L`orso e l`archeologia

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L`orso e l`archeologia
L’orso e l’archeologia.
Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
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L’orso e l’archeologia.
Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
Francesco Rubat Borel
“Des découvertes, relativement nombreuses, de
squelettes fossiles d’ours des cavernes en Europe
centrale et occidentale aux sépultures historiques
d’ours brun dûment documentées des contrées
nordiques1, on pouvait imaginer une relative
continuité des témoignages de la présence et de
l’utilisation de ce plantigrade dans les sites néolithiques ou protohistoriques d’Europe tempérée.
La confrontation avec les données archéologiques
et la discrétion de la représentation de l’ours brun
parmi les vestiges qui nous sont parvenus des
communautés humaines de ces périodes, laissent
au contraire l’impression d’une éclipse dans l’histoire des relations entre l’homme et l’ours”.
Rose-Marie Arbogast e Patrice Méniel (2002)
Q
uando ho assunto l’impegno di presentare le testimonianze archeologiche dell’orso credevo di trovarmi di
fronte a un lavoro sì complesso, ma
tutto sommato facile2. Di certo, pensavo, l’animale più grosso dell’antica Europa, il maggiore
carnivoro del nostro continente, ha lasciato un gran numero di reperti, di raffigurazioni: crani, scheletri, artigli,
statue, dipinti ... e poi miti, leggende, menzioni nella letteratura ... E invece fin da subito ho dovuto accorgermi
che non è affatto così. L’immagine popolare dell’uomo
preistorico che affronta gli orsi nelle caverne è un cliché
moderno destituito di fondamento, le pelli d’orso che ornano le spalle e le capanne di antichi capi barbari lasciano al più pochi ossi delle zampe, gli orsi che affrontano
i gladiatori non sono che delle povere bestie buttate nel
mondo dello spettacolo. Peggio ancora il mondo greco,
così ricco di immagini, statue, dipinti: poco, pochissimo,
quasi niente sull’orso, nemmeno nella sua complessa mitologia. E se pure sappiamo che l’orso era mangiato, po-
chi ossi macellati si trovano negli abitati perché i cacciatori
preferivano portarsi a casa le carni del grosso animale già
disossate. E tuttavia l’orso rimane nel nostro immaginario
come un animale particolare, forse perché è l’unico mammifero europeo che può ergersi eretto ed assomigliare un
poco all’uomo, sì da farlo essere così spesso presente nel
folklore del nostro continente; aggiungo che anche fisicamente può apparire non molto diverso dall’uomo, con le
zampe anteriori che possono sembrare braccia e l’assenza di elementi troppo distanti dall’uomo (non ha corna,
lunghe code, manti colorati ...) sì da renderlo l’animale
più facile da imitare nei mascheramenti (Bestie, santi, divinità 2003; interessante per le espressioni e i modi di dire
sull’orso nel dialetto di Boves, Delpiano - Giuliano 2002,
pp. 190-192).
Passeremo quindi qui in rassegna le testimonianze che
abbiamo trovato, non molte, e che confermano quanto
scritto in un recente libro da Michel Pastoureau, dedicato
all’orso, definito un re decaduto perché negletto e dimenticato nell’arte europea (Pastoureau 2008).
Pastoureau è uno storico dell’iconografia medievale: la
sua disamina delle fonti storiche e letterarie è ricca di
esempi che mostrano come l’orso, ancora ben presente
tra le belve affrontate nelle leggende dei cavalieri e nell’araldica fino al XII secolo, viene quindi sostituito dal leone
e relegato al ruolo di animale grossolano, pericoloso, stupido, perfino soggetto a scherzi fino ad essere un gioco,
un pupazzo per bambini in età moderna. Il suo esame
delle fonti archeologiche, nelle prime pagine, però sembra quasi tradire una delusione malcelata per la povertà
del protagonista del suo libro ... Lo stesso possiamo dire
di Juha Pentikäinen che ha recentemente pubblicato un
libro sull’orso nella cultura dei paesi finnici dalla Scandinavia alla Siberia (Pentikäinen 2007): a fronte della ricchezza
di dati antropologici, bisogna riconoscere la rarità di dati
archeologici e anche che la maggior parte degli oggetti legati a tradizioni sull’orso sarebbero invisibili in un contesto
archeologico, perché realizzati in materiali deperibili (maschere, tamburi, ornamenti in legno e cuoio e pelliccia)3.
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Francesco Rubat Borel
Fig. 1. Le lingue indoeuropee nel I millennio a.C. e i nomi dell’orso (dis. F. Rubat Borel).
Questa nostra esposizione avrà un ordine cronologico e
sarà geograficamente circoscritta all’Europa e al bacino
del Mediterraneo dalla preistoria al medioevo. In coda, saranno riportate come appendice le testimonianze sull’orso
dei più importanti testi di zoologia dell’antichità.
Una breve introduzione
linguistica: il nome dell’orso
Il nome dell’orso ha avuto un destino particolare (IEW, p.
875; Buck 1949, p. 186; Pastoureau 2008, pp. 49-61).
Da un lato c’è una grande fascia di lingue che va dall’India al Mediterraneo e all’estremo occidente con nomi da
un’antica parola che ricostruita dai suoi esiti doveva essere
*rktho-s: nelle lingue indiane rksa-, nelle lingue iraniche
abbiamo l’osseto (unisco discendente delle lingua degli
Sciti) ars e l’avestico (la lingua dei testi sacri dei Persiani)
arša; in armeno arj è stato influenzato da arjn ‘bruno scuro’; in hittita hartagga; in albanese arí; in greco árktos (e
la forma più recente árkos); in latino ursus; nelle lingue
celtiche il gallico ha artos, il medio irlandese art, il gallese
arth. Invece nell’Europa settentrionale e orientale l’orso
ha denominazioni che derivano da soprannomi, come dal
colore bruno del suo pelo nelle lingue germaniche (anglosassone bera e inglese bear, antico altotedesco bera
e tedesco bär, norreno bjorn ...), dal pelo ispido e irsuto
nelle lingue baltiche (lituano lokys, lettone lācis), e infine nelle lingue slave un nome che significa “il mangiatore di miele” (slavo ecclesiastico medvedi, serbocroato
medvjed, russo medved, polacco niedzwiedz). Anche in
irlandese, oltre l’antica forma art, c’è mathgamain, che
probabilmente significa “il buon bue”, come se si volesse esorcizzare o blandire la grossa fiera (fig. 1). Se guardiamo ora all’estremo nord-est dell’Europa, alle lingue
finniche, negli oltre centosessanta soprannomi dell’orso
in finlandese c’è di tutto (Pentikäinen 2007, pp. 94-96;
Lot-Falck 1961, pp. 109-112 per le lingue dei popoli della
Siberia): riferimenti ad altri animali (“bue della foresta”,
“gatto della foresta”, “mio lupo”, addirittura “uccellino”
e “piede di serpente”), alle sue attività venatorie (“terrore dei vitelli”, “mangia-vitelli”, “ghiotto di miele”), a
sue caratteristiche fisiche (“ciccione“,“sdentato”, “torace
nero” e, come sempre quando si ha a che fare con soprannomi, non mancano gli aspetti sessuali, come “pene
nero”, “grosso pene” o “osso del pene”, per la presenza
dell’osso penico), altri nomi più affettuosi (“buonuomo”,
“nonnino”, “ospite”, “vecchio della foresta”), altri invece
terrorizzanti (“occhio maligno”) o rispettosi e ossequiosi
(“signore d’oro”, “re d’oro”, “grande foresta”). Non ci si
deve stupire allora se nell’Europa settentrionale le lingue
indoeuropee hanno adottato nuovi nomi che significano
“bruno”, “peloso”, “mangia-miele” ...
Il Paleolitico e il Mesolitico
(fino al 6.000 a.C.)
La presenza di grandi orsi nelle caverne della preistoria,
durante l’ultima glaciazione, è una delle immagini più
radicate nella nostra cultura, spesso in ricostruzioni di
combattimenti e lotte con uomini primitivi armati di rozze
lance, oppure con sempre questi nostri antenati intenti
in un rito attorno al cadavere della grande belva (tra le
pubblicazioni più recenti: Mano 2006 sul Cuneese; I cac-
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
ciatori paleolitici 1984 e Museo archeologico del Finale
2004, pp. 14-15 sui giacimenti delle grotte della Liguria
di Ponente; Philippe 1993 sulle grotte del monte Grenier
in Savoia; Uomini e orsi 1997 sul Carso triestino)4. L’orso delle caverne, l’Ursus spelaeus, estintosi tra 15.000 e
12.000 anni fa, di taglia superiore all’orso bruno, l’Ursus
arctos, ancora esistente, appariva come un essere enorme
e mostruoso e sicuramente (nell’immaginario) pericoloso
per l’uomo. Solamente recentemente si è scoperto che, in
realtà, era un animale vegetariano che saliva sui pascoli
alpini negli intervalli di riscaldamento del clima (Bocherens
2002; Argant - Argant 2003; Tillet 2003; Pacher 2003).
Il cliché dell’orso delle caverne come rivale dell’uomo è
antico nel nostro immaginario, risalendo alla metà del XIX
secolo quando, contemporaneamente, si svolgevano le
prime ricerche paleontologiche nelle caverne, si sviluppava la disciplina dell’archeologia preistorica e si diffondeva
la teoria dell’evoluzione. Così, quando Bartolomeo Gastaldi, geologo e pioniere della preistoria italiana, e i suoi
informatori locali iniziarono ad esplorare le grotte del Cuneese, ricche di giacimenti di ossi di orsi, più volte cercarono, e sperarono di trovare, delle tracce di frequentazione
umana, ma vanamente. È significativo, sia per lo spirito
della ricerca di allora che per il grande rigore scientifico e
onestà intellettuale, il resoconto di Gastaldi nelle grotte di
Bossea del 1865: quando da una vertebra d’orso uscì del
carbone vegetale, finalmente credé di essere di fronte alla
prova della contemporanea frequentazione delle caverne
da parte degli orsi e dell’uomo, ma subito si avvide che il
carbone si trovava sopra una stalattite che incrostava la
vertebra, segno che era giunto lì per ruscellamento (Mano
2006).
La convinzione di una compresenza di uomini e orsi nelle
caverne continuerà nei decenni successivi tra i fondatori
della paletnologia italiana, come dimostra l’insistenza di
Pellegrino Strobel, convinto che vi siano nelle Alpi Apuane
manufatti di ossi d’Ursus spelaeus, seppure tutti precedenti al Neolitico, mentre un ricercatore di forse minori
conoscenze ma scrupoloso, come Giovanni Battista Amerano, rispondendogli annotava: “Le ricerche che ho fatto
mi hanno persuaso che quando apparve per la prima volta
l’uomo nel Finale, benché vivesse ancora il grand’orso delle caverne, tuttavia fosse già formato il detto ossario [della
caverna delle Fate, dove recuperò 40 crani, 300 mandibole e suppose che vi fossero i resti di oltre 1500 esemplari]” (Strobel 1889; Amerano 1889; Amerano 1892, con
un elenco delle grotte in cui ha effettuato delle ricerche;
Mochi 1915, ancora sulle Alpi Apuane). È pur vero che
trent’anni dopo, in una lettera a Luigi Pigorini, Amerano scriverà: “ ... molte ossa dell’U. speleus (sic) sono evidentemente lavorate dall’uomo” (in Leonardi - Paltineri
2008). Il fatto è che le datazioni assolute tra XIX e XX
secolo erano impossibili da ottenere e le stesse osservazioni sulle modalità di formazione dei giacimenti e degli
strati erano a volte ingenue, altre volte erano gli stessi
indagatori che non superavano il carattere amatoriale
del cercatore di ossi e di selci, sconvolgendo stratigrafie
e producendo false associazioni. Così Arturo Issel, il più
attento ricercatore ligure, assieme ad Amerano, e dotato
di ben maggiori acume e conoscenze scientifiche, poté
riconoscere che i manufatti neolitici (ceramiche, innanzitutto) erano ben posteriori ai depositi di resti faunistici:
“ ... nel caso presente [la Caverna delle Fate, nel Finalese]
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per altro, questa promiscuità [tra uomo e orso] è accidentale, e dipende dalle acque che sconvolsero e confusero
due giacimenti di diversa età. La caverna servì prima di
covo agli orsi, ai leoni, alle pantere, poi, questi scomparsi, dopo lungo volgere di tempo, fu occupato dall’uomo
neolitico” (Issel 1908, p. 178). Non escludeva tuttavia che
nel Paleolitico ci fossero casi di scontri tra uomini e orsi
e che gli ossi di questi fossero utilizzati: “ ... mentre io
ritengo che i cocci sopradescritti sono più recenti dell’U.
spelaeus, non è men certo per me che colà questa fiera
ebbe a imbattersi coll’uomo, e ne fa fede un pezzo di
mandibola inferiore, che osservai, sulla cui superficie interna si vedono solchi e tagli, fatti artificialmente mentre
l’osso era ancora fresco” (Issel 1908, p. 178)5.
Al di là delle diatribe italiane, furono alcuni contesti delle
Alpi svizzere che nella prima metà del XX secolo portarono a riconoscere una cultura particolare dell’uomo di
Neandertal, denominata Paleolitico alpino o Musteriano
alpino, dove le grotte sarebbero state frequentate sia dagli uomini che dagli orsi. I Neandertal avrebbero cacciato
in modo molto intenso l’Ursus spelaeus, provocandone i
grandi giacimenti di ossi e anzi l’avrebbero venerato raccogliendone i crani, ridislocandone i resti in altari e ammassi... A formulare questa teoria fu soprattutto Emil
Bächler che indagò alcune grotte della Svizzera centroorientale (Wildkirchli nel 1902, Drachenloch nel 19171923, Wildenmannlisloch nel 1923-1927) dove migliaia
di resti ossei di orso delle caverne sembravano dislocati
secondo schemi particolari, con ammassi di crani, gli ossi
lunghi adiacenti alle pareti, altri ossi spezzati apparivano
come manufatti; avendo ritrovato in alcuni recessi alcuni
manufatti litici e le tracce di focolari, gli parve che gli ossi
d’orso fossero stati manipolati dall’uomo (Bächler 1940;
Pignat 2002; Leuzinger - Leuzinger 2002; Tillet 2002,
con un censimento delle principali grotte con orsi e resti
dell’uomo di Neandertal) (fig. 2). Di lì, altri archeologi e soprattutto gli etnografi iniziarono a riconoscere numerose
tracce di culti dell’orso, ben più complesse degli ammassi
di crani e ossi di Bächler: un cranio sotto una lastra di pietra, circondato da ceneri, nel Petershöhle in Germania; tre
crani con disposizione quasi stellare nella grotta Kölyuk in
Ungheria; crani e ossi nelle nicchie della grotta Veternica
in Croazia ... e spesso alcune fratture apparivano intenzionali, realizzate con strumenti litici (Pacher 2002) (fig. 3).
Si volle allora confrontare questi presunti rituali con quelli
Fig. 2. Il culto dell’orso nel Paleolitico nelle ricerche di E. Bächler (da Bächler
1940 in Premiers hommes dans les Alpes 2002, pp. 59 e 125).
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Fig. 3. Il preteso culto dell’orso: a. i siti in Europa; b. la grotta Veternica; c. la
grotta Kölyuk (da Pacher 2002, fig. 1, 5 e 7).
delle popolazioni delle terre settentrionali dove era ancora
presente un ambiente simile a quello dell’Europa durante
l’ultima glaciazione (Siberia, Lapponia, Alaska, Canada),
dove l’orso è il carnivoro di maggiori dimensioni e riveste un importante ruolo nelle credenze e nelle tradizioni
locali. Si pensi al rito degli Ainu, lo iyomande, nelle isole settentrionali del Giappone, che allevavano per alcuni
anni un orsacchiotto catturato per poi ucciderlo in un rito
propiziatorio in cui l’animale, chiamato “piccolo dio”, veniva “inviato in cielo” e dopodiché ne erano mangiate
le carni (Maraini 2001, pp. 33-72; Lajoux 2002); oppure
si considerino i rituali siberiani (Lot-Falck 1961, passim;
Pentikäinen 2007). Punto di partenza era la convinzione che quelle popolazioni di cacciatori nordici avessero
conservato la cultura degli Europei dell’ultima glaciazione
(sostanzialmente, quindi, che non fossero stati in grado
di evolversi culturalmente nel corso degli ultimi diecimila
anni) o al più che vivendo in condizioni ambientali simili
allora avessero sviluppato usi simili. Oggi si sa come la
comparazione etnologica possa essere utile per comprendere alcuni comportamenti o processi di fabbricazione di
manufatti, ma che non si possa estendere forzatamente
come modello interpretativo. Tra fine XIX e inizi XX secolo,
poi, non mancava una certa tendenza a vedere come simili gli orsi e gli uomini preistorici, entrambi che si riteneva
vivere nelle caverne, entrambi che si pensava coperti di
peli ... e mi pare interessante sottolineare che tutto ciò avviene negli stessi anni in cui l’orso ricompare nella cultura
europea, ma come pupazzo di pezza, figura buffa e amichevole per i bambini (Pastoureau 2008, pp. 301-308).
Sarà macabro, ma riporto una frase di Fosco Maraini di
quando assisté a una delle ultime cerimonie di sacrificio di
orso degli Ainu dell’isola di Hokkaido nel marzo del 1954:
“Il fatto è che un orso, quando viene aperto e sezionato,
ha un aspetto penosamente umano; specialmente le zampe assomigliano spaventosamente a mani e piedi di un
bambino” (Maraini 2001, p. 65).
Tornando al Paleolitico, gli ultimi cinquant’anni di ricerche
hanno mostrato l’insussistenza delle ipotesi di un culto
dell’orso, di una frequentazione coeva delle grotte, di caccia all’orso (Stiner 2002; Tillet 2002; Pacher 2002).
Innanzitutto, i depositi di ossi si sono formati su un lunghissimo lasso di tempo, di decine di migliaia di anni: il
gran numero di esemplari è perfettamente compatibile
con un orso che muore durante l’ibernazione ogni quattro
o cinque anni; prova ne è il fatto che la maggior parte dei
resti ossei appartiene a individui particolarmente deboli,
come piccoli e anziani. Le datazioni assolute, effettuate
prevalentemente con il radiocarbonio, mostrano una remota antichità della maggior parte dei depositi, tra gli
80.000 e i 30.000 anni. Non ci sono tracce di ferite e colpi
inferti con armi e manufatti sui resti ossei, perciò non c’è
nessun elemento che provi che gli orsi sono stati uccisi, e
le fratture riscontrate sono dovute o a fenomeni geologici
o al calpestio di altri orsi. E soprattutto, tutti i depositi, anche laddove pare di vedere una selezione delle ossa, sono
naturali: il ruscellamento e i passaggi continui e prolungati
nei secoli degli orsi scompongono gli scheletri e portano a ridislocare le diverse parti dello scheletro in maniera
selettiva per forme e dimensioni. Non ci sono manufatti
associati ai momenti di formazione dei depositi di ossa:
semplicemente, nello scorrere dei secoli, può accadere
che, in una grotta dove nelle decine di migliaia di anni
precedenti gli orsi erano andati ad ibernare e a morire, vi
siano passati uomini che abbiano perso degli strumenti
o che vi abbiano acceso un fuoco (chi perdesse oggi una
penna biro al Colosseo, di certo non è contemporaneo
degli imperatori Vespasiano e Tito). Per altro, i depositi di
ossi si trovano nei più profondi recessi delle grotte, mentre
la frequentazione umana è prevalentemente concentrata
nelle gallerie e nelle sale d’accesso.
Qualche frammento di osso d’orso appariva lavorato ai
primi ricercatori: alcuni avevano le estremità levigate, altri
portavano striature e ancora frammenti di perone e di coste sembravano lavorati per ottenere dei bottoni o fibbie,
asportando un lato alle estremità e lasciando un settore centrale a risparmio. Erano queste le prove di un uso
dell’orso da parte dei Neandertal? Fino alla metà del XX
secolo sono stati in molti a crederlo, quasi assumendolo
come certezza. Se prendiamo un caso piemontese, nella
grotta di Sambughetto Valstrona, indagata nel 1949, la
maggior parte dei numerosi resti ossei di Ursus spelaeus è
frammentata e paiono esservi dei segni di graffi di leone
e tuttavia Carlo Maviglia ritenne che le coste fossero state
lavorate per produrre fibbie, pur mancando l’industria litica che inequivocabilmente avrebbe dimostrato un’attività
umana (Maviglia 1952). In realtà, se già si era dubitato che
questi non fossero altro che fratture naturali e, sempre per
il Piemonte, porto il caso dei rinvenimenti al Ciutarun sul
Monfenera (Fedele 1966; 1974; Fozzati 1974), è con il
breve ma documentato articolo di Giacomo Giacobini che
si dimostra, partendo dalla biomeccanica dell’osso, che
tutte le fratture dei cosiddetti bottoni o fibbie sono in realtà casuali, dati dal calpestio degli orsi sugli scheletri dei
loro simili (Giacobini 1982) (fig. 4).
Ovviamente, qualche oggetto realizzato con ossi di orso
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
Fig. 4. Esempi delle cosiddette fibule musteriane (da Giacobini 1982, fig. 2).
esiste, ma in età molto più recente. Tra gli amuleti, si possono segnalare, sulle Alpi venete-trentine, un osso penico di orso con due tacche parallele sui lati opposti dalla
Grotta di Paina datata all’Epigravettiano finale (Guerreschi
- Leonardi 1984), mentre nel deposito castelnoviano del
Riparo di Romagnano III è un metatarso ad avere delle
tacche sottilmente incise disposte irregolarmente e con
tracce di ocra rossa (Broglio 1984).
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È più complesso, e molto suggestivo, il caso dei supposti
flauti ricavati con gli ossi lunghi degli orsi. Gli esemplari
più antichi sarebbero stati trovati nelle grotte di Divje Babe
I in Slovenia, di circa 45.000 anni fa, e di Geissenklösterle
in Germania, di circa 36.000 anni fa, in contesti musteriani, ovvero dell’uomo di Neandertal. Su femori d’orso,
rimangono due e tre fori, perfettamente allineati, mentre
la serie sarebbe continuata in frattura. Mancano le estremità dello strumento, con l’imboccatura e l’eventuale ancia, che invece si ritrovano su alcuni flauti, vecchi di circa
15.000 anni, su osso lungo di uccello. La scoperta dell’osso di Divje Babe I ha suscitato un ampio dibattito, perché proprio sulla tradizione della questione di strumenti o
meno in osso di orso è stata contestata o affermata l’identificazione come flauto o invece si è sostenuto che i fori
fossero casuali e dovuto a morsi o deterioramento (Leocata 2000-2001; scettico Tillet 2002 e 2003)6. Comunque
sia, è la mancanza di prove di una lavorazione all’estremità che mi pare dover lasciare in sospeso l’identificazione
come strumento musicale, e in particolare come flauto, di
questi ritrovamenti, almeno quelli più antichi (fig. 5).
Non ci sono quindi rapporti tra l’uomo e l’orso? Certamente, ma limitati. Nella Grotte du Regourdou nella
Francia sudoccidentale tra il 1960 e il 1965 è stata indagata una sepoltura di Neandertal in cui il corpo, privo
del cranio, con la costruzione di una struttura di pietre e
la deposizione degli elementi dello scheletro di un’orsa,
scarnificata (Bonifay 2002): indubbiamente un contesto
importante per riconoscere gli usi funerari del Paleolitico medio e la presenza di offerte, forse con significato
alimentare. Arrivare da quest’esempio a voler vedere un
culto dell’orso, si va troppo lontano. Per altro, si trattava
di Ursus arctos, e non di Ursus spelaeus ...
L’orso non è neppure particolarmente frequente nell’arte del Paleolitico superiore (40.000-10.000 anni fa circa,
quando si diffonde in Europa l’uomo anatomicamente
moderno, l’Homo sapiens, ed è scomparso l’uomo di Neandertal) sulle pareti delle grotte (Rouzaud 2002, con il
corpus completo delle raffigurazioni allora note; Morel
- Garcia 2002; Azéma 2009, pp. 24-25). È vero che in
genere i carnivori sono rari, ma l’orso è noto in solamente
una sessantina di esemplari, che rappresentano tra l’1%
e il 2% degli animali riconosciuti (fig. 6). A fronte della
Fig. 5. Esempi dei pretesi flauti da ossi di orso: a. da Divje Babe I; b. da Istallósko; c. da Potocka Zijalka (da Leocata 2000-2001, figg. 1 e 2).
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Fig. 6. Percentuali delle specie rappresentate nell’arte paleolitica (da Azéma 2009, fig. 4).
pochezza degli esemplari, è vero però che almeno un decimo delle caverne ornate (ventitré) ha delle raffigurazioni
di orsi, per lo più in un solo esemplare per ogni contesto,
tranne tre grotte, Chauvet, Les Combarelles e Les TroisFrères, che assieme sommano oltre trenta immagini. Per la
maggior parte dei casi, le figure sono incise, mentre laddove il profilo è dipinto prevale il nero o il rosso (questo colore soprattutto nella Grotte Chauvet). L’orso è distinguibile
dagli altri carnivori, come il leone delle caverne (che non
aveva la criniera, a differenza del maschio della attuale
Panthera leo), per la forma più tozza ma soprattutto per il
cranio bombato che caratterizza l’Ursus spelaeus dall’Ursus arctos, e dalle poderose zampe anteriori che portano
a una gobba molto marcata all’altezza delle spalle (fig. 7).
Fig. 7. Esempi di orsi nell’arte paleolitica (da Rouzaud 2002, rielaborato).
In molti casi non ne compare che la testa, spesso il corpo
completo, di profilo, con l’animale a quattro zampe. Solamente una volta apparirebbe ritto sulle zampe posteriori,
nella grotta di Font-de-Gaume. Nell’ultimo decennio la
scoperta e la pubblicazione della Grotte Chauvet, nella
Francia meridionale, ha suscitato grande interesse per
l’antichità delle pitture (le datazioni radiocarboniche della
frequentazione della grotta danno 29.000-32.000 BP) e
per lo stile complesso e altamente espressivo delle raffigurazioni di altri animali, come i leoni (La Grotte Chauvet
2001; Clottes 2005) (fig. 8). La caverna era intensamente
frequentata dagli orsi, che hanno lasciato sul fondo le loro
orme, per cui si possono riconoscere i percorsi effettuati
da adulti e da piccoli lungo le pareti (La Grotte Chauvet
2001, fig. 32) (fig. 9), e numerosi resti ossei, con casi suggestivi come il cranio ricoperto da concrezioni sul quale
si è formata una stalattite (La Grotte Chauvet 2001, fig.
48) (fig. 10). E inoltre, quindici pitture rappresentanti orsi
si dislocano sulle pareti. Ciò che più a suscitato interesse
è il cranio posto intenzionalmente su un masso piatto nel
mezzo di una vasta sala dove si trova un’altra quarantina
di crani (fig. 10). Questo ha fatto ripensare a culti dell’orso, in un ambiente così intensamente frequentato dal
plantigrado, che sarebbe stato una sorta di mediatore tra
l’uomo e il cosmo (La Grotte Chauvet 2001, pp. 204-209,
figg. 202 e 203). Questa interpretazione mi pare si basi
sulle suggestioni e non sia che una rielaborazione delle
vecchie ipotesi del culto dell’orso. Innanzitutto, un cranio
posto su una pietra piatta non implica, di conseguenza,
nessuna forma di culto: quante cose noi poniamo in una
posizione centrale per i motivi più vari? Non ho trovato
una planimetria dei crani disposti attorno a questo e se
uno di questi ha sopra l’arcata sopraciliare una traccia di
carbone, in una grotta può essersi formata in mille modi:
un tizzone caduto dalla torcia, l’uomo che inciampa e che
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Fig. 8. Orsi dipinti nella Grotte Chauvet (da La Grotte Chauvet 2001, figg. 62 e 193).
Fig. 9. Orme di orso nella Grotte Chauvet (da La Grotte Chauvet 2001, figg. 30 e 32, rielaborate).
fa cadere a terra la fiaccola ... Soprattutto, sono i dati
statistici degli animali rappresentati che mi fanno dubitare
di un culto dell’orso: 74 felini (leoni e almeno una pantera), 67 mammut, 65 rinoceronti, 40 cavalli, 31 bisonti,
16 stambecchi, 15 orsi, 12 renne, 9 uri, 7 cervi megaceri,
4 cervidi, 2 cervi, 2 buoi muschiati, 1 gufo. Perché allora
non un culto del leone o del mammut o del rinoceronte,
animali solitamente non numerosi?
Passiamo a considerare eventuali scene di interazione tra
uomo e orso. Le scene di combattimento tra uomo e orso
sono rarissime, a dispetto delle ricostruzioni moderne che
mostrano spesso scene di lotta, per lo più con un gruppo di cacciatori che circonda la belva. Forse un combattimento, forse piuttosto un uomo attaccato da un orso,
è su una rondella frammentaria di scapola della grotta
del Mas d’Azil, datata al Magdaleniano (18.000-11.000
BP), e quindi sarebbe un Ursus arctos, onnivoro, e non il
mitizzato Ursus spelaeus, già estinto e comunque vegetariano (Duhard 1992, fig. 4; Morel - Garcia 2002, fig. 6)
(fig. 11). Purtroppo è estremamente lacunosa e dell’orso
60
Francesco Rubat Borel
Fig. 10. Crani e resti di orso nella Grotte Chauvet: in alto a destra, il cranio
deposto su un masso, a sinistra quello ricoperto di ocra (da La Grotte Chauvet 2001, figg. 47, 48, 200 e 203).
Fig. 11. Rondella in osso incisa dalla grotta del Mas d’Azil (da Duhard 1992,
fig. 4, rielaborata).
rimane solamente la zampa. Su una faccia, l’uomo è affrontato dalla belva, mentre nell’altra è ormai atterrato e
anche qui dell’orso si vede solamente la zampa che pare
ghermire il corpo. La figura umana è evidenziata da brevi
striature sui margini del dorso e della pancia, che credo
siano graffi, pur non essendo presenti sulla faccia b, dove
l’uomo appare di schiena o sventrato. Un altro caso è su
una placchetta di scisto nella Grotte du Péchialet, dove
un orso in piedi pare abbattere un uomo, mentre un altro
gli si pone dietro, forse armato (Morel - Garcia 2002, fig.
1). Altre figure, sia su piccoli oggetti che rappresentate
sulle pareti delle grotte, sia nella scultura nella grotta di
Montespan, riportano invece dei distacchi della superficie
come se fossero state bersaglio di tiri di lance e proiettili,
altre volte sono semplicemente dei tratti dipinti o incisi
che paiono lance. Si ritiene che questi siano dovuti a rituali di caccia, in cui la raffigurazione dell’animale viene
colpita evocando uno scontro reale. In questo sono particolarmente suggestive alcune immagini in cui dalla bocca
dell’orso escono delle linee incise che ricordano dei fiotti
di sangue. La raffigurazione più evocativa è quella nella
Grotte des Trois-Frères nell’Ariège, datata al Magdaleniano, tra 17.000 e 10.000 anni fa (Morel - Garcia 2002, fig.
10). Per cronologia e caratteristiche dell’orso (assenza della bombatura del cranio, spalle poco sviluppate) dovrebbe
trattarsi di un Ursus arctos, crivellato da numerosi cerchi
incisi sul corpo, sulle zampe, sui quarti posteriori, mentre numerose linee escono dalla bocca, come un fiotto di
sangue o il fumo di un respiro pesante. In Italia troviamo
un’altra fiera, questa volta un lupo, che ricorda questo
orso, cronologicamente contemporanea (Epigravettiano
recente) su un ciottolo nella laziale Grotta Polesini, con
incisioni puntuali e lineari sul corpo (Radmilli 1954-1955;
Radmilli 1993, che contesta Mussi - Zampetti 1993 che
considerano gli stacchi naturali e casuali) (fig. 12).
Con la fine del Paleolitico e delle glaciazioni, e l’estinzione
di Ursus spelaeus, abbiamo ovviamente solo più testimonianza di Ursus arctos: d’ora in avanti, quando scriveremo
di orso, sarà solo a questa specie che ci riferiremo.
In Trentino, nel Riparo Dalmeri, di oltre 11.000 fa, famoso
per i ciottoli dipinti, alcuni di questi raffigurano dei lupi e
degli orsi e uno in particolare ha un’orsa davanti a un piccolo (Dalmeri et al. 2005a, fig. 5; Dalmeri et al. 2005b, fig.
9) (fig. 13). Nei resti ossei del riparo, dominati dallo stambecco (86,46%, con quasi 7.500 elementi identificati), ci
sono delle testimonianze di orso, ma non si tratta che di
46 ossi, pari allo 0,53% di tutti gli elementi identificati
(che lo fanno essere però il carnivoro più rappresentato)
e limitati a denti, falangi e metapodi (tra le ossa lunghe,
l’unica presente è una porzione laterale di femore, con
Fig. 12. Le raffigurazioni di un orso e di un lupo feriti nella Grotte des TroisFrères, in alto, e nella Grotta Polesini, in basso (da Radmilli 1993, fig. 1).
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
61
Fig. 13. Ciottolo dipinto con forse un’orsa e davanti il piccolo dal Riparo Dalmeri (da Dalmeri et al. 2005b, fig. 9).
tracce di scarnificazione). Si tratta di almeno quattro individui, uno con meno di cinque mesi, l’altro di otto e
di due adulti. Le tracce di macellazione sulle falangi non
sembrano finalizzate allo spellamento perché per questo
si preferisce incidere la pelle all’altezza del radio, mentre
paiono dovute invece alla disarticolazione (Fiore - Tagliacozzo 2005; 2008).
È a questo torno di tempo, più precisamente all’11.700
BP, che risale una delle rarissime testimonianze dirette di
caccia all’orso bruno. Nella Grotte du Bichon a La Chauxde-Fonds, in Svizzera occidentale, sono stati trovati gli
scheletri di un uomo e di un’orsa. Poiché la disposizione dei corpi non pare intenzionale e grazie alla presenza
di numerose armi in selce nella caverna e di un proiettile
nel collo dell’orsa, si crede che si tratti di un incidente
di caccia: la belva ferita a morte si rifugia nella grotta, il
cacciatore la segue e lì muore anche lui (Morel 1993) (fig.
14). Vedremo che ottomila anni dopo, nella media età del
Bronzo, un altro orso, colpito da una freccia, morirà in una
grotta a Ormea, nelle Alpi Marittime piemontesi.
Comunque, l’orso non era solamente cacciato, perché
alla fine del Mesolitico francese, nel VI millennio a.C., alla
Grande-Rivoire nel massiccio del Vercors a 580 m s.l.m.,
un orso maschio di cinque-sei anni viveva con gli uomini
con una museruola che ha provocato una deformazione
simmetrica con superfici lisce e arrotondate tra primo e
secondo molare, risultato di un legaccio con il quale l’animale è cresciuto e che gli aveva profondamente inciso la
mandibola (Chaix 2002) (fig. 15).
I primi agricoltori europei: Neolitico
ed età del Rame (6.000-2.200 a.C)
Fig. 14. Gli scheletri di un uomo e di un’orsa nella Grotte du Bichon (da
Morel 1993).
La maggiore rivoluzione nel popolamento e nello stile
di vita dell’antica Europa è avvenuta circa settemila anni
fa, quando dall’Anatolia, attraverso i Balcani e le coste
del Mediterraneo, si sono diffusi nel nostro continente
l’agricoltura e l’allevamento, con la possibilità quindi di
nutrire molte più persone di quanto non facesse la caccia
(almeno venti persone in più nello stesso territorio) e ovviamente una maggiore sedentarietà. Questa nuova età
si chiama Neolitico (per l’Italia settentrionale 6.000-3.500
a.C.), ovvero l’età della nuova pietra, perché si introduce
l’uso di strumenti in pietra levigata a fianco delle tecniche
62
Francesco Rubat Borel
Fig. 15. La mandibola dell’orso della Grande-Rivoire, con i segni del morso
(da Chaix 2002).
di scheggiatura, cui succede l’Eneolitico o età del Rame
(3.500-2.200 a.C.), allorché cominciano a diffondersi i
primi strumenti in metallo (asce, pugnali, lesine) e si affermano le prime profonde differenze sociali all’interno
delle comunità, con l’emergere di capi e guerrieri. In alcune regioni europee l’introduzione dell’agricoltura avviene
attraverso la migrazione e la colonizzazione dei territori da
parte di contadini e allevatori, in altre invece sono le popolazioni locali di tradizione mesolitica che acquisiscono
le nuove tecniche dai vicini. L’introduzione dell’agricoltura
e dell’allevamento porta a una profonda trasformazione
nell’ideologia, nella concezione del mondo, nella religione. Diventano più forti i legami con la terra, con il succedersi dei lavori agricoli stagionali, con alcuni animali allevati o cacciati che assumono il valore di simbolo. E anche
qui, le raffigurazioni di orsi non sono affatto numerose ...
Alcuni studiosi dell’Europa centro-orientale hanno interpretato che la rarità dell’orso nella mitologia e nelle rappresentazioni iconografiche ed archeologiche europee sia
dovuta alle ideologie indoeuropea e semitica prevalentemente maschilistiche, laddove l’orso sarebbe invece una
raffigurazione della divinità femminile. In tal senso, l’elaborazione maggiore è venuta da Marija Gimbutas per la
quale la Dea era stata venerata sotto forma di orso, cervo,
serpente, uccello (Gimbutas 1990, pp. 113-119) nell’Europa agricola prima dell’arrivo degli Indoeuropei, guerrieri
e maschilisti (le ipotizzate migrazioni sarebbero avvenute
tra V e III millennio a.C.)7. Le teorie della Gimbutas si basavano su una grande quantità di reperti archeologici dalla
ricchissima iconografia, che erano interpretati basandosi
anche sul folklore moderno dell’Europa centro-orientale,
in particolare dei Paesi Baltici e della Penisola Balcanica. In
realtà, è proprio nella mole di confronti archeologici, anche disparati, uniti da una preconcetta visione di un’antica
Europa agricola e femminista sommersa dai guerrieri che
portavano lingue indoeuropee in più ondate migratorie
tra V e III millennio a.C., che si mostra la fragilità, e in
fondo l’insussistenza, della ricostruzione della Gimbutas.
È per altro curioso che l’antica cultura religiosa preindoeuropea sarebbe sopravvissuta proprio nelle terre che per
prime sarebbero state investite ed occupate dagli invasori
dalle steppe euroasiatiche: la Russia, i Paesi Baltici, la Penisola Balcanica settentrionale. Ma al di là delle critiche alla
sua grande teoria storica e religiosa, rimangono interessanti o almeno suggestive alcune sue considerazioni sulle raffigurazioni di animali nell’Europa antica, compreso
l’orso. La Gimbutas riteneva che il cervo e l’orso avessero
uno stretto legame con la Dea del parto, ipotizzando anche un legame tra le parole inglesi bear “orso” e to bear
“portare” ma anche “generare, partorire”, che non ha
nessun valore linguistico-storico. In particolare l’orso maschio sarebbe stato una divinità della vegetazione e per
questo sacrificato una volta l’anno, come mostrerebbero
le immagini del Paleolitico superiore. Citava in tal senso i
vasi zoomorfi del Neolitico della Penisola Balcanica. Così
nella cultura Karanovo, diffusa nel VII millennio a.C. in
Bulgaria e nella Romania meridionale, ci sono molte statuette con una gobba, per lo più inedite perché considerate non abbastanza belle, che potrebbero essere interpretate come orsi. Maggior certezza si ha nella cultura
Vinča dei Balcani centrali a fine VI-V millennio a.C. per le
statuette di donna, dove il volto femminile è però piatto e
appuntito verso il basso, come se fossero delle maschere
di orso. In braccio tengono un bambino, altre volte hanno una cesta o marsupio attaccato alle spalle (Gimbutas
1990, fig. 184)8. I vasi a forma di orso sono invece presenti per un lunghissimo periodo, seppure con forme molto
differenti. Dal Peloponneso alla Dalmazia nel corso del VI
millennio a.C. si diffondono vasi con l’apertura obliqua,
poggianti su quattro piedi tozzi e cilindrici, e dalla grossa
Fig. 16. Vasi a forma di orso dal Neolitico dell’Europa centro-orientale: a) da
Abraham in Slovacchia; b) da Sipenitsi in Ucraina; c) da Smilcic presso Zara;
d) da Syros nelle Cicladi (da Gimbutas 1990, figg. 186-188).
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
ansa ad anello verticale. La superficie ben levigata è spesso decorata da motivi incisi, con incrostazioni bianche che
contrastano con il rosso dell’orlo. Ancora più interessanti
sono due orsi internamente cavi, a quattro zampe, ben
sagomati, con sul dorso l’imboccatura, molto distanti l’uno dall’altro geograficamente e cronologicamente: il più
antico, della prima metà del V millennio a.C. della cultura
Lengyel, da Abraham in Slovacchia, è decorato da fasce
parallele dipinte, l’altro inornato della cultura Cucuteni
del 3.700-3.500 a.C. da Sipenici in Ucraina occidentale.
E infine, diverso per forma ma assai famoso, l’orsetto che
sostiene un bacile con un’apertura che dà al ventre della
bestiola, dalla pancia decorata da linee parallele, il dorso a
reticolo e gli occhi sottolineati da linee colorate, ritrovato
nell’isola di Syros nelle Cicladi e risalente al III millennio
a.C. (fig. 16). Sono manufatti di grande bellezza, ma da
qui trarre una ricostruzione teologica alla Gimbutas è eccessivo per la grande distanza cronologica dei reperti e
tutto sommato la loro rarità.
È probabile che l’orso, animale delle foreste e di grande
mole, fosse macellato e depezzato là dove era stato catturato e ucciso, perché negli abitati i resti ossei ritrovati sono
per lo più limitati alle ossa delle zampe e del cranio. Un
cranio d’orso, assieme a manufatti, fu rinvenuto nel fossato dell’abitato fortificato di Marechoul in Francia orientale
nel Neolitico finale (corrispondente più o meno alla nostra
età del Rame) e ritenuto un rito di fondazione (ArbogastMéniel 2002)9. Tuttavia il fatto che i canini fossero stati
estratti e che si evidenziassero delle tracce di usura dell’osso incisivo mi porta a dubitare che ci si trovi davanti ad
uno scarto di macellazione. Alla lunga, la maggior parte
delle testimonianze è limitata a canini usati come ciondoli
per decorazione, assieme a denti di lupo e volpe o di cervo e cinghiale. L’elaborazione del dente non consiste che
nella perforazione della radice o, più raramente, nella modellazione di una piccola gola. Dalla forma non parrebbe
che ci siano particolari valori da assegnare all’orso rispetto
agli altri animali, tranne le maggiori dimensioni del dente.
Mancano anche le imitazioni in altri materiali, come l’osso
o la pietra, che solitamente sono buoni indicatori di significati e simbolismi legati a oggetti di difficile reperimento. A seconda dei siti tra Svizzera e Francia orientale, del
Neolitico finale nordalpino, corrispondente all’età del
Rame italiana, l’incidenza dei canini d’orso negli ornamenti personali varia notevolmente da contesto a contesto e
forse anche da periodo a periodo, dal 60% e addirittura
100% a Horgen nel 3.200 e 3.150 a.C., a solamente il
12,5% a Chalain nel 2.600 a.C. e appena il 4,8% attorno
al 2.750 a.C. (Maréchal et al. 1998, fig. 13). Tutt’al più,
Rose-Marie Arbogast e Patrice Méniel per i siti perilacustri
di Chalain e Clairvaux nella Francia orientale, nelle fasi di
frequentazione nella prima metà del III millennio a.C., notano che, poiché i canini d’orso a volte si trovano sparsi
nell’abitato come se fossero stati persi (cosa difficile per
un oggetto che può arrivare anche a 10 cm di lunghezza,
o addirittura in più esemplari vicini), a questi si può attribuire un particolare significato per cui o in quel momento
avevano cessato di avere un valore simbolico, oppure non
erano trasmissibili ad altre persone (Arbogast - Méniel
2002; Pétrequin - Pétrequin 1988 per il contesto archeologico, in particolare p. 108) (fig. 17). Il canino d’orso
perduto quindi in realtà sarebbe un oggetto (un trofeo
di caccia?) ormai defunzionalizzato da eventuali signifi-
63
Fig. 17. Pendagli da canini d’orso nei villaggi neolitici di Chalain (da Arbogast - Méniel 2002, fig. 1).
cati magici o eroici dovuti alla difficoltà della cattura del
più grande carnivoro europeo. In ciò, mentre resti ossei
di esemplari di età infantile o subadulta si ritrovano negli
abitati, i canini sono ricavati solamente da orsi adulti.
In questi casi particolari, come gli abitati perilacustri, dai
resti archeologici si può valutare non solo quanti orsi (e
lo stesso vale per gli altri animali) sono stati uccisi, ma
anche quanti esemplari nel corso del tempo. Nei villaggi di
Clairvaux e Chalain, dove la dendrocronologia ha permesso di determinare che tra il 3.700 e il 3.400 a.C. una
capanna aveva una vita di circa sette-otto anni prima di
essere abbattuta o abbandonata, si è ricostruito che in
quel periodo i membri di una casa hanno lavorato le pelli
e pellicce di 4 tassi, 2 castori, 1,5 martore, 1,5 gatti selvatici, 0,5 orsi, 0,5 puzzole, il che significa che le pellicce
non erano importanti nell’abbigliamento, che era prevalentemente di fibre tessili vegetali come il lino (Pétrequin
- Pétrequin 1988, p. 49). Non si deve dimenticare, inoltre,
che l’orso era anche una riserva alimentare di non poco
conto, come mostrano i resti ossei delle fasi di XXXII secolo a.C. di Chalain, dove sono rappresentate pressoché
tutte le parti del corpo, comprese le zampe e la cassa toracica, ovvero laddove vi era più carne (fig. 18). E tuttavia
si deve notare che la maggior parte degli ossi riguarda le
zampe e il cranio, ovvero dove l’apporto di carne è limitato, e che per di più non è stata ritrovata nelle discariche
davanti alle case, ma raggruppata attorno ai focolari o
nel retro degli edifici, come se le parti di orso avessero
un uso o un significato differente da quelle degli altri animali. Certamente si deve considerare che nelle pellicce
d’orso si potevano conservare le ossa delle zampe e in
tal caso la loro presenza presso i focolari si intende come
testimonianza di giacigli, oppure che le zampe fossero dei
trofei, mentre invece le ossa lunghe (quelle che hanno un
significato certamente alimentare) sono disperse in tutto
l’abitato (Arbogast - Méniel 2002, figg. 2 e 3) (fig. 19).
64
Francesco Rubat Borel
Fig. 18. Percentuali dei resti ossei di orso nel villaggio di Chalain nel XXXII secolo a.C. (da Arbogast - Méniel 2002, fig. 2).
Lo stesso vale per i crani, che come vedremo sono tra le
parti anatomiche quelle che più si ritrovano nei contesti
di età successiva, anche se proprio l’estrazione di elementi pregiati per l’uso alimentare (cervella, lingua, eventuali
muscoli facciali, oltre ai canini per ornamenti) potrebbe
aver reso più comodo il trasporto nel villaggio della testa
dell’orso rispetto ad altre parti anatomiche, che bastava
disossare durante la battuta di caccia. A proposito delle
falangi d’orso nelle capanne, per quel che può valere solo
come confronto e non come interpretazione di queste
testimonianze archeologiche, nelle popolazioni siberiane
un cacciatore munito di una zampa è ritenuto protetto
nell’affrontare il grande plantigrado vivo, così come i Tungusi a nord del lago Bajkal proteggevano l’entrata della
loro tenda appendendovi una zampa d’orso (Lot-Falck
1961, pp. 100-101).
Guardiamo due siti a noi prossimi del Neolitico dell’Italia
nordoccidentale. Nella grande caverna delle Arene Candide a Finale Ligure, usata per millenni come abitazione,
stalla e magazzino, la presenza di orso è occasionale e discontinua nel tempo e anche qui sono rappresentati prevalentemente denti e ossi delle zampe (Sorrentino 1999).
In Piemonte, nel sito della Maddalena di Chiomonte in Val
di Susa, l’orso è relativamente abbondante, trentacinque
reperti ossei su 800 ossi animali analizzati, ed è rappresentato prevalentemente da ossa della zampa e del cranio
(Fedele 1989; 2002). Sono ventuno i frammenti provenienti dai contesti della fine del Neolitico-inizi dell’età del
Rame (3.700-3.200 a.C.), anche se lo stato di conservazione degli strati rende incerta una precisa datazione e fa
sì che sia possibile che ci siano infiltrazioni di materiali più
recenti. Inoltre molti vengono da ripari sotto roccia, che
avrebbero potuto essere usati dagli orsi durante il letargo
invernale.
L’unico oggetto antico deperibile ricavato da un orso che
si è conservato è il berretto di pelo di Ötzi, l’uomo il cui
cadavere praticamente intatto fu ritrovato il 19 settembre
1991 nella conca, ricoperta da ghiacci per cinquemilatrecento anni, vicino al rifugio del Similaun tra Alto Adige e
Tirolo austriaco (Spindler 1998, pp. 156-157; de Marinis
- Brillante 1998, pp. 81-83; didattico, con ricco apparato iconografico, Sulzenbacher 2001) (fig. 20). Il berretto
fu rinvenuto solamente durante la seconda campagna
di ricerca, nell’agosto del 1992, ai piedi della roccia su
cui giaceva il corpo mummificato. Un rischio, durante il
recupero, era che la manipolazione del berretto potesse
distaccare e far cadere i peli e questi andar persi. Fu perciò
fatto sciogliere il ghiaccio con una macchina che produceva vapore, mentre l’acqua di fusione era continuamente
aspirata. Contemporaneamente, una cinepresa filmava
tutta l’operazione. Il berretto fu quindi riposto in una scatola di metallo che, dopo essere stata nascosta sotto la
neve per mantenere la temperatura prossima agli 0° C, fu
rapidamente portata alla Soprintendenza di Bolzano e di
lì ai laboratori del Museo di Magonza, dove dopo essere
stato ripulito con acqua distillata, è stato ingrassato, imbevuto di una sostanza chimica e liofilizzato ed infine restaurato. Il manto di peli esterno si è conservato, pur rimanendo estremamente delicato e sempre sotto il pericolo di
distacco, come è avvenuto nel corso dei millenni al pelo
di capra del giaccone. Il berretto è stato confezionato con
pezze cucite assieme fino ad avere una forma troncoconica, con 25 cm di altezza, su una base ovoidale. All’orlo
inferiore erano fissate due strisce di cuoio per sottogola,
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
65
Fig. 19. Ripartizione dei resti ossei di orso nel villaggio di Chalain nel XXXII
secolo a.C. (da Arbogast - Méniel 2002, fig. 2).
Fig. 20. Il berretto in pelo di orso di Ötzi, l’Uomo del Similaun (da Sulzbacher
2001, p. 45).
coi i capi annodati tra di loro, ma una delle stringhe era
strappata poco sopra il nodo. Forse fu durante la caduta e
la morte di Ötzi che il laccio si ruppe e il berretto ruzzolò
o scivolò ai piedi della roccia su cui giaceva il corpo e lì fu
coperto dalla neve. Il pelame è grigio chiaro e inizialmente
si credette fosse di camoscio, solamente ulteriori analisi
hanno determinato che si trattava di orso; incertezza si ha
invece per la suola delle scarpe, che un’analisi microscopica ha detto essere di cuoio bovino, un’altra invece di orso
(la tomaia è in pelle di cervo).
Si segnala infine un altro reperto che attesta l’allevamento
di un orso, certamente catturato da cucciolo e tenuto per
lunghi anni legato, come abbiamo visto alla Grande-Rivoire alla fine del Mesolitico. Nell’abitato perilacustre svizzero
di Portalban-Les Grèves un orso di dieci anni ha passato
la sua vita con un legaccio attorno al muso, passante per
i suoi denti (Olive 2004). Si tratta della maniera per tenere
un orso legato, come vediamo sia presso quei popoli siberiani che allevano cuccioli di orso per i loro culti, sia presso
le corti medievali, dove ornavano i serragli dei principi, sia
presso zingari e mendicanti che esibivano gli orsi alle fiere.
Marittime al di sopra di Ormea, dello scheletro di una giovane orsa con infissa nel femore sinistra una punta di freccia ad alette a codolo, tipologicamente tipica del Bronzo
Medio e Finale dell’area alpina occidentale, coincidente
con le datazioni radiocarboniche sui resti ossei che danno
l’animale vissuto tra XVII e XVI secolo a.C., mostra appunto l’attività di caccia in luoghi lontani dagli abitati (Venturino Gambari 2001; 2009; Giacobini et al. 2001). Ma sicuramente, se la preda fosse stata raggiunta dai cacciatori,
sarebbe stata scorticata e depezzata là sulle montagne e
al massimo ne avrebbero portato a valle la pelle, con gli
ossi delle zampe e i denti.
Su quarantun siti svizzeri dell’età del Bronzo, ci sono resti ossei di orso solamente in 19 e in tutti questi è rappresentato da pochissimi reperti, tranne nei due siti dei
Grigioni, in pieno ambiente montano, di Crestaulta e di
Munt Baselgia (Schibler - Studer 1998, fig. 78). Queste
quantità attestano una presenza diffusa dell’orso, seppure limitata per lo più a canini usati come pendenti o agli
ossi delle zampe che mostrerebbero l’uso di pellicce negli
abitati. La situazione è analoga a quanto riscontriamo in
Italia, dove i resti di orso sono presenti ma assai limitati
sia numericamente che tipologicamente, anche nei siti in
ambiente montani quale il Trentino-Alto Adige, come rileva Alfredo Riedel, al quale si deve la maggior parte degli
studi delle faune pre-protostoriche della regione, segno
che è trascurabile, come in genere tutta la fauna selvatica,
tranne in parte il cervo e i capriolo che sono ancora le
specie più cacciate con il cinghiale (Riedel 1986a; 1985;
1997). Se resti ossei di orso sono piuttosto numerosi e
vari nell’abitato perilacustre di Ledro, generalmente negli
altri sono rari o rarissimi, come il frammento della zampa
nell’abitato del Bronzo Finale di Sonnenburg in Val Pusteria (e quindi viene di nuovo in mente la presenza di pellicce, come rilevato nei villaggi perilacustri nordalpini) così
come all’Aica di Fié (Riedel 1984; 1986a, tab. 45; 1986b).
L’età del Bronzo (2.200-900 a.C.)
La rarità di reperti ossei di orso continua anche nell’età del
Bronzo (“sparso, ma alquanto raro” annotava Pellegrino
Strobel in uno dei primi studi sulle faune nelle terramare, i grandi abitati di XV-XIII secolo a.C. dell’Emilia, forse
stupendosene a fronte della ricchezza nelle grotte che si
iniziava a indagare, Strobel 1883), sempre per gli stessi
motivi che abbiamo visto per il Neolitico, al punto che i
reperti a nostra disposizione sono quasi solamente canini
perforati alla base e usati come decorazione o qualche
osso di zampa.
L’eccezionale scoperta nella Grotta degli Orsi, nelle Alpi
66
Francesco Rubat Borel
Fig. 21. Statuette fittili dai villaggi sommersi nel lago di Le Bourget: a sinistra, lontre, a destra, figure antropomorfe o orsi (da Kerouanton 2002, fig. 14).
Un discorso a sé ritengo costituiscano i canini, utilizzati
come ornamenti nei corredi funerari di Bronzo Antico di
Romagnano-Loc e della Vela di Valbusa e presenti in due
esemplari anche nella terramara di Santa Rosa di Poviglio
nel Bronzo Medio e Recente e alla Rocca di Rivoli (Nicolis
2000; Marzatico - Tecchiati 2002, fig. 1,22 e 29; Riedel
2004; Barfield 1976). Alla fine dell’età del Bronzo, tra XI
e X secolo a.C., risale il frammento di omero di orso da
Breolungi di Mondovì (Bedini 2001): anche qui una prova
di uso alimentare? Non possiamo inserire in questo elenco
i resti di orso rinvenuti nelle campagne degli anni ’70 nella
grotticella della Boira Fusca a Cuorgnè (Fedele 1983, fig.
3): la frequentazione è molto lunga, con industria litica
epipaleolitica, una sepoltura collettiva del Bronzo Antico,
una moneta altomedievale e manufatti contemporanei. Al
più, indica che questa grotticella è stata usata come riparo
da un orso bruno.
Un altro problema è che, essendo il corpo dell’orso piuttosto tozzo e non caratterizzato da elementi particolari,
come le corna di un bue o di un cervo, la testa e le zampe
sottili di un cavallo, il muso e la criniera di un cinghiale, diventa difficile rappresentare o riconoscere il grosso
plantigrado nelle statuette ceramiche presenti in numerosi abitati della piena e avanzata età del Bronzo in Italia
settentrionale e nell’arco alpino10. In particolare, possiamo
chiederci se non fossero raffigurazioni di orsi eretti, e non
di uomini, quelle statuette ritenute antropomorfe, con
corpo in piedi, che hanno gli arti molto corti, sia le gambe
che le braccia limitate a dei moncherini, la testa appena
abbozzata e poggiante su un collo largo, a volte più del
capo, su un corpo piuttosto lungo in proporzione. Ce ne
sono così tra X e IX secolo a.C., sia con testa e arti tozzi
(orsi?) che meglio sagomati (uomini) negli abitati perilacustri del lago di Le Bourget in Savoia, dove per altro ci
sono anche alcune rarissime statuette di lontra (Kerouanton 2002, fig. 14) (fig. 21). Più certa l’identificazione colla
statuetta alta appena 4 cm, dalla fattura poco accurata, la
testa assottigliata, muso appuntito, collo massiccio, corpo
cilindrico, coda appena accennata, zampe posteriori cilindriche, organi sessuali maschili fortemente evidenziati dagli strati del 1.300-1.000 a.C. di Castellaro di Gottolengo,
dove per altro c’è anche una piccola e grossolana figura di
quadrupede che potrebbe essere un orso a quattro zampe
(Barocelli 1970, p. 126 e fig. 29d,2; Salerno 2001, n. 38)
(fig. 22).
Fig. 22. Probabile statuetta fittile di orso dalla terramara di Castellaro di
Gottolengo (da Salerno 2001, n. 38).
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
67
Fig. 23. La statua della dea Artione e dell’orso (da Pastoureau 2008, fig. 5).
I Celti
Nell’età del Ferro, corrispondente in Italia ed Europa grosso modo al I millennio a.C., l’orso è quasi del tutto assente
nei contesti archeologici. Così non era di certo in natura,
perché la copertura forestale era ancora notevole, paragonabile a quella che sarà nel medioevo, ma rimangono
validi i motivi per cui è poco attestato nelle età precedenti:
le carcasse erano scuoiate e depezzate prima di portarle
nei villaggi e così Patrice Méniel, nella disamina sulla caccia e l’allevamento dell’età di La Tène (450-52 a.C.) in Gallia lamenta appunto l’assenza quasi totale di resti d’orso,
notando che “... contrairement à l’habitude, les indices
sont d’autant plus réduits que l’animal est grand ...”
(Méniel 1987, p. 93). Nella presentazione più dettagliata
dei resti faunistici da specie selvatiche dagli abitati dell’età del Ferro nell’area alpina e prealpina nordoccidentale
(Svizzera, Francia orientale, Germania sudoccidentale) si
evince che la percentuale di animali catturati e uccisi dalla
caccia è minima (meno del 5% dei resti ossei nell’età di
Hallstatt, 800-450 a.C., addirittura meno dell’1% per l’età di La Tène, 450-50 a.C.: Schibler et al. 1999). L’orso è
presente in sedici contesti su quaranta, ma la quantità di
ossi è trascurabile: al massimo dodici a Berna e a Châtillon-sur-Glâne, per lo più una manciata. Purtroppo non ci
viene detto di che parti anatomiche si tratta: denti, ossi
delle zampe, crani ... Questa rarità di resti ossei di animali
selvatici riguarda anche quelle specie che rappresentano
il tipico carniere del cacciatore (cervo, cinghiale, capriolo), segno dell’importanza che riveste l’allevamento come
fonte esclusiva dell’approvvigionamento di carne e che la
caccia ormai è un’attività così particolare e aristocratica
che probabilmente la consumazione della cacciagione e lo
scuoiamento degli animali da pelliccia avveniva durante le
stesse battute, senza pervenire negli abitati (Méniel 1987,
pp. 89-94).
Eppure, per la sua grande forza, l’orso è presente nell’onomastica celtica (Delamarre 2003, pp. 55-56) con nomi
come Artus, che significa semplicemente “orso”, Artula,
“orsetta”, misto tra la radice celtica e il vezzeggiativo fatto alla latina, tant’è che in un’iscrizione questa è la madre
di una Ursula pienamente latinizzata, il bel nome celtico
Comartiorix “re degli orsi” e forse Artebudz, che sarebbe
un composto con buddos o bussos, che significa “labbro”
o “pene”, dalla credenza del vigore sessuale dell’orso e
dalla presenza di un osso penico, attestato a Ptuj in Slovenia, dove come vedremo ci sono delle statuette di orso.
Ricordiamo che il nome del mitico re dei Britanni che si
opponevano ai Sassoni invasori, diventato simbolo della
cavalleria, Artù in italiano, Artorius nelle fonti antiche latine, prende nome proprio dall’orso ...
Un ruolo dell’orso nella religione celtica ci viene da alcune
testimonianze più tarde, successive alla conquista romana, quando alcune antiche credenze erano rimaste sotto
68
Francesco Rubat Borel
Ai margini del mondo antico:
i Germani e l’Europa settentrionale,
gli Sciti e l’Europa orientale
Fig. 24. Il fondo del calderone di Gundestrup, con simbologie astrali: tra le
zampe posteriori del Toro e la coda del Dragone, l’Orsa (da Goudineau Verdier 2006, p. 71).
la nuova veste della romanizzazione. Il caso più famoso
è quello della dedica ritrovata a Muri presso Berna alla
dea Artione (appunto un derivato dal nome dell’orso) della donna Licinia Sibinilla, di II secolo d.C.: una scultura
in bronzo dove su una base rettangolare si dispongono
accanto a un albero un grosso orso a quattro zampe che
rivolge il muso alla dea seduta, con alla mano destra una
patera e sulle ginocchia un piatto pieno di frutti, mentre a
fianco, a sinistra, su un pilastrino, è posato un cesto da cui
escono dei vegetali (LIMC, II.1, p. 856-7, e II.2, tav. 628)
(fig. 23). Altre dediche a Artione si trovano lungo il Reno,
mentre nelle Alpi francesi, a Beaucroissant, è Mercurio
che assume l’epiteto di Artaio (Jufer - Luginbühl 2001, p.
23; alcuni altri riferimenti in Green 1999, pp. 217-218).
Al di là dell’omonimia e dei dati linguistici e religiosi, dobbiamo constatare che non ci risultano rappresentazioni di
orsi nell’arte celtica, dove invece sono rielaborati leoni,
grifoni e altri animali dell’iconografia mediterranea. Così
nel famoso calderone di Gundestrup l’unico orso sarebbe
sul piccolo disco del fondo, dove sono raffigurate le costellazioni del Toro, grande e centrale, Orione, la Lucertola
o Dragone e in piccolo l’Orsa Polare, accoccolata, stando
a una recente interpretazione (Goudineau - Verdier 2006,
p. 71) (fig. 24). Nei riquadri a sbalzo del grande calderone d’argento, ritrovato in Danimarca e fabbricato nel
nord della Penisola Balcanica attorno al 100 a.C., non ci
sono orsi, pur di fronte a una ricchissima fauna mitica, con
lupi, tori, cervi, delfini, cani, aquile, grifoni e perfino due
elefanti. Il repertorio animale pare perciò rifarsi a quello
greco classico, che rifugge, come vedremo, l’orso, forse
troppo grossolano da rappresentare. Anche per i pochi artigli di orso in alcune tombe in Gallia ritrovati come ornamento o le ossa delle zampe incenerite, segno di un mantello bruciato, la distribuzione dei ritrovamenti nell’antico
Belgio (con qualche caso anche presso i Belgi emigrati in
Britannia), con casi analoghi nella Germania settentrionale, ci pare di poter vedere una tradizione germanica e non
celtica (Arbogast - Méniel 2002, fig. 4).
Come abbiamo appena detto, nella Germania settentrionale troviamo delle unghie e zampe di orso nelle tombe
dell’età del Ferro. Per il resto, ammettendo di non aver
avuto accesso alla ricca bibliografia sul mondo germanico,
dal poco che ho visto anche lì gli orsi sono rari. Segnalo che ci sono orsi raffigurati di profilo a quattro zampe
nell’arte rupestre della Norvegia (Pentikäinen 2007, tav.
X). Come per il mondo celtico, a questa povertà iconografica e archeologica si oppone la tradizione dei gruppi
di guerrieri che si identificavano con gli orsi, i Berserkir, di
cui però abbiamo testimonianza attorno al 1.000 d.C. in
Scandinavia e che perciò mi pare eccessivo voler estendere a tutto il mondo germanico protostorico (Pastoureau
2008, pp. 39-48). Al più, segnalo che tra III e IV secolo
d.C. presso il popolo germanico orientale dei Taifali vigeva
una forma particolare di servitù e soggezione dei giovani
verso i guerrieri adulti, che si potevano liberare solamente uccidendo un cinghiale o un orso, evidentemente tra
le due bestie più pericolose nel loro territorio (Ammiano
Marcellino Hist., XXXI,9).
Neanche presso gli Sciti l’orso ha molta fortuna, preferendogli leoni, cervi e cinghiali. Questa popolazione delle
steppe, famosa per la meravigliosa oreficeria, ci ha però
lasciato alcune tra le più graziose raffigurazioni di orso: il
bustino di un orsacchiotto, di certo senza simbologie di
potenza o forza, con gli occhi sgranati, le orecchie alte, la
boccuccia aperta e le zampine è stato raffigurato su delle
piccole applique in argento ritrovate nel ricco corredo della tomba principesca della seconda metà del IV secolo a.C.
di Agighiol in prossimità del delta del Danubio, simili alle
testine su un coprinaso dal tumulo di Oguz, del IV secolo
a.C. (I Daci 1997, p. 191; Schiltz 1994, p. 220, figg. 162
e 345) (fig. 25). Ben diverso, dalla bocca mostruosa, è in-
Fig. 25. Una delle applique in argento di Aghighiol (da I Daci 1997, fig. 165).
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
69
Fig. 26. Cucchiaio in osso da Bice Oba sull’Ural (da Lebedynsky 2001, p. 235).
Fig. 27. Vaso bronzeo dalla necropoli etrusca dell’Occhio Bello di Bisenzio
(da Gli Etruschi 2000, p. 541).
Fig. 28. Stele da Novilara (Piceni 1999, fig. 402a).
vece la testa di un orso sul manico di un cucchiaio in osso
di produzione sauromata da Bice Oba presso il fiume Ural
(Lebedynsky 2001, p. 235) (fig. 26).
Un combattimento, o scena di caccia, è sulla faccia incisa
(l’altra faccia è iscritta) di una delle stele di Novilara nelle
Marche, della metà del VI secolo a.C.: due uomini armati
di lancia affrontano un toro da un lato, un orso dall’altro,
mentre sopra c’è un’apparente scena di combattimento tra due gruppi di armati sulle rive di un fiume (Piceni
1999, p. 244, fig. 402a) (fig. 28). La rappresentazione è
molto sommaria, con la sola linea di contorno, ma dell’or-
Gli Etruschi e gli Italici
Nel mondo etrusco-italico, prima dell’influsso dell’arte
greca, si ha qualche immagine di orso, il carnivoro di maggiori dimensioni della Penisola. Alla seconda metà dell’VIII
secolo a.C. risale un vaso bronzeo dalla tomba 22 della
necropoli dell’Occhio Bello di Bisenzio sul lago di Bolsena,
usato come cinerario (Torelli 1997, p. 36, fig. 25) (fig. 27).
La scena molto complessa è formata sul coperchio da un
essere mostruoso, seduto, dalle ampie narici, con le zampe unghiate, con al collo una lunga catena, e tutt’attorno una danza di sette guerrieri. Sulla spalla del vaso, altri
nove guerrieri armati di scudo e di lancia (non conservata), interrotti da un uomo preceduto da un bue che tiene
per la coda o per una corda e da un uomo con lancia e
mazza. La scena è stata interpretata da Mario Torelli come
un rito funebre con guerrieri che danzano la pirrica e un
bue condotto al sacrificio. Il mostro centrale sarebbe una
figura infera, tuttavia suggerirei che prenda ispirazione da
un orso o che sia un orso identificato come creatura infera
(i tratti scimmieschi sono dovuti allo stile, piuttosto rozzo,
delle sculture).
Fig. 29. Il mito di Caeculus infante (da LIMC, VIII.2, tav. 351).
70
Francesco Rubat Borel
so, che è a quattro zampe, visto di profilo, si sono voluti
tracciare, con due brevi tratti, la bocca e un orecchio.
Al margine del mondo italico, devo segnalare che non
risultano immagini di orsi nelle raffigurazioni di cacce
nell’arte rupestre della Val Camonica.
Tornando all’Italia peninsulare, non manca un mito secondario, quello di Caeculus, eroe di Preneste nell’antico
Lazio, che sarebbe stato allevato da una leonessa (LIMC,
VIII.1, p. 544; Grimal 1990, p. 112, non riporta la tradizione della fiera che diede ospitalità al bambino) (fig.
29). Tuttavia il particolare che il nome dell’eroe significhi
“cieco” (come si pensava fossero gli orsacchiotti appena
nati, come si legge nel testo di Plinio qui riportato in appendice) e la raffigurazione sui piedi di una cista di bronzo, di fine V secolo a.C., ora a Berlino, in cui l’eroe infante
è allevato da una fiera dalla criniera, che voltata gli lecca
il fondo della schiena (e Plinio scrive che gli orsacchiotti,
nati informi, prendono il loro aspetto sagomati dalla lingua della madre), ci fa chiedere se all’origine la belva non
fosse un’orsa e solamente più tardi sostituita dai mitografi
nella più nobile ed esotica leonessa.
I Greci
Delle culture dell’antica Europa, quella presso la quale
l’orso ha goduto di meno fortuna è la Grecia. È impressionante come, in una tal ricchezza di miti, di raffigurazioni
artistiche, di testimonianze letterarie, l’orso non compaia
che poche, rarissime volte. Addirittura nella loro lingua,
così ricca e creativa, hanno formato da árktos “orso” solamente 13 parole (escludendo i pochi toponimi e nomi
propri di persona), contro 33 da lýkos “lupo” e quarantasei da léõn “leone” (conteggi effettuati in Montanari
1995).
Nessun eroe affronta orsi, neppure Ercole che ha combattuto contro mostri, leoni, tori, cervi e perfino cavalli
carnivori. Quest’assenza per altro coinvolge anche i lupi,
forse si tratta di animali per quanto feroci ritenuti troppo
comuni ed ordinari. Ma ciò che colpisce ancora di più è la
quasi totale assenza di metamorfosi di uomini e semidei
in orsi. Si sa che una delle caratteristiche dei miti greci è la
trasformazione del protagonista in un animale, un albero,
un elemento naturale. Ebbene, solamente in un caso si ha
l’eroina trasformata in orsa (Pastoureau 2008, pp. 24-33;
Pentikäinen 2007, pp. 16-19). Callisto è una ninfa o la
figlia di Licaone, re dell’Arcadia. Avendo fatto voto di verginità, era nel gruppo di compagne di caccia di Artemide
tra i boschi e i monti. Zeus se ne innamorò e si unì a lei
ingannandola dopo aver assunte l’aspetto di Artemide o
di Apollo. Generò un figlio, Arcade, e fu uccisa da Artemide perché irritata dal voto infranto o perché istigata da
Era gelosa. Zeus la trasformò nella costellazione dell’Orsa
Maggiore, oppure fu mutata in orsa per punizione da Artemide o da Zeus per sottrarla alla vendetta di Era (Grimal
1990, pp. 102-103). Il figlio Arcade a sua volta, dopo aver
regnato sui Pelasgi del Peloponneso che da lui prenderanno nome di Arcadi, sarà trasformato nella costellazione di
Arturo, il Guardiano dell’Orsa, perché mentre era a caccia
attaccò un’orsa, non riconoscendovi la madre, e per catturarla entrò in un tempio sacro a Zeus Licio (cioè dei lupi):
il dio per impedire il matricidio o per evitare che fossero
puniti per il sacrilegio, li fece diventare due costellazioni
Fig. 30. Il mito di Callisto: a) e b) l’inizio della metamorfosi in vasi apuli;
c). Arcade incontra Callisto trasformata in orsa, mosaico di età romana (da
LIMC, V.2, tavv. 604 e 605).
(Grimal 1990, pp. 57-58). Di questo mito le raffigurazioni
della metamorfosi sono pochissime e limitate alla Puglia
tra il 380 e il 370 a.C.: su un frammento, resta solamente
la testa della fanciulla e le dita che diventano zampe, in
una oinochoe invece Callisto, seduta, dai capelli ormai irsuti si guarda una mano che si trasforma in zampa (LIMC,
V.1, pp. 940-944 e VI, 2, tav. 604). L’incontro tra Callisto e
Arcade è in un mosaico a Italica in Spagna, tra II e III secolo
d.C., con il giovane che scaglia il giavellotto contro l’orsa
(LIMC, V.1, pp. 940-944 e VI, 2, tav. 605); credo che però
qui più che la raffigurazione di un mito si abbia a che fare
con uno spettacolo del circo che mette in scena la vicenda, come vedremo accadere in età romana (fig. 30). Le altre comparse di orsi sono poca cosa11. In una versione del
mito, il bambino Paride, esposto sul monte Ida per ordine
del padre Priamo di Troia perché gli era stato predetto che
da lui sarebbe venuta la rovina della città, fu allevato per
alcuni giorni da un’orsa prima di essere raccolto da alcuni
pastori (Grimal 1990, p. 481). Il nonno paterno di Ulisse,
il padre di Laerte, era Arcisio, figlio dello sfortunato eroe
Cefalo e di un’orsa, con la quale si era unito per obbedire
all’oracolo di Delfi (Grimal 1990, pp. 113 e 626). Un’altra
fanciulla della schiera di Artemide ha un mito con un orso:
in Tracia Polifonte che, ispirata da Afrodite irritata per la
sua verginità, si innamorò di un orso e da questo ebbe
due figli, Agrio il selvaggio e Orio il montanaro, in una
grotta dove si era nascosta per sfuggire allo sdegno di
Artemide (Grimal 1990, p. 522).
Si evoca spesso il culto di Artemide nel santuario di Brauron, nell’Attica, dove le fanciulle che compivano il rito,
al passaggio dall’infanzia all’adolescenza, erano chiamate orse, ma devo ammettere che del sacrificio di orse al
termine del rito, menzionata da alcuni autori moderni,
non ho trovato riscontro nei testi antichi (RE, III,1, cc.
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
71
Fig. 31. Artemide e le bambine “orse”: a sinistra, statua fittile da Corfù; a
destra, rilievo in marmo da Brauron (da LIMC, II.2, tav. 504).
Fig. 32. Rilievo di Nemesi Diana (da LIMC, VI.2, tav. 447).
824-825; Strabone IX,399; Pausania I,23,7; Euripide Iph.
Taur., 1466; Aristofane Lysisistr. 465; Erodoto VI,138; Pastoureau 2008, pp. 27-28; Pentikäinen 2007, pp. 19-20).
E comunque, anche qui se mai all’origine c’era un culto
con orsi, come apparirebbe dalla terminologia, non pare
lasciare tracce evidenti nei resti archeologici. Elinor Bevan
ipotizza che l’immissione dell’orso nel culto di Brauron
possa essere piuttosto recente e di origine peloponnesiaca, rilevando che le poche immagini del santuario attico
raffigurano uomini e giovanette nei riti, mentre inaspettatamente manchino gli orsi, come mostra la scheda di
Lilly Kahil sull’iconografia di Artemide (LIMC, II.1, pp.
676-677) (fig. 31). Infatti l’orso è negletto non solo dal
mito ma anche dall’arte greca. Sarebbero solamente sette
i templi e santuari nei quali sono state rinvenute immagini
di orsi e di questi tre erano dedicati ad Artemide (Bevan
1986, pp. 18-27). Un rilievo da Claros, forse proveniente
in realtà dall’Acropoli di Atene, e alcuni elementi del gruppo scultoreo della statua di culto di Artemide a Brauron si
datano al V e IV secolo a.C. L’orso potrebbe essere un influsso del culto di Artemide Orthia, preposta alle nascite,
originaria dell’Arcadia. Sono miti secondari, particolari. E
per il resto, non mi risultano orsi nella pittura su ceramica
sia in Grecia che in Italia, tranne quei due vasi apuli dove
però non abbiamo un orso, ma l’inizio della metamorfosi
di Callisto, limitandosi a una zampa e ai capelli irsuti.
oggetti di vita quotidiana come le lucerne e ceramica o
i piccoli bronzi, segno di una familiarità e di una certa
popolarità della belva, che doveva essere la più frequente negli spettacoli del circo. Ad esempio nella ceramica
sigillata della Gallia della seconda metà del II secolo d.C.
spesso compare un cavaliere attaccato o che attacca la
grossa fiera (Stanfield - Simpson 1958)12. È da notare che
il cavaliere è armato di spada e non di lancia ed è sempre voltato indietro o tira di fianco, più come se si stesse
difendendo che se fosse un cacciatore, il che mi fa pensare che si tratti in realtà di uno spettacolo nel circo, con
la trasposizione mitica nella raffigurazione del centauro
(Stanfield - Simpson 1958 p. 214, tav. 123, 42; p. 35, tav.
40,469; p. 188, tav. 100,1 e 3; p. 194, tav. 106,22; p.
184, tav. 98,14; p. 161, tav. 83,9 e 10; p. 165, tav. 85,3;
centauro a p. 263, tav. 163,75); non mancano per altro
le scene di dannati ad feras (Stanfield - Simpson 1958,
donna dannata ad beluas con orso p. 248, tav. 145,8).
Per altro, i dati etnografici mostrano che la caccia all’orso
effettuata a cavallo è nettamente minoritaria (6,72% per
le popolazioni di cacciatori-raccoglitori dell’Asia e dell’America subartica, il che può aver inciso in negativo sulla
percentuale) e che comunque sono lancia o picca le armi
per uccidere la belva (Binford 2002). Con più sicurezza
abbiamo episodi di caccia quando ci sono degli orsi che
fuggono; da notare che invece è piuttosto raro che siano
leoni a fuggire: è forse una testimonianza di realismo, essendo l’orso presente e cacciato in Gallia, mentre il leone
è importato e caratterizzato da numerosi valori mitologici
e di prestigio? Altre volte, con orsi in coppia che attaccano
cervi, si vede un episodio naturale (Stanfield - Simpson
1958, p. 161, tav. 82,5). Sulle lucerne possiamo vedere
orsi in fuga, orsi che balzano o attaccano cervi, semplici
teste, orsetti rappresentati come piccoli animaletti pelosi e
dal muso abbassato (Bonnet 1988, p. 73, fig. 20; Di Filippo Balestrazzi 1988, nn. 277, 400, 402,403, 649; Larese
- Sgreva 1997, n. 288; 1997, n. 153; Di Filippo Balestrazzi
1988, n. 571) (fig. 33).
Non mancano orsi sull’artigianato artistico, come la terminazione a testa ursina (e non di cane, come scrivono gli
Il mondo romano
Nemmeno nel mondo romano l’orso ha fortuna nelle
immagini sacre, facendomi segnalare al più a Teurnia,
nell’attuale Austria meridionale, un’immagine di Diana
nel suo aspetto di Nemesi, davanti a due bestiarii (i gladiatori specializzati nei combattimenti con gli animali) che
attaccano un orso (LIMC, VI.1, p. 766 e VI.2, tav. 447)
(fig. 32): dedica di gladiatori o di appassionati ai giochi del
circo, senza legami al culto della dea. Della dea Artione e
di Mercurio Artaio in Gallia abbiamo già visto.
Le scene di caccia all’orso si fanno più frequenti sugli
72
Francesco Rubat Borel
Fig. 35. Mosaico di Orfeo tra le fiere, da Blanzy-lès-Fismes, inizi del IV secolo
d.C. (da LIMC, VII.2, tavv. 57-77, n. 111)
Fig. 33. Lucerna romana (da Larese - Sgreva 1997, n. 153).
Fig. 34. Orso in ambra (da Koster 2007).
editori) di una chiave di bronzo da Concordia in Veneto,
di I-II secolo d.C. (Antichi bronzi di Concordia 1983, p.
44) o su anelli da Aquileia e da Poetovium/Ptuj scolpiti nelle perle d’ambra (dalla stessa località abbiamo già
segnalato il personale Artebudz), dove troviamo animali
tozzi proni, con muso corto e fitto pelame, dalla coda
corta, da alcuni interpretati come cani ma che mi paiono
essere evidentemente degli orsi (Gaggetti 2001, nn. 119124). Non ci sono incertezze sull’identificazione con orsi,
invece, per la piccola scultura in ambra deposta tra l’80 e
il 100 d.C. nel ricco corredo della tomba 1 della necropoli
di Ulpia Noviomagus nella Germania Inferiore (oggi Nimega in Olanda), con l’orso dalla testa e la zampa rivolte
verso l’alto e un foro sul dorso per l’inserimento su un
supporto (Koster 2007) (fig. 34). Si ha qualche esempio
anche nel ricco vasellame d’argento delle Gallie, in scene
dionisiache, adatte al contesto (appunto, servizi da banchetto) come l’orso seduto accanto a un asino che scalcia
sul frammento di orlo di un piatto di bronzo ricoperto di
argento da Saulzoir, nel nord della Francia, della prima
metà del III secolo d.C., oppure l’orso che insegue due
antilopi o giovani cervi nel fregio di animali della situla
prodotta nella Germania Inferiore tra il 150 e il 175 d.C.
da Otterstadt nel Palatinato, o ancora il combattimento
tra due orsi, uno che balza in attacco, l’altro in difesa a
testa bassa, separati da un albero, in una scena silvestre
con amorini danzanti, di II-III secolo d.C. trovati nel tesoro
di Thil in Aquitania (Baratte 1989, nn. 106, 123, 197).
Infine, erano il tipico soggetto dionisiaco del tiaso con il
carro tirato da due fiere che avendo la testa che termina in
una punta affusolata potrebbero essere orsi (Dragendorff
- Watzinger 1948, tav. 15, 161).
Con l’età imperiale le raffigurazioni di orsi diventano particolarmente frequenti sui sarcofagi e sui mosaici degli
edifici pubblici e privati. Eppure anche qui non si tratta di
rappresentazioni di episodi mitici (escludiamo da questo
la scena di Orfeo tra le fiere, che appare un catalogo delle
specie animali selvatiche, o peggio, come vedremo, una
sorta di spettacolo nel circo: LIMC, VII.1, pp. 81-105, e
VII.2, tavv. 57-77) (fig. 35), ma legate a momenti della
vita reale antica, o almeno a quegli aspetti ritenuti particolarmente prestigiosi dai committenti: scene di caccia o
di spettacoli nel circo. In una generale scarsa attenzione
verso il mondo naturale se non antropizzato, tipico della
cultura antica, la caccia è forse l’attività umana che più
di tutte ci dà immagini dell’ambiente antico. È da questi
contesti che si può intravvedere quale fosse la concezione
della natura per gli antichi e in ciò gli animali sono raffigurati o perché prede o perché ornamento di giardini o
perché al più oggetto di curiosità. Gli orsi non sono che
grossi animali, spesso presenti nelle foreste come prede
o avversari, o come semplici comparse. Nella villa di età
costantiniana di Antiochia, nel grande mosaico ora al
Louvre, l’orso è la preda di tre cavalieri assieme alla tigre
e al leone, quasi fossero la terna di fiere del migliore cacciatore (Dorigo 1966, p. 196, fig. 148). Sempre da Antiochia, ma ormai nel VI secolo d.C., nel grande Mosaico
della Caccia Worcester si cacciano molte fiere, soprattutto
leoni, e vi è anche una scena di rapimento di un tigrotto,
dopo aver allontanato la madre: gli orsi sono in disparte,
abbattuti con una lancia al collo, con un orsacchiotto solitario, forse destinato ad essere rapito dai cacciatori per
essere condotto in un serraglio (Parrish 2005, fig. 5) (fig.
36). Nemmeno nella villa siciliana di Piazza Armerina gli
orsi paiono rivestire grande importanza. Mancano nelle
grandi venationes (le cacce simulate nelle arene) e nelle
catture di animali, così come nelle scene complesse (tran-
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
Fig. 36. Scena del Grande Mosaico della Caccia Worcester da Antiochia, VI
secolo d.C. (da Parrish 2005, fig. 5).
Fig. 37. Mosaico dall’ambiente 19d della villa di Piazza Armerina (da Carandini et al. 1982, p. 156)
ne che tra le molte fiere nella scena di Orfeo nell’ambiente
35 e due orsi che balzano nel peristilio attorno al cortile,
ma si tratta ancora di poca cosa). Abbiamo però 13 teste
di orso, viste di profilo, tra i 156 medaglioni con teste di
animali nel peristilio dell’ambiente 19d, così come altre
teste sono all’interno di volute vegetali nell’ambiente 46c:
mere decorazioni (Carandini et al. 1982, pp. 128, 138,
300, fogli VII-XIV, XV, XLV) (fig. 37).
Anche se consideriamo le scene di caccia sui sarcofagi,
prevalentemente di III e IV secolo d.C., vediamo però subito come anche in queste rappresentazioni prevalgano
le convenzioni artistiche e culturali (Andreae 1980, pp.
143-185 e 195)13 (fig. 38). L’animale di gran lunga più
73
Fig. 38. Percentuali degli animali cacciati nei sarcofagi romani (dati da Andreae 1980, p. 195).
presente (quasi un terzo) è infatti il leone, sia maschio con
la criniera, che femmina, e addirittura qualche piccolo, e
non mancano le pantere. È evidente qui che la caccia è intesa come attività prestigiosa per la nobiltà dell’animale e
il riferimento a miti di antichi eroi. Maggior legame con la
realtà hanno invece le cacce al cinghiale (un quarto delle
raffigurazione) e al cervo (un quinto), mentre non mancano, seppur poco numerosi, lepri, tori (ricordiamo che
la forma selvatica, l’uro, era ancora presente nell’Europa
centrale, oltre ai miti che vedono bovini come protagonisti) e nelle regioni mediorientali e africane onagri (asini
selvatici), struzzi ed antilopi. Ci sono anche alcuni elefanti,
aquile e serpenti ... Ma se andiamo a vedere i carnivori
europei, ecco che non c’è nessun lupo, forse perché confondibile con il cane, o piuttosto con l’animale simbolo
di Roma, e gli orsi sono tutto sommato rari, se teniamo
conto del fatto che si tratta dell’animale più pericoloso del
nostro continente: appena il 7%. Molto spesso l’orso è
presente in complesse scene di caccia dove la parte principale è tenuta da altre fiere come il leone o addirittura il
cinghiale. Così attorno al 300 d.C. su sarcofagi da Cahors
e Bourges in Gallia ci sono scene di caccia al cinghiale e al
cervo, con un orso in fuga che si volta per far fronte all’attacco di un cavaliere. Un episodio di caccia a un gruppo
di orsi effettuato da cavalieri con torme di cani è su un
sarcofago a Palazzo Lancellotti a Roma, del 320-330 d.C.:
due orsi affrontano i cavalieri, un altro in fuga, di un altro
già abbattuto non compare che la testa a terra (fig. 39).
Sempre a Roma, su un sarcofago di fine III secolo d.C. a
Villa Doria Pamphilj, all’estremità sinistra ci sono due orsi,
uno dei quali azzanna un vitello, forse usato come esca;
comunque sia, nella stessa scena i cacciatori affrontano
anche due cinghiali (fig. 40). Stesso realismo in un sarcofago coevo da Ostia, in cui un orso è attaccato da un
cacciatore mentre un cane gli è balzato sul dorso. Non è
raro per altro che l’orso non solo sia un mero comprimario
in una scena con i più nobili leoni o con il cinghiale, ma
addirittura che sia ridotto ad animale già ucciso, facendo
solamente capolino con la sua testa tra la vegetazione o
tra le gambe di cacciatori e fiere: è valida anche in questi
casi l’osservazione che il corpo tozzo e grosso dell’orso sia
74
Francesco Rubat Borel
Fig. 39. Sarcofago romano da Palazzo Lancelotti a Roma (da Andreae 1980, tav. 107,2).
Fig. 40. Sarcofago romano da Villa Doria Pamphilj a Roma (da Andreae 1980, tav. 95,1).
poco elegante da rappresentare rispetto a un felino o a
un irsuto cinghiale? Lo stesso si può dire per gli spettacoli
nel circo, dove appunto gli orsi erano ben presenti, ma
nelle rappresentazioni si preferiscono i più eleganti leoni
(Augenti 2001, nn. 14, 16, 17, 18, 31).
La forma di intrattenimento più comune erano le venationes, ovvero delle rappresentazioni nell’arena di cacce
dove gli orsi erano catturati come se fossero nelle foreste.
Gli orsi erano tra le belve di più facile reperimento almeno in Europa, come è attestato da numerosi testi letterari, forse meno soggetti agli stereotipi e ai modelli delle
iconografie. Uno spettacolo particolarmente complesso
è raffigurato su un rilievo a Sofia, dove orsi combattono
contro tori, pugilatori, condannati a morte e addirittura
un coccodrillo (Augenti 2001, pp. 45-46) (fig. 41). Su
una pedana, un orsacchiotto con la testa coperta da una
maschera di scimmia è seduto circondato da bambini o
pigmei, anch’essi mascherati. Interessante uno degli spettacoli, dove dietro una porta girevole, la cochlea, cerca di
nascondersi un condannato: questo serviva a far infuriare
ancor di più l’orso, che attaccava inizialmente vanamente
il pover’uomo che credeva così di potersi proteggere per
un poco (fig. 42). Gli orsi probabilmente ancora dalle fitte
foreste e dai monti dei Balcani erano stati radunati dal
ricco greco Democare nel II secolo d.C., come vedremo
tra poco, e nel 61 a.C. se n’erano portati a Roma ben
100 dalla Numidia, tra le attuali Tunisia e Algeria (Apuleio
Metamorph. IV,13; Plinio Nat. Hist. VIII,131). Marziale, nel
suo opuscolo dedicato ai giochi nel Colosseo, ci descrive
supplizi e spettacoli che vedono orsi come protagonisti,
che anzi sono tra le fiere le più numerose, più di leoni e
tigri che pur prevalgono nel nostro immaginario e nelle
molte scene sui mosaici (Marziale L. spect. VII, XI, XV, XXI,
Fig. 41. Rilievo con scena di spettacolo nell’arena da Sofia (da Augenti 2001,
p. 45).
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
Fig. 42. Particolare del rilievo con scena di spettacolo nell’arena da Sofia:
un orso e un condannato separati dalla cochlea (da Augenti 2001, p. 46).
Fig. 43. Il dittico di Areobindo, 501 d.C. (da Roma e i barbari 2007, p. 211).
75
XXI): lo sfortunato Laureolo, condannato a morte, è legato a una croce dove viene dilaniato da un orso della Caledonia (l’odierna Scozia, dove gli orsi sono ormai estinti da
secoli), tragica fine che subisce anche da parte di un’orsa
un musico nella parte di Orfeo, fino a suscitare la tetra
battuta che la belva era stata mandata da Euridice; nei
combattimenti tra animali, che più erano interessanti più
portavano bestie rare o che in natura non si sarebbero mai
incontrate, un orso viene scaraventato in aria da un rinoceronte, che fa fare la stessa fine a due manzi, un bufalo
e un bisonte, mentre un leone per sfuggirgli preferisce
essere infilzato dai giavellotti, oppure un altro è ucciso dal
cacciatore Carpoforo assieme a un leone e un leopardo (e
Marziale non perde l’occasione di fare un gioco di parole
tra l’orso e il punto cardinale Artico, da dove proverrebbe). Di tutti gli epigrammi, però quello che ritengo essere
il più interessante è quello dove si ricorda il buffo spettacolo della cattura di un orso, deridendolo mentre furioso
si impiastriccia nel vischio non riuscendo più a fuggire: il
riso viene suscitato dal fatto che il grosso animale è catturato come se fosse un uccelletto. E quattro secoli dopo
è buffa anche la scena di combattimento nel circo nel
dittico di Areobindo (Spätantike und frühes Christentum
1983, pp. 637-639). I consoli alla fine dell’Impero erano
soliti celebrare la loro nomina con due tavolette di avorio,
legate tra di loro (i dittici), sulle cui facce erano scolpiti i
ritratti degli imperatori, scene allegoriche, il console e i
suoi famigliari o altre scene, comprese quelle dei giochi
nel circo e le corse delle bighe che erano offerte dal magistrato appena nominato. Il console Areobindo nel 501
d.C. fa incidere un dittico con su una faccia una venatio
di leoni, sull’altra invece una scena con orsi, uno dei quali
attacca una sorta di gabbia sferica, un altro un uomo armato, un terzo invece si accascia mentre viene colpito dal
calcio di un cavallo e un uomo si nasconde dietro una porta, probabilmente la cochlea che abbiamo già incontrato
nel rilievo di Sofia (fig. 43): è sempre e solo con l’orso che
si induce a scene anche comiche nel circo, mentre ne sono
esenti i nobili leoni e le rare tigri. In altri dittici si hanno
invece delle scene tipiche di caccia all’orso, come quello
al Louvre del 400 d.C., che era affrontato con la picca,
oppure catturato mettendogli un cappio al collo, mentre
si osserva che a volte due esemplari possono combattere
tra di loro, in piedi (Alföldi-Rosembaum 1983, fig. 4) (fig.
44). Per altro, i casi in cui l’orso è ritto e stante sulle zampe
posteriori (ovvero non è appoggiato al corpo dell’uomo
Fig. 44. Il dittico al Louvre, 400 d.C. (da Alföldi-Rosembaum 1983, fig. 4).
76
Francesco Rubat Borel
Fig. 45. Mosaico con Afrodite e amorini a caccia, da Zeugma (da Darmon
2005, fig. 10).
o dell’animale che sta attaccando) o colpisce con le sue
possenti zampe anteriori sono molto rari quasi evitando
confronti con l’uomo. Plinio ne accenna di sfuggita ed
aggiunge che anche quando scende dagli alberi lo fa al
contrario, come gli uomini (Plinio Nat. Hist. VIII,130, vd.
anche qui l’Appendice). Al più l’orso è rampante, come
quando attacca un gladiatore armato di scudo o balza al
collo di un toro o di cervo, e conosco solamente un caso in
cui è raffigurato senza davanti un avversario o una preda
su un vaso in ceramica sigillata (Stanfield - Simpson 1958,
p. 40, tav. 44, 514).
Torniamo un attimo all’epigramma in cui nel circo un
dannato nella parte di Orfeo tra le belve è sbranato da
un’orsa. Se all’inizio ho detto di scartare il mito di Orfeo, è
perchè occorre ricordare questo tipo di condanna e spet-
tacolo, così come altri miti che vedono eroi o pastori tra
le belve, primo tra tutti Paride, che abbiamo detto essere
legato a antichi miti di orsi. Così, il grande mosaico nelle
Terme Occidentali dell’isola greca di Coo, di III secolo d.C.,
ha nel quadro centrale il giudizio di Paride, mentre nel
bordo vi è un fregio continuo di scene di caccia a orsi,
tori, cinghiali e cervi (De Matteis 1994). Sono gli orsi le
belve su cui cadono le attenzioni dell’artista, ben 11, affrontati da cacciatori a piedi con stocchi o a cavallo, in
diversi momenti e atteggiamenti della lotta. Che si tratti
di uno spettacolo circense e non di un semplice mito si
capisce dal fatto che dei nomi sono scritti a fianco sia dei
cacciatori che degli orsi, come se fossero delle celebrità.
D’altra parte, la scena del giudizio di Paride come introduzione agli spettacoli nell’arena è ben descritta da Apuleio
(Metamoph. X, 30-34). Oppure per la nascita di Afrodite
nella conchiglia tra le spume del mare, eccola nel grande
mosaico di età Severa di Zeugma, sull’alto Eufrate, firmato
da Zosimo di Samosata (Darmon 2005, fig. 10). Il quadro
centrale ha Afrodite nella conchiglia, attorno c’è una scena di caccia di amorini contro leoni, pantere e antilopi, ma
anche un orso in fuga ed un altro che affronta un amorino
armato di lancia e scudo: è evidente che qui si è preferito
volgere in decorazione e scherzo la reale venatio con i
gladiatori sostituiti dai puttini (fig. 45).
Ma si tratta di spettacoli e non di vere e proprie rappresentazioni di miti, anche perché gli orsi sostanzialmente
mancano nel mito greco, come abbiamo visto. Tutt’al più
gli orsi compaiono nelle ricche decorazioni con sfondo
naturalistico di mosaici, pitture murali o di alcuni sarcofagi. In questi, un carattere particolare prendono le scene
dove i personaggi principali sono amorini che cacciano o
combattono. È evidente che non si tratta più di episodi
mitici, ma di allegorie e scherzi e decorazioni. Di tutti questi, credo che il più bell’esempio sia un sarcofago a New
York del 120-130 d.C. dove gli amorini sono su bighe o a
cavallo: ma gli animali al giogo o montati sono fiere come
orsi, leoni e leonesse, tigri, cinghiali, capri (Kranz 1984,
cat. 316, p. 244, tav. 90, 2) (fig. 46). Nelle decorazioni pittoriche di Pompei, eccone una di IV stile con un amorino
che combatte con la lancia contro un orso (Barbet 1985,
p. 199, fig. 141).
Fig. 46. Sarcofago romano con corsa di carri guidati da amorini e tirati da belve (da Kranz 1984, tav. 90,2).
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
Fig. 47. Mosaico con scena di caccia dal Monte Nebo in Giordania, 530 d.C.
(da Parrish 2005, fig. 14).
Con il tardoantico ci sono alcune immagini meno crudeli
e anzi a volte anche buffe, come l’uomo che cerca di scacciare a sassate un orso penetrato in un frutteto raffigurato
su un capitello di Vienne nella Gallia meridionale alla fine
del IV secolo d.C. (Lavagne 2003, p. 140, n. 324, tav. 211)
o l’orso seduto sulle zampe posteriori verso il quale un Sileno spinge un caprone, in una ricca decorazione vegetale
con fiere, nel mosaico del Sileno legato di El-Jem in Tunisia
(Malek 2005, fig. 4).
Con il cristianesimo della tarda antichità, in Oriente compare ancora qualche orso, oltre che nei mosaici con scene
di caccia e spettacoli del circo, ancora tanto popolari. Ma
gli esempi sono pochi, forse perché inizialmente la belva
mal si presta al simbolismo della nuova religione. Ecco un
orso nella chiesa di San Cristoforo a Kabr-Hiram nel 575
d.C. (Kier 1970, p. 70, fig. 285) o attorno al 530 d.C. nel
memoriale di Mosé sul Monte Nebo in Giordania ritroviamo la solita scena di caccia alle fiere con un cavaliere che
con la lancia attacca un orso voltato (Parrish 2005, fig.
14) (fig. 47) o sempre sul Monte Nebo, nella chiesa del
diacono Tommaso, il combattimento tra un orso a quattro
zampe e un uomo armato di spada e scudo, vicino a una
vigna dove un vignaiolo è tra le viti che si arrampicano agli
alberi (Balmelle - Brun 2005, fig. 3). Tutto sommato poca
cosa, fino a quando non avremo in Piemonte l’orso che
danza con l’uomo a Casale Monferrato (Kier 1970, p. 66).
Un episodio assai interessante, riguardante orsi da usare
negli spettacoli circensi ma anche immedesimazioni tra
uomini e orsi, è narrato da Apuleio nel suo romanzo “L’asino d’oro o Le metamorfosi” della metà del II secolo d.C.
(Apuleio Metamorph. IV,13-21). Dei briganti raccontano
che un giorno a Platea in Grecia si stava allestendo un
grande spettacolo al circo pagato da Democare, un ricco
77
cittadino, con gladiatori e belve cui far sbranare dei condannati. Tutta l’attenzione andava su delle orse, alcune
acquistate, altre regalate al munifico cittadino, ma le more
dell’organizzazione, sotto la canicola estiva, fecero morire
le belve, fiaccate dall’inerzia e da un’improvvisa epidemia.
Il popolino si buttò sui corpi delle grosse fiere, ormai ridotte a “relitti ferini di corpi semivivi”. I briganti escogitarono
allora un piano per derubare il ricco ma sfortunato Democare e si presero la bestia di maggiori dimensioni per mangiarsela tra di loro. L’orsa fu scuoiata e ne trattarono la
pelle, ben conservando la testa e gli artigli. Le carni furono
mangiate avidamente dai complici che quindi giurarono
che il più coraggioso tra di loro e “non necessariamente
il più forte” avrebbe rivestito le spoglie della belva per
entrare nella casa, facendo credere ai ricchi proprietari e
ai servi che fosse l’unica belva supersite. Che la carne d’orso fosse consumata non pareva essere una cosa strana,
perché la giustificazione dei ladri per prendersi la fiera era
proprio un uso alimentare. Fu scelto, per mascherarsi da
orso, Trasileone, il cui nome però significa “ardito come
un leone” (e di nuovo l’orso passa in secondo piano di
fronte al grande felino) ... Il falso animale fu accolto nella
ricca casa di Democare, che così sperava di por rimedio
al disastro dello spettacolo fallito. Nella notte il furfante travestito da orso uscì dalla gabbia, uccise i servitori
vicini e fece entrare i complici, confidando che nessuno
sarebbe intervenuto vedendo una tale belva furiosa per
la casa. Tuttavia la servitù fece fronte al pericolo e circondò il falso orso, infilzandolo con stocchi e scatenandogli
contro i cani. Trasileone morì sbranato, ucciso e dilaniato
come un orso, combattendo come un orso. Al di là della
connotazione picaresca dell’episodio, tipica dei romanzi
antichi, emergono subito alcuni elementi che si rifanno
a più antiche credenze e tradizioni: l’episodio avviene in
Grecia, nella Penisola Balcanica, e non nell’Africa di cui è
originario Apuleio; i briganti si cibano delle carni dell’orso, come in molte popolazioni nei riti dell’orso allevato o
mangiato da cacciatori e guerrieri (pensiamo ai riti siberiani e ainu); dell’orso si tengono la testa, la pelle e gli artigli,
con i quali si riveste un uomo che non solo combatterà da
orso, ma sarà un vero e proprio orso, fino a morire come
avrebbe fatto la fiera.
Eppure in tutta questa relativa ricchezza di attestazioni
artistiche, i resti ossei di orsi rimangono molto rari, come
già nelle età precedenti. Mi viene in mente, ad esempio, il
frammento di mandibola rinvenuta in uno strato romano
tra terzo e ultimo quarto del I secolo a.C. del chiostro del
medievale monastero della Visitazione a Vercelli (Cavallo
1996).
Quali fossero i numeri delle stragi di animali che abbiamo visto raffigurati su mosaici e sarcofagi ci è noto dalle fonti storiche, che si stupiscono e compiacciono della
magnificenza degli spettacoli con decine di fiere in età
tardorepubblicana e centinaia e migliaia di belve in età
imperiale. In un saggio sull’impatto delle attività umane
antiche sulla natura, come inquinamento, estinzioni, distruzioni ambientali, sfruttamento eccessivo delle risorse,
Karl-Wilhelm Weeber presenta i dati letterari ed epigrafici
degli spettacoli del circo (Weeber 1991, pp. 102-117). Al
di là dei numeri enormi, sarebbe importante poter capire
quanto questi massacri abbiano influito (ovviamente negativamente) sulle popolazioni naturali. Non pare tuttavia
che l’orso ne abbia risentito in maniera definitiva, perché
78
Francesco Rubat Borel
Fig. 48. Frammenti ossei macellati di orso dal castello medievale di Montaldo Mondovì (da Aimar et al. 1991, fig. 141).
nel medioevo nel nostro continente sarà straordinariamente abbondante, fino all’età moderna quando i fucili
e la completa antropizzazione del territorio ne provocheranno la pressoché completa estinzione in Europa occidentale e meridionale, tranne alcune popolazioni relitte
nei recessi marginali delle catene montuose. Eccone i dati
spaventosi, anche se può darsi che con l’andar del tempo i numeri riportati non siano affidabili ma gonfiati dalla
propaganda: nel 168 a.C. Publio Cornelio Scipione Nasica
e Publio Lentulo mostrano a Roma 63 belve africane e 40
tra orsi e elefanti (questi ultimi prede di guerra dagli eserciti dei re ellenistici orientali), Gordiano I (238 d.C.) offre
100 leoni, 1000 orsi, 200 cervi, 150 cinghiali, 300 struzzi,
30 asini selvatici ..., Probo (276-282 d.C.) 300 orsi, 100
leonesse, 100 leopardi , 100 leoni (questi ultimi, essendo
addomesticati, pare non abbiano riscosso molto successo perché poco spettacolari) ... Le città minori non erano
di meno, come abbiamo visto con Democare di Platea; a
Minturno nel 249 d.C. furono uccisi 10 orsi in uno spettacolo che si protrasse per quattro giorni, nella non lontana
Benevento gli orsi furono 16.
la popolazione e portato a mettere a coltura aree in precedenza a bosco. La distruzione dell’ambiente naturale,
la competizione dell’uomo, la scomparsa di territori che
non solo gli davano alimenti ma anche rifugio hanno condotto all’estinzione dell’orso. In questo esito inglorioso,
sono testimonianze preziose quelle che mostrano come
l’orso diventasse un alimento, quando catturato, negli
scarti e tra i rifiuti alimentari di numerosi siti medievali
nel Cuneese, come nella torre di Santo Stefano Belbo e
nel castello di Manzano a Cherasco; un cranio spaccato
sagittalmente tramite fendenti è stato trovato nel castello
di Montaldo di Mondovì nelle fasi di XVI secolo d.C. (Sciolla - Aimar 1992; Bedini 1995; Aimar et al. 1991) (fig. 48).
Infatti secondo gli antichi statuti e regolamenti comunali
Il Medioevo
Con il medioevo la ricchezza di fonti storiche, letterarie ed
iconografiche ci porta numerose testimonianze sull’orso,
che però ormai superano le competenze dell’archeologo.
Segnalo quindi il recentissimo libro di Michel Pastoureau,
ma anche alcuni studi sull’area italiana ed alpina che mostrano come l’orso fosse animale molto diffuso sulle Alpi
e gli Appennini fino al XVI secolo (Pastoureau 2008; Andreolli 1988; Montanari 1988). Mi chiedo se a decretarne
l’estinzione pressoché completa non siano state le armi
da fuoco, che ne permettono l’uccisione senza correre i
rischi di una lotta corpo a corpo, e soprattutto lo sviluppo
dell’agricoltura montana che, dalla diffusione della patata
a partire dalla fine del XVIII secolo, ha fatto aumentare
Fig. 49. Mosaico della cattedrale di Aosta, 1200 circa (da Perinetti 2000,
fig. 7).
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
piemontesi al principe o al castellano suo rappresentante
va consegnato per ogni orso abbattuto un terzo dell’animale nella cuneese valle Stura e nelle valli di Lanzo la
spalla ad Usseglio, la testa a Mezzenile e Ceres, mezzo
quarto a Lemie e sole sei coste a Coassolo, dove per altro
tra il 1367 e il 1370 si catturarono 42 orsi (la metà dell’attuale popolazione di orso marsicano!) (Micheletto 1991;
Cibrario 1851, p. 312).
Oltre all’orso in uno dei mosaici della cattedrale di Aosta
assieme a draghi e pantere (Perinetti 2000, fig. 7) (fig. 49),
in Piemonte si trova una delle più belle raffigurazioni del
grande animale nel medioevo, quello che pare danzare
o affrontare in piedi un uomo nel mosaico pavimentale
nel duomo di Casale Monferrato, all’interno di un medaglione in un ricco decoro con soggetti tratti da favole o
allegorie morali realizzate probabilmente a metà del XII
secolo d.C. (Pianea 2000) (fig. 50).
Infine, l’orso dello stemma di Biella, raffigurato a quattro
zampe davanti un albero di faggio, molto normale e poco
aristocratico a differenza dei, rari, orsi rampanti dell’araldica: ma non sarà forse proprio dall’emblema dell’orso
che, per cattiva interpretazione del disegno, un simbolo
popolare dei biellesi è in piemontese ël babi ‘d Biela, “il
rospo di Biella”? E quindi di nuovo, il povero orso dileggiato a partire dalla fine del Medioevo, come segnala più
volte Michel Pastoureau.
79
Fig. 50. Mosaico della cattedrale di Casale Monferrato, metà del XII secolo
(da Pianea 2000, fig. 8).
Appendice
Riporto qui i passi sull’orso dai trattati scientifici antichi di Aristotele di Stagira (384-322 a.C.), il grande filosofo greco, di Gaio Plinio
Secondo il Vecchio (23-79 d.C.), generale romano e autore dell’enciclopedia antica Storia naturale, e di Claudio Eliano (170-235 ca.
a.C.), intellettuale romano che scrisse in greco un trattato sugli animali dall’intento moralistico più che scientifico.
Dalle Ricerche sugli animali (Perì ta zōa historíai) di Aristotele14
Libro II.
1. ... Fra gli stessi quadrupedi provvisti di peli, alcuni ne hanno tutto il corpo ricoperto, come il maiale, l’orso, il cane ... L’orso ha invece quattro mammelle, mentre altri animali ne hanno bensì due, con due capezzoli, ma site presso le cosce: è il caso delle pecore ...
17. ... Gli animali provvisti di dentatura completa, invece, hanno un solo stomaco: così l’uomo, il maiale, il cane, l’orso, il leone, il lupo
(anche lo sciacallo ha tutte le parti interne simili a quelle del lupo). Tutti dunque hanno un solo stomaco, cui segue l’intestino: ma alcuni
presentano uno stomaco piuttosto grande, come il maiale e l’orso (e quello del maiale ha poche pieghe lisce), altri l’hanno molto più
piccolo e poco più grande dell’intestino, come il leone, il cane e l’uomo ...
Libro V.
2. ... Fra i quadrupedi, le orse giacciono sdraiate pur compiendo il coito nello stesso modo degli altri che restano in piedi, cioè con il
ventre del maschio contro il dorso della femmina ...
Libro VI.
18. ... Sia gli orsi sia i lupi diventano in questo frangente [durante l’accoppiamento, n.d.R.] aggressivi nei riguardi di chiunque si avvicini, mentre combattono meno fra loro perché nessuno di tali animali vive in greggi. Anche le orse sono aggressive dopo la nascita dei
cuccioli, proprio come le cagne ...
30. Le orse si accoppiano, come si è già detto, non facendosi montare ma stando sdraiate al suolo. La loro gestazione dura trenta
giorni15. L’orsa partorisce uno o due piccoli, al massimo cinque. L’orsacchiotto alla nascita è piccolissimo in rapporto alle dimensioni del
corpo della madre: esso nasce minore di una donnola ma più grande di un topo. È privo di peli e cieco, e sia gli arti sia la quasi totalità
delle sue parti sono praticamente indistinti. L’accoppiamento ha luogo nel mese di marzo, e il parto verso la stagione dell’ibernazione.
In questo periodo sia la femmina sia il maschio diventano assai grassi. Dopo aver allevato i piccoli, le orse ricompaiono al terzo mese,
quand’è ormai primavera ... È difficile catturare un’orsa gravida.
Libro VIII.
5. ... L’orso è onnivoro. Mangia frutti, arrampicandosi sugli alberi grazie all’agilità del suo corpo, e legumi; mangia anche miele,
spezzando gli alveari, e granchi e formiche, oltre ad essere carnivoro. Grazie alla sua forza può attaccare non solo i cervi ma anche i
cinghiali, se riesce a piombare loro addosso all’improvviso, e i tori; fronteggiato il toro a breve distanza, si getta supino, e quando il toro
80
Francesco Rubat Borel
si appresta a colpire gli avvolge le corna con gli arti anteriori, e azzannatagli la spalla lo rovescia a terra. L’orso riesce per breve tempo
anche a camminare eretto sui due piedi. Prima di mangiare la carne, la lascia sempre marcire ...
6. ... L’orso non succhia né lambisce, bensì inghiotte l’acqua a sorsate ...
17. Fra gli animali vivipari quadrupedi, ibernano istrici ed orsi. Ora, che gli orsi ibernino è manifesto, ma si discute se lo facciano per
il freddo o per qualche altra causa. Durante questo periodo, in effetti, i maschi e le femmine diventano grassissimi, tanto che non
possono muoversi facilmente. La femmina partorisce in questa occasione, e resta rintanata finché non sia giunto il momento di condur
fuori gli orsacchiotti, ciò che fa in primavera, verso il terzo mese dopo il solstizio. L’ibernazione dell’orso dura al minimo circa quaranta
giorni; nelle prime due settimane dicono resti assolutamente immobile, mentre nella maggior parte dei giorni seguenti, pur restando
nella tana, si muove e si ridesta. Nessuno o quasi ha catturato un’orsa durante la gestazione. In questo periodo è chiaro che esse non
mangiano nulla: infatti non escono, e quando vengono prese lo stomaco e gli intestini risultano vuoti. Si dice anche che, non ingerendo
alcuni cibo, l’intestino dell’orsa venga quasi a richiudersi, e per questo, appena uscita, essa mangi dell’aron per distendere l’intestino
e dilatarlo ...
Dalla Storia naturale (Naturalis historia) di Gaio Plinio Secondo16
Libro VIII.
(54) 125. Nei mesi invernali [l’istrice] si nasconde, abitudine che è tipica di molti animali e soprattutto degli orsi.
(55) 126. L’accoppiamento di questi ultimi ha luogo all’inizio dell’inverno e non avviene nel modo consueto di tutti i quadrupedi, ma i
due animali stanno sdraiati e abbracciati; poi avviene la separazione in caverne diverse, nelle quali le femmine danno alla luce dopo 30
giorni per lo più cinque piccoli. Questi sono palline di carne bianca, prive di forma, poco più grandi dei topi, senza occhi, senza peli;
hanno soltanto gli unghielli già sporgenti. Le madri a poco a poco li plasmano, leccando questa massa. Niente è più raro che vedere
un’orsa partorire. I maschi stanno nascosti per quaranta giorni, le femmine per quattro mesi.
127. Se non hanno tane, se le costruiscono con un insieme di rami e di arbusti, impenetrabili alla pioggia e coperte di molli fronde.
Nelle prime due settimane sono preda di un sonno tanto profondo che non si svegliano neppure se vengono feriti. Allora, in modo
che desta meraviglia, durante questo loro letargo ingrassano. Il loro grasso è molto adatto per farne medicine ed è potente contro la
caduta dei capelli. Dopo questo periodo stanno seduti e vivono succhiandosi le zampe davanti. Le madri riscaldano i piccoli infreddoliti
stringendoli al petto, con un modo di covarli che non è diverso da quello che gli uccelli usano per le loro uova.
128. È incredibile a dirsi, ma Teofrasto crede che durante il periodo di letargo anche le carni cotte dell’orso crescano, se vengono
conservate; egli afferma che nel loro ventre non si trova allora traccia di cibo, se non una piccolissima quantità di liquido, e che hanno
soltanto poche gocce di sangue intorno al cuore, e che non ce n’è per niente nel resto del corpo.
129. Escono all’aperto in primavera, ma i maschi sono molto grassi, e non saprei indicarne la ragione, perché, come abbiamo detto,
non sono ingrassati nel sonno tranne che per 14 giorni. Quando escono mangiano un’erba chiamata aro per pulirsi l’intestino, altrimenti indurito, e tritano i ramoscelli con i denti, per domare la bocca. I loro occhi si sono indeboliti e per questo motivo cercano i favi,
perché le api feriscano il loro muso ed il flusso del sangue ne possa alleviare la pesantezza.
130. Debolissima è nell’orso la testa, che invece è la parte più forte nel leone. Perciò, se vengono inseguiti e stanno per precipitarsi da
una rupe, si gettano nel vuoto coprendosi la testa con le zampe e spesso, nell’arena, muoiono con la testa spezzata da un pugno. In
Spagna credono che nel cervello dell’orso sia contenuto un veleno e bruciano le teste degli esemplari uccisi negli spettacoli del circo,
perché si è convinti che questo veleno una volta bevuto scateni nell’uomo una rabbia da orsi. Camminano anche su due zampe; scendono dagli alberi all’indietro.
131. Affaticano col loro peso i tori stando sospesi con le quattro zampe al loro muso ed alle loro corna. Nessun altro animale è più
scaltro nel far del male pur nella sua stoltezza. Negli annali è stato scritto che durante il consolato di Marco Pisone e Marco Messalla
[61 a.C.], 14 giorni prima delle calende di ottobre [18 settembre], Domizio Enobarbo, che rivestiva la carica di edile curule, presentò
nel circo cento orsi della Numidia ed altrettanti cacciatori etiopi. Mi meraviglio che abbiano aggiunto “della Numidia”, perché si sa
benissimo che in Africa l’orso non esiste17.
Da La natura degli animali (Perì zōōn idiótētos) di Claudio Eliano18
Libro I.
31. Orsi, lupi, leopardi e leoni sono resi arditi dai loro poderosi artigli e dalle affilate zanne ...
Libro II.
19. L’orsa non è capace di partorire la prole e nessuno, vedendo i suoi nati subito dopo il parto, potrebbe affermare che sono esseri
viventi. Sebbene l’orsa abbia indubbiamente sofferto i dolori del parto, in realtà ciò che è uscito da lei è solo un mucchietto di carne,
indistinto, informe, privo di connotati. Tuttavia la madre lo ama, lo riconosce come proprio figlio e lo scalda tra le cosce, lo liscia con la
lingua, ne modella le membra e gli dà a poco a poco una forma tale che tutti, vedendolo, direbbero che è un cucciolo di orso.
Libro III.
21. Eudemo19 riferisce che sul monte Pangeo, in Tracia, un’orsa, approfittando del fatto che la tana di un leone era rimasta incustodita,
assalì i suoi nati, che erano ancora molto piccoli e incapaci di difendersi, e li uccise. Quando il padre e la madre tornarono dalla caccia e
videro che i cuccioli erano stati trucidati, furono presi, naturalmente, da grande furore e si gettarono sull’orsa, la quale, tutta impaurita,
si arrampicò il più velocemente possibile sopra un albero e si accovacciò, cercando di sfuggire alla loro insidia. Evidentemente erano
venuti lì proprio col proposito di punire l’orsa assassina; infatti la leonessa si pose in agguato ai piedi del tronco, volgendo verso l’alto
lo sguardo iniettato di sangue; il leone invece, tutto sconvolto e fuori di sé per il dolore, si mise a vagare per le montagne e trovò sul
L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo
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suo cammino un taglialegna. Costui, come lo vide, si impaurì, abbandonando l’ascia, ma il leone cominciò a fargli festa, si sollevò
sulle zampe e cercò, per quanto gli fu possibile, di abbracciarlo e leccargli il volto con la lingua. Il legnaiolo, allora, si rinfrancò e il
leone, circondandolo con la coda, lo condusse là dove aveva abbandonato l’ascia e gli fece segno con le zampe, insistentemente, di
raccoglierla; poiché l’altro non capiva, la raccolse lui stesso con la bocca e gliela porse; poi lo indusse a seguirlo e lo portò presso la sua
tana. Anche la leonessa, come lo vide, gli andò vicino e cominciò a fargli festa, guardandolo con aria addolorata e volgendo gli occhi
verso l’orsa. Il taglialegna guardò in quella direzione e capì che le due belve dovevano aver subito un’offesa da parte dell’orsa. Allora
cominciò a colpire con l’ascia la pianta finché quella non si abbatté al suolo, trascinando nella sua caduta anche l’orsa che fu subito
sbranata dalle due fiere. Il leone poi accompagnò quell’uomo, sano e salvo, nel luogo dove l’aveva precedentemente incontrato e lo
lasciò a continuare il lavoro che stava facendo prima.
Libro IV.
45. Eudemo racconta una storia straordinaria ed eccone il contenuto. Un giovane cacciatore, capace di convivere con le bestie più selvatiche, che egli aveva domato fin da quando erano cuccioli, aveva come compagni con cui condividere il pasto un cane, un’orsa e un
leone. Questi animali per un po’ di tempo, dice Eudemo, vissero tra di loro in pace e con sentimenti d’amicizia reciproca; ma un giorno
accadde che, mentre il cane giocherellava con l’orsa e l’importunava coi suoi scherzi, essa si infuriò e comportandosi diversamente
dal solito assalì il cane e con gli artigli dilaniò il ventre di quell’infelice creatura, facendola a brani. Il leone, riferisce lo stesso autore,
sdegnato per questo fatto, prese in odio l’orsa, ritenendo che avesse compiuto un’azione contraria al patto d’amicizia, e vivamente
addolorato per la morte del cane che considerava un caro compagno, fu colto da un giusto sentimento di collera e si vendicò su di lei,
facendole ciò che quella aveva fatto al cane. ...
Libro V.
49. Quando gli orsi fiutano dei cacciatori che di fronte a loro si sono gettati per terra, trattenendo il fiato, non li assalgono poiché li
credono morti, dimostrando in questo modo la loro ripugnanza per i cadaveri. ...
Libro VI.
3. Ho già descritto come l’orsa partorisca della carne informe che poi, aiutandosi con la lingua, corregge e quasi, potremmo dire,
modella. Ma voglio aggiungere adesso, cogliendo questa occasione molto opportuna, ciò che ho passato sotto silenzio. L’orsa, dunque, partorisce durante l’inverno, e poiché teme il rigore del gelo, attende l’arrivo della primavera e non conduce mai all’aperto i suoi
cuccioli prima che abbiano compiuto il terzo mese. Quando si accorge di essere gravida, dal momento che essa considera la gravidanza
come una malattia, va in cerca di una tana (è per questo motivo che l’ibernazione dell’orso è chiamata folia20). L’orsa fa il suo ingresso
nella tana non camminando, ma strisciando sul dorso, e così cancella le orme che potrebbero riuscire utili ai cacciatori. Dopo che è
entrata nel suo covo, se ne sta tranquilla e lima, potremmo dire, la sua figura, riducendone il volume; si comporta in questo modo
per quaranta giorni. Aristotele, tuttavia, dice che l’orsa rimane nella più completa immobilità per quattordici giorni e per i rimanenti
si limita a rigirarsi. Per tutti i quaranta giorni non tocca assolutamente cibo; le basta leccarsi la zampa destra. A causa di questa rigida
astinenza dal cibo il suo intestino si raggrinza e restringe, ma l’orsa che lo sa, quando esce dalla tana, mangia la pianta che si chiama
gichero21. Questo vegetale produce flatulenza, apre l’intestino e lo allarga, rendendolo così atto a ricevere il cibo. Quando l’orsa si è di
nuovo rimpinzata di gichero, mangia allora un po’ di formiche e in questo modo può evacuare molto agevolmente. Dalla mia descrizione, cari lettori, avete appreso come gli orsi sappiano in modo naturale e in giusta misura riempirsi di cibo ed evacuare senza dover
ricorrere a medici e decotti.
Libro VII
9. Quanto sto per dirvi riguardo all’orso, mostra senza dubbio la sua intelligenza. Se un’orsa con i cuccioli è inseguita dai cacciatori,
essa sospinge i suoi nati in avanti più che può; quando però si accorge che non ce la fanno più per la stanchezza, allora ne prende
uno sul dorso e l’altro in bocca, e dopo aver raggiunto un albero, vi si arrampica sopra. Quello che sta sulla groppa della madre si tiene
aggrappato con gli artigli, l’altro invece, mentre quello si arrampica, è trattenuto dai denti. Se un orso affamato si imbatte in un toro,
non ingaggia con lui una battaglia diretta e all’ultimo sangue, ma ricorre a questo metodo di lotta: lo afferra per il collo e lo piega,
stringendo la sua presa; il toro muggisce stretto nella morsa, ma poi le sue forze cedono e si abbatte a terra, e così l’orso si rimpinza
delle sue carni.
Libro VIII
1. ... Gli Indiani usarono questo accorgimento per mostrare ad Alessandro, figlio di Filippo di Macedonia, come fossero forti questi loro
cani. Lasciarono libero un cervo, ma il cane non si mosse, poi un cinghiale e quello rimase fermo; successivamente fu liberato un orso,
ma neppure allora il cane si mosse; fu infine lasciato libero un leone: «e quello, come lo vide, fu preso da un violento attacco di bile»
[Iliade, XIX,16] poiché in esso vedeva il suo vero avversario; non indugiò, dunque, né si trattenne, ma piombò su di lui e opprimendolo
con la sua forte presa gli strinse il collo ...
Libro XVII
31. ... Gli Armeni, data la natura selvaggia del loro territorio, infestato da un gran numero di animali feroci, raccolgono questi pesci
e li mettono a seccare sotto la vampa del sole; poi li triturano, tappandosi prima il naso e la bocca per non aspirare l’odore che esala
dalle loro carni spezzettate e che potrebbe farli morire. Dopo averli infarinati, cospargono questo intruglio nelle zone maggiormente
infestate dalle fiere; hanno anche l’abitudine di mescolare con questa farina dei fichi. In tal modo eliminano cinghiali, gazzelle, cervi,
orsi, asini selvatici e capre (anche loro selvatiche). Tutti questi animali, per l’appunto, sono avidi di fichi e di farina. Uccidono invece il
altro modo i carnivori, come ad esempio i leoni, i leopardi e i lupi. Operano su un fianco di una pecora o di una capra domestica un
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Francesco Rubat Borel
taglio largo abbastanza da potervi introdurre una mano e vi spargono dentro la farina; poi pongono quest’esca (veramente micidiale!)
alla portata delle belve ricordate sopra. Quando dunque un leone o un leopardo o un lupo o qualsiasi altro animale feroce si imbatte
in questa esca e la mangia, muore immediatamente ....
* Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie - Piazza San Giovanni 2 - 10122 Torino
E-mail: [email protected]
Note
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Si tratta di alcune tombe di età vichinga della Svezia settentrionale.
Questo contributo trae origine dall’incarico conferito all’autore dall’Ente Gestione Parchi e Riserve Naturali Cuneesi (Chiusa
di Pesio) nel giugno 2007 per una ricerca bibliografica e la compilazione di schede sull’orso in contesti archeologici dalla preistoria al medioevo, sotto la direzione della dott.sa Marica Venturino Gambari della Soprintendenza per i Beni Archeologici del
Piemonte e del Museo Antichità Egizie, nell’ambito del progetto “Quando c’erano gli orsi...”.
Durante la redazione di questo articolo, la mostra curata da Juha Pentikäinen Orsi e sciamani è stata allestita presso il Museo
di storia naturale di Firenze (inverno 2007-2008) e il Centro studi e museo di arte preistorica di Pinerolo (autunno 2009).
In attesa delle esplorazioni delle grotte del massiccio del Marguareis nelle Alpi Marittime, i più famosi giacimenti di ossi di Ursus
spelaeus in Piemonte sono nel capo opposto della regione, sul Monfenera tra Val Sesia e lago d’Orta, noto già nel XIX secolo
e portato alla ribalta dagli scavi tra il 1954 e il 1957 di C. Conti, purtroppo non condotti con un metodo scientifico moderno,
in occasione dei quali furono trovati i primi manufatti musteriani (Conti 1960; Lo Porto 1960). L’orso nella grotta Ciota Ciara è
così abbondante che rappresenta il 95% dei resti ossei nella relazione di Francesco Fedele della ripresa delle ricerche a partire
dal 1964 (Fedele 1966; 1972; 1974).
In Issel 1908 è dedicata un’amplissima parte alle grotte delle Alpi Marittime con depositi di ossi di orsi (Giacimenti quaternari,
pp. 146-264): Caverna delle Fate a Finale, pp. 164-181; grotte della Valle dell’Aquila, pp. 181-182; Caverne del Rio e di Martino a Finalborgo, pp. 182-186; Caverna di Verezzi, pp. 186-190; Grotta del Colombo a Toirano, pp. 190-191; Grotta del Pastore o Livra, pp. 191-196; Caverna della Giacheira a Pigna, pp. 196-201, i Balzi Rossi a Ventimiglia, pp. 205-257; le grotte sul
versante piemontese, dove non conosceva nessun manufatto o resto osseo umano, a Bossea, al Caudano di Frabosa Soprana
e al Bandito presso Borgo San Dalmazzo, pp. 257-264; per queste ultime, cfr. ora anche il contributo di Livio Mano in questo
volume, con bibliografia.
Leocata 2000-2001 porta numerosi altri casi, in molti dei quali è evidente che si tratta di perforazioni naturali o casuali. In
particolare, è da rigettare l’interpretazione come strumento musicale della mandibola di Potcka Zijalka in Slovenia, con una fila
di fori sul canale mandibolare, che ha invece un’origine patologica, così come alcune mandibole forate da Prélétang, dovute
ad ascessi e con il bordo arrotondato, segno che l’animale è vissuto a lungo dopo che si è realizzato il foro (Tillet 2002; 2003).
Per Roma, dove il culto dell’orso sarebbe precedente l’influsso etrusco, Alföldi 1974.
A p. 53 Marija Gimbutas scarta giustamente l’interpretazione come teste di orso o di gatto dei coperchi dei vasi di Vinča e fa
notare che dovrebbero invece essere teste di civetta perché hanno un becco, e non un muso, e le orecchie a punta sarebbero
i ciuffi di pelo degli strigidi.
In Italia ci fa venire in mente la zampa di cane coperta da un bicchiere in ceramica depositata nella trincea di fondazione della
palizzata del villaggio neolitico della seconda metà del VI millennio a.C. di Lugo di Romagna (Degasperi et al. 1998, fig. 5).
Ad esempio Fasani - Salzani 1975 danno una generica definizione di figurine fittili di quadrupedi a Frattesina e Villamarzana,
mentre altrove distinguono bovini, canidi, equini; Negroni Catacchio 1978.
Pastoureau 2008, pp. 28-29 scrive che anche Atalanta e Melanione o Ippomene furono trasformati in orsi, ma nei testi antichi
da lui citati la metamorfosi è in leoni: Ovidio Metam. X,704; Apollodoro Bibl. III,9.
Un indice di figure avulse dal loro contesto e trattate singolarmente in Oswald 1936-1937, nn. 1574-1633, tav. LXV-LXVIII.
Immagini di caccia all’orso nei sarcofagi nn. 1, 6, 15, 22, 25, 27, 45, 47, 60, 78, 81, 101, 107, 124, 128, 134, 158, 164, 167,
184, 185, 193, 206, 208, 219, 239, 244, 246, 247
Traduzione di M. Vegetti, ed. UTET, Torino 1971.
Il traduttore qui emenda il testo greco hèméras “giorni” in heptádas “settimane”.
Traduzione di E. Giannarelli, ed. Einaudi, Torino 1983.
In realtà, l’orso bruno sulle montagne dell’Atlante era presente fino alla seconda metà del XIX secolo.
Traduzione di F. Maspero, ed. Rizzoli, Milano 1998.
Filosofo greco e naturalista del IV secolo a.C., discepolo di Aristotele.
Da phõleós “tana”.
Il gichero, o calle selvatica o pan dei serpenti e altri nomi, è l’Arum italicum, già menzionato da Aristotele e Plinio, che provoca
dermatiti ed irrita la bocca.
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