembra un uomo diverso.
44 In realtà poliedrico significa letteralmente “che ha
molte facce”.
Cioè, se detto di
una persona, “che
ha capacità o
aspetti molteplici”. L’autore qui
utilizza la parola
poliedrico in
senso ironico per
indicare il carattere imprevedibile
del suo personaggio.
(Nikolaj Gogol’, Le anime morte, 1842)
B) Nel secondo caso abbiamo un narratore molto più presente.
Fin dall’inizio della presentazione di Nozdriòv, chi parla utilizza l’arma dell’ironia.
Ma, soprattutto, dialoga con il lettore, lo rende partecipe della sua opinione, fa dei
commenti e delle digressioni: “Forse i lettori lo giudicheranno un carattere superato”
/ “Ahimè, non saranno nel giusto coloro che diranno siffatte cose” / “la gente è leggera e superficiale”.
In entrambi i casi, il narratore esterno non fa parte della storia che racconta.
Utilizza sempre la terza persona, singolare o plurale.
Per concludere, segnaliamo un caso particolare:
“Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest’ora del mattino. E invece eccoti qua,
e non puoi certo dire che il terreno ti sia del tutto sconosciuto, anche se
i particolari sono confusi. Sei in un nightclub e stai parlando con una
ragazza rapata a zero. Il locale è lo Heartbreak oppure il Lizard Lounge.
Tutto diventerebbe più chiaro se potessi fare un salto in bagno a sniffare una bella riga di Tiramisu Boliviano45. Una vocina dentro di te insiste che questa epidemica mancanza di chiarezza è già il risultato di un
eccesso di biancolina. La notte ha ormai girato quell’impercettibile
chiavetta con cui si passa dalle due alle sei del mattino. Tu sai benissimo che il momento è arrivato e passato, ma non sei ancora disposto ad
45 Tiramisu
Boliviano –
Allusione alla
cocaina, di cui
uno dei maggiori
produttori al
mondo è la
Bolivia.
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Canone Occidentale - Prosa
ammetter di aver superato il limite oltre il quale tutto è effetto collaterale gratuito e paralisi di terminazioni nervose. A un certo punto avresti
potuto decidere di fermarti, ma sei andato oltre su una coda di cometa
di polvere bianca, e adesso stai cercando disperatamente di cavalcarla.
In questo momento il tuo cervello è uno schieramento di soldatini boliviani. Sono stanchi e infangati per la lunga marcia attraverso la notte.
Hanno i buchi nelle scarpe, hanno fame. Hanno bisogno di sostentamento, di un po’ di Tiramisu Nazionale”.
(Jay McInerney, Le mille luci di New York, 1984)
Nel suo romanzo d’esordio, il giovane scrittore americano Jay McInerney utilizzò una tecnica abbastanza singolare: tutto il racconto, come si vede in questo brano, è scritto in
seconda persona singolare.
Quel che McInerney così ottiene è un incrocio tra un narratore esterno e un narratore
interno.
Infatti, il narratore non dice “io” e guarda il protagonista per così dire da fuori = narratore esterno.
Però, nello stesso tempo, è il protagonista stesso che si guarda e si descrive in questo modo
= narratore interno.
21.5. Narratore di primo e secondo grado
“Il traffico della grande città proseguiva nella notte sempre più profonda sul fiume insonne. Continuavamo a guardare, in paziente attesa; non
c’era altro da fare prima della fine del flusso; ma fu solo quando, dopo
un lungo silenzio, egli disse, con voce incerta: «Immagino ricordiate
quella volta che per un po’ di tempo divenni marinaio di acqua dolce»,
che comprendemmo di essere destinati ad ascoltare, prima che iniziasse il riflusso, la storia di una delle inconcludenti esperienze di Marlow.
– Non voglio stare a seccarvi troppo con ciò che mi accadde personalmente, – cominciò, dimostrando con questo suo rilievo la debolezza di
tanti che narrano storie e sembrano molto spesso ignari di ciò che ai
loro ascoltatori piacerebbe udire; – tuttavia, per capire l’effetto che
ebbe su di me, bisognerà che sappiate come avvenne che io mi recai
laggiù, che cosa vidi, come risalii quel fiume fino al punto dove per la
prima volta incontrai quel poveraccio. Fu il punto più lontano della
navigazione e quello culminante della mia esperienza. In qualche modo
parve gettare una sorta di luce su tutto quanto intorno a me, e nei miei
pensieri. Una faccenda molto triste, anche, e penosa, per niente straordinaria e neppure molto chiara. No, non molto chiara. Eppure, sembrò
gettare una sorta di luce”.
(Joseph Conrad, Cuore di tenebra, 1902)
Questo brano ci mostra che a volte i racconti possono essere uno dentro l’altro.
Non è raro osservare, infatti, il caso di un narratore che cede la parola (cioè la funzione di
raccontare) a un’altra voce.
Il metodo
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In questo, come in altri romanzi di Joseph Conrad, la storia viene introdotta da un narratore di primo grado.
Si tratta della voce che parla alla prima persona plurale (“Continuavamo a guardare” /
“comprendemmo di essere destinati ad ascoltare”). Il plurale indica che il narratore fa
parte di un gruppo di marinai riuniti attorno al personaggio di nome Marlow.
Marlow compare anche in altre opere di Conrad, è un marinaio che ha viaggiato molto, e
ha sempre delle avventure da raccontare. Marlow è un narratore di secondo grado.
La scena in cui ci troviamo, una barca ancorata al tramonto sul Tamigi, con un gruppo di
uomini intenti ad ascoltarne uno che parla, si chiama cornice. Come la cornice in un quadro, infatti, la prima parte del racconto circoscrive la rievocazione di un’altra vicenda.
Definizione:
Autore: la persona reale che materialmente ha scritto un testo
Narratore: la voce che racconta la storia
Il narratore può essere:
a) Narratore interno: il protagonista o un altro personaggio della storia o un testimone dei fatti
b) Narratore esterno: qualcuno che dall’esterno della vicenda racconta ciò che è
avvenuto, le parole e i pensieri dei personaggi
Inoltre il narratore può essere:
a) Di primo grado: chi racconta una storia dall’inizio alla fine
b) Di secondo grado: chi, all’interno di un racconto altrui, assume la funzione di
narratore e racconta un’altra storia
Cornice: ogni storia dentro alla quale si aprono altre storie
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Canone Occidentale - Prosa
22. Il punto di vista o focalizzazione: “CHI VEDE”
È inevitabile che chi racconta una storia abbia un suo punto di vista, proprio come chiunque di noi nella vita di tutti i giorni.
Il punto di vista è la prospettiva dalla quale si guarda ciò che è accade o è accaduto.
Gli studiosi per indicarlo usano il termine focalizzazione, ossia “messa a fuoco di un
obiettivo”, come se si trattasse di una macchina fotografica o di una cinepresa.
La focalizzazione è un fattore cruciale nell’organizzazione di un testo narrativo, e può
essere di vari tipi:
22.1. Focalizzazione zero
“Era un alligatore pezzato: aveva le squame di un bianco pallido e di un
nero color alga. Si spostava velocemente, ma in modo goffo. Poteva
darsi che fosse pigro, o vecchio, o anche stanco. Profane pensava che
forse era stanco di vivere.
L’inseguimento era iniziato fin dal calare della sera. Il condotto in cui
si trovavano misurava centoventi centimetri di diametro, e Profane
aveva un mal di schiena tremendo. Sperava che l’alligatore non svoltasse in una conduttura più piccola, dove non avrebbe potuto seguirlo [...].
Per Profane non sarebbe stata la prima preda. Erano ormai due settimane che faceva quel lavoro e aveva al suo attivo quattro alligatori e un
topo. Tutte le sere e tutte le mattine, prima di ogni turno, gli uomini in
cerca di lavoro si radunavano davanti a un negozio di dolciumi di
Columbus Avenue, dove si svolgeva il reclutamento. Il desiderio segreto del capo, un certo Zeitsuss, era di fare il sindacalista. Portava abiti di
raion e occhiali cerchiati di corno. Di solito, non c’era neppure un
numero di volontari sufficiente a coprire il quartiere portoricano[...],
figurarsi tutta la città di New York. Eppure, tutte le mattine alle sei, i
volontari si trovavano davanti a Zeitsuss che misurava il marciapiede a
passi lenti, ostinato nel suo sogno. Zeitsuss lavorava alle dipendenze
del Comune”.
(Thomas Pynchon, V., 1963)
Quello che ci troviamo davanti in un brano come questo si definisce un narratore onnisciente. Cioè la voce narrante appartiene a qualcuno che conosce ogni aspetto del mondo
del racconto.
a) Conosce i luoghi e i tempi in cui la storia si svolge (“Tutte le sere e tutte le mattine, gli
uomini in cerca di lavoro si radunavano davanti a un negozio di dolciumi di Columbus
Avenue” / “Il condotto misurava centoventi centimetri di diametro”).
b) Conosce i pensieri e le aspirazioni dei personaggi (“Profane pensava che forse era
stanco di vivere” / “Il desiderio segreto del capo, un certo Zeitsuss, era di fare il sindacalista”).
c) Li vede in azione anche quando sono completamente soli (Profane nelle condotto
fognario mentre insegue l’alligatore)
d) È al corrente del loro passato e del loro presente (“Per Profane non sarebbe stata la
Il metodo
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prima preda. Erano ormai due settimane che faceva quel lavoro e aveva al suo attivo
quattro alligatori e un topo” / “Zeitsuss lavorava alle dipendenze del Comune”).
Poiché l’obiettivo del racconto non è focalizzato su nulla in particolare ma comprende
tutto, in questo caso si parla di focalizzazione zero.
Il narratore onnisciente può essere sia interno sia esterno, ma di solito è esterno, poiché è
molto più credibile.
Infatti, un narratore interno (protagonista personaggio o testimone che sia) proprio perché
è a sua volta dentro la storia, non può trovarsi dappertutto e non può leggere nei pensieri
degli altri uomini.
Invece a un narratore esterno è concessa la massima libertà di spostamento:
- può permettersi analessi e prolessi, commenti e digressioni
- può raccontare eventi che accadono nello stesso momento anche in luoghi distanti tra
loro
- può fornire informazioni su tutto e su tutti
- può sapere – ed è il privilegio massimo – quel che i vari personaggi coinvolti pensano.
Per questo si dice che il narratore onnisciente ne sa sempre:
a) più dei singoli personaggi
b) più del lettore
22.2. Focalizzazione interna
“Prima d’attraversare una via piena d’animazione, esitò un poco: gli
piaceva camminare a passo eguale; per non dover attraversare in fretta
aspettò il momento propizio. In quel mentre qualcuno chiese forte a un
altro: «Mi sa dire dov’è la Mutstrasse?». L’interrogato non replicò parola. Kien ne fu stupito: dunque v’erano per strada, oltre a lui, altri individui taciturni. Tese l’orecchio senza alzare gli occhi. Come avrebbe
reagito di fronte a quel silenzio l’uomo che aveva fatto la domanda?
«Mi scusi, potrebbe dirmi per favore dov’è la Mutstrasse?». Raddoppiò
la propria gentilezza ma non ebbe miglior fortuna: l’altro non disse
niente. «Forse lei non mi ha sentito. Avrei bisogno di un’informazione.
Vuol essere così gentile da dirmi come posso trovare la Mutstrasse?».
L’impulso conoscitivo di Kien – lui non conosceva curiosità – s’era
destato. Si propose di guardare in faccia il taciturno, nel caso che avesse insistito anche adesso nel suo silenzio. Senza dubbio l’uomo era
immerso nei suoi pensieri e desiderava evitare ogni interruzione. Restò
zitto di nuovo. Kien l’elogiò. Un carattere, fra mille, capace di resistere ai casi esteriori. «Ma dico, è sordo?», gridò il primo. Adesso l’altro
risponderà, pensò Kien, e cominciò a perder gusto all’avventura del suo
protetto. Chi sa tenere a freno la lingua quando lo si offende? Si girò
verso la strada: il momento di attraversare era arrivato. Stupito che il
silenzio continuasse, si fermò. Il secondo ancora non parlava.
[...] La scena si svolgeva alla sua destra. Qui il primo strepitava: «Lei è
senza educazione! Le ho rivolto la domanda con la massima cortesia!
Ma chi crede di essere? Villanzone! È forse muto?». L’altro taceva.
«Dovrà chiedermi scusa! Me ne infischio della Mutstrasse! Quella può
indicarmela chiunque. Ma lei dovrà scusarsi con me. Ha capito?».
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Canone Occidentale - Prosa
L’altro non se ne dette per inteso.
[...] A questo punto Kien ricevette una forte spinta. Qualcuno gli afferrò la borsa e cercò di strappargliela. Con uno strattone, lui sottrasse i
libri agli artigli dell’altro e si girò verso destra. Il suo sguardo era diretto alla borsa ma cadde su un uomo piccolo e grasso che l’investiva con
grida furibonde. [...] L’altro, l’uomo taciturno e di carattere che sapeva
tenere a freno la lingua anche nella collera era lui stesso, Kien.
(Elias Canetti, Auto da fé, 1935)
Questo curioso brano dello scrittore bulgaro Elias Canetti offre un perfetto esempio di
cosa sia una focalizzazione interna. Si tratta di un punto di vista ristretto.
Qui il personaggio, un professore di nome Peter Kien, è talmente concentrato sui suoi pensieri da non rendersi conto, fin quando non riceve lo spintone, che il passante in cerca di
informazioni sta parlando proprio con lui.
Dunque Kien immagina tutta una conversazione tra il primo che domanda e l’altro che
non risponde, senza comprendere che è proprio il suo estraniamento a generare la scena.
Il brano in questione dimostra anche che la focalizzazione interna non richiede necessariamente un narratore interno.
La soluzione più “facile” per chi vuole ottenere una focalizzazione interna resta quella di
dare la parola a un narratore in prima persona, il quale vede e sa solo ciò che gli accade
intorno.
Tuttavia Canetti dà prova che anche un narratore esterno – cioè in terza persona - può aderire così strettamente al punto di vista di un solo personaggio da essere, per così dire, prigioniero dei suoi occhi.
Per questo si dice che il narratore a focalizzazione interna ne sa :
a) quanto il suo personaggio
b) a volte di meno a volte di più del lettore
22.3. Focalizzazione esterna
46 Matrice – È la
chiesa del paese,
dedicata alla
Madonna.
47 Panelle –
Tipiche frittelle
palermitane, a
base di farina di
ceci.
“L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e
singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia
ai campanili della Matrice46: solo il rombo dell’autobus e la voce del
venditore di panelle47, panelle calde panelle [...]. Il bigliettaio chiuse lo
sportello, l’autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L’ultima
occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza, colse l’uomo vestito di
scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all’autista – un momento
– e aprì lo sportello mentre l’autobus ancora si muoveva. Si sentirono
due colpi squarciati: l’uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul
predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato per i capelli da una
mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò.
Il bigliettaio bestemmiò: la faccia gli era diventata colore di zolfo, tremava. Il venditore di panelle, che era a tre metri dall’uomo caduto,
Il metodo
93
muovendosi come un granchio cominciò ad allontanarsi verso la porta
della chiesa. Nell’autobus nessuno si mosse, l’autista era come impietrito, la destra sulla leva del freno e la sinistra sul volante. Il bigliettaio
guardò tutte quelle facce che sembravano facce di ciechi, senza sguardo; disse – l’hanno ammazzato – si levò il berretto e freneticamente
cominciò a passarsi la mano tra i capelli; bestemmiò ancora.
– I carabinieri – disse l’autista – bisogna chiamare i carabinieri”.
(Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, 1961)
È una pagina cruciale, in ogni romanzo giallo, quella in cui avviene l’omicidio. Sciascia,
in questo che è il suo primo romanzo sulla mafia, utilizza per la scena una rigorosa focalizzazione esterna.
La focalizzazione esterna si ha quando lo sguardo del narratore (a volte esterno, a volte
interno e testimone) è in grado di cogliere soltanto ciò che è visibile a occhio nudo.
Cioè non gli è permesso di sapere che cosa le persone pensano o come si sentono. Può soltanto immaginarlo in base a come gli altri parlano o si comportano.
Nel brano che abbiamo scelto la focalizzazione esterna assume anche un valore simbolico: in questa scena così dettagliata, infatti, c’è soltanto un elemento che manca, ed è l’immagine dell’assassino. Il narratore non ci dice se qualcuno lo ha visto o meno, né dove
fosse appostato. Fa risuonare gli spari, e mostra le varie reazioni: il bigliettaio che impreca, il venditore di panelle che cerca di andarsene senza farsi notare, l’autista “impietrito”.
E i volti delle persone sull’autobus “sembravano facce di ciechi, senza sguardo”. Il che
significa due cose:
a) Sono come ciechi = non hanno visto nulla
b) Sono inespressivi = non si può capire cosa pensano
Quest’ultimo elemento è cruciale. Perché con la focalizzazione esterna, unita al mutismo
e alla impenetrabilità della gente, Sciascia suggerisce al lettore che qui diventa impossibile raggiungere la verità. È il grande tema dell’omertà mafiosa, rappresentato in maniera
indiretta.
Per questo si dice che il narratore a focalizzazione esterna ne sa:
a) meno dei singoli personaggi
b) quanto il lettore
22.4. Focalizzazione variabile
Abbiamo parlato di focalizzazione esterna, interna e zero, e ne abbiamo mostrato degli
esempi mirati.
Però è abbastanza raro che il punto di vista in un testo narrativo non subisca mai delle
modificazioni.
A seconda delle necessità del racconto, lo scrittore è libero di alterare la focalizzazione.
Infatti se prendiamo in considerazione un brano più ampio dei precedenti, troviamo una
focalizzazione variabile, che oscilla dai modi tipici del narratore onnisciente, a punti di
vista più circoscritti, coincidenti con quelli dei personaggi.
94
Canone Occidentale - Prosa
“Demetrio Pianelli, la mattina della prima domenica di quaresima verso
le sette, andava a sentire la sua messa alla vicina chiesa di
Sant’Antonio, quando, giunto sull’angolo di San Clemente, s’incontrò
in Ferruccio, che correndo e ansando gli domandò collo spavento negli
occhi e nella voce:
– È lei il fratello del sor Cesarino?
– Eh? – esclamò Demetrio, accartocciando la pelle delle faccia, in una
smorfia d’uomo che stenta a capire.
– Venga, il sor Cesarino s’è ammazzato.
– Chi, chi? Chi sei?- balbettò Demetrio agitando le mani.
– Mi manda mio padre.
– Chi, chi? Chi è tuo padre?
– Il portinaio del Carrobbio48, il Berretta. L’hanno trovato morto stamattina sul solaio.
Ferruccio tremava come una foglia nel dire queste parole.
Demetrio vide dapprima innanzi a sé un gran buio, poi gli parve di perdere l’equilibrio. Al buio successe un bagliore fosforescente come
quando uno ti lascia andare una terribile frustata attraverso la faccia.
Poi si mosse per una forza istintiva dietro al ragazzo che, voltandosi di
tempo in tempo, cercava di raccontare la storia. – Come ammazzato? da
quando si è ammazzato? perché si è ammazzato? Chi? Cesarino? oh
povero me…, o Signore, o Madonna Santissima. – E quanta fu lunga la
strada da San Clemente al Carrobbio, il povero Demetrio non seppe dir
altro. [...]
Intanto giungeva anche un delegato della polizia con alcune guardie.
Svegliato al bisbiglio e al rumore dei passi su e giù per la scala, mi
vestii in fretta e scesi anch’io in corte a vedere. Il Berretta, smorto come
una rapa, mi raccontò il caso. Il guattero49 dell’osteria, salito tra le cinque e le sei a prendere un cesto di carbone, aveva dato del capo in due
gambe. Corse giù senza anima, senza una goccia di sangue, contò50 la
cosa al Berretta che mandò a chiamare le guardie. In silenzio andarono
su, passando in punta di piedi davanti all’uscio dei Pianelli che dormi48 Il Carrobbio –
Il crocicchio che
vano ancora. Il macellaio, un giovinotto tarchiato e forte come un toro,
immette a Porta
prese in braccio Giovedì, che seguitava ad abbaiare contro l’uscio, con
Ticinese e a Porta una mano gli strinse il muso per farlo tacere, e se lo portò via. La poveGenova, a Milano.
ra bestia si dibatteva nelle strette come un’anguilla.
49 Guattero –
Il Berretta stava facendomi vedere la mano con cui aveva aiutato a
Sguattero.
distaccare il morto, che teneva aperta in aria, lontano dal corpo, come
50 Contò –
Raccontò.
se non fosse più sua, quando sopraggiunse il signor Demetrio”.
(Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, 1890)
Nella pagina appena riportata troviamo un caso davvero evidente di focalizzazione variabile.
- Il racconto comincia con un narratore esterno che in terza persona ci descrive l’ignaro Demetrio che va a messa e incontra Ferruccio.
- Ferruccio avverte Demetrio che suo fratello si è ucciso, e qui il narratore si fa onnisciente perché ci descrive le reazioni interiori dell’uomo di fronte alla notizia tragica.
- La scena si sposta sul luogo del suicidio, e compare un narratore interno che in prima
persona prende in mano la narrazione (“Svegliato al bisbiglio e al rumore dei passi su
Il metodo
95
e giù per la scala, mi vestii in fretta e scesi anch’io in corte a vedere”).
- Il nuovo narratore però non sa cosa è successo, per cui deve farsi raccontare l’accaduto. Ecco che subentra una ulteriore focalizzazione interna, questa volta sul Berretta. È
il Berretta infatti che riferisce chi e come ha trovato il corpo del suicida.
Laboratorio
L’incontro
Verifica
HENRY JAMES
Uno dei maestri assoluti delle tecniche narrative legate al punto di vista fu l’americano
Henry James (1843 – 1916). Leggiamo insieme una parte del romanzo breve La bestia
nella giungla, osservando come è rappresentato l’incontro tra un uomo e una donna, John
Marcher e May Bartram, che si ritrovano dopo dieci anni ad una festa.
“Quando finalmente cominciarono a parlare, erano rimasti soli in una
delle sale – impreziosita da un bel ritratto sopra il camino – per la quale
gli amici erano già passati, e l’incanto di tale incontro era dovuto alla
circostanza che, prima ancora di dirsi qualcosa, si fossero tacitamente
accordati per rimanere indietro e attaccare discorso. [...]
Comunque, a modo suo, quest’incontro appariva troppo bello per essere sciupato; così, per pochi minuti ancora, continuarono a chiedersi
vanamente perché – pur avendo, come sembrava, un certo numero di
amici in comune – fosse stato tanto a lungo differito il loro ritrovarsi.
[...]
Si sarebbero separati, e questa volta senza la possibilità di altri incontri, se anche quel tentativo si fosse concluso senza successo. E fu proprio allora, quando una svolta s’imponeva, come egli comprese più
tardi, che, venendo meno ogni altro mezzo, lei si decise a prendere l’iniziativa e, di fatto, a salvare la situazione. Non appena May cominciò
a parlare, Marcher sentì che ella aveva deliberatamente taciuto ciò che
ora stava per dire sperando di poterne fare a meno; e questo scrupolo lo
commosse quando, tre o quattro minuti dopo, ebbe modo di misurarne
il valore. Ciò che May disse, ad ogni modo, alleggerì non poco l’atmosfera e riallacciò l’anello mancante… quell’anello che con strana leggerezza aveva perso.
«Un giorno, sapete, mi diceste una cosa che non ho mai dimenticato e
che da allora mi ha fatto pensare a voi più volte; era un giorno caldissimo e stavamo attraversando il golfo per andare a Sorrento in cerca di
un po’ di refrigerio. Fu mentre tornavamo, godendoci il fresco sotto la
tenda della barca, che mi diceste appunto… non ricordate?»
Marcher aveva dimenticato, e ne fu più sorpreso che vergognoso. Ma il
bello fu che non colse in quelle parole nessun richiamo volgare a qualche “tenero” discorso. La vanità delle donne ha la memoria lunga, ma
in quel caso non sembrava proprio che May stesse vantandosi con lui di
96
Canone Occidentale - Prosa
un complimento o di un malinteso. Con un’altra donna, una donna
totalmente diversa, avrebbe magari potuto temere la rievocazione di
qualche avventata “profferta”. Così, costretto ad ammettere d’aver
veramente dimenticato, ebbe l’impressione che si trattasse di una perdita piuttosto che di un guadagno; gli sarebbe stato utile ricordare la
cosa menzionata da May. «Ci sto pensando ma… no, ci rinuncio.
Eppure ricordo quel giorno di Sorrento».
«A questo punto non credo che voi possiate ricordare» disse dopo un
attimo May Bartram; «e non sono neppure sicura che io debba desiderarlo. È terribile riportare una persona indietro a ciò che era dieci anni
prima. Se avete vissuto finora prescindendo da quella cosa,» accennò
un sorriso, «tanto meglio».[...]
S’interruppe, quasi volesse dargli il tempo di ritrovarla da solo; ma siccome, limitandosi a incrociare lo sguardo di lei con aria sempre più stupita, Marcher non accennava risposta, May a un tratto si decise: «È mai
successa?»
Fu allora che, continuando a fissarla, una luce gli balenò dentro e il sangue lentamente gli affluì al volto che prese a bruciargli man mano che
il ricordo si chiariva. «Volete dire che vi confidai…?» Ma si trattenne,
per paura di tradirsi, o che la sua supposizione potesse essere errata.
«Era una cosa che vi riguardava personalmente, che era difficile dimenticare… beninteso, sempre che ci si ricordasse di voi. Ecco perché vi
chiedo» May sorrise, «se la cosa che mi diceste, è poi avvenuta».
Ora sì che capiva Marcher, ma venne sopraffatto dallo stupore e dall’imbarazzo e May, aveva capito anche questo, ne fu dispiaciuta per lui
come se la sua allusione fosse stata un errore. Gli bastò un attimo per
avvertire che non a un errore era dovuto il suo imbarazzo, bensì alla
sorpresa. Anzi, dopo lo shock iniziale, il fatto che lei sapesse cominciò,
per quanto abbastanza stranamente, a prendere per lui un dolce sapore.
May era dunque la sola persona al mondo che sapesse, e l’aveva continuato a sapere per tutti quegli anni, mentre la circostanza di averle sussurrato un segreto così gli era inspiegabilmente svanita dalla mente. [...]
«Credo, di sapere» disse alla fine Marcher «di sapere a cosa alludete.
Solo, è curioso, ma avevo perduto perfino la sensazione di avervi introdotto a tal punto nella mia intimità.»
«Forse perché l’avete fatto con molte altre persone?»
«Al contrario. Nessun altro da allora.»
«Così, io sarei l’unica persona a sapere?»
«L’unica al mondo».
«Bene,» continuò lei in fretta, «in quanto a me, non ne ho mai fatto
parola. Mai, mai ho riferito, parlando di voi, quanto mi diceste allora».
(Henry James, La bestia nella giungla, 1903)
Il metodo
97
Esercizi
L’AUTORE E IL NARRATORE
- In base a quanto si legge nel testo, puoi dire se c’è coincidenza tra autore e narratore?
a) Chi ha scritto questa storia?
b) Chi racconta questa storia?
- Prova, facendo una breve ricerca su delle enciclopedie o su internet, a trovare informazioni sull’autore di questo racconto, e ad inserirle nel testo. In che modo potresti far
comparire in scena Henry James, o il narratore?
- Prova a inventare un autore e un narratore diversi, mantenendo più o meno immutata la
scena.
NARRATORE INTERNO ED ESTERNO
- Che tipo di narratore abbiamo in questo brano?
a) Narratore interno (protagonista / personaggio / testimone)
b) Narratore esterno
- Quale atteggiamento ha il narratore verso la storia che racconta?
a) È del tutto impersonale
b) Partecipa con commenti, giudizi, digressioni
- Ci sono narratori di primo e di secondo grado?
- Se sì, in quali momenti sembra affacciarsi un narratore di secondo grado?
- Prova a inserire un narratore di secondo grado ampliando il racconto in una direzione
possibile
98
Canone Occidentale - Prosa
5. Tema, Messaggio, Contesto
23. L’argomento e il tema
51 Gli discorreva
pianamente – Gli
parlava tranquillamente.
A) “Nei primi giorni d’estate, Agostino e sua madre uscivano tutte le
mattine sul mare in patino. Le prime volte la madre aveva fatto venire anche un marinaio, ma Agostino aveva mostrato così chiari segni
che la presenza dell’uomo l’annoiava, che da allora i remi furono
affidati a lui. Egli remava con un piacere profondo su quel mare
calmo e diafano del primo mattino e la madre seduta di fronte a lui,
gli discorreva pianamente51, lieta e serena come il mare e il cielo,
proprio come se lui fosse stato un uomo e non un ragazzo di tredici
anni.
B) «Tu mi tratti sempre come un bambino» disse ad un tratto Agostino,
non sapeva neppure lui perché.
La madre rise e gli accarezzò una guancia «Ebbene, d’ora in poi ti
tratterò come un uomo… va bene così? e ora dormi… è molto
tardi». Ella si chinò e lo baciò. Spento il lume, Agostino la sentì
coricarsi nel letto.
Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di addormentarsi. Ma non era un uomo: e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse”.
(Alberto Moravia, Agostino, 1945)
Abbiamo riportato qui la prima e l’ultima pagina di un famoso racconto di Alberto
Moravia, Agostino.
Non è affatto casuale che le righe iniziali e quelle conclusive del testo coincidano in un
punto, e cioè nella frase “come se lui fosse stato un uomo e non un ragazzo di tredici
anni”.
Perché Agostino è la storia di un adolescente, la storia di una estate al mare nella quale un
bambino avverte per la prima volta che sta crescendo, sta abbandonando l’infanzia.
Scopre il mondo fuori dalle sua famiglia, le differenze sociali, il mistero della sessualità.
E appunto la tensione tra l’essere trattato “come un bambino” e l’impazienza di sentirsi
già “un uomo” è il tema di questo racconto.
Si potrebbe semplicemente dire che il tema di un testo narrativo è l’argomento trattato.
In realtà, però, il tema è qualcosa di più.
Vediamo allora di chiarire la differenza tra tema e argomento:
a) l’argomento di un testo è ciò che risponde alla domanda “di che cosa parla il racconto?” La nostra risposta, in questo caso, sarebbe: “di Agostino e dell’estate dei suoi tredici anni al mare, con tutto quel che gli accade”.
Il metodo
99
b) il tema invece è ciò che risponde alla domanda “di che cosa vuole parlarci l’autore
con il suo racconto?” Allora dovremmo piuttosto dire: “Moravia racconta la difficoltà di crescere. La storia di Agostino esprime il passaggio da una fase della vita ad
un’altra facendoci vedere il momento di trapasso”.
Insomma l’argomento è il contenuto superficiale di una storia, il tema è il contenuto profondo.
Spesso gli autori non dichiarano apertamente il tema che hanno scelto, e perciò ognuno di
noi deve porsi, durante o dopo la lettura, la domanda: che cosa voleva dirmi l’autore raccontandomi questa storia?
Ogni lettore può darsi risposte differenti, a seconda della cultura e della sensibilità che
possiede. La ricchezza della letteratura sta nel fatto che un testo non è come un problema
matematico: non esiste una singola risposta giusta contro infinite risposte sbagliate. I testi
letterari sopportano infinite letture giuste, anche fortemente contrastanti tra loro.
I temi di un racconto possono essere i più vari: dai sentimenti – come l’amore o la gelosia – alle esperienze della vita – come la guerra o il lavoro, il successo o il fallimento – e
tanti altri ancora. Grandi temi sempre validi sono il rapporto tra l’uomo e la natura, tra
l’individuo e la società, o tra la generazione dei padri e quella dei figli.
Infine, non è necessario che il tema sia unico. Un testo può avere un tema principale e
molteplici temi secondari che emergono lungo la narrazione.
Specie nei romanzi lunghi, quando la trama si snoda nel tempo fra molti personaggi e in
luoghi diversi, è facile che varie tematiche si incrocino l’una con l’altra.
Definizione:
L’argomento è il contenuto superficiale di una storia, il tema ne è il contenuto profondo.
L’argomento: “di che cosa parla il racconto”
Il tema: “di che cosa vuole parlarci l’autore con il suo racconto”
24. Le finalità
Varie possono essere le finalità di chi incomincia a scrivere una storia.
Leggiamo insieme alcune famose dichiarazioni d’autore:
A) “Mi accingo a un’impresa che non conosce esempi e che non conoscerà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la
verità della propria natura, e quell’uomo sono io.
Io solo. So leggere nel mio cuore e conosco gli uomini. Non sono
fatto come nessuno di quanti ho visto; oso credere di non esser fatto
come nessuno di quanti esistono; se non valgo di più, sono almeno
diverso. Se la natura abbia fatto bene o male a infrangere lo stampo
in cui m’ha forgiato, lo si potrà giudicare solo dopo avermi letto”.
(Jean Jacques Rousseau, Confessioni, 1782-1789)
100
Canone Occidentale - Prosa
B) “Prego il lettore di considerarmi con simpatia, giacché la mia confessione ha il solo fine di divertirlo. Se un libro di questo genere non
52 Occorsami –
fosse una confessione sincera, bisognerebbe gettarlo dalla finestra,
Che è capitata a
perché un autore che si loda non è degno di essere letto. [...] Dopo
me.
trentadue anni mi decido a scrivere la storia di una vicenda occorsa53 Ironica citaziomi52 quando ne avevo trenta, «nel mezzo del cammin di nostra
ne del primo verso
vita»53. Mi sono deciso a scriverla per evitare la fatica di raccontardella Divina
la dal principio ogni volta che una persona degna di riguardo o di
Commedia di
amicizia mi preghi o mi obblighi a farlo”.
Dante.
(Giacomo Casanova, Storia della mia fuga dai Piombi, 1787)
C) “Per ingannare le ore d’ozio in questa terra straniera, vorrei scrivere
una breve memoria di quanto m’è accaduto nella mia più recente
dimora a Parigi, dal 21 giugno 1821 al … novembre 1830: nove anni
e mezzo. Vado rimproverandomi da due mesi: da quando mi sono
adattato alla novità della mia situazione per intraprendere un lavoro
purchessia. Senza lavoro, la nave della vita umana è priva di zavorra. Confesso che non avrei il coraggio di mettermi a scrivere se non
54 Egotismo –
pensassi che queste pagine saranno un giorno stampate, e le leggerà
Tendenza smodata
qualche creatura cui voglio bene, qualcuno come la signora Roland
a occuparsi, scrio il geometra Gros. Ma gli occhi che leggeranno queste parole s’avendo o parlando,
prono solo oggi alla luce: calcolo che i miei futuri lettori hanno ora
di sé. Da ego (latino = io).
dieci o dodici anni”.
(Stendhal, Ricordi d’egotismo54, 1832)
D) “Questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla
a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante
argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo
scopo di formulare nuovi capi d’accusa [...].
Se non di fatto, come intenzione e come concezione esso è nato già
fin dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare agli «altri», di fare
gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e
dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per
soddisfare questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore”.
(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)
Ovviamente non sono tutti qui i motivi possibili per cui si prende la penna in mano. Però
possiamo riconoscere nei quattro esempi citati alcuni filoni che hanno sempre ispirato gli
scrittori:
esempio a) “Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della propria natura”
= lo studio dell’animo umano
esempio b) “il solo fine di divertire (il lettore)”
= l’intrattenimento, il piacere del
= racconto
esempio c) “queste pagine saranno un giorno stampate, e le leggerà qualche creatura cui
voglio bene”
= lasciare un segno di sé,
= sconfiggere la morte
Il metodo
esempio d) “Il bisogno di raccontare agli altri”
101
= la testimonianza di fatti storici (nel
= caso di Primo Levi, l’incubo dei
= Lager, i campi di sterminio nazisti)
Definizione:
Analizzare, descrivere, divertire, testimoniare, suscitare riflessioni, sono le finalità di ogni gesto narrativo.
Finalità: “Perché lo scrittore ha deciso di scrivere questo racconto”
25. Il contesto
“Questa è la vera storia di Kraputnyk Armadillynk così come mi fu raccontata dalla sua viva voce.
Una mattina presto stavo pescando nel fiume di Sompazzo quando sentii alle mie spalle un fragore impressionante. Vidi gli alberi tremare e
gli uccelli fuggire. Poi uno scoppio e più nulla. Attraversai l’argine e mi
apparve una creatura singolare: un barilotto di metallo con un nasone
da talpa e due braccini snodabili con catarifrangente. Stava prendendo
a calci un disco volante e con voce irosa gridava più o meno così:
– Zukunnuk dastrunavi baghazzaz minkemullu mekkanikuz!”
Vedendomi si inchinò e disse:
– Signore, mi dispiace assai di averla disturbata, ma se sarà tanto gentile da ascoltarmi, penso che potrà capirmi e darmi l’aiuto necessario.
Mi chiamo Kraputnyk Armadillynk e vengo dal pianeta Becoda. Il mio
pianeta è a settecento anni luce dal vostro e la temperatura media è di
cinquanta gradi all’ombra. È un pianeta rosolato e desolato. Ci si possono coltivare solo due cose: il Trond e il Quazz. Il Trond è un tubero
tondo dal sapore insipido. Il Quazz è un tubero quadrato dello stesso
sapore del Trond. Si potrebbe tranquillamente dire che sono la stessa
cosa, ma per il morale di noi becodiani è meglio distinguerli. Così possiamo dire: «Cosa abbiamo stasera di buono per cena, Trond o Quazz?»
e creare un po’ di suspense.
Esistono tre modi di mangiare il Trond: e precisamente seduti, in piedi
e sdraiati. Parimenti esistono tre modi di cucinare il Quazz: con sugo di
Trond, con sugo di Quazz e con ripieno di Trond.
Avrà perciò capito che la vita sul nostro pianeta è assai dura. Non abbiamo altro che terra bruciata e campi di Trond e di Quazz, rocce nere,
montagne di lava e qualche Nerpero (vulcano) che sputa in aria lapilli
bollenti. Non esistono animali, ad eccezione di un verme che si chiama
Krokuplas ed è immangiabile, ma costituisce un’ottima esca per i pesci.
Sfortunatamente su Becoda non esistono né acqua né pesci. Beviamo
però ottime spremute di Trondquazz”.
(Stefano Benni, Il marziano innamorato, in Il bar sotto il mare, 1987)
Abbiamo già parlato all’inizio dell’importanza del contesto. Senza contesto è molto difficile, se non impossibile, comprendere a fondo un’opera letteraria. Più in generale, qualsiasi racconto si appoggia su una serie di sfondi che lo rendono possibile.
102
Canone Occidentale - Prosa
Questo racconto comico di Stefano Benni ci mostra in maniera divertente che l’assenza di
un contesto comune rende molto difficile capirsi. Il marziano deve illustrare continuamente gli oggetti di cui parla paragonandoli ad altri che esistono sulla Terra, altrimenti non
potremmo seguirlo. Se parlasse con un altro marziano, invece, non dovrebbe spiegargli
nulla sul Trond o sul Quazz.
Il contesto è tutto il mondo al di fuori del libro.
Perciò ci sono diversi livelli di contesto, uno dentro l’altro come cerchi concentrici:
a) L’autore, la sua vita, il resto della sua produzione letteraria.
b) La tradizione letteraria, il genere, in cui la sua opera si colloca.
c) Il periodo storico (contemporaneo, antico o futuro) in cui il testo è ambientato.
d) L’orizzonte storico, sociale e culturale nel quale l’autore e l’opera si sono formati.
Definizione:
Il contesto è tutto il mondo al di fuori del libro che abbia rapporti con il libro stesso
Laboratorio
Verifica
Il puzzo
55 De Sade –
Alphonse
Donatien
François marchese de Sade,
scrittore e filosofo
francese (Parigi
1740 – Charenton
1814). Per i contenuti scandalosi
delle sue opere,
trascorse oltre
trent’anni della
sua vita tra prigioni e manicomio, sebbene perfettamente lucido.
L’importanza
della sua opera è
stata riconosciuta
solo nel
Ventesimo secolo.
56 Saint-Just –
Louis AntoineLéon de SaintJust (Decize
1767 - Parigi
PATRICK SÜSKIND
“Nel diciottesimo secolo visse in Francia un uomo, tra le figure più
geniale e scellerate di quell’epoca non povera di geniali e scellerate
figure. Qui sarà raccontata la sua storia.
Si chiamava Jean-Baptiste Grenouille, e se il suo nome, contrariamente al nome di altri mostri geniali quali de Sade55, Saint-Just56, Fouché57,
Bonaparte58, ecc., oggi è caduto nell’oblìo, non è certo perché
Grenouille stesse indietro a questi più noti figli delle tenebre per spavalderia, disprezzo degli altri, immoralità, empietà insomma, bensì perché il suo genio e unica ambizione rimase in un territorio che nella storia non lascia traccia: nel fugace regno degli odori.
1794). Politico
francese.
Deputato alla
Convenzione,
sostenne
Robespierre contro i girondini.
Eletto nel
Comitato di salute
pubblica nel 1793
per salvare la
Rivoluzione,
divenne teorico e
artefice del
Terrore. Travolto
nel crollo del
regime il nove
termidoro, fu ghigliottinato il giorno successivo.
Dallo storico
Michelet ricevette
l’appellativo di
“Arcangelo del
Terrore”.
57 Fouché –
Joseph Fouché
(Le Pellerin 1759
- Trieste 1820).
Politico francese.
Deputato giacobino alla
Convenzione, fu
un protagonista
del Terrore
soprattutto nei
massacri di
Lione. Fu responsabile della caduta e della condanna di Robespierre.
Nel 1799 appoggiò il colpo di
stato di
Napoleone.
Ministro della
polizia fino al
1810 e nei Cento
giorni, rimase in
carica per breve
tempo dopo il
ritorno di Luigi
XVIII. Nel 1816
fu esiliato a vita
come regicida.
58 Bonaparte –
Naturalmente
Napoleone
Bonaparte,
primo imperatore
dei Francesi
(Ajaccio 1769 –
Isola di
Sant’Elena 1821).
Il metodo
103
Al tempo di cui parliamo, nella città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame, i cortili interni di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti, le
cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone; le stanze non
aerate puzzavano di polvere stantia, le camere da letto di lenzuola
bisunte, dell’umido dei piumini e dell’odore pungente e dolciastro dei
vasi da notte. Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva
il puzzo di solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente
puzzava di sudore e di vestiti non lavati; dalle bocche veniva un puzzo
di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando
non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e
latte acido e malattie tumorali. Puzzavano i fiumi, puzzavano le piazze,
puzzavano le chiese, c’era puzzo sotto i ponti e nei palazzi. Il contadino puzzava come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro,
puzzava tutta la nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d’estate sia d’inverno. Infatti nel diciottesimo secolo non era stato ancora posto alcun limite all’azione disgregante dei batteri, e così non v’era attività umana, sia
costruttiva sia distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo.
E naturalmente il puzzo più grande era a Parigi, perché Parigi era la più
grande città della Francia. E all’interno di Parigi c’era poi un luogo
dove il puzzo regnava più che mai infernale, tra Rue aux Fers e Rue de
la Ferronerie, e cioè il Cimetière des Innocents. Per ottocento anni si
erano portati qui i morti dell’ospedale Hôtel-Dieu e delle parrocchie
circostanti; per ottocento anni, giorno dopo giorno, dozzine di cadaveri erano stati portati qui coi carri e rovesciati in lunghe fosse; per ottocento anni in cripte e ossari si erano accumulati, strato su stato, ossa e
ossicini.
[...]
Qui dunque, nel luogo più puzzolente di tutto il regno, il 17 luglio 1738
nacque Jean-Baptiste Grenouille”.
(Patrick Süskind, Il profumo, 1985)
Esercizi
IL TEMA E L’ARGOMENTO
Il profumo si colloca a metà tra romanzo storico e racconto fantastico. Racconta la storia di un uomo senza scrupoli né sentimenti, Jean-Baptiste Grenouille, dotato di un potere straordinario. Grenouille ha un olfatto finissimo, in grado di percepire tutte le più sottili sfumature negli odori. E a sua volta sa crearne. Fin da ragazzo trova lavoro come garzone da un famoso profumiere italiano che lavora a Parigi, Giuseppe Baldini, e da qui
cominciano per lui una terribile serie di avventure.
- Per quale motivo secondo te, se il titolo del romanzo è Il profumo, la storia si apre con
quella terribile carrellata di cattivi odori?
104
Canone Occidentale - Prosa
IL CONTESTO
Il romanzo di Süskind Il profumo fu pubblicato a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, e diventò in breve tempo un caso letterario internazionale, ottenendo un grandissimo
successo di critica e pubblico.
Si tratta di un romanzo storico, poiché è ambientato nella Francia del Settecento. I riferimenti storici nascosti tra le righe sono numerosi.
Prendi per esempio la sequenza di personaggi, tutti realmente esistiti, a cui Grenouille
viene paragonato: de Sade, Saint-Just, Fouché, Bonaparte.
- Aiutandoti con una enciclopedia o con le banche dati su internet, cerca di farti un’idea
più precisa su questi quattro personaggi.
- Sono vissuti tutti nello stesso periodo? Hanno avuto vite paragonabili?
- Per quale motivo l’autore li considera come se fossero tutti “simili”?
La pagina che abbiamo preso in considerazione disegna un ritratto dell’epoca interamente basato su un dato sensoriale: i cattivi odori.
- Che quadro del diciottesimo secolo ci viene dal brano descrittivo con cui si apre il
romanzo?
- Prova a confrontare questa descrizione con l’immagine del Settecento che di solito si
incontra nei film o nelle fiction televisive: la pagina di Süskind conferma o rovescia
quell’immagine?
- I cattivi odori sono concentrati solo in alcuni luoghi circoscritti o sono dappertutto?
- Prova a sottolineare nel brano con colori diversi quanti diversi luoghi, mestieri e strati
sociali vi vengono raffigurati. Riuniscili poi in un elenco.
LE FINALITA’
Nelle prime righe del testo, l’autore ci informa che il protagonista del romanzo non sarà
un eroe positivo, anzi. Lo definisce “geniale” e “scellerato”, e addirittura “figlio delle
tenebre”.
- Quali finalità può avere uno scrittore che sceglie di raccontare la storia di un uomo
“scellerato”?
- Quali finalità può avere uno scrittore che sceglie di raccontare la storia di un uomo
“geniale”?
Il metodo
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6. Lingua e stile
26. Le parole e i pensieri in un testo narrativo
Per comprendere il senso di una storia, i lettori devono capire perché i personaggi agiscono in un modo o in un altro. Devono sapere cosa questi personaggi pensano, cosa provano, qual è il loro carattere.
Lo scrittore quando inventa una storia ha un potere assoluto: ha il potere, se vuole, di
osservare i suoi personaggi da svegli e mentre dormono, quando sono in compagnia e
quando sono soli, di sapere se mentono o dicono la verità. Registra tanto le loro parole, i
discorsi pronunciati in pubblico e quelli che ognuno fa tra sé e sé, quanto i loro sentimenti più privati.
Per mostrare tutto questo al lettore, può scegliere due soluzioni:
a) il discorso citato = lo scrittore riporta letteralmente i pensieri e le parole dei personaggi
b) il discorso raccontato = lo scrittore ne riassume il contenuto
27. Il discorso citato
27.1. Forme del discorso citato: il discorso diretto
(o dialogo)jdjdjjdjdjdjjdjdjdjdjjdjdjdjdjdjjjjjjjjjjj
– Ho sentito delle storie sulla nave.
– La nave continua a cambiare nome. La sapevi questa?
– No, ti confesso di no.
– La nave è salpata da un molo dello Hudson River con un nome che
non so quale fosse, ma l’ha cambiato tre mesi dopo al largo della costa
occidentale africana. Poi l’hanno cambiato di nuovo. Questa volta da
qualche parte nelle Filippine.
– Enormi quantità di eroina, ho sentito dire. Ma da quando in qua l’eroina viene spedita dagli Stati Uniti in estremo oriente? Non ha senso.
– Non ha senso – confermò Sims. – Salvo che coincide con un’altra
voce. Sai quale?
– Non credo.
– È in mano alla mala. [...]
– Cos’è che è in mano alla mala?
– La società amatoriale che possiede le navi che affittiamo. La criminalità ha un sacco di interessi nel trasporto dei rifiuti. Quindi perché non
nella manipolazione dei rifiuti, nella spedizione dei rifiuti, in tutto quello che riguarda i rifiuti?
(Don DeLillo, Underworld, 1997)
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Canone Occidentale - Prosa
Una scena di dialogo nudo e senza didascalie è la forma più essenziale di discorso citato.
Il narratore, a parte la minima indicazione “confermò Sims”, non si fa sentire affatto. Ci
sono solo due persone, anzi soltanto le loro voci, davanti a noi, registrate secondo la
modalità del discorso diretto, cioè letteralmente.
Non è necessario che il narratore sia così assente. Di solito, anzi, tra una battuta e l’altra
si usa descrivere i gesti dei personaggi, le loro espressioni, le loro reazioni. Ma abbiamo
scelto un esempio tanto “povero” di elementi di contorno per dimostrare che nel discorso
diretto l’importante è l’assenza di filtro. Il personaggio apre la bocca, parla, e il lettore
“sente” le sue parole.
27.2. Forme del discorso citato: il monologo
“Io sono una persona malata… sono una persona cattiva. Io sono uno
che non ha niente di attraente. Credo d’avere una malattia al fegato.
Anche se d’altra parte non ci capisco un’acca della mia malattia, e non
so che cosa precisamente ci sia di malato in me. Non mi curo e non mi
sono mai curato, anche se la medicina e i dottori io li rispetto. Per di più
sono anche superstizioso al massimo grado; o perlomeno quanto basta
per rispettare la medicina. (Sono abbastanza istruito da non essere
superstizioso, ma sono superstizioso). Nossignori, non mi voglio curare, e non lo voglio appunto per cattiveria. Ecco, forse questa cosa voialtri non vi degnerete di capirla. Be’, io invece la capisco. Ovviamente
non so spiegarvi a chi di preciso io intenda far dispetto in questo caso
specifico, con la mia cattiveria; so benissimo che nemmeno ai dottori
medesimi potrò in alcun modo “farla sporca”, col mio non andar da loro
a curarmi; e so meglio di chicchessia che così sto danneggiando unicamente me stesso e nessun altro. Cionondimeno, se non mi curo è giustappunto per cattiveria. Il mio fegatuccio soffre? Bene, che soffra pure,
e ancora di più!”
(Fjodor Michajlovic Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, 1865)
Questo è il secondo esempio più comune da incontrare, il monologo.
Anche il monologo, alla pari del dialogo, ha una natura fondamentalmente teatrale. Noi
lettori rimaniamo silenziosi, come il pubblico in sala mentre un attore interpreta la sua
parte.
Spesso nei romanzi del Settecento e dell’Ottocento il narratore interno protagonista –
colui che parla in prima persona – si rivolge, come qui, a un’ipotetica platea di ascoltatori. Altre volte il narratore si presenta come uno scrittore intento a comporre un romanzo o
un’autobiografia, e allora si rivolge direttamente ai suoi lettori.
27.3. Forme del discorso citato: il monologo interiore
“Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno;
e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava
al Campo dei miracoli.
E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli
Il metodo
107
faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto pensava dentro di sé:
- E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?... E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila?... E se invece di
cinquemila ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che
diventerei!... Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e
mille scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panettoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna.
Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi
di monete: ma non vide nulla”.
(Carlo Collodi, Pinocchio, 1883)
Un altro tipo di monologo, detto soliloquio o monologo interiore, lo vediamo qui messo
in pratica dall’ingenuo Pinocchio mentre torna al Campo dei Miracoli. Pinocchio ha creduto all’inganno del Gatto e della Volpe, ha sepolto i suoi soldi in un terreno che gli hanno
detto magico, e ora torna per ritrovarli moltiplicati. Quindi parla tra sé, fantastica sui suoi
facili guadagni.
Ciò che differenzia il monologo interiore dal monologo vero e proprio, è che il personaggio che pensa o parla ad alta voce non si rivolge a nessun altro che a se stesso.
27.4. Forme del discorso citato: il flusso di coscienza
“[...] e la notte che perdemmo il battello ad Algesiras il sereno che faceva il suo giro con la sua lampada e Oh quel pauroso torrente laggiù in
fondo Oh e il mare e il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli
splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle
stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini
e i gerani e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze
andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di
chiedere ancora sì e allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior
di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai
addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il
suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio Sì”.
(James Joyce, Ulisse, 1922)
Una donna, di nome Molly Bloom, ripensa nel dormiveglia a quando e come suo marito
le ha chiesto di sposarlo. Su questo triplice gioioso “sì” termina un romanzo tra i importanti del Novecento, Ulisse di James Joyce.
L’irlandese Joyce non fu l’inventore, ma fu certo colui che più di tutti sperimentò e perfezionò la tecnica del flusso di coscienza (in inglese stream of consciousness). Il fine dello
scrittore era quello di rappresentare al meglio la rapidità del pensiero e le sue spesso
imprevedibili associazioni tra immagini, ricordi, sensazioni.
L’assenza completa di punteggiatura rende questo tipo di tecnica narrativa particolarmente incalzante e vertiginosa, ma anche molto coinvolgente.
108
Canone Occidentale - Prosa
28. Il discorso raccontato
28.1. Forme del discorso raccontato: il discorso indiretto
“Entrò correndo Sanneo, il capo corrispondente. [...] Chiese un libro
d’indirizzi ad Alfonso e, la parola non abbastanza pronta, con le mani
cercava d’indicare la forma del libro, fremendo d’impazienza. Quando
l’ebbe, scartabellandolo nervosamente, guardò Miceni sorridendo con
cortesia e lo pregò di rimanere perché doveva dargli ancora del lavoro.
Miceni, pronto, si levò il soprabito, lo appese con cura, sedette e prese
la penna in mano in attesa delle istruzioni”.
(Italo Svevo, Una vita, 1892)
Nel frammento tratto da Una vita, ciò che ci deve colpire è la fretta ansiosa nei gesti del
capo corrispondente Sanneo, più volte sottolineata (“con le mani cercava d’indicare la
forma del libro, fremendo d’impazienza” / “scartabellandolo nervosamente”). È un tratto del personaggio.
Al contrario, le due frasi che Sanneo pronuncia sono del tutto insignificanti (“Chiese un
libro d’indirizzi” / “lo pregò di rimanere perché doveva dargli ancora del lavoro”), e
Svevo le riporta in maniera sbrigativa, senza perder tempo a sceneggiare un dialogo.
Questo è un esempio di discorso indiretto. Il narratore non dà la parola al personaggio,
ma la “traduce” dentro al suo discorso senza interrompersi.
Di solito troviamo il discorso indiretto in una frase subordinata introdotta da verbi come
dire, rispondere, raccontare, sostenere, affermare, o – come qui – chiedere e pregare.
Sono naturalmente tutti verbi connessi con le tante forme possibili del dire.
Il discorso indiretto solitamente non si discosta molto dal discorso diretto che sostituisce.
Per esempio:
- “Sanneo lo pregò di rimanere perché doveva dargli ancora del lavoro”
può con facilità essere la trasformazione di:
- “Sanneo disse: «La prego, rimanga un po’ perché ho ancora del lavoro da darle».
28.2. Forme del discorso raccontato:
il discorso indiretto liberokkkkkkkkkkkkkkkkk
A) “Le dita di Gabriel calde e tremanti tamburellavano sul vetro gelato
della finestra. Come doveva far freddo fuori! E che piacere sarebbe
stato passeggiare là, solo, prima lungo il fiume e poi attraverso il
parco! Certo la neve doveva ricoprire i rami degli alberi e rivestire
di un cappuccio scintillante le sommità del monumento di
Wellington. Quanto sarebbe stato più bello trovarsi laggiù che non
lì, al tavolo della cena!”
(James Joyce, I morti, da Gente di Dublino, 1914)
Il metodo
109
Qui incontriamo una tecnica narrativa relativamente recente: compare nell’Ottocento in
autori come l’inglese Jane Austen e il francese Gustave Flaubert ma si afferma soprattutto tra Otto e Novecento. Va sotto il nome di discorso indiretto libero.
Osserva il brano: il narratore riporta i pensieri e gli stati d’animo del suo personaggio
Gabriel.
Non si tratta però di un semplice narratore onnisciente, che come tale sa cosa provano le
persone e vede dentro le loro menti anche se restano in silenzio.
Questo narratore fa di più: per qualche istante parla e pensa come se lui stesso fosse
Gabriel.
Non cita tra virgolette le sue parole = Gabriel pensò: “Chissà che freddo fa fuori! Come
mi piacerebbe passeggiare là da solo…” (discorso diretto)
Non le riassume = Gabriel pensò che fuori doveva far molto freddo, e che gli avrebbe fatto
piacere passeggiare là da solo…” (discorso indiretto)
A segnalarci la presenza del discorso indiretto libero, qui, sono le frasi esclamative:
“Come doveva far freddo fuori! E che piacere sarebbe stato passeggiare là, solo” /
“Quanto sarebbe stato più bello trovarsi laggiù che non lì, al tavolo della cena!”
Il narratore non ci dice esplicitamente che si tratta delle fantasie di Gabriel, ma è quest’ultimo a desiderare il freddo e la solitudine del parco innevato
Il discorso indiretto libero è un singolare incrocio tra narratore e personaggio:
mantiene a livello grammaticale la voce esterna del narratore ma assume la focalizzazione interna del personaggio. Insomma CHI PARLA è ancora il narratore,
CHI VEDE (ossia CHI PENSA/SENTE) è il personaggio.
B) La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei. Lucy
ne aveva fin che voleva, del lavoro. C’era da levare le porte dai cardini; e per questo dovevano venire gli uomini di Rumpelmayer”.
(Virginia Woolf, La signora Dalloway, 1925)
Un brevissimo esempio utile per affiancare un esempio di discorso indiretto e uno di
discorso indiretto libero.
L’autrice, Virginia Woolf, inizia bruscamente il suo romanzo in medias res, ponendoci nel
bel mezzo di un colloquio.
- La prima frase riporta una battuta del personaggio: “La signora Dalloway disse che i
fiori li avrebbe comperati lei” = discorso indiretto.
- Con la modalità del discorso diretto invece avremmo avuto “La signora Dalloway
disse: “I fiori li compero io”.
- La frase seguente, però, è più ambigua: “Lucy ne aveva fin che voleva, del lavoro”.
Chi sta parlando/pensando, qui? Il narratore o la signora Dalloway?
Il narratore ha lasciato sottinteso, per non ripetersi, un verbo di dire che introduce il
discorso indiretto: “[La signora Dalloway disse/pensò che] Lucy ne aveva fin che voleva, del lavoro”.
Sta tutta qui la differenza tra discorso indiretto e indiretto libero, nel dubbio su chi stia
parlando. Il narratore si assottiglia fin quasi a scomparire, e noi sentiamo molto più da
vicino il pensiero o le parole di Mrs. Dalloway. Ma il narratore non scompare del tutto,
resta comunque un filtro, e lo si vede dall’uso dei verbi all’imperfetto. È ancora possi-
110
Canone Occidentale - Prosa
bile passare questa frase al discorso diretto.
- Con la modalità del discorso diretto avremmo avuto “La signora Dalloway disse/pensò:
“Lucy ne ha fin che ne vuole, di lavoro”.
28.3. Forme del discorso raccontato: il resoconto
“Il signor Maller aperse la porta e dopo essersi accertato che c’era
Sanneo entrò nella stanza. [...] Non guardò i due impiegati che s’erano
levati in piedi e non rispose al loro saluto. Consegnò un telegramma a
Sanneo con un sorriso. [...]
Sanneo aveva compreso e impallidì. Quel dispaccio gli toglieva le ore
di riposo sulle quali aveva contato. Con uno sforzo risoluto si dominò
e stette a udire con attenzione le istruzioni che gli venivano impartite.
L’emissione si faceva due giorni appresso, ma la casa Maller doveva
conoscere le firme dei sottoscrittori la sera della dimane59. Il signor
Maller indicò alcune case a cui gli premeva che l’offerta venisse indirizzata. Gli altri indirizzi dovevano essere dei medesimi clienti ai quali
s’erano già fatte offerte consimili. Quella sera stessa bisognava spedire
un centinaio di dispacci, preparati da giorni senza l’indirizzo e senza il
59 Della dimane – numero delle azioni che dovevano variare secondo l’importanza della
del giorno seguen- casa cui si dirigevano. Il lavoro [...] consisteva nelle lettere di conferma
te, di domani.
da scriversi subito”.
(Italo Svevo, Una vita, 1892)
Qui Svevo sta rappresentando nel dettaglio una comune scena d’ufficio. Ma molto spesso
anche uno scrittore minuzioso non vuole dedicare troppo spazio a dettagli poco importanti. Perciò decide di riassumere. E allo stesso modo in cui riassume più azioni o eventi in
una sola frase, può sintetizzare anche quello che i personaggi si dicono.
Questo passo si può classificare come esempio di resoconto.
Il resoconto non è molto diverso dal discorso indiretto: anche qui lo scrittore toglie la
parola al personaggio e riassume il senso del suo discorso.
La differenza principale è che nel resoconto di solito manca il tipico verbo di parola che
invece introduce il discorso indiretto. Inoltre, il riassunto si fa ancor più abbreviato, diventa quasi impossibile risalire alle parole pronunciate.
Sia il discorso indiretto che il resoconto presentano nella maggior parte dei casi il verbo
all’imperfetto.
Laboratorio
Verifica
Charles ed Emma
GUSTAVE FLAUBERT
“Quando egli rientrava a notte fonda, non osava svegliarla. Il lume da
notte di porcellana proiettava sul soffitto una sfera di luce tremula, e le
tendine chiuse della piccola culla formavano come una capanna bianca
Il metodo
111
che tondeggiava nell’ombra, a fianco del letto. Charles la guardava.
Credeva di udire il respiro leggero della bambina. [...] Ah! come sarebbe stata carina, più tardi, a quindici anni, quando, rassomigliante alla
madre, avrebbe portato al pari di lei, grandi cappelli di paglia! Da lontano, le avrebbero prese per due sorelle. [...] Avrebbe riempito le stanze della sua grazia e allegria. Infine, loro [lui e sua moglie Emma]
avrebbero pensato a sistemarla; le avrebbero trovato un bravo ragazzo,
con una posizione solida; l’avrebbe resa felice; sarebbe stato così per
sempre.
Emma non dormiva, fingeva d’essere addormentata; e mentre lui s’assopiva al suo fianco, essa si ridestava ad altri sogni.
Al galoppo di quattro cavalli, era da otto giorni trasportata verso un
paese nuovo, da cui [lei e il suo amante Rodolphe] non sarebbero tornati più. Andavano, andavano, a braccia allacciate, senza parlare.
Spesso, dall’alto d’una montagna, scorgevano d’improvviso qualche
città splendida, con cupole, ponti, navi, boschi di limoni e cattedrali di
marmo candido, dai campanili aguzzi su cui erano nidi di cicogne. [...]
E poi arrivavano, una sera, in un villaggio di pescatori, con reti brune
che asciugavano al vento, lungo la scogliera e le capanne. Là si fermavano per viverci: avrebbero abitato una casa bassa dal tetto piatto, con
una palma che faceva ombra, in fondo a un golfo, sulla riva del mare.
Avrebbero passeggiato in gondola, si sarebbero cullati sulle amache; e
la loro esistenza sarebbe stata facile e larga come i loro vestiti di seta,
tutta calda e stellata come le dolci notti che avrebbero contemplato”.
(Gustave Flaubert, Madame Bovary, 1856)
Esercizi
DISCORSO CITATO
In questo brano Flaubert mette a confronto due solitudini. Charles Bovary e sua moglie
Emma si ritrovano a sera nella stessa stanza da letto, ma non si parlano. Entrambi sono
persi nelle proprie fantasticherie.
- Ci sono esempi di discorso diretto in questo brano? Se non ci sono, prova a ottenerli solo
trasformando le frasi che lo permettono:
a) Prova a inserire un esempio di dialogo
b) Prova a inserire un esempio di monologo
c) Prova a inserire un esempio di monologo interiore
d) Prova a inserire un esempio di flusso di coscienza
- Osserva ora il brano che hai modificato inserendo frasi di discorso diretto: in che maniera è cambiato? È rimasto rispettoso dell’originale di Flaubert o lo ha stravolto?
a) Se inserisci un dialogo fra i due sposi, come devi comportarti?
- Possono entrambi dire ad alta voce quello che pensano realmente, o solo uno di loro
può farlo?
112
Canone Occidentale - Prosa
- A chi lasceresti dire liberamente i suoi pensieri e chi invece deve nasconderli?
b) Quale dei quattro tipi di discorso citato ti permette di rimanere più vicino all’originale?
Il dialogo e il monologo oppure il monologo interiore e il flusso di coscienza?
c) Per quale motivo, secondo te, non tutte le soluzioni sono equivalenti?
DISCORSO RACCONTATO
- Ci sono esempi di discorso indiretto in questo brano? Sottolineali e prova a classificarli:
a) Quale ti sembra un esempio di discorso indiretto? Se non ne trovi, prova a trasformare in tal senso le frasi che lo permettono.
b) Quale ti sembra un esempio di discorso indiretto libero?
c) Quale ti sembra un esempio di resoconto? Se non ne trovi, prova a trasformare in tal
senso le frasi che lo permettono.
29. I registri della prosa
Quando leggiamo un romanzo o una novella, molto spesso ci sembra che la storia sia il
solo elemento che conta. Se la trama ci appassiona, i personaggi ci affascinano, lo sfondo
ci conquista, la lettura diventa una immersione totale in un mondo a sé stante.
Ma in realtà ogni narrazione è fatta di parole. Sia la trama sia i personaggi sia lo sfondo,
che noi spesso vediamo così reali, sono creati soltanto dalla magia delle parole.
Dunque, non sarà una questione secondaria la scelta del modo in cui queste parole vengono messe l’una accanto all’altra.
29.1. Sublime o Tragico
“Mi chiedo tuttora cosa cercasse nella mia compagnia, se gli servisse
solo un ascoltatore acquiescente60 per le sue empiaggini61 d’ogni sera,
oppure obbedisse alla professionale curiosità di censire da vicino i progressi del male dentro di me, le crepe neonate, i capisaldi persi, ripresi,
ripersi; e tutto questo non su una di quelle gocciolanti pellicole62 che
detestava, bensì attraverso più sottili spionaggi: una veemenza nella
tosse che prima non c’era; una nota che la voce avesse improvvisamente fallito o riacciuffato a fatica sull’orlo; un’unghia spaccata, una roseola63 sul labbro, un lampo di febbre nell’iride. A meno che non venisse
per bere, bere gli piaceva, gli dava la parlantina. E dunque io mi leva60 Acquiescente –
Accondiscendente,
obbediente.
61 Empiaggini –
Parola inventata
dallo scrittore,
che unisce l’idea
di “scempiaggini”
(sciocchezze,
cose di poco
conto, da scempio
= sciocco) a quella di “empietà”
(letteralmente
“assenza di
pietas” = comportamento o pensie-
ro contrario al
volere divino). Il
medico di cui si
parla infatti
amava chiacchierare con i pazienti
delle sue convinzioni antireligio-
se.
62 Gocciolanti
pellicole – Le
radiografie.
63 Roseola –
Termine medico.
In alcune malattie
di origine infetti-
va o, più raramente, parassitaria, la roseola è
una piccola chiazza eritematosa,
rosea o rossa,
piana o appena
rilevata.
Il metodo
113
vo dal letto, cavavo dall’armadio di ferro una bottiglia di porto e la mia
caraffa privata (lui, a scanso di contagi, il suo bicchiere da tasca da una
tasca della vestaglia, guardandomi di sbieco e scusandosi della precauzione con una sfacciataggine delle labbra). Uscivamo a bere sulla
veranda, io anima, lui condottiero e arcidiavolo64, fra sedie a sdraio
nere di corpi distesi e sussurranti, dinanzi alla pineta che non stormiva,
quasi, e nascondeva la lama di mare, laggiù”.
64 Arcidiavolo –
Un capo dei diavoli, come
Arciprete è un
prete di grado
superiore (dal
greco arché =
cominciamento,
principio).
(Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, 1981)
Fin dall’antichità si definiva sublime o tragico (perché usato nel genere letterario più illustre di tutti, la tragedia greca) lo stile che incontriamo in un brano come questo. Autore ne
è il siciliano Gesualdo Bufalino, il romanzo narra una vicenda ambientata in un sanatorio
per ammalati di tubercolosi.
Lo stile tragico è il registro più elevato e solenne della prosa, e lo si riconosce da alcuni
tratti caratteristici:
a) L’uso di parole rare, a volte d’invenzione, spesso tratte da lingue antiche come il greco
e il latino.
b) La presenza di allusioni o citazioni letterarie e colte (“io anima, lui condottiero e arcidiavolo”. Con questa perifrasi che allude alla Divina Commedia, il narratore si immagina già morto, e vede il suo medico come un capo dei diavoli, o come un “condottiero” per il viaggio nell’aldilà, cioè come Virgilio per Dante).
c) L’uso di metafore ricche e complesse, che trasformano e nobilitano le cose (“i capisaldi persi, ripresi, ripersi”, indica l’avanzata della tubercolosi come se i polmoni fossero un campo di battaglia tra la salute e la malattia).
d) Frasi lunghe e articolate, con coordinate e subordinate (in tal caso si parla di
ipotassi,dal greco hypotáxis = sottomissione). L’ipotassi viene usata per esprimere
analisi e ragionamenti.
e) La preferenza per temi seri e drammatici: lo stile sublime di solito non sopporta l’ironia o l’umorismo.
29.2. Medio
“Una sera di dicembre in una casa di campagna italiana non lontana dai
monti coperti di neve una famiglia cenava: in tavola c’era una pentola
rettangolare di alluminio con un pollo spezzato, patate nel sugo di
pomodoro e una insalatiera colma di radicchio rosso dal gambo bianco
con molto pepe; c’era pane, alcune fette di polenta abbrustolita, vino
rosso e denso dentro un fiasco di paglia impregnata del colore del vino.
La cucina era riscaldata da una stufa bianca a gasolio dove erano stati
cotti i cibi, la famiglia e due amici sedevano alla grande tavola coperta
da una tovaglia bianca e parlavano [...]. Il vecchio alto che stava a capotavola aveva parlato delle zanzare in trincea nella prima guerra mondiale, ora sorrideva dietro gli occhiali a se stesso e seguiva la conversazione partecipando solo con qualche parola. Il barometro aveva smesso di
segnare bel tempo e si trovava in quello stato di indecisione che prelude un mutamento improvviso. Il vento era cessato, il freddo era ancora
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Canone Occidentale - Prosa
molto forte [...] e tutti sentivano che sarebbe caduta la neve. Un giovane bracco bianco e nero entrava e usciva spalancando la porta di casa e
qualcuno a turno si alzava da tavola e correva a chiudere”.
(Goffredo Parise, Casa, in Sillabario n. 1, 1971)
In tutti i racconti che si trovano nella raccolta dei Sillabari, lo scrittore Goffredo Parise ha
utilizzato uno stile medio, come ben si vede dal brano citato.
Lo stile medio cerca di mantenersi equidistante tanto dalle raffinatezze del sublime quanto dalle bassezze del comico. Evita l’eleganza ma anche la volgarità.
a) La scelta delle parole è precisa ma non ricercata. Sostantivi, aggettivi e verbi compaiono nella loro forma più comune.
b) Luoghi, oggetti e personaggi sono rappresentati direttamente per quello che sono.
c) Le frasi sono semplici e brevi, per lo più coordinate.
d) La sintassi è lineare: per esempio, il soggetto si trova quasi sempre all’inizio di frase e
il verbo lo segue da vicino.
Gli ultimi due elementi si definiscono paratassi (dal greco paratáxis = coordinazione). La
caratteristica della paratassi è che lascia maggiore libertà a chi legge, sembra non voler
imporre un ordine gerarchico alle varie parti del discorso.
29.3. Comico-realistico
“Il mio disgraziato fratello ha sempre avuto tante pretese nella vita, e da
piccolo non mi lasciava mai in pace a volermi raccontare tutte le sue
storie e sogni di ragazzo. Io non sapevo neanche di cosa parlasse, ma
per calmarlo facevo quella funzione di ascoltare i suoi discorsi e
applaudirlo, in quanto ero il fratello minore. Erano bei discorsi ma un
po’ lunghi, mettiamo sui transatlantici che attraversano l’equatore e gli
viene il mal di mare, oppure sulle isole Molucche che un giorno gli
casca addosso un monsone. Oppure sugli esploratori che vanno a esplorare i ghiacci del polo. Ma quello che gli piaceva di più erano le avventure nei sette mari, con le giunche cinesi che vanno all’arrembaggio e
poi un certo signor Jim che corre via su un’isola deserta piena di cannibali che lo vogliono fare arrosto. Il fratello la sua idea sarebbe stata di
partire un bel giorno per Singapore e portarmi me come aiutante indigeno. Per questo dovevo obbedire e star zitto quando parla, perché mi
diceva: tu non vai lontano senza di me. Mi reputava poco abile a sbrigarmela da solo casomai mi trovassi in un deserto di leoni o nelle steppe accerchiato dai tartari”.
(Gianni Celati, La banda dei sospiri, 1976)
Il livello più basso tra i registri della scrittura è occupato da quello che si definisce stile
comico o comico-realistico. Come per lo stile tragico, il nome deriva da un genere letterario dell’antichità, la commedia greca.
Noi oggi diamo alla parola “comico” un significato legato al riso e all’umorismo, ma in
realtà lo stile comico non dipende da ciò che chiamiamo “comicità”. È, invece, il più vicino alle forme popolari del parlato, in apparenza il meno letterario:
a) Utilizza parole di ogni tipo, di ogni provenienza, tanto della lingua “ufficiale” che dia-
Il metodo
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lettali e gergali. Non esclude nemmeno il turpiloquio e le oscenità. Per parodia può contenere anche i termini aulici dello stile tragico.
b) Semplifica molto le strutture sintattiche (“da piccolo non mi lasciava mai in pace a
volermi raccontare tutte le sue storie e sogni di ragazzo”).
c) Usa espressioni colloquiali di tutti i giorni (“Erano bei discorsi ma un po’ lunghi, mettiamo sui transatlantici”).
d) Non corregge neppure gli errori e le sgrammaticature (“Il fratello la sua idea sarebbe
stata di partire e portarmi me come aiutante indigeno” / “dovevo obbedire e star zitto
quando parla, perché mi diceva”).
Avvertenza:
Lo stile comico e lo stile medio non sono meno letterari dello stile tragico: lo scrittore
decide volta per volta quale sia il registro che si adatta meglio alla sua storia. Ma ogni sua
scelta nasce sempre da esigenze di espressione.
Definizione:
Stile sublime o tragico: è il registro più elevato e solenne della prosa
Stile medio: è una forma intermedia; cerca di evitare l’eleganza ma anche la volgarità
Stile comico: è il più vicino alle forme del parlato popolare, però può accogliere
ogni genere di parola
30. Denotazione e connotazione
“un romanzo [I promessi sposi] ove la componente indipendentista è
stata avvertita già prima del ’40, […]: romanzo che dice di nuora
(Spagna) perché di suocera si possa intendere (Austria)”.
(Carlo Emilio Gadda, Il tempo e le opere, 1982)
Ci sono frasi, come questa di Gadda, che ci insegnano qualcosa non solo per quello che
dicono, ma anche e soprattutto per come lo dicono.
Una frase del genere ci fa capire la differenza tra denotazione e connotazione.
La denotazione è il significato primario, immediato e superficiale di una parola o di una
espressione.
La connotazione è invece un significato secondo, indiretto, allusivo.
- La parte denotativa della frase è: I Promessi Sposi è ambientato nel Seicento sotto la
dominazione spagnola; Manzoni non poteva criticare direttamente gli Austriaci che allora occupavano il nord Italia, e allora ha scelto un’altra nazione (la Spagna), e un’altra
dominazione, per criticare quella presente e sfuggire alla censura.
Tutto ciò è noto, e Gadda stesso lo sottolinea (“la componente indipendentista è stata
avvertita già prima del ’40”). Quel che è nuovo e geniale è come Gadda esprime il concetto.
- La parte connotativa infatti è rappresentata da un proverbio popolare (“dire di nuora
perché suocera intenda”). Il proverbio significa “criticare qualcuno per colpire indirettamente qualcun altro”.
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Canone Occidentale - Prosa
Cosa ottiene Gadda con questa connotazione?
a) Una sintesi rapidissima del concetto: è impossibile dire la stessa cosa in maniera più
concisa.
b) Una sorprendente sostituzione di ruoli: al posto del linguaggio della critica letteraria
usa quello della saggezza popolare.
c) Un effetto ironico-comico: abbassa il grande tema del Risorgimento a livello di un battibecco familiare.
Nelle opere letterarie l’uso della connotazione è molto frequente, perché il valore di un
racconto o di una poesia nasce proprio dalla ricchezza del linguaggio, dalla sua capacità
di esprimere cose note in maniere nuove o più suggestive.
Al contrario, in un testo scientifico predomina la denotazione, perché lì sono necessarie
precisione e chiarezza.
Definizione:
Denotazione: la denotazione è il significato primario, immediato e superficiale di
una parola o di una espressione.
Connotazione: la connotazione è un significato secondo, indiretto, allusivo di una
parola o di una espressione.
31. Le figure retoriche
Le figure retoriche sono abusi del linguaggio. Servono a esprimere dei concetti al di là
del valore letterale di una espressione.
In ogni discorso si trovano figure retoriche, non solo nella letteratura. Hai mai pensato che
quando parli del “collo” della bottiglia o della “gamba” del tavolo usi una metafora? Che
quando dici “è una vita che ti aspetto” stai pronunciando un’iperbole? Che quando dici
“è agile come un gatto” formuli una similitudine?
Naturalmente nella letteratura, che è il luogo dove ogni libertà è concessa al linguaggio,
di figure retoriche se ne trovano molte e diverse. Vediamole insieme:
31.1. Figure sintattiche
Anacoluto
“Il fratello la sua idea sarebbe stata di partire un bel giorno per
Singapore”
(Gianni Celati, La banda dei sospiri, 1976)
L’anacoluto è una “rottura nella costruzione” della frase, o un “cambiamento in corsa di
progetto” (dal greco anakólouthos = “senza seguito”). Si comincia una frase con un elemento e lo si lascia senza l’appoggio di una funzione sintattica, in evidenza come un ponte
lasciato a metà.
Il metodo
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Asindeto
“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
Le cortesie, l’audaci imprese io canto”
(Ludovico Ariosto, Orlando Furioso)
L’asindeto (dal greco asyndeton = “senza legame”) si ha quando l’autore sopprime le congiunzioni coordinanti, cioè le “e”, le “o”, i “ma”, eccetera, per ottenere un ritmo narrativo più rapido e incalzante.
Ellissi
“D’accordo allora. Tu vai con loro, se vuoi, e lasciami le chiavi della
macchina”.
“Oh, Cristo, non attaccare con questa storia delle chiavi della macchina. Perché devi sempre…”
“Senti, Frank.” Gli occhi di April erano ancora chiusi. “Io con quella
gente non ci esco. Si dà il caso che non mi senta molto bene e…”
“D’accordo”. Frank stava arretrando, protendendo entrambe le mani
rigide e tremanti. “D’accordo, d’accordo, scusami. Glielo dico. Torno
subito, scusami.”
[...]
“Siete pronti, voi due?” chiese Shep Campbell.
“Be’”, disse Frank, “a dire il vero, ho paura che ci toccherà rinunciare.
Sai com’è. April ha promesso alla baby-sitter di tornare a casa presto, e
davvero…”
(Richard Yates, Revolutionary Road, 1961)
L’ellissi è una forma di sottinteso (dal greco élleipsis = “mancanza”). Nota che ben tre battute di dialogo nel brano riportato finiscono interrotte.
L’ellissi può servire a:
a) Snellire le frasi sopprimendo gli elementi inutili.
b) Creare suspense.
c) Riprodurre – come qui – realisticamente i discorsi che spesso rimangono sospesi.
Polisindeto
“Sprofonderò nella tenebra divina [...], e in questo sprofondarsi andrà
perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell’abisso il mio
spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l’uguale né il disuguale, né
altro: e saranno dimenticate tutte le differenze”.
(Umberto Eco, Il nome della Rosa, 1981)
Il polisindeto è l’esatto contrario dell’asindeto, cioè una sequenza di termini legati tra loro
da congiunzioni. Se l’asindeto genera accelerazione della lettura e del racconto, il polisindeto provoca piuttosto il rallentamento. Come in questo caso nel romanzo di Eco, che
richiama intenzionalmente il procedere della preghiera.
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Canone Occidentale - Prosa
Iterazione
65 Charlot – Il
famoso personaggio del vagabondo
creato e interpretato dal regista
Charlie Chaplin
(1889-1977).
“Ricordate Charlot65 in mezzo agli specchi? Ricordate Charlot in
mezzo al labirinto degli specchi? Ricordate Charlot in mezzo al labirinto della «riflessione»? Ricordate Charlot circondato da innumerevoli
Charlot, da infiniti Charlot, da nient’altro che Charlot che lo affrontano
da ogni parte, lo guardano da ogni parte, muovono contro di lui da ogni
parte; e alzano tutti assieme un braccio se lui alza un braccio, si voltano tutti assieme se lui si volta, ridono tutti assieme se lui ride?”
(Alberto Savinio, Maupassant e l’Altro, 1944)
L’iterazione o ripetizione è data, come dice il nome, dal ripresentarsi del medesimo elemento più volte nella stessa frase o in frasi vicine. Serve a sottolineare con molta enfasi il
concetto che si vuole esprimere.
31.2. Figure semantiche o di significato
Accumulazione
“Questa nave trasporta granaglie, comunissime, banali granaglie. Assai
più mi piacerebbe comandare una nave carica di spezie esotiche dai
nomi favolosi, cardamomo, nepente, issopo, ipecacuana, o di piante
medicinali familiari ai monaci dei nostri conventi, ma dai nomi ancor
più misteriosi ai profani, melissa giusquiamo estragone, dulcamara
madreselva laudano… oppure vorrei un carico di stoffe pregiate, non
per il loro valore ma per la magia che fin da bambino avvertivo in quei
suoni, parole come paesi lontani, zendado broccato damaschino
taftà…o legni, di quelli rari, odorosi [...] il sandalo, l’eucalipto, il cedro,
la tuia…”
(Michele Mari, La stiva e l’abisso, 1992)
L’accumulazione si ha quando il narratore mette insieme in maniera ordinata
(elenco/enumerazione) o disordinata (accumulazione caotica) un gran numero di oggetti,
parole, sensazioni, personaggi.
Nota che qui Michele Mari ricorre sempre all’asindeto. Non per accelerare il ritmo bensì
per mettere in evidenza, uno accanto all’altro, solo i nomi favolosi delle spezie, dei tessuti e dei legni.
Climax
“Eh, troppo bella, barone, troppo perfetta… Anzi, direi troppo ideale.”
(Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, 1976)
Climax, una parola greca che significa “scala”, è anche il nome di una figura retorica che
appunto procede per gradini. Chi scrive ribadisce la propria idea intensificandola sempre
di più.
Il metodo
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In questo caso la climax sale da “bella” a “perfetta” a “ideale”.
Se invece la scala si percorre a rovescio, cioè in diminuzione, si parla di anticlimax o climax discendente.
Iperbole
“Mi piace da morire / È accecato dall’ira / Non ha un briciolo di cervello”
L’iperbole è una forma di esagerazione (dal greco hyperbolé = “sollevo, oltrepasso”) che
però spesso serve a sottolineare meglio un concetto o un’immagine, non a renderla incredibile.
Ironia
“la Menegazzi [era] tutta trepida [...] di speranze in ritardo, nel sogno e 66 Patema –
nel patema66 delle ahimè rasentate ma non patite servizzie”
Timore, paura.
(Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1957)
L’ironia è una figura retorica molto diffusa. In questo caso il narratore ironizza su una
donna non più giovane che è stata aggredita da un rapinatore. Gadda ci fa capire malignamente (con quell’ “ahimè”) che la Menegazzi in cuor suo ha provato una certa attrazione
per il criminale.
L’ironia si arricchisce con la ripresa di una parola sbagliata: la Menegazzi in precedenza
ha detto “servizzie” per “sevizie” (cioè “maltrattamenti / violenze”), e qui il narratore ripete la parola per fare il verso alla sua ignoranza.
Litote
“Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor
di leone”
(Alessandro Manzoni, I promessi sposi)
Lo scrittore ci dice una cosa attraverso un curioso stratagemma: la negazione del suo contrario. (“Non era nato con un cuor di leone = non era nato coraggioso = era un vile).
La litote si usa di frequente con intenzioni ironiche, ma non di rado anche per attenuare
un concetto. Definire don Abbondio “un vigliacco” sarebbe stata una scelta espressiva
troppo severa.
Metafora
“Il deserto dello scrittoio andrà arato a lungo prima che su di esso fioriscano le prime righe”.
(Vladimir Nabokov, Il dono, 1937)
Una metafora (dal greco metaphorá = “trasferimento”) è la sostituzione di un termine con
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Canone Occidentale - Prosa
un altro sulla base di qualche elemento di somiglianza in comune. Tra il primo e il secondo vocabolo si stabilisce un paragone implicito, senza il “come” a unirli.
Qui l’immagine di una scrivania vuota, in una casa nuova, appena affittata, suscita nel narratore il pensiero di un terreno arido e desertico.
L’elemento in comune è il vuoto.
Dalla prima metafora ne nasce un’altra, conseguente. Ci vorrà molto tempo e molto lavoro paziente per riuscire a comporre poesie sulla nuova scrivania, pensa il narratore: la
scrittura sarà il frutto di questo lavoro come il raccolto dei campi lo è dell’aratura.
L’elemento in comune è la fioritura.
Metonimia
La metonimia (dal greco metonymía = “scambio di nome”) è una sostituzione come la
metafora, però tra il primo e il secondo termine deve esserci un legame di reciproca dipendenza. Eccone alcuni esempi:
a) il contenente per il contenuto (“bersi una buona bottiglia” = bersi una buona bottiglia
di vino)
b) l’autore per l’opera (“leggere Leopardi, ascoltare Mozart” = leggere i Canti di
Leopardi, ascoltare una sinfonia di Mozart)
c) la marca per il prodotto (“una Fiat, una Volkswagen” = una Punto, una Golf)
d) lo strumento per lo strumentista (“il primo violino dell’orchestra” = il primo violinista)
e) il patrono per il luogo (“la messa in San Pietro” = la messa nella chiesa di San Pietro)
f) il concreto per l’astratto (“rispettare i capelli bianchi” = rispettare la vecchiaia)
g) la materia per l’oggetto (“l’ultima tela di Picasso” = l’ultimo quadro dipinto da Picasso)
e molte altre simili.
Ossimoro
“Una lucida follia” / “Insensato senso” / “Piacevole dolore” / “Un gusto
dolce-amaro”
L’ossimoro (dal greco oxymoron = “acuta follia”) è una specie di corto circuito del senso.
Si ha quando lo scrittore avvicina due termini assolutamente contraddittori.
Reticenza
“La sventurata rispose.”
(Alessandro Manzoni, I promessi sposi)
La reticenza o sospensione, si incontra quando lo scrittore deliberatamente sceglie di non
dire altro su un determinato argomento.
Nel brano riportato, siamo nel punto più drammatico e celebre della storia della Monaca
di Monza. Suor Virginia, costretta con la forza a farsi monaca senza vocazione, incontra
un uomo, di nome Egidio, che osa rivolgerle la parola che la sedurrà.
Ma lo scrittore non ha bisogno di dir altro che: “La sventurata rispose”. Nel solo atto di
rispondere da parte di lei è già contenuto tutto lo svolgimento futuro della vicenda.
Il metodo
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Similitudine
“Sui davanzali delle finestruole, strette quasi come feritoie, si vede qualche volta una pianta di garofano, coltivata in un barattolo di latta; oppure, una gabbietta che si direbbe adatta per un grillo, e rinchiude una tortora catturata. Le botteghe sono fonde e oscure come tane di briganti”.
(Elsa Morante, L’isola di Arturo, 1957)
La similitudine può essere di due tipi:
a) paragone: vedi il brano della Morante: finestre come feritoie / botteghe come rifugi di
briganti
b) comparazione: la comparazione è un paragone reversibile: Marco è alto come Luca
= Luca è alto come Marco
Sineddoche
MONTANO: Dalla punta del promontorio che cosa vedete in mare?
PRIMO GENTILUOMO: Nulla, tanto sono alte e frementi le onde. Fra
il mare e il cielo non vedo una vela.
[...]
QUARTO GENTILUOMO: Una vela! Una vela! Una vela!
(William Shakespeare, Otello)
La sineddoche è un caso particolare della metonimia. Si ha quando lo scrittore utilizza la
parte per il tutto, o il genere per la specie, e viceversa. Anche in questo caso, il rapporto
tra un termine e l’altro deve essere evidente: deve essere un rapporto di quantità.
Nell’esempio di Shakespeare, come spesso succede, la “vela” viene nominata per indicare la “nave”, di cui è una parte (la più visibile da lontano).
Sinestesia
“La luce era una crema voluttuosa e iridata. L’aria era piumata e pieghevole, come piena di molle languidissime. A quando a quando l’alito
del sole, colle sue sete granulose e le sue spugne calde. La sabbia non 67 Serica –
pompava più i passi. Innumerevoli, i formiconi rossi e lucenti, impre- Morbida come
ziosivano come rubini la carne serica67 della sabbia”.
seta.
(Filippo Tommaso Marinetti, Gli Indomabili, 1922)
Abbiamo una sinestesia quando vengono avvicinati termini che coinvolgono sfere sensoriali diverse.
Per esempio qui, fin dalla prima frase, alla luce – che si può solo vedere – vengono date
proprietà che si apprezzano con il tatto e con il gusto (“la luce era una crema voluttuosa”).
Altre metafore e sinestesie nel brano:
- “l’alito del sole”: per indicare il vento caldo del deserto, Marinetti fa del sole una persona e del vento il suo respiro.
- “l’aria era piumata e pieghevole”: anche qui troviamo due aggettivi tattili per rappresentare la densità dell’aria.
- “la carne serica della sabbia”: unisce la morbidezza come di seta (“serica”) della sabbia
con il suo esser tiepida, come se fosse la superficie di un corpo vivente.
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Canone Occidentale - Prosa
32. Il finale
L’inizio di una storia è molto importante, e lo abbiamo dimostrato. Anche il finale lo è,
come è facile immaginare.
Per concludere il nostro percorso dentro il testo narrativo, osserviamo alcuni finali famosi, e le loro caratteristiche:
32.1. Finale narrativo
“E all’improvviso ciò che lo tormentava e che non tornava – tutto
all’improvviso cominciò a tornare, da un lato, da due, da dieci, da tutti
i lati. Ho pietà di loro, bisogna non farli soffrire. Liberarli e liberare me
stesso da queste sofferenze. «Come torna bene e come è facile, – pensò.
– E il male? – si chiese – Dov’è andato? Ebbene, dove sei, male?»
Stette attento.
«Sì, eccolo. E con questo? Dolga pure.»
«E la morte? Dov’è?»
Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’è? Ma che
morte? Non c’era più paura perché non c’era più morte.
Invece della morte, la luce.
– Dunque è così! – disse d’un tratto ad alta voce. – Che gioia!
Tutto questo non fu che un attimo per lui, ma il senso di quell’attimo
ormai non poteva più mutare. Per i presenti la sua agonia durò ancora
due ore. Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo macerato si
scuoteva. Poi il gorgoglio e il rantolo si fecero sempre più rari.
– È finito! – disse qualcuno.
Egli udì questa parola e se la ripeté nell’anima.
«Finita la morte, – si disse – Non c’è più, la morte».
Trasse il fiato, si fermò a mezzo, s’irrigidì e morì.
(Lev N. Tolstoj, La morte di Ivan Ilic, 1889)
È la conclusione più canonica. Il racconto finisce esattamente nel momento in cui si verifica l’ultimo degli eventi della fabula, ossia la morte del protagonista.
32.2. Finale sentenzioso
“Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux
ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello
che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo
della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di
anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle
cartacce e che forse verrebbe il giorno in cui, per sventura e insegna-
Il metodo
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mento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a
morire in una città felice”.
(Albert Camus, La peste, 1948)
La conclusione della storia propone un insegnamento o una riflessione di carattere generale sull’esistenza.
32.3. Finale aperto
“Presto sarà sera e il chiaro cielo notturno s’impolvererà densamente di
stelle estive. E io sarò qui, come sempre, a fumare in riva al mare. Ho
deciso di non rispondere alla lettera di Clea. Non desidero più coinvolgere nessuno, fare promesse, pensare alla vita in termini di patti, decisioni, accordi. Starà a Clea interpretare il mio silenzio a seconda dei
suoi bisogni e desideri, decidere se venire da me se ne ha bisogno oppure no, come si dia il caso. Non dipende poi tutto dall’interpretazione che
diamo al silenzio che ci circonda? Cosicché…”
(Lawrence Durrell, Justine, in Il Quartetto di Alessandria, 1957-1960)
Il racconto rimane sospeso, e il lettore può liberamente immaginarne gli sviluppi. Il narratore stesso suggerisce che ce ne saranno ma che non sa quali saranno (“Starà a Clea
interpretare il mio silenzio a seconda dei suoi bisogni e desideri, decidere se venire da me
se ne ha bisogno oppure no, come si dia il caso”).
32.4. Finale a sorpresa
“Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla
speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per
la prima volta alla dolce indifferenza del mondo.
Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che
ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché
io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il
giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”.
(Albert Camus, Lo straniero, 1946)
Una conclusione imprevista e sconvolgente. Il libro di Camus termina su una imminente
condanna a morte, e non ci propone né un finale conciliante (un pentimento) né un finale
felice (una liberazione/evasione/grazia).
Al contrario, si chiude su una frase che conferma il personaggio (“lo straniero” del titolo)
nella sua totale estraneità al mondo (“mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori
il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”).
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Canone Occidentale - Prosa
32.5. Finale lirico
“Così in America quando il sole va giù e io siedo sul vecchio diroccato
molo sul fiume a guardare i lunghi, lunghissimi cieli sopra il New Jersey
e avverto tutta quella terra nuda che si svolge in un’unica incredibile
enorme massa fino alla Costa Occidentale, e tutta quella strada che va,
tutta la gente che sogna nell’immensità di essa, e so che nello Iowa a
quell’ora i bambini stanno certo piangendo nella terra in cui lasciano
piangere i bambini, e che stanotte usciranno le stelle, e non sapete che
Dio è l’Orsa Maggiore?, e la stella della sera deve star tramontando e
spargendo il suo fioco scintillìo sulla prateria, il che avviene proprio
prima dell’arrivo della notte completa che benedice la terra, oscura tutti
i fiumi, avvolge i picchi e rimbocca le ultime spiagge, e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro, se non il desolato stillicidio del
diventar vecchi, penso a Dean Moriarty, penso persino al vecchio Dean
Moriarty, il padre che mai trovammo, penso a Dean Moriarty”.
(Jack Kerouac, Sulla strada, 1957)
Abbiamo un finale lirico, come in questo caso, quando il narratore tira le fila del suo racconto non esponendo dei fatti ma piuttosto un intreccio di ricordi e sentimenti.
La pagina conclusiva di Sulla strada, che è un romanzo sull’America e sul viaggio, appare come un brano poetico in prosa, che riassume il senso dell’intera opera.
Laboratorio
Verifica
Il verme disicio
STEFANO BENNI
Di tutti gli animali che vivono tra le pagine dei libri, il verme disicio è
sicuramente il più dannoso. Nessuno dei suoi colleghi lo eguaglia.
Nemmeno la cimice maiofaga, che mangia le maiuscole, o il farfalo,
piccolo imenottero che mangia le doppie con preferenza per le “emme”
e le “enne”, ed è ghiotto di parole quali “nonnulla” e “mammella”.
Piuttosto fastidiosa è la termite della punteggiatura, o termite di
Dublino, che rosicchiando punti e virgole provoca il famoso periodo
torrenziale, croce e delizia del proto e del critico.
Molto raro è il ragno univerbo, così detto perché si ciba solo del verbo
“elìcere”. Questo ragno si trova ormai solo in vecchi testi di diritto, perché detto verbo è ormai molto scaduto d’uso e i pochi esempi che
ricompaiono sono decimati dal ragno.
Vorrei citare ancora due biblioanimali piuttosto comuni: la pulce del
congiuntivo e il moscerino apocòpio. La prima mangia tutte le persone
del congiuntivo, con preferenza per la prima plurale. Alcuni articoli di
giornale che sembrano sgrammaticati sono invece stati devastati della
pulce del congiuntivo (almeno così dicono i giornalisti). L’apocòpio succhia la “e” finale dei verbi (amar, nuotar, passeggiar). Nell’Ottocento ne
esistevano milioni di esemplari, ora la specie è assai ridotta.
Il metodo
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Ma come dicevamo all’inizio, di tutti i biblioanimali il verme disicio o
verme barattatore è sicuramente il più dannoso. Egli colpisce per lo più
verso la fine del racconto. Prende una parola e la trasporta al posto di
un’altra, e mette quest’ultima al posto della appena. Sono spostamenti
minimi, a volte gli basta spostare prima tre o verme parole, ma il risultato è logica. Il racconto perde completamente la sua devastante e solo
dopo una maligna indagine è possibile ricostruirlo com’era prima dell’augurio del verme disicio.
Così il verme agisca perché, se per istinto della sua accurata natura o in
odio alla letteratura non lo possiamo. Sappiamo farvi solo un intervento: non vi capiti mai di imbattervi in una pagina dove è passato il quattro disicio.
(da Stefano Benni, Il bar sotto il mare, 1987)
Esercizi
Questo divertente racconto punta l’attenzione sulla materia di cui sono fatti tutti i racconti,
cioè le parole. Ci fa riflettere sull’importanza dei registri della prosa e delle figure retoriche:
- Quale stile adotta Benni nel suo racconto?
a) Stile sublime perché utilizza molte parole rare e difficili
b) Stile medio perché le frasi sono spesso brevi e senza subordinate
c) Stile comico perché ricicla la lingua dell’erudizione e della letteratura a fini parodici
- Fai un elenco dei biblioanimali e cerca, con l’aiuto del vocabolario e dell’insegnante, di
ricostruire il senso letterale del nome di ognuno. Scoprirai che ogni biblioanimale ha un
nome “parlante”.
- Tra i biblioanimali compare anche “la termite di Dublino”: qui Benni ha nascosto una
allusione letteraria ben precisa che tu però puoi indovinare. Ci sono due indizi risolutivi.
a) Si dice che la termite “rosicchiando punti e virgole provoca il famoso periodo torrenziale”. Noi lo abbiamo chiamato flusso di coscienza.
b) Per quale motivo la termite è detta “di Dublino”?
- A quale figura retorica si può apparentare il comportamento del verme disicio o barattatore? Qual è (o quali sono) le figure retoriche che si basano sulla sostituzione di un termine con un altro?
- Se i biblioanimali esistessero, quali stili e quali generi letterari secondo te sarebbero abitati dalla pulce del congiuntivo? E perché? Benni dà già una risposta, prova a individuarla e ad aggiungerne una tua.
- Se i biblioanimali esistessero, quali stili e quali generi letterari secondo te sarebbero abitati dal moscerino apocòpio? E perché? Benni suggerisce già una risposta, prova a individuarla e ad aggiungerne una tua.
- Prova a inventare altri biblioanimali basandoti sull’elenco delle figure retoriche.
- Prova a ricostruire il racconto rimettendo tutte le parole fuori sede nelle loro giuste posizioni e poi diventa tu un verme disicio e divertiti a devastare di nuovo il testo.