La fiorente industria dell`agricoltura biologica

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La fiorente industria dell`agricoltura biologica
FEBBRAIO 2011
PRODUZIONE INTENSIVA, SFRUTTAMENTO DI MANODOPERA, ASSENZA DI TRACCIABILITÀ
La fiorente industria dell’agricoltura biologica
Polli allevati in batteria, pomodori in tutte le stagioni, frutteti in cui si sfruttano operaie immigrate… Sì, ma
«bio»! Ecco come un movimento voluto da militanti impegnati nella difesa dei piccoli produttori e contro le
logiche produttivistiche rischia di arenarsi sugli scaffali dei supermercati.
DI PHILIPPE BAQUÉ*
«Ecologisti e sessantottini hanno lasciato il posto ai professionisti!» diceva, nel giugno 2009, un tecnico della
cooperativa Terres du sud che organizzava, nel Lot-et-Garonne, una giornata alla «scoperta» degli allevamenti intensivi
di… polli biologici. Le performance degli impianti chiave in mano distribuiti dalla cooperativa, i crediti e gli aiuti pubblici
proposti puntavano a convertire gli agricoltori invitati. In effetti, le potenti cooperative agricole, legate ai grandi marchi
dell’industria agroalimentare, si fanno ormai una concorrenza spietata nell’allevamento di questi polli al di sopra di ogni
sospetto destinati a rifornire la grande distribuzione e la ristorazione collettiva (1). Sfruttano la nuova normativa europea
che permette a un allevatore di produrre fino a settantacinquemila polli da carne biologica l’anno e non pone limiti alle
dimensioni degli allevamenti di galline da uova biologiche. Le cooperative hanno capito di poter guadagnare molto
proprio con quel tipo di agricoltura che tanto a lungo avevano denigrato. Applicandovi i loro metodi. «I produttori hanno
contratti ferrei e perdono ogni autonomia – afferma Daniel Florentin, membro della Confederazione contadina, ex
allevatore di pollame biologico che ha lavorato con la cooperativa delle Lande Maïsadour. Si ritrovano pesantemente
indebitati per almeno vent’anni e devono consegnare tutta la produzione alla cooperativa che s’impegna a comprarla,
senza determinarne in anticipo il prezzo. È un puro sistema d’integrazione, usuale negli allevamenti intensivi
convenzionali.» Dal 1999, a causa di problemi sanitari e ambientali, il consumo di prodotti alimentari biologici cresce in
Francia del 10% l’anno. Nel 2009, nonostante la crisi, il giro d’affari dei prodotti biologici è aumentato del 19% (2).
Questo mercato, a lungo marginale, è diventato portante ed è stato preso d’assalto dalla grande distribuzione, che
realizza ormai più del 45% delle vendite. Tuttavia, nel 2009, nonostante l’aumento delle adesioni, l’agricoltura biologica
rappresentava solo il 2,46% della superficie agricola utilizzata. Per soddisfare la domanda dei consumatori, gli attori che
dominano il mercato hanno quindi scelto due soluzioni: un massiccio ricorso alle importazioni e lo sviluppo di
un’agricoltura biologica industriale e intensiva. Il concetto di agricoltura biologica è nato e si è sviluppato in Europa come
reazione all’agricoltura chimica e produttivistica in auge dopo la seconda guerra mondiale. All’inizio degli anni ’60, una
rete di piccoli produttori di biologico e di consumatori crea Nature et Progrès. L’associazione piace a buona parte delle
popolazioni urbane le quali decidono, per scelta, di ritornare alla terra e tessono legami con vari movimenti ecologisti e
politici, come il movimento antinucleare e il sindacato Contadini-lavoratori negli anni ’70, poi, a partire dagli anni ’90, con
la Confederazione contadina e gli anti-Ogm (organismi geneticamente modificati). Di conseguenza, Nature et Progrès ha
man mano inserito nel proprio disciplinare un certo numero di principi: rifiuto dei prodotti di sintesi, trattamenti naturali,
diversificazione e rotazione delle colture, autonomia delle aziende, energie rinnovabili, difesa dei piccoli produttori,
biodiversità, semi contadini, sovranità alimentare... Per ridare senso al consumo e ricreare legami sociali, la vendita dei
prodotti biologici è garantita da mercati locali, fiere e gruppi d’acquisto che daranno vita alla rete delle Biocoop (3). Lo
statuto di Nature et Progrès ha ispirato quello della Federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica
(Ifoam), adottato nel 1972, che ai criteri agronomici associa obiettivi ecologici, sociali e umanitari. Un mercato in cui
regnano gli intermediari Il movimento contadino e sociale legato a questo tipo di coltivazione stenta però a trovare una
propria coerenza. Negli anni ’80, il disciplinare ufficialmente riconosciuto di Nature et Progrès coabita con altri, all’inci rca
una quindicina, creati da diversi movimenti. Nel 1991, col pretesto di un’eccessiva confusione, Bruxelles ne impone uno
per tutta l’Unione europea, la cui applicazione da parte dello stato francese produrrà il marchio nazionale Ab (Agricoltura
biologica). Gli organismi certificatori, privati e commerciali, esautorano il controllo partecipativo realizzato fino a quel
momento da commissioni di produttori, consumatori e trasformatori. È un momento di grave crisi per Nature et Progrès.
Alcuni membri decidono di boicottare il marchio. Altri, tentati da un mercato biologico certificato in piena espansione,
lasciano l’associazione. «La certificazione ha favorito le filiere a scapito delle reti solidali – spiega Jordy Van Den Akker,
ex presidente dell’associazione. L’ecologia e il sociale, che sono per noi importanti valori del biologico, non sono più
associati all’aspetto economico. Il marchio e la normativa europea hanno permesso lo sviluppo di un mercato
internazionale facilitando la libera circolazione dei prodotti, il commercio e la concorrenza. Non ci riconosciamo in tutto
questo.» Entrata vigore il 1° gennaio 2009, una nuova normativa europea permette, tra l’altro, lo 0,9% di Ogm nei
prodotti biologici e deroghe per i trattamenti chimici (4). «Il biologico è totalmente incompatibile con gli Ogm – reagisce
Guy Kastler, allevatore nell’Hérault e militante di Nature et Progrès. Noi continuiamo a pretendere lo 0% di Ogm! La
nuova normativa definisce degli standard e non si preoccupa più delle pratiche agricole. Si è passati da un obbligo di
mezzi – qual è il metodo di coltura utilizzato? – a un obbligo di risultati – che residuo è rintracciabile nel prodotto finito?
Così si apre la porta alla generalizzazione di un’agricoltura bio industriale.» In questo processo, le cooperative agricole
sono all’avanguardia. Grazie, in particolare, all’alimentazione per pollame la cui produzione, unita alla vendita agli
agricoltori, garantisce notevoli margini di utile. La vecchia normativa francese imponeva a un allevatore biologico di
produrre il 40% dell’alimentazione animale sulle proprie terre. Un legame col suolo che non è riproposto nella nuova
regolamentazione europea. L’allevatore compra dalle cooperative la totalità degli alimenti, nei quali la soia è uno dei
componenti fondamentali. Nel 2008, in Francia, la produzione di pollame biologico è aumentata del 17%, mentre quella
della soia biologica è diminuita del 28%. La soia importata, molto meno cara, si è imposta. Nel novembre 2008, sono
state ritirate dal mercato trecento tonnellate di panelli di soia biologica provenienti dalla Cina, e importati tramite una
filiale della cooperativa Terrena, in quanto risultava presente un elevato tasso di melammina, un prodotto molto tossico.
Da allora l’azienda ha rinunciato al commercio con il gigante asiatico ma, per alimentare il pollame biologico del Grande
ovest, si approvvigiona su un mercato internazionale in cui regnano intermediari che non brillano per trasparenza. La
soia biologica comprata in Italia – che può arrivare da Romania o Polonia – è in concorrenza con quella del Brasile.
Quest’ultima è coltivata da piccoli produttori dello stato del Paraná, dipendenti da grandi società esportatrici, e
soprattutto del Mato Grosso dove le fazendas biologiche – i cui proprietari rifiutano le visite della stampa – possono
estendersi per cinquemila ettari (5). Quest’ultimo stato è il più implicato nella distruzione della foresta amazzonica.
Secondo Wwf-Francia, due milioni e quattrocentomila ettari di foresta spariscono ogni anno in Sudamerica, direttamente
o indirettamente a causa della soia (6). Eppure, alla soia biologica brasiliana, comunque scontata, non è richiesta alcuna
certificazione che ne garantisca una produzione estranea a questo disastro. Anche se l’agricoltura biologica rappresenta
una parte minima delle attività delle grandi cooperative, comunque esse intendono imporre la loro supremazia. Terrena
ha comprato l’impresa Bodin, leader del pollo bio francese; la cooperativa Le Gouessant ha ormai acquisito l’Unione
francese per l’agricoltura biologica; Euralis possiede quote importanti di Agribio Union... Molte associazioni
interprofessionali regionali di promozione del biologico e la quasi totalità delle camere dell’agricoltura – sempre più
coinvolte nella gestione di questo tipo di coltivazione – subiscono l’influenza delle cooperative. L’Istituto nazionale delle
appellativi di origine (Inao) quello incaricato di controllare l’applicazione della normativa europea in Francia, è diretto da
Michel Prugue, presidente di Maïsadour che commercializza diverse varietà di semi Ogm. Queste cooperative, che non
rinnegano minimamente l’uso dei prodotti chimici nella cosiddetta agricoltura «convenzionale», rafforzano il loro legame
con le multinazionali coinvolte nella ricerca e commercializzazione degli Ogm. Il quaranta per cento delle quote di
Maïsadour-semences, una filiale di Maïsadour, appartiene alla società svizzera Syngenta, erede delle attività
agrochimiche di Novartis. Maïsadour-semences possiede fabbriche di produzione in varie parti del mondo (7). La
crescente influenza delle cooperative con interessi finanziari nel settore degli Ogm non è probabilmente estranea alla
decisione della Commissione europea di fissare allo 0,9% il tasso di Ogm tollerato nei prodotti biologici, cosa a cui il
Parlamento europeo si era opposto. La Francia importa più del 60% della frutta e degli ortaggi biologici che consuma.
ProNatura è il leader francese della loro commercializzazione in negozi specializzati e nei supermercati. In meno di dieci
anni, quest’impresa del sud-est della Francia ha decuplicato il suo giro d’affari e assorbito altre quattro società. Un
quarto dei suoi prodotti proviene dalla Francia, ma il resto è importato da Spagna (18%), Marocco (13%), Italia (10%) e
da una quarantina di altri paesi. ProNatura è stata la prima società a commercializzare frutta e ortaggi biologici fuori
stagione. Ciò non impedisce al suo fondatore, Henri de Pazzis, di predicare il rispetto della terra, dell’ambiente, del
contadino e del consumatore. Ma la legge dettata dalle società della grande distribuzione è ben lontana da questi
principi. «Adottano per il biologico gli stessi devastanti meccanismi di acquisto utilizzati per il convenzionale, spiega de
Pazzis. Incoraggiano la concorrenza in modo aggressivo. Alcuni dei nostri prodotti sono fuori mercato perché altri
fornitori propongono prezzi molto inferiori ai nostri.» Nella guerra dei prezzi, a cui ProNatura e le altre società di importexport hanno scelto di partecipare, il sociale e il rispetto dell’ambiente hanno ben poco spazio. Gli stessi metodi,
«certificati» Da dodici anni, ProNatura importa fragole biologiche spagnole prodotte dalla società Bionest. I proprietari,
Juan e Antonio Soltero, possiedono nella regione di Huelva cinquecento ettari di serre, che, a prima vista, non si
differenziano in niente dalle migliaia di serre convenzionali che coprono la pianura, sinistrata da una monocoltura di
fragole particolarmente inquinante e sfruttatrice di mano d’opera. Come altre aziende, Bionest si trova all’interno del
parco naturale di Doñana, iscritto nel patrimonio mondiale dell’Unesco (8). Secondo Wwf-Spagna, le serre si
moltiplicano in modo più o meno illegale nel parco e incidono pesantemente sull’ambiente, minacciando in particolare le
riserve d’acqua (9). Bionest non rispetta la biodiversità (le poche varietà di fragole utilizzate sono le stesse delle serre
convenzionali), pratica la monocoltura, immette fertilizzanti nelle piante con un sistema d’irrigazione a goccia... I suoi
metodi di coltura non sono radicalmente diversi da quelli delle serre convenzionali di Huelva. Solo gli input certificati
garantiscono il marchio biologico. Per la raccolta, Bionest ingaggia centinaia di romene, polacche e filippine...
particolarmente precarizzate. L’argomento è molto delicato e i proprietari di Bionest rifiutano di ricevere i giornalisti per
dare spiegazioni. Le donne, reclutate direttamente nel loro paese dalle organizzazioni padronali spagnole, arrivano ogni
anno in Spagna con visti e «contratti di origine» a tempo determinato. Non conoscendo i propri diritti, sono totalmente
succube dei datori di lavoro che le sfruttano a volontà (10). Francis Prieto, membro del Sindacato degli operai delle
campagne (Soc), organizza una visita a sorpresa negli alloggi delle lavoratrici di Bionest. Totalmente isolate in mezzo
alle serre, le donne sono sottoposte a un regolamento assai rigido: divieto di visite, uscite controllate, passaporti
confiscati... «Sono terrorizzate dai padroni, spiega Francis Prieto, e subiscono lo stesso sfruttamento delle altre
stagionali di Huelva, con condizioni di lavoro particolarmente difficili.» Bionest non è un caso isolato in Andalusia. Nei
dintorni di Almería, AgriEco, con centosessanta ettari di serre, produce, confeziona e commercializza da settembre a
fine giugno più di undicimila tonnellate di pomodori, peperoni e cetrioli «biologici». Nelle serre dotate di tecnologie
all’avanguardia, gli input sono certificati biologici e le stagionali sono romene e marocchine. Miguel Cazorla, il direttore,
prevede orgogliosamente una nuova espansione della società. Esportati da miriadi di camion in tutti i supermercati e i
negozi specializzati in bio d’Europa, gli ortaggi di AgriEco sono, fin dall’inizio dell’inverno, in concorrenza diretta con i
prodotti delle serre «biologiche» d’Italia, Marocco e Israele... Sulle coste del Mediterraneo, la guerra commerciale
diventa feroce, per maggior profitto degli intermediari. Lontana da questa deriva del biologico industriale, la piccola
cooperativa agricola La Verde, nella sierra andalusa di Cadice, è stata creata negli anni ‘80 da giornalieri membri del
Soc che alla fine del franchismo hanno lottato strenuamente per ottenere un po’ di terra. Su quattordici ettari, sei famiglie
coltivano ortaggi, alberi da frutto e allevano poche vacche e pecore. Commercializzano tutta la produzione in Andalusia
tramite un’altra cooperativa, Pueblos Blancos, che riunisce ventidue piccoli agricoltori o cooperative biologiche. «Siamo
stati tra i primi a lanciarci nell’agricoltura biologica, spiega Manolo Zapata. Era in linea con l’agricoltura dei nostri nonni e
bisnonni e andava nel senso della nostra lotta. Se l’agricoltura biologica non serve a ristabilire equità, giustizia,
autonomia, autosufficienza e sovranità alimentare, non ha alcun senso. I certificatori non ci aiutano. Un agricoltore che
diversifica le sue colture e coltiva più varietà viene tassato più pesantemente di quello che fa monocoltura intensiva.»
Per aver denunciato pubblicamente il sostegno del principale organismo certificatore spagnolo, il Comitato andaluso di
agricoltura ecologica (Caae), alle grandi imprese del «bio-business», La Verde ha dovuto subire una valanga d’ispezioni.
Dato che i suoi membri hanno fondato la più importante banca di semi contadini spagnola, che oltre a garantire le loro
colture rifornisce tutti i piccoli produttori biologici della regione, temono che la repressione si abbatta su di loro. «Esistono
leggi e norme che reprimono il diritto ancestrale di riprodurre i semi e che ci impediscono di certificare le antiche varietà
che abbiamo salvaguardato.» La normativa europea per l’agricoltura biologica impone di utilizzare semi biologici
certificati. Se non esistono, si deve far ricorso ai semi convenzionali del mercato. «Per il momento, tutto si svolge al
limite della legalità, ma se un domani la vendita dei nostri prodotti sarà proibita, ci obbligheranno a coltivare con semi bio
venduti da Monsanto (11).» Prendendo esempio da alcuni contadini di Nature et Progrès, i membri di La Verde
ipotizzano di ritirarsi dalla certificazione biologica. Attualmente, esempi come quello di La Verde si moltiplicano, in
Colombia, Bolivia, Brasile, India, Italia, Francia... La resistenza al bio-business si organizza su tutto il pianeta. Un
numero sempre maggiore di contadini, comunità rurali e piccole cooperative di produttori difendono un’agricoltura
contadina e un tipo di coltura agro-ecologica, che privilegiano aziende a dimensione umana, rispettose della biodiversità
e della sovranità alimentare. Molti rifiutano le certificazioni e praticano i sistemi partecipativi di garanzia fondati su una
relazione di scambio e di fiducia tra produttori e consumatori. Si estendono le reti di difesa dei semi contadini, per
imporre il diritto dei contadini a produrre e commercializzare i loro semi. In Francia, le Associazioni per il mantenimento
di un’agricoltura contadina (Amap), che mette in relazione diretta produttori e consumatori senza passare per il mercato,
hanno un tale successo da non riuscire a soddisfare la domanda. L’associazione Terre de Liens raccoglie con successo
fondi solidali per aiutare l’insediamento di giovani agricoltori attratti dal biologico. Per smarcarsi dalla normativa europea,
la Federazione nazionale dell’Agricoltura biologica (Fnab) ha creato un nuovo marchio: Bio-Cohérence. Sarà un
complemento della certificazione ufficiale e richiederà il rispetto di un capitolato molto più rigoroso e l’adesione a princi pi
ispirati a quelli adottati dall’Ifoam nel 1972. Fuori dalla normativa, Nature et Progrès difende il suo capitolato garante di
un’agricoltura biologica contadina. Il fatto che i valori sociali ed ecologici entrino o non entrino a far parte degli obiettivi di
produttori, trasformatori e consumatori del biologico determinerà il suo avvenire. Diventerà un semplice settore del
mercato, sottoposto ai soli interessi del liberismo economico? O sarà ancora portatore di un’alternativa al liberismo?
note:
* Giornalista, coordinatore del progetto di libro De la bio alternative aux dérives du «bio»-business, quel sens donner à la bio?, in stampa a fine 2011 (cfr.
www.alterravia.com).
(1) Per raggiungere uno degli obiettivi fissati dal Grenelle dell‘ambiente, lo stato francese prevede d’introdurre, entro il 2012, il 20% di derrate provenienti dall’agricoltura
biologica nei menù della ristorazione delle amministrazioni e degli istituzioni pubbliche.
(2) La maggior parte delle cifre citate proviene dal dossier stampa dell’Agence Bio «Les chiffres de la bio sont au vert», 2010, www.agence-bio.fr, e dal suo libro
Agriculture biologique, chiffres clés, Edizione 2009, La Documentation française, Parigi.
(3) Pascal Pavie e Moutsie, Manger Bio. Pourquoi? Comment? Le guide du consommateur éco-responsable, Edisud, Aix-en-Provence, 2008.
(4) «Bio/Ogm: le vote des députés européens à la loupe», 21 maggio 2009, www.terra-economica.info
(5) Cfr. gli articoli di Cécile Leclère e Ben Hoppenstedt, «Mission en Amérique latine», Biocontact, Gaillac, (da giugno a settembre 2008).
(6) Boris Patentreger e Aurélie Billon, Wwf-France, «Impact de l’agriculture et de l’alimentation industrielles sur la forêt dans le monde – rôle de la France», Wwf Francia,
Parigi, aprile 2008.
(7) Nello Stato brasiliano del Paraná, nell’ottobre 2007, una milizia armata agli ordini di Syngenta ha assassinato un militante del Movimento dei senza terra (Mst) che
occupava, con un centinaio di altri agricoltori, campi di ricerca Ogm della società svizzera.
(8) Cfr. «Importer des femmes pour exporter du bio?», Silence, n° 384, Lione, novembre 2010.
(9) Comunicato del Wwf: «Fraises espagnoles: exigeons la traçabilité », 23 marzo 2007, www.wwf.fr.
(10) Emmanuelle Hellio, «Importer des femmes pour exporter des fraises (Huelva)», Etudes rurales, n° 182, Parigi, luglio-dicembre 2008.
(11) «A qui profite la récolte? La politique de certification des semences biologiques», rapporto dell’organizzazione Grain, Barcellona, gennaio 2008; www.grain.org.
(Traduzione di G.P.)