Dimissioni del lavoratore a termine e quantificazione del

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Dimissioni del lavoratore a termine e quantificazione del
Parere professionale
Parere del legale
Dimissioni del lavoratore a termine
e quantificazione del risarcimento
Renato Scorcelli
- Avvocato
Com’è noto, la disciplina del contratto a termine è contenuta nel D.Lgs. n. 368/2001 - attuativo della Direttiva
199/70 Ce relativa all’Accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato concluso dall’Unice, dal Ceep e dal Ces recentemente modificato dal c. 39, art. 1 della legge n.
247/2007 (recante le norme di attuazione del Protocollo
sul Welfare).
La citata normativa regolamenta diversi aspetti del rapporto di lavoro a tempo determinato - tra cui la forma del
contratto, i casi in cui è consentita l’apposizione del termine e la proroga - ma per quanto concerne la cessazione del rapporto e le sue conseguenze si limita a disciplinare, all’art. 5, le ipotesi di riassunzione del lavoratore alla
cessazione del rapporto e di continuazione dello stesso
oltre la scadenza del termine pattuito.
L’indagine circa le conseguenze del recesso dal contratto
a tempo determinato ad opera di una delle parti prima
della scadenza del termine va pertanto effettuata nell’ambito dei principi generali che disciplinano la responsabilità contrattuale.
Il rapporto di lavoro a tempo determinato può cessare
legittimamente:
. alla naturale scadenza del termine senza che sia necessaria alcuna specifica comunicazione da parte del
datore di lavoro e senza alcuna particolare conseguenza se non il pagamento delle competenze di fine rapporto dovute al lavoratore;
. prima della scadenza per il recesso del datore di lavoro
assistito da giusta causa;
. prima della scadenza per il recesso del lavoratore assistito da giusta causa.
Ai sensi dell’art. 2119 c.c. entrambi i contraenti possono
infatti recedere dal contratto a termine prima della sua
scadenza qualora si verifichi una causa che, per la sua
gravità, non consenta, neppure provvisoriamente, la prosecuzione del rapporto.
Recesso anticipato per giusta causa
Al di fuori delle due ipotesi ora esaminate, il recesso delle
parti prima della scadenza del termine è illegittimo e da
diritto alla parte non recedente di ottenere il risarcimento
del danno.
Da parte del datore di lavoro
In ipotesi di recesso prima della scadenza per giusta causa da parte del datore di lavoro vale la pena ricordare che,
anche in questi casi, il licenziamento dovrà essere preceduto dalla contestazione dell’addebito e dalla concessione del termine a difesa, secondo quanto previsto dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970).
Inoltre in tal caso, secondo i principi generali, l’onere
della prova della sussistenza della giusta causa grava
sul datore di lavoro.
Qualora in sede giudiziale dovesse essere accertata la
sussistenza della giusta causa del licenziamento, al lavoratore non spetterebbe alcun risarcimento per l’anticipato recesso datoriale.
Da parte del lavoratore
Venendo al recesso prima della scadenza per giusta causa del lavoratore, anche in questo caso l’onere della prova della sussistenza del requisito è a carico della parte
che lo fa valere.
In giurisprudenza sono state ritenute assistite da giusta
causa le dimissioni rassegnate dal lavoratore, tra l’altro,
nelle seguenti ipotesi:
. prolungato omesso pagamento delle retribuzioni (tra
le molte Trib. Genova 11 giugno 2004); al contrario, i
giudici di merito non hanno ravvisato gli estremi della
giusta causa di dimissioni in un caso in cui il datore di
lavoro aveva semplicemente ritardato la corresponsione del compenso mensile;
. grave demansionamento/dequalificazione prolungati
nel tempo (tra le molte Cass. civ. n. 8589/2004);
. comportamenti vessatori posti in essere dal datore di
lavoro lesivi della dignità e personalità del lavoratore
(cosı̀, ad esempio, Trib. Milano 16 giugno 1999);
. gravi ingiurie subite dal lavoratore (cosı̀ Cass. n. 5977/
1985);
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. illegittima modifica unilaterale dell’orario di lavoro (cosı̀ Pret. Bologna 25 luglio 1987).
L’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che
le dimissioni rassegnate per giusta causa, a differenza
di quanto previsto per il caso di licenziamento, non devono necessariamente essere assistite dall’immediatezza e specificità.
Ciò significa che il lavoratore potrà rassegnare le dimissioni per giusta causa anche senza qualificarle come tali
e senza indicare nell’atto di recesso gli estremi della giusta causa addotta a motivo delle dimissioni (cosı̀ Pret.
Firenze 18 ottobre 1996).
Facendo applicazione dei principi generali in tema di inadempimento contrattuale, la giurisprudenza è costante
nel ritenere che qualora venga accertata la giusta causa
delle dimissioni rassegnate prima della scadenza, spetti
al lavoratore il risarcimento del danno commisurato alle
retribuzioni che avrebbe percepito dalla data del recesso
sino alla naturale scadenza del termine apposto al contratto (tra le molte v. Cass. civ. sez. lav. n. 12092/2004).
L’orientamento prevalente ritiene, altresı̀, che in tale ipotesi il danno cosı̀ quantificato possa essere ridotto qualora
il datore di lavoro fornisca la prova del compenso che il
lavoratore ha percepito impiegando altrove le proprie
energie lavorative (cd. aliunde perceptum) o comunque
del compenso che egli avrebbe potuto percepire usando
l’ordinaria diligenza per reperire una nuova occupazione,
in applicazione della regola generale posta dall’art. 1227
c.c. (tra le altre v. Cass. civ. sez. lav. n. 924/1996).
Recesso anticipato del lavoratore senza
giusta causa e risarcimento del danno
Se le ipotesi di illegittimo recesso prima della scadenza
da parte del datore di lavoro o di dimissioni per giusta
causa rassegnate dal lavoratore prima della scadenza del
termine sono state oggetto di numerosi interventi della
giurisprudenza e della dottrina, scarsa attenzione ha ricevuto invece la fattispecie del recesso prima della scadenza del lavoratore senza giusta causa.
Nonostante nella prassi siano frequenti i casi di dimissioni rassegnate prima della naturale scadenza del contratto
dal lavoratore assunto con contratto a tempo determinato, sovente per aver reperito una (più stabile) occupazione a tempo indeterminato, è assai raro che il datore di
lavoro promuova un’azione nei confronti dell’ex dipendente chiedendo che venga condannato al risarcimento
del danno, tanto che, allo stato, non risultano pubblicati
precedenti in tema né delle Corti di merito né della Corte
di Cassazione.
La prassi seguita in questi casi è quella di trattenere dal
compenso ancora dovuto al lavoratore o, in ogni caso, di
richiedergli un importo pari al preavviso che egli avrebbe
dovuto prestare se il rapporto fosse stato a tempo indeterminato, senza che tale equitativa quantificazione del
danno trovi alcuna ragion d’essere se non alla luce della
generale considerazione del lavoratore quale parte debole del rapporto di lavoro.
In applicazione dei principi generali in tema di inadempimento contrattuale e risarcimento del relativo danno, tuttavia, si possono utilmente formulare le seguenti considerazioni.
Il riferimento normativo da cui prendere le mosse è il
dettato dell’art. 1223 c.c. che definisce i termini del risarcimento del danno in ipotesi di responsabilità contrattuale, stabilendo che esso debba comprendere sia la perdita
subita dal creditore che il mancato guadagno che siano
conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento.
Il regime risarcitorio di diritto comune prevede dunque
due componenti del risarcimento da inadempimento
contrattuale: il cosiddetto danno emergente (le «perdite
subite») e il cosiddetto lucro cessante (il «mancato guadagno») nel limite in cui entrambe le voci di danno si
pongano in una relazione diretta di causa-effetto con il
comportamento del debitore inadempiente.
Per danno emergente deve intendersi qualsiasi diminuzione e perdita patrimoniale nella sfera del creditore nonché
le spese affrontate per porre rimedio all’inadempimento.
Per lucro cessante si intende invece il mancato incremento del patrimonio del creditore dovuto al venire meno della prestazione del contraente inadempiente.
Secondo l’orientamento prevalente rientra poi in tale seconda categoria di danni, in un rapporto di specie a genere, il cosiddetto danno da perdita di chance, consistente nell’impossibilità per il danneggiato di giovarsi di una
situazione a lui potenzialmente favorevole.
Come accennato, tuttavia, non ogni diminuzione o mancato incremento patrimoniale nella sfera del creditore
possono essere oggetto di risarcimento, richiedendo i
menzionati principi generali che essi siano conseguenza
immediata e diretta dell’inadempimento. Ciò sta a significare che nella (potenzialmente) infinita catena causale il
limite posto dall’art. 1223 c.c. impone di prendere in
considerazione esclusivamente gli eventi che, secondo
un criterio di regolarità causale fondato su regole di esperienza, siano normali conseguenze dello specifico comportamento che configura l’inadempimento contrattuale.
Declinando gli enunciati principi generali nell’ipotesi delle
dimissioni rassegnate prima della scadenza nell’ambito
del contratto a termine, si osserva innanzi tutto che es-
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sendo le parti vincolate a fornire la propria prestazione
sino alla naturale scadenza del contratto, il recesso del
lavoratore prima del termine configura senza dubbio un
inadempimento contrattuale.
Secondo quanto disposto dall’art. 1218 c.c., dunque, il
lavoratore è tenuto a risarcire il danno al datore di lavoro,
salvo che provi che il recesso prima della scadenza è
stato determinato da impossibilità sopravvenuta a fornire
la prestazione derivante da una causa a lui non imputabile
(impossibilità che potrebbe essere ravvisata, ad esempio, in una improvvisa inabilità psicofisica, o nella revoca
di permessi o autorizzazioni amministrative necessari in
relazione alla qualifica o alle mansioni svolte non dovuta a
colpa del lavoratore).
Quanto alla prima delle voci di danno sopra esaminate, e
cioè il danno emergente, il datore di lavoro potrà innanzi
tutto provare, ad esempio, di aver subito un pregiudizio
economico connesso al ritardo o alla mancata esecuzione dei lavori affidati al dipendente dimissionario, per non
aver potuto sostituire lo stesso in tempo utile (eventuali
penali applicate da un cliente in caso di ritardata consegna di una commessa).
Si osserva, tuttavia, che tale voce di danno potrebbe
essere ritenuta non direttamente e interamente imputabile al recesso/inadempimento del lavoratore laddove la
responsabilità di determinate attività non sia affidata in
via esclusiva al lavoratore recedente, venendo cosı̀ meno
il menzionato requisito della «conseguenza immediata e
diretta dell’inadempimento» ex art. 1223 c.c., oppure
qualora il datore di lavoro non si sia tempestivamente
attivato per sostituire il lavoratore.
Con maggiori margini di certezza il datore di lavoro potrebbe invece rivendicare il risarcimento delle spese sostenute per la ricerca di un lavoratore in sostituzione di
quello dimissionario. Anche in questo caso, tuttavia, la
possibilità di riuscire a fornire la prova che il danno subito
è direttamente imputabile al recesso del lavoratore finirà
per dipendere dall’elevata professionalità del dipendente
da sostituire, posto che quanto più specifiche sono le
mansioni svolte tanto più difficile sarà il reperimento di
una figura professionale che possa adeguatamente sostituire il lavoratore dimessosi.
La prova della seconda delle voci di danno considerate,
ossia il cosiddetto lucro cessante, presenta ulteriori profili di difficoltà.
Mutuando alcune considerazioni espresse da autorevole
dottrina nella diversa ma contigua fattispecie del recesso
posto in essere senza giusta causa dall’agente con contratto di agenzia a tempo determinato, si potrebbe ipotizzare un danno da «mancato guadagno» per il datore di
lavoro nell’ipotesi di perdita o forte decremento della
clientela seguita dal lavoratore dimissionario.
Per quanto concerne infine il cosiddetto danno da perdita
di chance, esso potrebbe ravvisarsi qualora il recesso del
lavoratore abbia, ad esempio, causato l’impossibilità per
il datore di lavoro di partecipare ad una gara d’appalto.
Ciò detto, anche in questo caso viene in rilievo la regola
generale che esclude il risarcimento del danno per il fatto
colposo del creditore ex art. 1223 c.c.
Il lavoratore è dunque ammesso a provare che il datore di
lavoro ha provveduto o avrebbe potuto provvedere, utilizzando l’ordinaria diligenza, alla sua sostituzione in tempi utili cosı̀ evitando o riducendo le conseguenze del recesso.
Conclusioni
Riassumendo: in caso di dimissioni prima della scadenza
del lavoratore assunto a tempo determinato il datore di
lavoro potrebbe ottenere il risarcimento dei danni sofferti
soltanto qualora le dimissioni non siano assistite da giusta causa. Pur potendo essere integrata da una serie
indefinita di comportamenti, la giusta causa del recesso
certamente non potrà ravvisarsi nel reperimento di una
migliore occasione lavorativa.
In secondo luogo il datore di lavoro dovrà fornire la prova
dei danni subiti, prova che dovrà essere particolarmente
rigorosa, potendo il risarcimento essere escluso nel caso
in cui i pretesi danni non siano effettivamente riconducibili in modo immediato e diretto alle dimissioni o potendo
essere ridotto in caso di colpevole inerzia del datore di
lavoro nel reperimento di un lavoratore che sostituisca il
recedente sino alla scadenza del termine.
La norma di chiusura nell’ambito della quantificazione del
risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale,
l’art. 1226 c.c., prevede infine che se il danno non può
essere provato nel suo esatto ammontare, la sua liquidazione deve avvenire su base equitativa.
Ciò comporta che in mancanza di prova rigorosa da parte
del datore di lavoro delle spese, delle perdite subite e del
mancato incremento patrimoniale nonché del loro diretto
collegamento causale con le dimissioni, è probabile che il
risarcimento venga determinato in via equitativa in un
importo equivalente all’ammontare dell’indennità sostitutiva del preavviso che il lavoratore avrebbe dovuto prestare se il rapporto di lavoro fosse stato a tempo indeterminato.
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