La collana più esauriente per una approfondita

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La collana più esauriente per una approfondita
Scrittori di Sardegna
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Costantino Nivola
MEMORIE DI ORANI
nota introduttiva di Ugo Collu
Si ringrazia per la preziosa collaborazione
Ruth Guggenheim, Chiara e Pietro Nivola.
Riedizione dell’opera:
Memorie di Orani, Milano, Libri Scheiwiller, 1996
pubblicata a cura di Aldo Buzzi. Le traduzioni delle otto “memorie” scritte
in inglese, qui alle pp. 15, 25, 47, 53, 63, 71, 85, 89, sono di Chiara Negri.
La presente edizione è integrata delle poesie alle pp. 93, 95, 97.
Periodico settimanale n. 20
del 17-12-2003
Direttore responsabile: Giovanna Fois
Reg. Trib. di Nuoro n. 1 del 16-05-2003
Stampa: Lito Terrazzi, Firenze, novembre 2003
© Copyright 2003
Ilisso Edizioni - Nuoro
www.ilisso.it - e-mail [email protected]
ISBN 88-87825-81-5
NOTA INTRODUTTIVA
Costantino Nivola in un ritratto di Saul Steinberg, che così ha descritto l’amico: «Un piccolo uomo di proporzioni eroiche: una bella testa dove allegria e
melanconia si fondono, un torso poderoso; visto in distanza, un gigante».
All’apparenza è una raccolta di episodi. In realtà questo
prezioso volumetto è un viaggio interiore dell’artista maturo
e affermato alla ricerca della fonte da cui sono scaturite le
sue energie e le sue intuizioni.
Nella sua perpetua condizione di migrante e di naufrago,
c’è un orientamento che Costantino Nivola non perde mai di
vista: l’infanzia nella sua terra. Il futuro che egli immaginava da ragazzo era fantastico, ma «tutto quello che mi è successo in seguito l’ho inventato a quella età».
Il viaggio nell’infanzia si snoda attraverso tredici brevi
memorie, ognuna delle quali rivela uno strato fondante per
l’uomo e l’artista che egli fu in seguito. Più o meno consapevolmente, lungo l’intera narrazione, l’autore si interroga nel
tentativo di congiungere i due “tronconi” della sua esistenza: quello dell’artista riconosciuto con le sue origini popolari, quello dell’uomo planetario con il remoto villaggio della
sua anagrafe. L’occhio è quello di un saggio poeta. Anche i
ricordi più dolorosi appaiono soffusi di immensa pietà e intrisi di quella sana ironia che rende il valore anche alle
esperienze cupe e dolenti. La stessa miseria, che fu una cifra
costante degli anni oranesi, non viene rinnegata o nascosta
come il più delle volte succede a chi se n’è allontanato, al
contrario rievocata con franchezza e persino con riconoscenza: ad essa deve l’appoggio per il riscatto e una impareggiabile lezione di umanità.
Le stagioni della vita hanno sedimentato in lui enormi
sofferenze e insieme regalato soddisfazioni ineguagliabili. Alla
nostalgia per la Sardegna si sono sommati la lontananza
oceanica dall’Italia e gli stenti dei primi anni americani, ma
poi era seguito il successo dei prestigiosi riconoscimenti, la fraterna e illuminante amicizia con l’architetto Le Corbusier, la
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vita quasi comunitaria con artisti e intellettuali provenienti
da molte parti del mondo e miracolosamente convenuti a
Long Island, New York, come convocati attorno alla sua rassicurante casa. Anche lì, la fonte inesauribile del suo essere e
del suo fare restano gli anni sardi dell’infanzia. In uno struggente momento di nostalgia, e d’un fiato, dipinge, come lo osservasse dalle colline di Sarule, l’intero villaggio di Orani, con
le piccole piazze animate da una comunità modesta ma laboriosa e forte.
In giardino periodicamente riuniva gli amici (che erano
poi Steinberg, De Kooning, Pollock, Le Corbusier, Sert …)
e ogni volta per gli ospiti si esibiva come cuoco raffinato
dai sapori rigorosamente sardi.
I capitoli delle Memorie possono essere letti come le orme che hanno segnato indelebilmente l’avventura dell’uomo
e dell’artista. Nivola sembra aver percepito fin dalla nascita
l’ambiguità del vivere: la paura del neonato dell’aprirsi di
un abisso fra lui e la madre viene stemperata da una mano
avvolgente e calda e dalla natura che intorno sembra vestirsi a festa per accoglierlo.
Una vita di stenti coi numerosi fratelli, il duro lavoro accanto al padre muratore; ma insieme la simbiosi con una natura maestosa e conturbante nel suo solenne splendore; la immersione in quegli spazi non ancora contaminati dalla violenza
dell’uomo; la partecipazione talora trasognata ai riti domestici del pane e del focolare: sono questi tutti elementi che egli
trasfonderà nell’opera artistica, conferendole così un’eccedenza
di significato e un’aura di intima religiosità. I riti del pane si
perpetueranno nelle Terrecotte, quelli del focolare nella consuetudine conviviale testimoniata ancora in quell’angolo del
suo giardino di Springs, dove ancora troneggia il camino a
fianco del pergolato, tra una fontana in lamiera e un muro
grafito con figure mitiche.
Nel viaggio a ritroso Nivola vuol conoscere la ragione di
quello che è diventato; e come mai, dopo la immensa strada
percorsa, si trovi ancora lì, ad Orani, attorniato da quell’ammasso di rocce granitiche, con le mani ancora impegnate
all’impasto di sabbia e cemento… Come se non fosse mai
andato via.
La risposta forse si trova nella firma lasciata sui pannelli
del Palazzo della Compagnia di Assicurazioni di Hartford
nel Connecticut: Costantino Nivola scultore, muratore,
manovale. Un illuminante autoritratto e una mirabile sintesi biografica.
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Ugo Collu
I PRIMI DIECI MINUTI DELLA MIA VITA
Vedete, è successo proprio così: la levatrice mi ha consegnato tutto rosso, come un coniglio appena spellato, alla giovane vicina che l’aveva assistita durante il parto…
parto del resto facile, essendo io il sesto dei figli. Si è lavata le mani nell’acqua che doveva servire al mio bagno e se
n’è andata brontolando. Adriana mi prese nelle sue grosse
mani di contadina. Si sedette davanti al recipiente di terracotta pieno d’acqua riscaldata al sole e mi lavò con cura
affettuosa. Dopo avermi asciugato, mi sparse di polvere di
talco che lei stessa aveva ottenuto, grattugiando sul granito duro questa pietra morbida che abbonda a Orani.
Mi avvolse in una lunga benda di lino quasi rigida dalle ascelle fino ai piedi, secondo l’usanza di quel tempo. In
questo modo, ordinato e lindo, sereno come un piccolo
morto, mi collocò accanto a mia madre, quasi accanto.
Questo quasi non verrà mai superato da me (o da lei) e
costituirà una barriera psicologica permanente, che si rifletterà in tutti i miei rapporti con le donne.
Mia madre aveva osservato, con tristezza e anche con
ansietà, l’operare di Adrianedda. E quando questa ebbe
finito, le chiese di portarle il fratellino appena più anziano di me, di qualche anno.
Questi era nato con un piede deforme e un’espressione angelica. E la madre aveva intuito che il piccolo non
sarebbe sopravvissuto agli stenti e al disagio della nostra
condizione, il che deve aver contribuito a far rinascere in
lei una seconda vampata di passione materna. (Mia madre dopo il primo figlio avrebbe voluto non averne altri,
piuttosto che vederci soffrire la fame).
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Quel giorno era stata la prima volta che
l’aveva ceduto alla cura di altri: temeva – con
ragione – che il fratello nato prima di lui per
gelosia l’avrebbe strangolato.
Quando Adriana tornò col bambino appena nettato e glielo mise dall’altro lato, la
mamma se lo strinse vicino, lasciò andare un
sospiro di sollievo e si addormentarono entrambi.
Io sentii la breve distanza che mi separava
dalla madre allargarsi, distanziarsi all’infinito.
Mi sono sentito solo, non voluto. Ho desiderato allora (e anche spesso in seguito) cancellare la mia nascita e, per un processo di inversione – come in un film proiettato alla rovescia –
di essere ripreso da Adriana, disvolto dalla
benda, rimesso nell’acqua riscaldata al sole,
reintrodotto nel grembo della mamma, riassorbito come sperma da mio padre… e poi
da mio nonno, e così via, sempre più indietro nel tempo.
Ma proprio quando l’abbandono mi è
parso più totale, ho sentito altrettanto forte
la sensazione che non ero solo. Dopo tutto,
le mani di Adriana mi avevano lavato e accarezzato, modellandomi come un pane da festa. E allora dalla finestra della stanza entrava l’aria tiepida e con essa migliaia di suoni
gradevoli, prodotti dagli uccelli, i grilli, le
api… e anche dagli scoppi dei piselli selvatici e tante altre diavolerie della natura e della
stagione, che in quel modo sembrava che festeggiassero la mia nascita e che mi invitassero a unirmi a loro in questa curiosa avventura che è l’esistenza.
Era mezzogiorno e mezzo, il 5 luglio 1911.
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PRIMO RICORDO
Poteva essere stato, forse, il giorno del mio quarto
compleanno, all’ora esatta della mia nascita, il sole ancora alto in mezzo al cielo sopra il paese.
Le tegole sul tetto sono sul punto di liquefarsi. I piccoli fiori selvatici, spuntati il mattino, sono sbocciati, hanno
gettato i semi e per la calura crescente sono morti. La
trama dei muretti serpeggianti dei giardini e delle case risalta luminosa, un mondo fulgido privo di ombre. A un
primo sguardo le finestrelle e le porte sembrano nere. All’interno si rifugiano galli e pulcini, gli occhi gialli e le rosse creste simili ad ambre di un fuoco senza fumo: un
biancore vibrante fuori e qua dentro, in casa, una buia
quiete silenziosa.
Nella grande cucina il pavimento di terra battuta è
gradevolmente fresco. Sono solo con mia madre. È seduta per terra vicino alla porta aperta, contro la grande parete nuda la cui superficie irregolare è più bizzarra del
solito per il riflesso della luce che entra da fuori. Assorta
nei suoi sogni ad occhi aperti, ripete un monotono ritmo di danza senza accorgersi della mia presenza. Il bianco lenzuolo che sta rammendando per la centesima volta
sembra il paesaggio attorno al borgo dopo che un leggero strato di neve ne ha coperto appena i frutteti cintati,
gli orti, le vigne e i prati. Io sto fissando il soffitto annerito dal fumo dal quale, attraverso le tegole rotte, sottili
colonne di luce solare punteggiano il pavimento di tondeggianti e ovali dischi d’oro. Ho terminato da poco una
mia danza senza musica tra le fragili, cristalline colonne
di questo tempio incantato. Come Sansone, sto ancora
reggendo nella mia rosea manina una di queste dritte
colonne.
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C’è un senso di immobilità: l’attimo di immobilità del
violinista quando appoggia l’archetto sulle corde, prima di
cominciare a suonare; l’immobilità del sole che ha raggiunto lo zenit, prima di iniziare la discesa; un’immobilità
che voglio far durare ancora un po’. E prometto solennemente a me stesso: «Voglio ricordare per tutta la vita la
bellezza di questo momento».
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IL PANE
Ho capito tutto, il giorno che mia madre si è rifiutata
di darmi il pane. «Vai a sa furca», mi aveva gridato mentre
i miei fratelli e le sorelle guardavano e ridevano. C’era poco pane in casa e la prospettiva di avere del grano era sempre incerta. Come la provvista mensile diminuiva, in mia
madre crescevano l’ansietà e la disperazione che si spargevano nel vicinato, e sembravano alzarsi fino al cielo. Noi
bambini diventavamo nervosi e litigiosi, gli uomini più
ubriachi e petulanti, i vicini di casa ostili e maliziosi. La fine del pane era la fine del mondo.
Ma i miracoli avvengono e hanno la tendenza a succedere al momento opportuno. Una sorella o una zia o
semplicemente mia madre sarebbe apparsa alla fine della
strada, preannunciata da una schiarita delle nuvole e da
uno stormo di galline svolazzanti intorno al canestro tenuto in equilibrio sulla testa, come cherubini intorno all’aureola di un santo.
La gente si sarebbe congratulata con la portatrice del
santo carico e tutti avrebbero provato un senso di rilassamento man mano si fosse avvicinata alla casa. Il suo passaggio avrebbe creato una corrente in movimento: il respiro della vita.
Ognuno sapeva cosa fare. Noi bambini, armati di bastoni, prendevamo posizione in difesa del grano. Le formiche, attaccando da sotto, erano pronte ad afferrare e a
correre, svanendo nel nulla. Le galline, approfittando di
ogni minima distrazione, avrebbero rivelato una capacità
di volo pari solo a quella delle rondini quando cercavamo di colpirle con i sassi nei loro voli.
I vicini portavano acqua nel cortile per lavare il grano,
mentre per terra venivano distese le coperte per asciugarlo.
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E il sole, naturalmente, come l’attore principale di un
grande dramma, aspettava il momento di uscire dalle
quinte delle nuvole.
La rimozione dei sassolini dal grano veniva fatta in
collaborazione dalle donne del vicinato su tavole sottili,
rotonde (tazzeris), poggiate sulle loro ginocchia. Una manciata alla volta, per assicurarsi che nessun sassolino sarebbe sfuggito, il grano veniva sparso sulle tavole. Ho sempre sospettato che in quei momenti le donne contassero
ogni chicco di grano calcolando, secondo un’algebra mistica conosciuta solo da loro, quante forme di pane si sarebbero ricavate da quei chicchi. I chicchi di grano lavati, sparsi sulle coperte, entravano in stretta relazione con
le pietre del selciato, i muri rustici, i denti dei bambini e
delle donne sorridenti, creando un’impressione di moltiplicata abbondanza.
Come guerrieri vittoriosi, i bambini, appoggiati ai loro lunghi bastoni, tenevano d’occhio le mani vivaci che
prendevano e contavano, mentre a giusta distanza le galline si consolavano cercando gli scarti.
Due o tre giovani donne portavano quindi il grano al
mulino del paese per la macina. La percussione della macina, gli scherzi del mugnaio, l’occasione di incontrarsi
in un posto pubblico e di scambiarsi pettegolezzi contribuivano a caricare l’aria con un senso di eccitazione. Con
la loro robusta bellezza ammorbidita dalla polvere fine
della farina, radiose di gioia maliziosa, le giovani ritornavano a casa come apparizioni.
All’interno, in grandi e bassi canestri fatti a mano, la
farina era setacciata in tre gradazioni – una per il pane della festa, una per l’uso di tutti i giorni e la terza, la più grezza, per le galline e i maiali. Uno svelto e felice canto accompagnava il ritmico setacciare della farina. I vecchi
ascoltavano il ritmo quasi di danza, evocando in loro Dio
solo sa quali memorie della loro breve gioventù, mentre i
bambini, avendo assolto ai loro doveri, avevano il permesso di sfogare i loro eccessi di vitalità.
Una volta separata, la farina riceveva il lievito – un
pezzo di pasta avanzato da un precedente impasto o prestato da un’altra famiglia. Con un segno di croce tracciato
su di esso e poche parole di raccomandazione al buon
Dio, l’impasto era pronto per una notte di fermentazione.
Più tardi, nella notte, malgrado l’attenzione a non fare
rumore, lo scricchiolio dei mobili, i passi a piedi nudi e le
voci sussurrate svegliavano noi bambini. Segretezza e mistero pervadevano la casa. Sentivamo i suoni come di una
lotta o di sculacciate ad un bambino grasso che, punito, si
rifiuta testardamente di piangere. La lavorazione dell’impasto, la divisione in tante piccole forme rotonde, stese poi
in sottili dischi da mettere tra gli strati dei larghi nastri di
lino per completare la fermentazione, tutto questo noi sentivamo quando si pensava che fossimo addormentati.
Quando ci alzavamo, il forno era già acceso. I profondi canestri, con l’impasto scarsamente visibile tra le pieghe del lino, erano disposti intorno ad un canestro basso
e grande che avrebbe ricevuto dal forno i dischi del pane,
gonfi come palloni, quindi divisi in due parti e sovrapposti per la cottura finale.
Attirando i mendicanti come mosche, il profumo del
pane infornato si spargeva nell’intero paese. I vecchi, seduti sulla soglia della chiesa, giravano i loro occhi ciechi
nella direzione del profumo, indovinandone la provenienza. I bambini spostavano la sede dei loro semplici giochi
dentro il cerchio profumato della casa benedetta. L’equilibrio di tutto il paese era, per il momento, ristabilito.
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I VICINI
Nei primi tempi della mia vita, la famiglia Cuccu abitava nella casa di fianco alla nostra. Zio Batista Cuccu, rimasto vedovo all’epoca in cui seppi della sua esistenza, vestiva il costume locale bianco e nero. Arrivava a casa su
un carro tirato da buoi e carico di legna, oppure, se era
tempo di raccolta, degli scarsi prodotti dei campi e di paglia per le sue bestie. Staccava i buoi, scaricava il carro e si
sistemava su un sedile di granito vicino all’entrata di casa
nostra. Lo ricordo soprattutto seduto là, silenzioso e immobile come un ceppo bruciato, nero e bianco cinerino.
Il mio ricordo è come un’istantanea tratta da un album di
fotografie di famiglia. Anche i suoi due figli facevano i
contadini. Le figlie, Adriana e Caterina, si dedicavano alle
molte incombenze di una famiglia contadina, a casa e nei
campi. Tutti i Cuccu erano noti per la loro grande bontà.
Adriana aveva aiutato la balia durante la mia nascita, mi
aveva fatto il primo bagnetto e bisbigliato all’orecchio
«Benvenuto, Antino». Non si sposò mai e mi considerò
sempre in modo speciale, un po’ come un suo proprio figlio. Quando fui abbastanza grande da poter fare delle
lunghe camminate, anche su terreni difficili, diventai il suo
compagno, suo protetto e insieme suo protettore. Quelle
passeggiate restano fra i momenti più incantati della mia
infanzia. Adriana non parlava mai, se non ce n’era realmente bisogno. Il silenzio andava d’accordo con la sua
natura generosa; sono convinto che tacesse perché potessi
sentire il canto degli uccelli.
Il figlio maggiore, Stefano, che vedevo di rado, mi
torna alla memoria in lampi nitidi e chiari, come le lucide
oleografie dei santi incorniciate e appese nella nostra camera da letto. Il fratello più giovane, Daniele, ebbe un
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ruolo decisivo nel riscattarmi dal grigiore della mia infanzia. A partire dall’età di sette o otto anni, venivo mandato
a raccogliere legna per la famiglia. Era un compito gravoso per il mio fisico malnutrito, le distanze erano lunghe e
faticose a percorrersi, i luoghi erano popolati dagli spiriti
erranti dei morti ammazzati. A quei tempi, forse perché
scarseggiavano i fiammiferi, i boschi circondavano ancora
il villaggio in tutta la loro primordiale e sinistra verginità.
Capre e banditi vi scomparivano senza lasciare traccia. Io
me ne andavo con Daniele, sul suo carro tenuto alla perfezione, trainato da una coppia di buoi ben addestrati,
rimbalzando a destra e a sinistra su strade incredibilmente
accidentate, tagliate nella roccia da torrenti di pioggia e
dal passaggio di generazioni di cinghiali, di pecore e di
uomini – una strada simile a una cicatrice che non ha
mai potuto rimarginarsi. Migliaia di volte l’ho percorsa,
curvo fin quasi a terra sotto il peso del mio carico. Contavo le orme degli animali e le impronte lasciate dai piedi
scalzi degli esseri umani. Un giorno o l’altro sarei tornato
e scavando avrei tirato fuori tutti quegli strati di impronte, uno sull’altro, e li avrei trovati intatti. Daniele possedeva degli attrezzi affilati che gli servivano per spaccare la
legna. In breve tempo, senza il mio debole aiuto, caricava
il carro. Mangiavamo pane duro, sottile, secco e formaggio piccante, con l’aggiunta di una rara prelibatezza – un
grosso pezzo di miele delle api della fattoria dei Cuccu,
ancora nel suo favo di cera.
La gente che abitava la casa vicina a quella dei Cuccu
era diversa. C’erano due uomini e due donne. Il padre era
morto da un po’. Zia Maria Coi, la vedova, era una minuscola donnina in continuo movimento in uno spazio limitato. Il figlio maggiore o era partito per un viaggio misterioso, oppure si trovava nascosto dentro casa. Gli piaceva,
dal suo nascondiglio invisibile, gridare a noi bambini con
una voce tremenda. Il fratello minore divenne il mio protettore e tutore. Mi insegnò a piazzare le trappole per gli
uccelli e a addestrare falconi o corvi. Nella sua borsa, o in
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tasca, aveva sempre un regalo, magari soltanto una mandorla, un fico, una pera selvatica o addirittura il piccolo di
un porcospino o un coniglietto. L’affetto che mi portava
crebbe quando mi ruppi una gamba saltando giù da un
ponte su un mucchio di spazzatura. Avrei tanto voluto volare. Pesando quasi niente, ero sicuro che il vento mi avrebbe spinto su nel cielo come una piuma. Costretto a letto
con la febbre e un’ingessatura assai rozza per parecchi mesi, stavo a sentire il canto desolato dei grilli, i richiami frenetici di madri frustrate, il suono tetro delle campane che
annunciavano la morte di qualche soldato lontano sui monti dell’Italia del Nord. Era Pasquale a liberarmi dalla mia
delirante solitudine. Stare a cavalcioni sulle sue spalle con
la gamba ingessata, più in alto di tutti, era una gioia, nonostante i fatti tragici cui mi toccò di assistere: il ritorno al
paese, in una chiara giornata di sole, di un uomo morto
per mano dei poliziotti; un pastore assassinato, disteso supino su rami d’albero in un carro trainato da piccoli buoi
scuri; o persino il mio compagno d’infanzia, morto fra le
braccia di chi l’aveva raccolto dal terreno roccioso sotto il
fico da cui era caduto cercando di raccogliere un frutto,
magari neppure maturo.
Una delle figlie della famiglia Coi era matta. Colpita
da paralisi in parecchie parti del corpo, procedeva come
un oggetto che non vuole saperne di muoversi, in un delirio di sconnessi sussulti. Le sue corde vocali emettevano
suoni incoerenti e imprevisti, ma non completamente
incomprensibili per la famiglia o per la gente che abitava
nella corte. Tutti la chiamavano «Sepedda», uno di quei
soprannomi che i Sardi inventano da sempre, quasi a
censire ufficiosamente la popolazione.1 Se, come succedeva spesso, Sepedda veniva battuta o insultata dai genitori poco tolleranti, diventava una furia, demoniaca nella
1. Sepedda è un diminutivo d’uso comune per Giuseppa. La sua «giustezza», in questo caso, deriva dalla somiglianza col termine «toppa»
(zoppa).
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frustrazione che le derivava dall’impotenza a difendersi.
Provavo per quella strana creatura un misto di paura e
affetto. Gli sforzi patetici per comunicare i propri sentimenti facevano somigliare i suoi discorsi agli effetti di un
terremoto. Toniedda, la figlia minore, era una pallida ragazza dalla voce come un sussurro. Era una brava narratrice di storie, per lo più storie di fantasmi. Col tempo
andò sposa a un maturo ex-detenuto, un uomo dall’aria
innocente che, entrato in carcere ragazzo non ancora formato, aveva poi, con facilità e definitivamente, assunto
quella fisionomia castrata tipica degli inquilini a lungo
termine dei penitenziari. Il suo ritorno alle umili attività
della vita di campagna, al sole cocente e al vento della Sardegna, non valse a ridar colore alla sua carnagione. Nelle
sue rare comparse nella corte, rimase pallido e schivo. Gli
ultimi ricordi che ho di Toniedda sono le sue urla durante le lunghe sofferenze dei difficili parti.
La casa di Zia Angelina si trovava di fianco a quella
dei Coi. Una rampa di gradini portava all’entrata, al piano superiore. Lei sedeva sull’ultimo gradino, bloccando il
passaggio. Pesante e maestosa, vestita col nero costume
paesano delle vedove, insediata così in alto sopra noi tutti,
con i suoi tratti antico-romani, la sua professione privilegiata, il suo avere a che fare ora con una ricca famiglia,
ora con un altro villaggio, era oggetto di rispetto e ammirazione. A Orani Zia Angelina era l’unica pasticcera. Prestava i suoi servizi a casa dei clienti, in occasione di matrimoni o battesimi. Le sue bellissime mani grassocce, un
po’ orientali, danzavano, volavano, balzavano da un oggetto all’altro, spargendo farina, rompendo uova, piroettando come allegre colombe intente ad un gioco.
L’ultima casa della corte, o meglio la prima entrando,
era quella della famiglia Pepone. Pepone era un contadino, un contadino senza terra come tutti i contadini di
Orani. La maggior parte della terra apparteneva a una
mezza dozzina di famiglie facoltose, e il resto all’amministrazione comunale. Ogni anno la lotta dei contadini e
dei pastori senza terra finiva con l’incendio del bosco da
parte di entrambi – dei contadini per rendere la terra più
fertile, e dei pastori per ingrassare il pascolo. Ma Pepone
non era uno di quelli. Prendeva bonariamente qualunque
cosa gli venisse data. Nato contadino, contadino in ogni
pollice della sua persona, rendeva fertile il suolo con un’affinità per così dire organica. Se è vero che l’arte, quando è
autentica, assomiglia all’artista, ciò era ancor più vero nel
caso di Pepone. Color della terra bruciata, basso e compatto, aveva la forma di un ortaggio che cresce nel sottosuolo o di una pietra del campo. «Guardalo, l’hai visto?»
diceva mia madre a mio padre in tono sarcastico «Pepone
non è come te che te ne stai sempre senza far nulla. Lui
non è mai in casa. E quando torna non ha mai le mani
vuote». Ed era vero che Pepone non tornava mai a mani
vuote. Poteva essere una borsa d’erba per le galline oppure un nido per i suoi bambini, assieme col carro carico di
legna tagliata per l’inverno o dei sacchi rigonfi del raccolto. La casa dei Pepone aveva un solaio che fungeva da
magazzino e una minuscola cucina con un grande focolare, intimo e caldo – tutto ciò che avrebbe desiderato la
mia mamma-contadina, che però aveva sposato per sbaglio un artigiano.
Nelle sere d’estate tutti gli abitanti della corte sedevano
davanti alle proprie dimore. I più versati nella conversazione chiacchieravano, gli altri stavano ad ascoltare. La notte
di San Giovanni, che cade di giugno, al centro della corte
veniva acceso un falò di bucce di fagioli. I vicini si mettevano tutt’intorno a guardare le fiamme e le scintille che
volavano in alto, ad amoreggiare con le stelle. Le storie
raccontate da Toniedda – di stregonerie, di santi, di fantasmi – diventavano più credibili che mai. A mezzanotte
tutti insieme ci incamminavamo verso il fiume, dove ci lavavamo i piedi nell’acqua corrente, resa sacra dal mistero.
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MIO FRATELLO PEPPE
Fuorché mia madre, tutti lo chiamavano Peppe. Era
il secondo nato, il primo era morto subito e di lui non si
sapeva nulla. Mia madre lo chiamava ostinatamente Giuseppe come per affermare la serietà del rapporto di affetto che li legava.
Mia madre era stata sposata molto giovane a un uomo
due volte più alto di lei, minaccioso e petulante quando
era ubriaco, burbero e chiuso in sé quando non lo era.
Deve aver capito molto presto che in quella casa non protetta dal vento e dalla pioggia, piccola e nuda, con un marito irresponsabile, non era in condizione di allevare numerosi figli. Uno solo avrebbe saputo allevarlo, anche se
avesse dovuto abitare sopra un albero o sotto una roccia.
«Pro caridade, nostra Signora ’e su Rosariu, non darmi altri figli, risparmiatemi la pena di vederli morire di
fame», erano le preghiere che rivolgeva alla luccicante
statua di gesso della madonna nella piccola chiesa, ogni
domenica. Ogni anno, alla notizia della nuova gravidanza non voluta, la luccicante faccia di gesso continuava a
sorridere stupidamente.
La fame rendeva noi bambini cattivi, ostili, egoisti e
crudeli, ad eccezione di Peppe. Peppe sembrava inattaccabile da tutto quello che faceva soffrire noialtri: si sentiva comodo nella casa scomoda, felice anche se circondato da prefiche lamentose, in un mondo dove le poche
cose buone erano dietro le mura alte degli orti, dietro i
cancelli di ferro e i portoni chiusi, ben guardate da cani
feroci e da servi più feroci ancora. Sempre generoso, divideva con noi piccoli la sua magra porzione, mentre noi
ce la strappavamo di bocca l’un l’altro. Noi eravamo insofferenti e di malumore, lui era felice e sorridente.
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Giuseppe era il solo appassionatamente amato da mia
madre. Lei non lo nascondeva e lui non aveva bisogno di
prove. Lo sapeva. La sicurezza del totale affetto di lei lo
rendeva principe, eroe, maestro nel mondo delle cose, lo
rendeva capace di trasformare la realtà con le infinite risorse del suo talento e della sua fantasia.
Ai suoi occhi, ogni situazione, ogni circostanza era affascinante e lui sapeva esprimerne il fascino in modo contagioso, con le parole, col canto, col disegno, suonando la
fisarmonica o semplicemente lavorando come muratore.
D’inverno, la scarsità di nutrimento e di calore si faceva sentire maggiormente. Gli stecchi di legno che raccattavamo nelle campagne intorno al paese erano appena
sufficienti per cucinare il poco cibo. L’unica stanza che
doveva servire per tutti gli usi, con un buco nel tetto affumicato e un focolare primitivo, era quasi inabitabile.
Dormivamo tutti e sei, fratelli e sorelle, nello stesso
letto di legno col materasso di fieno, disposti come le
carte da gioco. In quelle fredde, interminabili notti invernali il sonno non era facile ai nostri corpicini tormentati dalla dissenteria cronica, costretti, ora l’uno ora
l’altro, a saltare nudi dal tepore promiscuo del letto sul
pavimento ghiacciato e fangoso per cercare di liberare,
Dio solo sapeva da cosa, le nostre pance vuote. Il rientro
nel letto comune, naturalmente, veniva accolto con insulti e calci da quelli che sentivano il contatto dei corpi
irrigiditi dal gelo.
Quando la luna illuminava, attraverso l’inferriata, un
rettangolo bianco con una croce nera sul pavimento della stanza, Peppe, per distrarci, ci ordinava di seguirlo con
la fantasia.
«Scheletrino numero uno» diceva.
«Presente» balbettava la sorella più piccola.
«Scheletreddu numero due».
«Presente» rispondevo io, col cuore che mi batteva
dal terrore.
«Scheletreddu numero tre».
Il numero tre non rispondeva, alzava solo la testa.
Nei suoi grandi occhi neri, invisibili nelle occhiaie, brillava una luce morente.
«Scheletro numero quattro».
«Non voglio essere il numero quattro» rispondeva
con prepotenza l’altro fratello. «Voglio essere il numero
cento».
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«Va bene, sarai il numero tredici» diceva Giuseppe che non amava
bisticciare.
«Scheletro numero cinque».
«Presente» rispondeva la sorella
più anziana.
«Scheletro numero sei».
«Presente» rispondeva a se stesso Peppe, chiudendo l’appello.
E nel quadrato illuminato dalla
luna eseguiva, col carbone nerissimo
sulle nostre ossa bianche, la numerazione.
Ora eravamo pronti a obbedire
al comando magico del capo. Al suo
ordine di marciare in avanti, attraversavamo senza difficoltà l’inferriata della finestra, saltavamo nell’orto
attiguo e lì, sui solchi umidi tra i cavoli e i cardi, circondati da un universo di ombre oscure e di luce pallida come l’argento, ci lanciavamo
in una danza macabra accompagnata dalla musica della fisarmonica di
Peppeddu, che aveva il potere di
sollevare da terra i ballerini e farli
volare al di sopra dei tetti come una
ghirlanda colorata di fiori di carta
soffiata dal vento. Allacciati con le
mani e le dita l’uno all’altro in forma di cerchio, salivamo a spirale oltre la cima del fico, del melograno,
del mandorlo, quasi all’altezza del
campanile.
«Scheletri della fame» chiamava Peppeddu, smettendo di suonare «alle cantine di Siotto!».
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letto scricchiolavano e sbattevano in maniera tutt’altro che
immaginaria fino a che qualcuno, per stanchezza e anche
per immaginaria sazietà brontolava sbadigliando: «Tutto
quello che ho mangiato, le salsicce, il formaggio, le castagne, le fave, i fichi secchi, tutto è caduto per terra» e si addormentava. E gli altri lo seguivano, abbandonando i mucchietti dei cibi masticati, simili alle tane delle formiche.
Ed eccoci nelle cantine di Siotto, traboccanti di ogni
ben di Dio.
«Mangiate quanto volete», incoraggiava il nostro capo
generoso. Lui stesso non si curava di mangiare, si inghirlandava con le collane di fichi secchi e grappoli di uva passa, come un giovane dio.
A questo punto, le mascelle agli estremi opposti del
Quando Giuseppe suonava la fisarmonica con i suoi
amici sotto le finestre della più bella di turno del paese, i
cani smettevano di abbaiare, i ladri smettevano di rubare, le stelle scendevano ad appoggiarsi sui tetti per ascoltare quella musica celestiale e armoniosa. Durante il Carnevale, quando la maggior parte degli abitanti del paese
si mascherava per danzare nelle piazze e piazzette tenendosi per le braccia in grandi cerchi come collane di fiori
sconosciuti, la musica da ballo di Peppe metteva i timidi
e selvatici danzatori in uno stato di oblio.
Orani era famoso in tutta la regione per i più bravi
suonatori di fisarmonica e per i migliori muratori. Peppe,
naturalmente, era l’uno e l’altro. Andava a lavorare con
mio padre, chiamato da estranei, nei paesi della provincia.
Mia madre portava il pane e il formaggio ogni due settimane. Io l’accompagnavo in questi lunghi viaggi. Mia
madre ignorava le solite strade e le scorciatoie che collegavano un paese all’altro. Inventava una sua strada attraverso i cespugli e i campi coltivati. Spariva davanti a me fra
l’erba alta o il grano, lasciando visibile solo il canestro con
il pane che le restava incollato alla testa. Gli uccelli volavano alti nel cielo, lasciando come sospese le loro canzoni.
Giuseppe, dagli alti ponteggi o dal tetto della casa in costruzione, notava la piccola, policroma e svelta figura con
un largo cesto in testa, e ci correva incontro, col suo viso
radioso, imbarazzato per tanta felicità.
Una mattina presto, andando al lavoro, Peppe si sentiva più felice del solito, più leggero del solito, più forte e sano che mai. Aveva raggiunto i diciotto anni. Il suo sviluppo
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fisico e mentale aveva raggiunto il punto di perfezione tra
la sua vitalità e la vita di tutte le cose che lo circondavano.
Un momento irripetibile e fuggitivo, comune solo agli uomini nati nello spirito della verità, e a quei particolari fiori
che sbocciano, fioriscono e muoiono nello stesso giorno.
Le rondini accompagnavano il suo camminare, leggero e facile. I bambini gli correvano intorno, precedendolo come ad annunciare il suo arrivo. Le giovani donne
abbandonavano il lavoro di ricamo sulle soglie delle case,
per correre dentro e, con mani tremanti, rassettarsi i capelli. Le vecchie smettevano di colpo le eterne liti per
sorridergli benauguranti, con le bocche sdentate.
Gli artigiani uscivano dalle loro botteghe per stringergli la mano e costringerlo ad accettare un bicchiere di
vino fatto in casa. Una fresca brezza primaverile correva
per le strade. Era nato un eroe. Il nuovo bello del paese.
Da quel momento Peppe non sarebbe più stato visto da
solo. I migliori giovani del paese avrebbero fatto a gara
per essere visti in sua compagnia. I più ricchi e benestanti si sarebbero messi in competizione per offrirgli lavoro
alle migliori condizioni.
Paola, la sua controparte, la più bella del paese, la regina del suo cuore, trovava più volte al giorno i pretesti
per andare a casa dei Siotto dove Peppe stava pavimentando l’ingresso del palazzo. Proprio per essere vista da
lui, quasi senza guardarsi, solo per mormorare un saluto
formale secondo le usanze locali: «Lavorando stai?».
«Passando stai?» rispondeva Peppe, e questo era tutto.
Ma era il più grande avvenimento, il più desiderato e sospirato nella vita di Peppe.
Generalmente, in questa fase di popolarità che lo circonda, il bello del paese è destinato a perdere la testa. Comincia a considerarsi troppo importante, troppo grande,
troppo prezioso per un paese così piccolo, per una popolazione così insignificante. Per lui, la sua grandezza è sprecata. Come un bambino che vuole morire perché gli altri
sentano la sua mancanza, pensa di andar via. Decide di
partire, di emigrare. Niente può persuaderlo a rinunciare
alla sua decisione. L’intero paese lo accompagna al postale. I suoi amici con le facce tristi, le donne in lacrime, i
bambini sconcertati. Questo è il momento più glorioso
per il nostro eroe – l’intero paese lo rimpiange.
Dopo un paio d’ore, sul ponte del maleodorante traghetto diretto in Continente, circondato da acque sconosciute e ostili, non è più tanto sicuro del suo gesto. Il giorno dopo, alla stazione e per le strade di Roma, in mezzo
alla folla indifferente, guardato con ostilità e sospetto, si rende conto di aver commesso un gravissimo errore. Quando
dopo un anno tornerà a casa col cappello e le scarpe cittadine – le sole aggiunte al suo status precedente – i suoi
amici gli chiederanno: «Quando sei arrivato? Quando riparti?». E capirà allora che ha sprecato la sua vita.
Peppe aveva lasciato il paese non per sua volontà, ma per
il servizio militare. Dopo, aveva pensato di ritornare per
sposare Paola. Da Roma le aveva mandato un suo ritratto,
grande, pesantemente ritoccato, col cappello da bersagliere
e uno stupido sorriso. Pensava molto a Paola e commise l’errore di scriverle personalmente una lettera prima di averla
formalmente chiesta in sposa ai genitori.
Tornato ad Orani, ormai ex bello del paese, ma sempre
amato e rispettato, attese ancora troppo a lungo per chiedere la mano di Paola, dando per scontata la conoscenza popolare ed il consenso al loro reciproco amore. Un emigrato,
tornato dalla Francia per scegliersi la moglie in paese, saputo che Paola non era ufficialmente fidanzata con Peppe,
chiese e ottenne di sposarla.
Questa è stata la tragica fine di Giuseppe e della sua
amata madre. Si sedettero accanto al camino spento e rimasero come due sassi, per molto tempo.
Il bello del paese paga sempre il suo prezzo, in un modo o nell’altro.
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L’ORTO DI DON PIETROPAOLO MELONI
Le due minuscole finestre delle due altrettanto minuscole stanze da letto della casa dove sono nato davano
sull’orto di don Pietropaolo Meloni. Una grossa grata di
legno lasciava intravedere ben poco di ciò che stava al di
là. Per lunghi anni, nella mia infanzia, dovetti accontentarmi di ammirare nove rettangoli di cielo: azzurri d’estate, grigi d’inverno, pieni di stelle o solcati dalle rondini.
Poi comparve la cima del più alto ramo di una pianta
di fichi, senza foglie d’inverno, come un dito puntato alla
luna, alle stelle, alle nuvole. Sul dito spuntarono piccole
mani, piccole e contorte all’inizio, poi grandi e aperte, e vicino alle foglie-mani, come lacrime o mammelle di capra, i
verdi frutti. Gocce di pioggia e di rugiada indugiavano sulle larghe foglie finché i primi brucianti raggi del sole non le
dissolvevano in una macchia di luce. Il fico cresceva, e finalmente anche le mie fragili ossa crescevano, ma soprattutto cresceva la mia curiosità. C’era molto da vedere entro
i limiti di quel ristretto campo, che mi appariva come messo a fuoco dall’obiettivo di una macchina fotografica.
La mia prima sensazione rispetto alle «cose» fu che
tutte, tranne l’ardente sole estivo e lo sferzante vento invernale, appartenessero agli altri. Erano infatti ben protette, al di là di cancelli di ferro e portoni serrati, dalla ferocia dei cani e da servitori ancor più feroci. In campagna la
proprietà era accumulata e conservata altrettanto bene.
Era rischioso attraversare i bassi muretti a secco, e pochi
erano i proprietari disposti a concedere l’uso di antichi
sentieri che portavano a luoghi di culto o a fonti d’acqua.
Persino dei nomi dei posti e dei monti non ci si poteva fidare – «il posto degli uccelli», «delle pere», «dei maiali»,
«dei maialini», si riferivano ai proprietari, soprannominati
rispettivamente Uccello, Pera, Maiale e Maialino.
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Dal momento che non c’era nessuno che mi alzasse
al di sopra del davanzale della finestra, mi toccò aspettare
di essere cresciuto fino a quell’altezza. Dalla nostra finestra, col passare degli anni, vedevo via via una parte sempre maggiore del giardino. I sottili, alti rami del fico si
univano a quelli di altri alberi, incontrandosi a formare
una V, facendosi più fitti e spartendosi nuovamente in
più direzioni, come tante braccia alzate nell’atto di implorare, di chiedere e di dare. I frutti pendevano appesantiti, simili più che mai alle poppe gonfie di latte delle
capre o delle pecore. Sollevandomi da solo, appeso alla
grata della finestra, potevo scorgere proprio lì sotto il fiore giallo dello zafferano, vicino e al tempo stesso infinitamente lontano, come tutte le cose possedute dagli altri.
Voltata la terra di fresco, si delineavano i solchi, e la
distanza dal lato opposto del giardino era accresciuta dalle linee che convergevano prospetticamente verso l’infinito. Un uccello di specie rara, estremamente elegante,
compariva allora per un attimo, tenendo in bilico, al pari
di una sensibile bilancia, la piccola testa e la coda lunga e
sottile sulle invisibili zampe, poi spariva o si dissolveva
come un miraggio. Lo chiamavano «Sa Signora», che per
me, a quell’epoca, voleva dire la moglie o la figlia del padrone di tutte le cose buone, lei che viveva nella grande
città; che si teneva lontana dal sole cocente; che veniva in
paese soltanto per poco; che parlava italiano, la lingua
del Continente; la cui voce era simile al suono delle campane mosse dal vento.
Quando rientrai a Orani dopo la guerra, anche se
l’orto era stato diviso in due parti, anche se non avevo i
soldi per comprarlo, mi misi alla ricerca di don Pietropaolo Meloni. Lo trovai in un albergo a Sassari. Cercai di
commuoverlo raccontando la mia…2
2. Il racconto, in inglese, finisce sei righe prima. Queste ultime righe
si trovano alla fine di un appunto in italiano sullo stesso argomento
e terminano con l’invitante avvio di una seconda parte rimasta nella
penna (N.d.C.).
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GONARIA
Gonaria fu la prima dei nove figli a intromettersi nell’idilliaca relazione fra mia madre e Giuseppe, il figlio
maggiore; un’indiscrezione che mia madre non le perdonò mai. Gonaria non era bella, secondo il corrente canone dell’estetica contadina che privilegiava una sana floridezza delle forme. Aveva tuttavia una sua particolare
bellezza – e precisamente quella di certe specie di babbuini. Gli occhi erano piccoli, vicini, intelligenti; la fronte
era stretta, la faccia lunga e la bocca larga con una fila di
denti robusti, più adatta a restare aperta che chiusa. Una
sua fotografia giovanile che vidi qualche anno fa mostrava
un volto straordinariamente intelligente, che rammentava
il volto di certe donne sarde di letteraria memoria.
Durante la prima guerra mondiale, con mio padre
lontano e mia madre all’ottavo mese di gravidanza, Gonaria diventò la nostra unica fonte di sostentamento. All’età di sei o sette anni era la più giovane e la più piccola
di un gruppetto di donne che percorreva lunghe distanze
a piedi nella campagna in cerca di legna. Il peso della legna, che lei si caricava sul capo alla maniera tradizionale,
bloccò il suo sviluppo a quattro piedi e mezzo, una statura non rara in Sardegna. Coi miei fratelli aspettavo Gonaria all’ingresso del paese e la seguivo fino alle porte dei
suoi clienti dove, in cambio della legna, riceveva una ciotola di ricotta. Quella ciotola era tutto il nostro pranzo.
Gonaria era bravissima a raccogliere ghiande per i
maiali, a rubare fichi d’India nei frutteti dei paesi vicini, a
cogliere fichi dagli alberi superstiti nei poderi abbandonati e a trovare in qualsiasi stagione ogni sorta di bacche
commestibili. Nonostante queste sue preziose capacità,
mia madre non mostrò mai verso di lei alcun segno di affetto. Persisteva nel suo risentimento, quasi che Gonaria
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fosse responsabile di ognuna delle nascite indesiderate
successive alla sua. Guardando la figlia scavare in cerca di
radici, arrampicarsi sugli alberi o saltare da un sasso all’altro nei torrenti in piena, certo mia madre deve averle invidiato l’agilità di giovinetta – quella libertà di movimento così a lungo negatale dalle continue gravidanze.
L’avere a che fare con l’ostilità della madre e con la mediocrità di un fratello minore di un anno aveva sviluppato
in Gonaria un vivace linguaggio difensivo, accompagnato,
se occorreva, da gesti ancor più vivaci. Era sempre gelosa
della bellezza più convenzionale delle compagne. Nei pochi
attimi rubati ai suoi doveri si rimirava in un piccolo specchio, guardando ossessivamente la propria immagine riflessa, rifiutando con ostinazione di riconoscersi in quel volto
dall’espressione arrabbiata e sospettosa. Un giorno, da molto lontano, sentii un urlo di mia madre seguito da una delle sue bibliche imprecazioni. Arrivato sul posto, scorsi dei
frammenti di cielo azzurro sparsi fra le lastre di pietra della
corte. Alzai gli occhi aspettandomi di vederne mancare, lassù, qualche frammento. Lo specchio era caduto dalle mani
di Gonaria, finendo in mille pezzi.
Quanto era brava nello scoprire i frutti più maturi sugli
alberi abbandonati, altrettanto era rapida nell’individuare i
più belli fra i ragazzi del paese. Inventava ogni pretesto per
farsi notare da loro. I giovanotti ricambiavano la sua civetteria suonandole nottetempo, di fronte a casa, delle serenate satiriche composte appositamente per lei. Gonaria balzava dal letto, si accovacciava accanto alla porta e ascoltava le
canzoni e le risa dei poco cortesi eroi della sua fantasia.
Anni dopo, morto il marito e cresciuti i suoi due figli,
Gonaria passava il suo tempo fra il paese e la casa della figlia, a Torino. Tutti erano intimiditi dalla sua amarezza,
da quel senso doloroso di sentirsi non voluta in un mondo fatto per altri e da altri posseduto. Sola nella vecchia
casa, cucinava i suoi pasti solitari, mangiando furtivamente come un braccato, infelice, magnifico e raro babbuino.
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LA BELLA DEL PAESE
Mia cugina Giovanna all’età di sedici anni era considerata la donna più bella del paese, non per voto popolare in
un concorso pubblico ma semplicemente per spontaneo
consenso, basato su una incontestabile evidenza. Era giovane, ben proporzionata, intelligente e traboccante di irresistibile gioia di vivere. Dal nonno piemontese aveva
ereditato una carnagione leggermente dorata e occhi azzurri: un ben riuscito incrocio fra il Nord e il nostro Sud.
Il fatto che Giovannedda, fin dall’età di otto anni, aveva
lavorato come servetta nella casa del medico del paese,
mangiando meglio di come avrebbe potuto a casa sua,
aveva favorito il suo sviluppo.
Un giorno, o, per essere più precisi, un certo momento di un certo giorno, una brezza eccitante si levò sul paese di Orani. Una benevolente disposizione si impadronì
di tutti gli abitanti. La gente usciva dalle case fumose,
sentendo l’urgenza di comunicare, di scambiare impressioni e chiacchiere. «Chi è quella?» «Giovannedda Bertocchi». «Oh! Sì! Oh!». L’avevano vista tornare dal mulino;
leggermente infarinata, sembrava Nostra Segnora de sos
Miraculos. L’avevano vista andare alla fontana, tornare dal
mercato. La sua immagine invadeva le strade, la mente, il
cuore di tutti. I pastori, anticipando il ritorno al paese, componevano poemi epici paragonandola a Elena di Troia o a
Cleopatra. La domenica, sperando di veder Giovanna
mentre andava a messa, giovani, artigiani, contadini e pastori affollavano la piazza di fronte alla piccola chiesa.
Giovanna, vestita del costume locale, sembrava un veliero
che entra, maestoso, in un porto mediterraneo.
Giunsero le profumate notti estive, piene di canti e
liete voci che echeggiavano lontano. Chi sposerà quel raro
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miracolo di ragazza? Chi è il mortale degno di un tale tesoro? Nessuno, naturalmente. Nessuno, per quanto pazzamente innamorato, osava chiedere la sua mano. Di solito, in casi come questo, la bella del paese se la prende un
viaggiatore di commercio o una guardia di finanza di passaggio. Lui è preso dalla sua bellezza, e lei, cui nessuno ha
mai parlato di lui, sembra aver aspettato solo lui. Senza
cerimonie lui la vuole sposare, lasciando i suoi platonici
ammiratori stupefatti per la sua impudenza.
Una domenica sera il padre di lei arrivò a casa accompagnato da un giovane pastore del posto che secondo lui era un buon partito per la figlia. La scelta irritò gli
artigiani del paese. I pastori erano semplicemente delusi.
Difficilmente potevano considerare Pasquale Noli un pastore vero e proprio: faceva pascolare il suo scarso gregge
troppo vicino al paese, lungo le strade polverose e, peggio ancora, comprava le sue pecore invece di rubarle ai
pastori dei villaggi vicini.
Pasquale non poteva credere che una simile fortuna
gli fosse piovuta addosso. Per esserne più meritevole portò
il suo gregge un po’ più lontano dal paese. Ma, per quanto grande fosse l’amore che Pasquale aveva per il suo gregge e il suo paese con la sua gente e le sue usanze, l’amore
per Giovanna era più grande. L’essere degno di lei diventò
per lui un punto d’onore, lo scopo della sua vita. Avendolo la sorte posto in una posizione straordinaria si sentì in
dovere di agire in modo straordinario. E scelse una via
molto difficile: emigrare in Francia e far fortuna all’estero.
Due anni dopo tornò a Orani, ben sbarbato, cappello in
testa, vestito nuovo, scarpe lucide e cravatta scura. Trascurando di osservare le usanze del paese, fece celebrare il suo
matrimonio nel municipio invece che in Chiesa, senza
parenti e invitati.
Vidi gli sposi attraversare la piazza diretti alla fermata
dell’autobus: in ordine, decorosi, bellissimi. Li seguii gridando «Viva gli sposi!». Alcuni parenti stretti, con la tradizionale gallina bianca e un cesto pieno di grano, li stavano
aspettando in lacrime per benedirli e salutarli. La coppia
salì sull’autobus con i regali e sparì in una nuvola di polvere bianca.
Due giorni dopo con addosso lo stesso vestito, puliti
e innocenti – Giovanna reggendo in equilibrio sulla testa
il pacco dei regali – emersero dall’uscita del metrò alla
Porta di Clignancourt, a Parigi. I vicini di Pasquale, al
Mercato delle pulci – arabi, zingari, ebrei – li salutarono
e in processione li accompagnarono alla baracchetta in
legno che Pasquale aveva costruito fra quelle catapecchie.
Era la sola costruzione che avesse una qualche rassomiglianza con una casa. Dipinta del verde tenero dell’erba
che cresce dopo la pioggia d’autunno nei riarsi boschi di
Sardegna e circondata da un minuscolo giardino completo di orto, conigli e polli, sorgeva fra tutte quelle baracche di cartone, carta catramata e lamiera.
Durante l’occupazione i tedeschi, in un eccesso di ordine, «ripulirono» il posto. I Noli di Orani, coi loro due
bambini, si trasferirono in un appartamento. Durante le
incursioni aeree Pasquale non portava la famiglia nel rifugio: il suo istinto di pastore gli diceva che la casa non
correva pericolo.
La sola volta che spinse in fretta la famiglia fuori dall’appartamento, molto prima che suonasse l’allarme, una
bomba colpì in pieno la casa.
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GIORNI DI FESTA
Per fortuna quand’ero piccolo c’erano le vacanze a tenermi in un costante stato d’animo di attesa e di speranza. Dalla festività settimanale della domenica al giorno
del santo patrono, il tempo era scandito da una lunga lista di ricorrenze festive e religiose, e da eventi legati al
succedersi delle stagioni.
Ogni sabato pomeriggio le vie del paese venivano ripulite, non da uno spazzino municipale ma dagli stessi abitanti, e questo per decreto di un anziano generale che aveva
la carica di sindaco. Il generale controllava personalmente il
lavoro con un’imperscrutabile espressione d’autorità, mentre
le donne assistevano in disparte, appoggiate alle loro armi
da guerra contro gli invasori portati dal vento e gli escrementi degli animali. Le stradine acciottolate erano al meglio
dopo la pioggia e le pulizie. La domenica mattina le campane della chiesa, i cani affamati e la gente nei tradizionali
costumi bianchi e neri riempivano le strade di animazione.
A pranzo c’era pasta o lesso, nelle osterie canti e discussioni
e una continua processione di buone donne per spegnere le
risa ubriache degli uomini sovraeccitati.
Natale e Capodanno per noi bambini non erano feste
importanti; gli alberi decorati e i doni non avevano nessuna parte nella nostra vita. La storia di Gesù nato in un’umile stalla di pastori era uno dei tanti racconti fantastici che
sentivamo dal prete cattolico durante le prediche domenicali. Quanto alla Messa di mezzanotte, non era che l’occasione per le giovani donne di rendere pubblico il ben noto
segreto del loro fidanzamento, ascoltando la funzione in
compagnia del promesso sposo. Per festeggiare l’avvenimento i genitori si riunivano in casa della ragazza, dov’era
pronto un agnello arrostito donato dallo sposo.
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Più vivace, e non meno gastronomico, era il giorno
dell’uccisione del maiale. Per molti mesi in ogni famiglia
era stato ingrassato un maiale, tenuto come un ospite di riguardo, esentato da ogni fatica. Il crescere dell’animale, la
graduale scomparsa della piccola coda, di parte delle orecchie, delle zampe e degli occhi erano guardati con ammirazione, come un segno di prosperità e di bellezza.3 E sarebbe
alla fine arrivato, per l’ospite, il giorno in cui dimostrare la
propria gratitudine al padrone di casa, col gesto onorevole
di dar la vita per salvare dalla fame tutta la famiglia.
Dopo poche grida formali, la testa pesante si abbandonava inerte, lasciando che il sangue zampillasse copioso
dal generoso, semplice cuore dentro la pentola che mia
madre reggeva. Questa prima parte del sacrificio rituale,
che nonostante il gran numero di parenti e vicini che vi
assisteva si svolgeva in un silenzio assoluto, era salutata
con del vino bianco. Il corpo dell’animale veniva quindi
deposto sopra il fuoco vivace di una particolare legna
aromatica, per bruciare le inutili setole e rosolare la preziosa pelle. Poi, legato a testa in giù con una cinghia di
cuoio, offriva il ventre perché fosse aperto dal tocco leggero di un coltello affilato. Rilasciava allora il suo contenuto come una cornucopia: fegato, polmoni, cuore, intestini di tutte le misure. Ogni parte veniva separata con
cura dal resto per essere variamente utilizzata in diversi
periodi dell’anno. All’ora di pranzo il grosso del lavoro –
macellazione, pulitura degli intestini da riempire col grasso liquefatto, marinatura della carne per le salsicce – era
terminato. Le parti più tenere delle interiora servivano a
insaporire il sugo della pasta; il sangue, aromatizzato a dovere con mentuccia e zucchero, veniva servito come dolce
nel pranzo speciale di quel giorno. Era uno dei rari pasti
veramente «convincenti» di tutto l’anno; un pasto desiderato, sognato e magnificato; una data cui far riferimento
3. «Grassa come un maiale» era considerato per una bella donna un
complimento lusinghiero.
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per un anno intero, che arricchiva coi suoi ricordi ogni
età e periodo della vita.
I lavori di taglio, confezionamento e conservazione
delle varie parti con aceto e sale proseguivano nei giorni
seguenti e da quel momento per casa si spandeva un grato aroma di aceto, pepe e menta. Una parte delle costolette veniva regalata ai parenti più stretti; le salsicce venivano appese al soffitto annerito per impregnarsi del fumo
proveniente dal focolare; candide fette di lardo erano accatastate nel sottoscala. La grande vescica, simile a un
pallone, gli intestini ripieni di tenero grasso, la testa, i
piedini e le ossa senza carne, tutti ben salati, rappresentavano altrettante rassicuranti garanzie di sopravvivenza
per il futuro.
Se il maiale dava la sostanza, le strade, durante il carnevale, fornivano i dolci. Cominciando coi primi del nuovo
anno, le danze e le mascherate portavano al culmine le feste
in tre giorni di frenetica allegria. Il paese di pietra grigia, gli
oscuri interni e gli androni bui, le viuzze intricate si trasformavano in una soprannaturale, fiabesca fantasia. Esperti artigiani costruivano dei mostri sorprendenti; i giovani pastori si fabbricavano delle maschere di legno. Tragici e
terrificanti, abbigliati con le pellicce degli animali e con
dei pesanti campanacci al collo, inscenavano danze di fantasmi di loro ispirazione. Tutti facevano il possibile per camuffare la propria vera identità, come per sgravarsi del peso
delle convenzioni sociali d’ogni giorno. Vestite in maniera
stravagante, virtuose signore assumevano atteggiamenti
scandalosamente osceni. Il tutto era accompagnato dalla
musica delle fisarmoniche, da suoni e gridi selvaggi. Gioia
e spavento si intrecciavano inestricabilmente in un’atmosfera satura dell’odore di ciambelle e frittelle friggenti, di
fragranti mandarini e di vino, vino a fiumi. La voglia per
quelle speciali ciambelle, per la mozzarella e per le frittelle
col miele, per i ravioli e gli altri dolci fritti, accumulata
per un anno intero, veniva rapidamente soddisfatta, fino
alla nausea.
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UCCELLI D’ESTATE E UCCELLI D’INVERNO
Primavera, estate e autunno durante la mia infanzia erano un’unica stagione: l’estate. L’inverno era la controparte
delle altre tre a causa delle sue lunghe, fredde e buie notti.
L’estate giungeva di sorpresa; improvvisa e desiderata,
ma inattesa. Il sole, come l’angelo dell’Annunciazione,
spuntava da dietro le rocce sulle colline, s’insinuava per
le strette valli, saltava dall’albero alla macchia alla roccia e
s’infilava di soppiatto fra le cataste di legna. Entrava dalla
porta nella nostra grande cucina mettendo in evidenza la
superficie irregolare dei muri interni e finalmente si fermava sugli avanzi ormai secchi di una testina di maiale
sotto sale. L’ingresso regale del sole era seguito da un nugolo di mosche, di cavallette color del vino, di lucertole,
di formiche e altri insetti striscianti e volanti. Se capitava
di domenica o nel giorno della festa di un santo, le campane della chiesa annunciavano l’evento chiamando a
raccolta tutte le anime per cantare il «… gloria, gloria,
alleluia…». Così cominciava per me la stagione della luce brillante, delle erbe profumate, delle mandorle acerbe,
delle cipolle selvatiche, delle more, del grano rubato; ma
più di tutto, la stagione degli uccelli e dei nidi.
La varietà dei nidi era pari a quella degli uccelli e dei
canti. C’erano dei nidi comodi da raggiungere e piccoli, fatti di fili setosi o di soffici piume; altri erano intrecciati con
materiali eterogenei. Alcuni erano nidi occasionali costruiti
con pochi rametti, sistemati in bella vista su un grande ramo o su una roccia, facili da scoprire e da raggiungere; altri
erano irraggiungibili, perché sistemati proprio all’estremità
di un ramo sottile o invisibili all’interno di un tronco.
C’erano uccelli su fra le nuvole e uccelli nella profondità della terra. I loro percorsi e le loro abitudini mi
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divennero familiari. Il mio desiderio di far parte del loro
mondo era tale che ero certo che avrei potuto farne schiudere le uova nel caldo delle mie mani, o nutrire i piccoli
con dei pezzetti di pane. Il luogo scelto da un uccello per
farvi il suo nido, albero o cespuglio, diventava per me un
posto incantato – ben distinto nella mia mente da uno
che ne era privo – un luogo di silenzio sigillato da un dolce mistero.
Diversamente dall’estate, l’inverno si annunciava in anticipo, a metà settembre, quando la campagna già da un
po’ era secca e gialla. Il cielo chiudeva gli occhi come un
bambino esausto. I grilli cantavano più debolmente, lontani, con una nostalgia che spezzava il cuore. Le rondini volavano basse, rasoterra, e riunivano le più giovani sui fili
del telefono. La gente che, dalla campagna, tornava dall’ultima festa religiosa della stagione sembrava più vecchia
e più stanca. In una nuvola di polvere il vento spingeva
negli angoli del cortile, insieme a piume e foglie secche, le
formiche e i pulcini. Pesanti gocce di pioggia inchiodavano la polvere sulla terra secca. Le piogge lavavano le tegole
dei tetti; le strade diventavano torrenti che trascinavano
sassi, legni, gattini, cani e topi. Incurante dei confini delle
proprietà, l’acqua, torbida come il Nilo, depositava le sue
prede negli orti ai piedi del villaggio. Noi bambini bevevamo da quei ruscelletti digradanti un’acqua che, correndo
fra i ciottoli ben lavati della strada, si era fatta chiara e trasparente. Il sole sarebbe tornato un’altra volta.
Dopo una corta estate di San Martino, e dopo la festa
del santo patrono, il cielo si chiudeva di nuovo. Cadeva
una pioggia senza fine, sottile e fredda, che scioglieva la
dura argilla del suolo in un deserto di fango, rendendo il
paese inaccessibile da fuori e assediato all’interno. I bastioni di spazzatura – letame ed escrementi umani – che
circondavano il paese venivano girati e rigirati da un piccolo branco di maiali spronati al moto perpetuo dal flauto del pastore. Stormi di passeri seguivano i maiali, banchettando sui tesori del letame in fermentazione.
75
Era tempo di piazzare le trappole per i passeri! Tempo
di piazzare le trappole, fatte con l’osso di una costola di vitello e crine di cavallo o fil di ferro arrugginito. Tempo di
prendere i merli lungo i fossi degli oliveti con un sasso
piatto tenuto in bilico, con dei sottili bastoncini, sopra un
altro sasso. Vestito miseramente, protetto a malapena dall’umidità e dal freddo, me ne stavo per ore, da solo o in
compagnia, a guardare da lontano l’oscuro posto dove stava la trappola, gli ultimi movimenti della vittima. Il secco
chiudersi di quello strumento di morte disperdeva gli uccelli superstiti in tutte le direzioni, come cherubini attorno
alla Croce di Cristo in un affresco di Giotto.
La morte era una parte naturale dell’inverno. D’inverno i banditi venivano catturati ed uccisi con maggior frequenza; i bambini piccoli e i vecchi prendevano la polmonite e morivano; i fiumi travolgevano intere greggi insieme
col pastore e il cane. La catasta promiscua di ossa ancestrali ammucchiate accanto al cimitero, nelle notti di tempesta si disperdeva disordinatamente per il villaggio, gettando nel terrore gli insonni abitanti. Rubare, gelare, soffrir la
fame, questa era per tutti la regola in quella buia stagione.
E venne il giorno in cui il sole di nuovo apparì dietro
le rocce, dardeggiando i suoi raggi per svelare la bellezza
della valle così a lungo nascosta e priva di sole. Germogliavano i primi delicati fiori di primavera, la luce era brillante. Stavo in piedi accanto al cespuglio dove si trovava la
trappola, fra le ultime chiazze di neve quasi sciolta. Un
piccolo pettirosso era caduto nella trappola di fil di ferro
arrugginito, dalla molla troppo debole: era vivo e illeso.
Liberandolo, lo tenni nell’incavo delle mani. Mi guardò
come un bambino risentito e emise un trillo prolungato in
direzione della mia faccia. Poi, saltando sul cespuglio più
vicino, si voltò verso di me, ripeté il suo rimprovero canoro e sparì in un arcobaleno di luce primaverile. Fu l’ultima
volta che piazzai una trappola per uccelli.
76
«MESU TENTEAU»
Con cinque note del suo flauto di bambù sul ritmo
della danza locale, Laddareddu svegliava la gente e gli animali di Orani. Tutti nel paese conoscevano Laddareddu.
Gli avevano dato questo soprannome perché le sue tasche
erano sempre piene di caccole di capra che lui usava come
vitamine per nutrire quei piccoli fiori selvatici che avevano
la sfortuna di essere nati su una terra così povera.4 Laddareddu era conosciuto per il fatto che parlava soltanto col
suo flauto ed era il pastore di tutte le capre del paese. Ma
soprattutto Laddareddu era conosciuto, rispettato e amato
per la musica del suo flauto che accompagnava ogni ora
della nostra giornata, dalla mattina al tardo pomeriggio,
«Tùrulu tùrulu tit, tùrulu ta!».
All’alba, impazienti di raggiungere il posto all’uscita
del paese dove si radunavano, le capre sfuggivano dalle dita che le stavano mungendo, saltavano prodigiosamente
oltre i muri dei cortili, sopra i tetti e attraverso i giardini
per essere le prime a salutare il loro amato pastore. Laddareddu dava il benvenuto a tutte col familiare «Tùrulu tùrulu tit, tùrulu ta!».
Il mondo risvegliato rispondeva alle note del flauto del
pastore col suono delle campane, dei martelli e delle canzoni. Circondato dalle capre, Laddareddu iniziava senza fretta
il suo viaggio quotidiano verso il bosco fra le rocce. I felici
animali, come scolaretti che durante una passeggiata gareggiano per attirare l’attenzione del maestro, mettevano in
mostra le loro virtù acrobatiche. Salivano sulle piante, camminavano a due zampe, catturavano farfalle con le corna
aguzze, i più timidi raccoglievano fiori.
4. Laddareddu è il diminutivo di laddara, che in sardo significa caccola
di capra.
79
canto: «Mezzo tentato sono! Mezzo tentato sono…!». Era
chiaro che intendeva buttarsi dalla roccia per ammazzarsi.
Compreso il tragico significato di quelle parole, tutti
si misero a correre verso Laddareddu, urlandogli di desistere da quel disperato proposito.
Laddareddu con slancio soffiò dal suo vecchio flauto
le ampie magiche note, nel solito ritmo, e riprese a cantare: «Mesu tenteau soe… de minde cherrere cojuvare!
de minde cherrere cojuvare!… Mezzo tentato sono… di
sposarmi!». Tùrulu tùrulu tit, tùrulu ta!
I pastori dei dintorni e i contadini che lavoravano nei
campi conoscevano bene la durata dell’intervallo che interrompeva il quotidiano concerto del loro musicista.
Capitò un giorno che questo intervallo durasse più a lungo del solito. Guardando verso il posto da cui erano arrivate le ultime note, gli uomini sparsi per la campagna videro il loro caro Laddareddu in cima a un’alta roccia che
spuntava a picco sopra il bosco. La sua sagoma si muoveva in modo bizzarro, come se stesse ballando. Dallo stesso posto arrivò un rumore come di un tuono lontano,
che aumentava di volume. Il tuono diventò una chiara
voce umana, una voce come può essere solo quella emessa da un cantante d’opera. Laddareddu stava cantando e
ballando sul ritmo della danza locale: «Mesu tenteau soe!
Mesu tenteau soe!…».
La incredibile novità di Laddareddu, il muto, che cantava con voce umana – una voce sovrumana – distrasse per
un momento i contadini dal significato delle parole del
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83
APPRENDISTA MURATORE
Il paese di Orani aveva più muratori del necessario,
cosa ben nota in tutta la provincia. Cinque tra i migliori
del mestiere, compreso mio padre, avevano formato una
cooperativa. Come tanti muratori di Orani, si spostavano a piedi per andare a prestare la loro opera dove serviva. A undici o dodici anni mi portarono con loro in una
di queste occasioni. Il cliente era il medico del paese di
Orotelli; il lavoro: costruire una villa.
La spedizione, composta di cinque capomastri e quattro manovali, partì la mattina presto per Orotelli, che distava quattro ore di cammino. Insieme agli attrezzi e a una
coperta, portammo con noi del pane secco, un pezzo di
formaggio molto salato e una fetta di lardo, destinati a durarci tre settimane. I capomastri si portavano le loro brandine militari pieghevoli. In silenzio, uno dietro l’altro, seguimmo una scorciatoia su e giù per valli e pianure, fra
rocce e cespugli spinosi. Attraversammo il fiume stando in
equilibrio su sassi uno più scivoloso dell’altro. Dopo ogni
temporale in autunno quel fiume, che per me giungeva da
ignote lontananze, era causa di tragedie, reali e leggendarie: interi greggi di pecore periti nel tentativo di attraversarlo, carri e buoi trascinati via dalla furia della corrente.
Orotelli era un paese bizzarro, costruito su di un caotico ammasso di rocce granitiche, alcune delle quali dotate di una forma spaventosamente umana. Lo spinoso fico
d’India vi cresceva rigoglioso, aumentando la confusione
di quel paesaggio apocalittico. All’ingresso del paese oltrepassammo il cimitero, cintato da un muro come una missione spagnola, con i fitti cipressi e le croci sistemati in
bell’ordine, come ad affermare che la morte, diversamente dalla vita, è ordine e pace. Per evitare il centro del paese
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e accorciare la distanza dalla meta, prendemmo una via
fuori mano. Un guidatore non avrebbe potuto immaginare nei suoi incubi una strada peggiore di quella. La roccia originale su cui era costruito il paese era stata lasciata
com’era e formava qui e là una fantastica parata di creature antidiluviane nel mezzo della carreggiata. Uomini e asini si muovevano con familiarità tra gli ostacoli ben noti.
Anche dentro le case, composte di un’unica stanza e ricavate da blocchi sbozzati in quello stesso granito sul quale
poggiavano, spesso ve ne erano dei pezzi intatti, come intrappolati, destinati a diventare, col tempo, membri della
famiglia insieme al maiale e alla capra. A coronare il punto più alto di questa roccia c’era una croce, quasi un tentativo per riconciliare la torturata densità della terra con
la serenità del cielo.
Per fortuna nella casa di un’unica stanza che occupammo non c’era nessuna roccia affiorante. Ma con le cinque
brandine dei capomastri e il pagliericcio in un angolo per i
manovali, non restava quasi spazio per cuocere la pasta nel
piccolo focolare d’angolo. Il lavoro era duro e le ore non
passavano mai. Mi inventavo delle storie per sopportare
meglio la noiosa ripetitività del mio compito: mescolare
sabbia e calce. Quando il tempo era brutto i capomastri
andavano all’osteria, si ubriacavano di vino a buon mercato discutendo fra loro, e proseguivano poi quelle dispute
mentre giacevano sulle loro cigolanti brandine militari, coprendo di insulti le rispettive famiglie. In giornate come
quelle, noi manovali si veniva mandati a raccogliere legna
per cuocere la pasta o a cercare asparagi selvatici da vendere per pochi soldi all’esportatore locale di prodotti sardi:
agnellini, formaggi e maialini da latte. Vagabondare tra
quelle rocce fantastiche in cerca di asparagi selvatici mi eccitava e mi divertiva. Ma il momento più felice fu il giorno che tornammo a Orani: indossare l’abito della domenica e una camicia pulita, incontrare gli amici.
Il dottor Cusinu pagò i capomastri per il lavoro svolto a quella data e ci offrì un bicchiere del suo vino con
un sorriso ipocrita. Il vino, la prospettiva dei giorni di
vacanza, la buffa strada con le sue sculture spettrali, il bel
tempo, tutto contribuiva al buon umore dei capomastri.
Nessuno, vedendoci, avrebbe riconosciuto in noi la cupa
processione di lavoratori di tre settimane prima, in marcia uno dietro l’altro come dei monaci. Traversando il
fiume abbiamo riso, ci abbiamo buttato dei sassi e pisciato come bambini. Al nostro arrivo ad Orani, diretti verso
casa, le donne che stavano spazzando fuori dall’uscio smisero per un attimo, guardandoci passare: ci vedevano come una banda di pezzenti, mentre noi ci sentivamo degli
eroi che avevano vinto delle battaglie.
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ELIAS
Uno dei quattro manovali che lavoravano alla costruzione della Villa Cusinu a Orotelli si chiamava Elias. L’avevano chiamato così perché era nato nel giorno di questo
santo, che veniva festeggiato d’estate in una primitiva chiesetta di campagna a qualche distanza dal paese.
I patrocinatori, come spesso si usava nel caso di cerimonie religiose di questo genere, erano alcune famiglie designate da un sorteggio a prendersi cura del mistico santo
paesano. Si occupavano della chiesa, ma soprattutto organizzavano, dividendosi le spese, le due tradizionali giornate
di festa nel mese di giugno. Il sabato pomeriggio una processione, povera ma piena di colore, di coppie a cavallo abbigliate con gli antichi costumi locali partiva per un lungo
cammino verso la primitiva chiesetta di campagna; guidata
dal prete e da quattro giovani che portavano il piccolo gesso policromo che raffigurava il santo.
Il banchetto annuale di sant’Elias era previsto in uno
dei due fine settimana nel mese in cui eravamo lontani
da casa, occupati a lavorare nella villa di Orotelli. Decidemmo di cogliere di sorpresa i festeggianti all’ora di pranzo, annunciandoci con un bellissimo coro cantato da noi
quattro. Pensavamo che la perfezione del nostro concerto
li avrebbe colpiti, che si sarebbero precipitati a salutarci –
«No, non smettete di mangiare», avremmo detto – e ci
avrebbero invitato a sedere alla loro tavola. Per esser sicuri del successo facemmo un po’ di prove. I miseri risultati
non ci fecero desistere dal nostro sconsiderato progetto:
una volta lì, in qualche modo, magari con l’intervento di
sant’Elias in persona, le cose sarebbero andate come speravamo.
89
Il luogo santo distava solo un’ora di cammino, ma
noi passammo tutto il pomeriggio a caccia di uccelli e di
bisce tra le fantastiche rocce di quella campagna, in attesa che si facesse buio, con la speranza che si notasse meno l’aspetto alquanto misero dei nostri abiti da lavoro.
Di quando in quando, uno o l’altro di noi provava la sua
parte nel coro: il santo provvederà, pensavamo per consolarci. Tramontò il sole, gli uccelli sparirono in alto nel
cielo che andava oscurandosi, dove scintillavano le stelle
dell’estate. Si fece visibile il fuoco accanto alla sagoma
nera della chiesa, l’aroma dell’agnello arrostito quasi copriva ogni altro odore.
Era giunto il momento di farci vedere: il tempo che
il miracolo si compisse. Ci facemmo più vicini, silenziosi
come fantasmi, coperti di stracci, da un lato spruzzati di
bianco dalla calce, dal cemento e dalla luce lunare, e dall’altro di rosso sangue per il riflesso del fuoco. I convitati
interruppero di colpo le loro allegre chiacchiere, non per
salutarci ma per mandarci maledizioni dai denti luccicanti. Fummo visti per quelli che eravamo realmente: i
soliti, immancabili pezzenti sempre presenti a ogni rito
religioso; i pezzenti che il santo protegge, che non sono i
benvenuti ma che non possono essere scacciati; i pezzenti
che servono a mettere alla prova la fede dei cristiani e che
per questo sono odiati mentre loro, a loro volta, odiano
l’ipocrisia dei benefattori.
Abbiamo mangiato gli offensivi avanzi del pranzo,
servitici con rancore e astio. Ma non ce ne siamo andati.
Fingevamo di essere venuti per la messa; dopotutto, Elias
era il nome di uno dei nostri, il che ne faceva in qualche
modo una specie di parente del santo e indirettamente
rendeva anche il resto della compagnia meglio accetto.
Nella mattinata era arrivata altra gente da Orani per la
messa e ci sentimmo perciò un po’ meno a disagio. Tutti
furono invitati a fermarsi per mangiare, un invito formale
che, era chiaro, tutti, salvo i maleducati, avrebbero dovuto
declinare. Noi però ci unimmo agli altri, gironzolando
per un po’ come cani indesiderati, guardando le danze,
ascoltando i cori, sdegnando tutto e tutti, paralizzati da
un senso d’impotenza e di vergogna.
Di ritorno al nostro rifugio di Orotelli, lungo la strada raccogliemmo la legna per il fuoco, un lavoro che i
nostri capi esigevano da noi ogni settimana. Non rispondendo alle loro domande sulla festa, ci risparmiammo
saggiamente un’ulteriore umiliazione nel difficile apprendistato per arrivare a padroneggiare la povertà con dignità e con tatto.
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ORANI
Orani aveva la forma a cuore
di una tavolozza d’artista.
Circondata dai mondezzai:
organici e naturali a quel tempo.
In autunno, noi ragazzi
inebriati dai fermenti di vini
e di letami
assaltavamo questi bastioni
seguiti dai cani, galline e maiali
e dal melodioso suono
del piffero del porcaro.
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VORREI ESSERE UNA PIANTA
Vorrei essere una pianta,
anche un’erba,
una vite,
meglio sarebbe un olivo,
magari un melograno.
Poter restare fermo
e immobile,
in un cortile del Campidano,
in un orto in Baronia,
in una vigna a Dorgali.
Sapere la storia di una casa,
conoscere gli umori delle stagioni.
Fare ridere scioccamente
anche i più saggi del mio villaggio.
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ANCH’IO
Anch’io come te non ero nato
per vedere il mare.
Come te non sono cresciuto alto,
per restare più vicino alla terra,
ai solchi caldi delle vigne
e degli orti.
Ho seguito il tuo comando,
prima con la fantasia
poi a cavallo del demone tecnologico,
sulla Queen Mary
sul Jumbo jet
il Twentieth Century.
Ho attraversato ponti trasparenti,
periferie industriali potenti
ho dormito nei grattacieli
di vetro,
disegnati da Mies van der Rohe,
ondulanti al vento gelido
sul lago del Michigan.
Sono tornato a Orani,
annunziato dalle tue comari
«ricco e potente è»
hanno detto,
«meschino», hai risposto,
«costretto a vivere in terre straniere».
97
INDICE
5
Nota introduttiva
9
I primi dieci minuti della mia vita
15
Primo ricordo
19
Il pane
25
I vicini
37
Mio fratello Peppe
47
L’orto di don Pietropaolo Meloni
53
Gonaria
57
La bella del paese
63
Giorni di festa
71
Uccelli d’estate e uccelli d’inverno
79
«Mesu tenteau»
85
Apprendista muratore
89
Elias
93
Orani
95
Vorrei essere una pianta
97
Anch’io
BIBLIOTHECA SARDA
Cultura e Scrittura di un’Isola
La collana più esauriente per una approfondita
conoscenza della cultura sarda
Nata nel 1996, la collana della Ilisso costituisce la più completa raccolta di testi del patrimonio culturale sardo: opere
che spaziano dagli scritti socioeconomici e giuridici, alla
narrativa, agiografia, poesia, teatro, musica, tradizioni popolari, storiografia, archeologia, storia dell’arte, cronache di
viaggio e linguistica sarda (cronologicamente ripartite tra il
XII secolo e il ’900), con accurate prefazioni e ricchi apparati critici.
Una collana di grande qualità, che ripropone con impegno
la cultura e la scrittura di un’Isola.
Volumi pubblicati
Aleo J., Storia cronologica del regno di Sardegna dal 1637 al 1672 (35)
Atzeni S., Passavamo sulla terra leggeri (51)
Atzeni S., Il quinto passo è l’addio (70)
Ballero A., Don Zua (20)
Bechi G., Caccia grossa (22)
Bottiglioni G., Leggende e tradizioni di Sardegna (86)
Bresciani A., Dei costumi dell’isola di Sardegna (71)
Cagnetta F., Banditi a Orgosolo (84)
Calvia P., Quiteria (66)
Cambosu S., L’anno del campo selvatico – Il quaderno
di Don Demetrio Gunales (41)
Casu P., Notte sarda (90)
Cetti F., Storia naturale di Sardegna (52)
Cossu G., Descrizione geografica della Sardegna (57)
Costa E., Giovanni Tolu (21)
Costa E., Il muto di Gallura (34)
Costa E., La Bella di Cabras (61)
Deledda G., Novelle, vol. I (7)
Deledda G., Novelle, vol. II (8)
Deledda G., Novelle, vol. III (9)
Deledda G., Novelle, vol. IV (10)
Deledda G., Novelle, vol. V (11)
Deledda G., Novelle, vol. VI (12)
Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. I (14)
Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. II (15)
Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. III (16)
De Rosa F., Tradizioni popolari di Gallura (89)
Dessì G., Il disertore (19)
Dessì G., Paese d’ombre (28)
Dessì G., Michele Boschino (78)
Dessì G., San Silvano (87)
Edwardes C., La Sardegna e i sardi (49)
Fara G., Sulla musica popolare in Sardegna (17)
Fuos J., Notizie dalla Sardegna (54)
Gallini C., Il consumo del sacro (91)
Goddard King G., Pittura sarda del Quattro-Cinquecento (50)
Il Condaghe di San Nicola di Trullas (62)
Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado (88)
Lawrence D. H., Mare e Sardegna (60)
Lei-Spano G. M., La questione sarda (55)
Levi C., Tutto il miele è finito (85)
Lilliu G., La costante resistenziale sarda (79)
Lussu E., Un anno sull’altipiano (39)
Madau M., Le armonie de’ sardi (23)
Manca Dell’Arca A., Agricoltura di Sardegna (59)
Manno G., Storia di Sardegna, vol. I (4)
Manno G., Storia di Sardegna, vol. II (5)
Manno G., Storia di Sardegna, vol. III (6)
Manno G., Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799 (27)
Manno G., De’ vizi de’ letterati (81)
Mannuzzu S., Un Dodge a fari spenti (80)
Martini P., Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816 (48)
Montanaru, Boghes de Barbagia – Cantigos d’Ennargentu (24)
Montanaru, Sos cantos de sa solitudine – Sa lantia (25)
Montanaru, Sas ultimas canzones – Cantigos de amargura (26)
Muntaner R., Pietro IV d’Aragona, La conquista della Sardegna
nelle cronache catalane (38)
Mura A., Su birde. Sas erbas, Poesie bilingui (36)
Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano,
vol. I (42)
Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano,
vol. II (43)
Pallottino M., La Sardegna nuragica (53)
Pesce G., Sardegna punica (56)
Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu A-C (74)
Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu D-O (75)
Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu P-Z (76)
Rombi P., Perdu (58)
Ruju S., Sassari véccia e nóba (72)
Satta S., De profundis (92)
Satta S., Il giorno del giudizio (37)
Satta S., La veranda (73)
Satta S., Canti (1)
Sella Q., Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna (40)
Smyth W. H., Relazione sull’isola di Sardegna (33)
Solinas F., Squarciò (63)
Solmi A., Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo (64)
Spano G., Proverbi sardi (18)
Spano G., Vocabolariu sardu-italianu A-E (29)
Spano G., Vocabolariu sardu-italianu F-Z (30)
Spano G., Vocabolario italiano-sardo A-H (31)
Spano G., Vocabolario italiano-sardo I-Z (32)
Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. I (44)
Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. II (45)
Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. III (46)
Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. IV (47)
Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna A-C (67)
Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna D-M (68)
Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna N-Z (69)
Tyndale J. W., L’isola di Sardegna, vol. I (82)
Tyndale J. W., L’isola di Sardegna, vol. II (83)
Valery, Viaggio in Sardegna (3)
Vuillier G., Le isole dimenticate. La Sardegna, impressioni di viaggio (77)
Wagner M. L., La vita rustica (2)
Wagner M. L., La lingua sarda (13)
Wagner M. L., Immagini di viaggio dalla Sardegna (65)