3. CORAZZINE E BACINETTI DALLA ROCCA DI CAMPIGLIA

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3. CORAZZINE E BACINETTI DALLA ROCCA DI CAMPIGLIA
3. CORAZZINE E BACINETTI DALLA ROCCA DI CAMPIGLIA
Le campagne archeologiche di scavo hanno fornito, nell’ultimo decennio, un considerevole apporto di materiali per la riflessione sugli equipaggiamenti militari medievali. Malgrado la difficoltà che talora comporta identificare questi manufatti, vuoi per il loro stato di conservazione, vuoi
per la loro difficoltà di comparazione, sono molti
i contesti che hanno proposto all’attenzione degli
studi armamenti difensivi o loro parti, databili
nell’ambito del Trecento. È mia convinzione che,
in passato, possa talora essere mancata una sufficiente consapevolezza nella conduzione di qualche scavo che, dati i siti e la dimensioni dell’impegno, avrebbero dovuto dare, a rigore un certo
quantitativo di manufatti del genere.
Nel caso specifico è merito di chi ha guidato l’impresa, l’aver riconosciuto l’importanza delle testimonianze che emergevano, instaurando subito un proficuo rapporto di collaborazione con
chi, pur provenendo da altre discipline, aveva
familiarità con lo specifico.
Il risultato, che oggi è sotto gli occhi di tutti, nel
neo costituito museo di Campiglia, ha richiesto
l’apporto costante di tutti e non poco merito va
a Fernanda Cavari che ha restaurato i resti rinvenuti, così da garantirne una buona conservazione malgrado la inevitabile manipolazione cui
sono stati sottoposti nelle fasi di studio.
Diversamente dalla consuetudine, che vorrebbe
che in prima istanza ci si occupasse delle difese
della testa, poi del tronco e, successivamente
degli arti, credo sia qui opportuno soffermarsi,
innanzi tutto sulle protezioni del busto.
In un primo tempo, chi scrive è stato interpellato perché, tra quanto ritrovato, figuravano un
certo numero di placchette metalliche di ferro,
fortemente ossidate, ma con forme rettangolari
e trapezoidali riconoscibili, le cui dimensioni si
riproponevano con una certa regolarità. Dai primi strati della torre B, in particolare dalle US
1040-1042 erano emersi resti, molto frammentari e sporadici di lamelle, di circa 4 cm di altezza (Fig. 1), con ribattini, per lo più allineati al
margine superiore in serie continue e poco
spaziati tra loro. Il numero dei ribattini o chiodature che dir si voglia, un tempo a teste d’ottone, variava sino ad un massimo di cinque sui
frammenti maggiori e meglio conservati.
Su alcune delle lamelle era leggibile, per minera-
lizzazione, la presenza d’una tela sottile, internamente, e d’un tessuto più grosso ma pure a trama
semplice, realisticamente canapa, all’esterno.
Questo primo gruppo di reperti analizzati rimandava ad un tipo di manufatto, nel suo complesso
ben noto e denominato, in base ad una terminologia relativamente tarda, “brigantina”.
Anche nell’area toscana risultano testimonianze
basso medievali dell’uso d’una tale protezione e
non sono pochi i musei e le collezioni che mostrano, o possiedono, esempi quattrocenteschi
del genere. Benché per foggia e lunghezza, nonché per posizione delle chiodature, sia possibile
affermare che larga parte dei frammenti di difesa “tessile” rinvenuti in quella prima fase degli
scavi, fosse pertinente ad una falda, vale a dire
la parte che dalla vita scendeva a proteggere ventre, fianchi e glutei, non mi è parso possibile tentare una ricostruzione. Va da se che il tipico andamento scampanato, appena bombato verso
l’esterno, che l’iconografia ci ha trasmesso, doveva caratterizzare anche l’esemplare da cui provenivano tali frammenti (si veda a tale proposito il confronto con l’esemplare ricostruito, Fig.
2); lo testimonia la leggera arcatura delle lamelle, il loro embricarsi con l’inferiore su tutte e la
curvatura appena avvertibile all’esame d’ogni singolo resto significativo, che rimanda a circonferenze maggiori di quelle della vita e del torace.
Sul territorio italiano vanno ricordate, consegnateci da contesti non archeologici, alcuni esempi
interessanti di corazzine e brigantine.
Il più antico, che a suo tempo non mi fu consentito di esaminare, si trova al Castello Sforzesco a
Milano (Fig. 3) (inv. n. 161)1, e su di esso converrà tornare.
Segue quello del Consiglio dei X, di Palazzo
Ducale a Venezia (inv. E 28), che è un tipo chiaramente “da mare” essendo provvisto di una ampia falda che ricade d’innanzi “a grembiala” come
riscontrabile nelle Storie di Sant’Orsola di Vittore Carpaccio. Da quella restituzione, che è
quasi fotografica rispetto all’oggetto reale, si
comprende come la difesa venisse indossata assieme a schiniere sane a protezione degli stinchi,
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P. ALLEVI , Museo d’arti applicate, armi bianche, Milano
1998, cat. n. 24, p. 25.
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Fig. 1 – Resti di placchette con resti di tessuto a trama fitta, probabilmente una tela di lino, mineralizzati; dal
primo gruppo di ritrovamenti dalla Rocca di Campiglia (US1040, torre B), schema grafico (M. Scalini).
All’interno un tessuto più grosso ma la cui struttura è sempre una tela, forse di canapa. Nel campione in basso
a sinistra il tessuto più grosso surmonta quello più fine, si tratta probabilmente delle piastre della zona inferiore
della falda con il tessuto di rivestimento che è parzialmente rimboccato all’interno dove viene ricoperto dalla
fodera ( la posizione del frammento deve essere interpretata alla rovescia rispetto al disegno).
così da lasciare alle gambe quella libertà di movimenti indispensabile per agire sul ponte d’una
nave. Quello veneziano è un pezzo straordinario in tutti i sensi e meriterebbe un prossimo accurato studio nonché una conservazione attentissima essendo giunto sino a noi franco da tentativi di ‘restauro’ dilettanteschi.
Egualmente ben conservata è la brigantina dell’armeria Trapp di Castel Coira (CH S6) (Fig. 4)
che ritengo possa collocarsi entro il primo lustro del Cinquecento e che è provvista di scarselle
oggi separate per motivi di conservazione ma un
tempo cucite ai margini inferiori.
Lacunoso è invece l’esemplare del Museo Poldi
Pezzoli di Milano (inv. n. 2342) (Fig. 5) anch’esso
sin qui scampato ad interventi permettendoci di leggere appropriatamente la struttura dell’oggetto.
Entrambi questi pezzi erano concepiti per non
essere indossati ‘a vista’; come dimostra l’irre-
golare apposizione della bullettatura stagnata a
testa piatta. In tutti e due i casi un giubbone
(“ zippone” ) in tessuto prezioso, avrebbe nascosto la protezione e nel caso del pezzo tirolese
questo poteva prevedere persino appositi attacchi o sedi a modo di tasche per le scarselle. Parzialmente alterati da ‘restauri’ d’uso od antiquari, sono altri esemplari che meritano di essere
menzionati: quello della Museo di Ravenna (inv.
n. 1767) (Fig. 6), il cui aspetto attuale è già cinquecentesco, ha perduto tutte le lame poste inferiormente al giro della vita. Il lavoro di riassetto, accurato, ad evidenza condotto per prolungare l’uso dell’oggetto, ha perfettamente riproposto la struttura originale2 su di una base di
2
Ovviamente per il possibile, visto che la schiena segue
ora uno schema asimmetrico con una fila di lame in più
sulla sinistra.
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Fig. 2 – Resti di una corazzina dalla rocca di Campiglia, dopo il restauro, Campiglia M.ma, Museo, vista
frontale (Foto M. Bertoni).
Fig. 3 – Corazzina, Maestro I sotto scaglione
crocettato con lettere ZO (Giovanni), Italia settentrionale (Milano?), sec. XIV, Milano, Castello Sforzesco, inv. n. 161 (prima del restauro) (Foto Museo
del Castello Sforzesco).
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Fig. 4 – Brigantina (qui senza scarselle), Italia settentrionale c. 1500-1505, Schluderns, Churburg (castel
Coira), inv. CH S6 (Foto M. Bertoni).
Fig. 5 – Brigantina, Italia Settentrionale, sec. XV,
Museo Poldi Pezzoli, Milano, inv. n. 2342 (vista della
schiena, qui rovesciata) (Foto M. Bertoni).
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Fig. 6 – Brigantina, Italia Settentrionale, sec. XV, rimontata successivamente, Museo Nazionale, Ravenna, inv.
n. 1767 (interno) (Foto Soprintendenza BB.AA.AA. delle province di Ravenna, Ferrara e Forlì, neg. n. 121033).
canovaccio e raso (stoffa più rispondente al gusto cinquecentesco, se non del diciannovesimo
secolo) con l’impiego di chiodi dorati.
Il resto di brigantina del Museo Civico Medievale di Bologna (inv. n. 11)3, che Boccia datava
giustamente alla seconda metà del Quattrocento, è soltanto parte della schiena, ma è strutturalmente vicino a quella ravennate, dimostrando come la prima abbia sofferto di rimaneggiamenti e come il lasso di tempo che le separa sia
meno che generazionale.
L’ampio studio dedicato da Eaves4 al soggetto
riconosce tra le prime testimonianze iconografiche italiane gli affreschi dell’oratorio di San Giorgio, riferibili ad Altichiero e Jacopo Avanzi. Purtroppo gli interventi di restauro, anche molto
attenti alla salvaguardia dei valori pittorici ma
scarsamente sensibili ai valori iconografici e documentari, hanno reso un mediocre servizio per
ciò che concerne l’affidabilità del dettaglio.
Malgrado ciò si riconoscono alcune tipologie di
corazzine che, nella maggior parte dei casi sono
affibbiate sul davanti ed i cui busti, stretti in vita,
sono composti di due o più grandi piastre a difesa del torace, mentre la lunga falda a campana si
3
L.G. BOCCIA, L’armeria del museo civico medievale di
Bologna, Busto Arsizio 1991, scheda n. 3, pp. 42-43.
4
I. EAVES, On the remains of a Jack of Plate Excaved from
Beeston Castle in Cheshire, «The Journal of the Arms and
Armour Society» XIII, 2 settembre 1989, pp. 81-154.
protende a proteggere i glutei, fianchi ed addome ben oltre la forcata, sin quasi al terzo superiore della coscia.
Ho intenzionalmente preferito il termine storico “ corazzina” , tramandatoci dai documenti trecenteschi, per sottolineare come dalla “ corazza” ,
di grandi placche fissate ad un incoiato, già presente, come ho dimostrato per primo, almeno
dall’ultimo quarto del Duecento, si sia passati
attraverso una fase di dimensionamento differenziato delle piastre componenti, prima di giungere a sistemi di lamelle di formato relativamente ridotto ed omogeneo che a buon diritto possono essere chiamate “ brigantine” . La povertà
lessicale di altre lingue non permette purtroppo
una rispondenza ugualmente agile ed immediata tra termine e tipo, precludendo le possibilità
di ricerca ed approfondimento in contesti nazionali diversi. Fatto sta che sino ad ora pare
non sia stato possibile identificare, in contesti
museali, una difesa di lamelle e piastre databile
anteriormente all’ultimo quarto del Quattrocento.
In realtà, da Xalkis, in Eubea, proviene un certo
numero di frammenti di corazzine rinvenuti in
un ripostiglio murato d’una locale fortificazione, insieme a copricapo variamente databili tra
l’ultimo quarto del Trecento e quello del secolo
5
Oltre a frammenti spuri fu rinvenuta una corazza vera e
propria, con andamento cilindrico composto da placche di-
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Fig. 7 – Petto da “ a cavallo” con falda, ricoperto in
velluto rosso. Italia Settentrionale, fine sec. XIV,
inizio sec. XV, Maestro della R coronata (Jacomino
Ravizza ?), Italia settentrionale ?, München, Bayerisches
Nationalmuseum, inv. W n. 195 (Foto Bayerisches
Nationalmuseum).
successivo5. Con una parte di questi resti fu confezionata ex novo una difesa del tronco6, rivestita
in velluto piano rosso, ed affibbiata anteriormente, che ancora completa un insieme piuttosto eterogeneo e pesantemente restaurato, ancorché di
grande effetto e discreta attendibilità, esposto al
Metropolitan Museum of Art di New York7.
Tale ricostruzione è stata comunque, sino ad ora,
il più antico esempio di corazzina visibile, venendo per altro datata intorno al 1400.
A quel torno d’anni si suole far rimontare anche
un interessante petto ricoperto di velluto rosso e
dotato di fori per l’apposizione della resta, che si
conserva al Bayerisches Nationalmuseum di Mo-
scretamente grandi ed ancora fissate su di un tessuto (anche
se in parte reinserite nel corso di evidenti restauri d’uso).
Essa è stata pubblicata anche da Boccia in L.G. BOCCIA, F.
ROSSI, M. MORIN, Armi ed armature Lombarde, Milano.
6
Altre sono conservate nei depositi del Metropolitan
Museum of Art di New York.
7
Bashford Dean Memorial Collection, 1929, 29.154.3.
8
(Inv. W n. 195). Tutta la critica più recente, incluso
Lionello Giorgio Boccia, lo indica ancora la Bayerisches
Armée Museum (Ingolstadt) a riprova che nessuno l’ha
visto direttamente, tra quanti così lo citano, negli ultimi
cinquant’anni.
Fig. 8 – Arazzo, Storia di Ettore, Tournai, sec. XV, c.
1471-1472 New York, Metropolitan Museum of Art,
inv. 39.74.
naco di Baviera8 (Fig. 7). La chiodatura che ne
decora la superficie, descrivendo due archi, che
amplificano le lune del taglio delle ascelle, risultando tangenti al centro, non ha ragioni funzionali, mentre le fitte file di ribattini sulle lame di
falda fissano le stesse sul tessuto esterno garantendo in parte anche la loro articolazione.
Malgrado il punzone, ad R lombarda9 coronata, sia
stato riferito al milanese Jacomino Ravizza, non senza ragione, chi scrive ritiene che il pezzo possa essere più tardo di quanto si pensi e che sia stato intenzionalmente realizzato per alludere a protezioni più
antiche. Infatti una raffigurazione d’una protezione analoga si riscontra su di una tappezzeria del
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Intendo qui il mero riferimento al tipo di scrittura libraria, notoriamente assai diffuso anche in altre parti della
penisola e non solo.
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Fig. 9 – Ignoto scultore alsaziano, Uno degli armati al Sepolcro, Strasburgo c. 1345-1350, Museo diocesano,
Strasburgo (Foto M. Scalini).
Fig. 10 – I resti della corazzina trovati all’interno del
palazzo al momento del loro rinvenimento (foto G.
Bianchi).
tardo Quattrocento, conservata al Metropolitan
Museum of Art di New York (Fig. 8).
Fa a questo punto obbligo considerare la corazzina del Castello Sforzesco di Milano (Fig. 3),
dando per assunto che essa sia antica in ogni sua
parte e non alterata, fatto questo che meriterà
qualche maggiore indagine in un prossimo futuro. Rispetto a quant’altro noto, l’esemplare di
Milano si caratterizza per la grande ma non ec-
Fig. 11a – Corazzina (qui con cappello da campagna
e barbotto associati), Spagna, sec. XV, Paris, Musée
de l’Armée, inv. G.Po. n. 709 (Foto Musée de l’Armée).
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Fig. 11b – Corazzina (ristrutturata in epoca d’uso), Spagna, sec. XV, Paris, Musée de l’Armée, inv. G.Po.
n. 709 (interno) (Foto Musée de l’Armée).
cessiva estensione della piastra che espleta funzione di petto, inferiormente alla quale quattro
file di lamelle sostituiscono quella che nell’armatura del primo Quattrocento è normalmente
quella sezione separata a scorrere sul margine
inferiore del petto e che è detta panziera. Tredici
file di chiodi (uso qui il termine genericamente,
ma si tratta propriamente di bullette) fissano al
rivestimento, in canapa, dodici lamelle trapezie
che compongono i quattro settori anteriori della
falda. Al centro, anteriormente, le lame sono quattro, mentre due rettangoli di maglia d’acciaio pendono alla forcata rimanendo rivestiti dal tessuto e
giustapponendosi, senza congiungersi, lasciano
uno spacchetto aperto per agevolare il movimento all’atto della divaricazione delle gambe.
La struttura tergale è meno nitida ed il grande
rettangolo laminato che difende il dorso è integrato per lo più da lembi di maglia, fatte salve le
parti laterali della cassa toracica dove nove file
di chiodi, stando alle descrizioni fornitene, fisserebbero cinque lamelle di cui la superiore, s’immagina, su tutte. L’oggetto apparteneva al ‘Museo Patrio di Archeologia’ come c’informa il Conte
Ambrogio Bazzero de Mattei10. Questi, scrivendo
nel 1881 sottolineava come le lamelle fossero stagnate, mentre nessuna doratura appariva sulle
bullette, e la comparava con una difesa del genere, con marche dello scorpione sulle lamelle, nell’allora nota collezione del cavalier Brambilla.
10
A. BAZZERO DE MATTEI , Le armi antiche del museo Patrio di Archeologia di Milano, Milano 1881, seconda ed.
1882, p. 20; manca a P. A LLEVI, Museo d’arti applicate,
armi bianche, Milano 1998, p. 25.
Quella del Castello Sforzesco, pure marcata, mostra, sotto il solito scaglione crocettato, milanese,
una I, mentre dalle bande figurano le iniziali ZO,
come già segnalato da Boccia11.
Tra tutte le protezioni di placche o lamelle metalliche di una qualche completezza sino ad oggi
rese note con una adeguata presentazione scientifica, il pezzo ora ricordato è quello che costituisce il riferimento più prossimo ai ritrovamenti di Campiglia ed una sua datazione nel tardo
Trecento appare più che convincente.
Ho cercato di dimostrare in passato, credo con
un certo successo, che le corazzature ritrovate a
Wisby furono abbandonate sul campo, nel 1361,
perché danneggiate ma, ancor più, perché ormai
obsolete12. Un più realistico scaglionamento cronologico di quelle corazze andrebbe oggi riproposto ad integrazione del classico ed ottimo lavoro del Thordeman13. A quanto par di comprendere dall’iconografia, le corazze, nella prima metà
del Trecento (Fig. 9), evolsero verso strutturazioni a lamelle sempre più piccole ma comprensibilmente specializzando l’impiego di queste a protezione delle parti meno vitali del corpo, con ogni
probabilità quale alternativa, per altro più economica, alla maglia d’acciaio.
Per contro, proprio la gente d’arme a cavallo ri11
L.G. BOCCIA, L’armeria del museo civico medievale di
Bologna, Busto Arsizio 1991, scheda n. 3, pp. 42-43.
12
M. SCALINI , Protezione e segno di distinzione: l’equipaggiamento difensivo nel Duecento, in Il sabato di San
Barnaba, Milano 1989, pp. 80-92.
13
B. THORDEMAN , Armour from the battle of Wisby 1361,
Uppsala 1939, 2 voll.
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Fig. 13 – Resti di una corazzina dalla rocca di
Campiglia, dopo il restauro, Campiglia M.ma, Museo,
vista frontale, particolare della falda (Foto M. Bertoni).
Fig. 12 – Resti di una corazzina dalla rocca di
Campiglia, dopo il restauro, Campiglia M.ma, Museo,
vista frontale di tre quarti dalla banda sinistra (Foto
M. Bertoni).
tenne sempre maggiormente apprezzabili le protezioni a grandi piastre che, pur limitando non
poco la mobilità del busto, offrivano maggiori
garanzie ai micidiali impatti delle lance cavalleresche e dei verrettoni da balestra.
A rigore, dunque, una corazzina come quella del
Castello Sforzesco, potrebbe agevolmente collocarsi nel lasso di tempo tra il 1360 ed il 1380,
fermo restando che il suo uso si sarebbe potuto
protrarre sino alla metà del Quattrocento ed oltre14. Mi sembra opportuno sottolineare che per
ragioni relativamente ovvie la datazione che uno
studioso può fornire per manufatti non databili
storicamente per ragioni esterne a quelle formali, dovrebbe intendersi come post quem essendo
impossibile stabilire con assoluta certezza la reale cronologia d’utilizzo di una arma.
Basti, ad evidenza, il fatto che nei moti milanesi
del 1848 ci si armò persino con alabarde rinascimentali o che nella nostra era tecnologica, all’esordio del terzo millennio, esistono eserciti naziona14
Come si capisce la datazione che si lega all’apparizione
della tipologia, che comunque non nasce mai o quasi mai
dal nulla, e quello che si può considerare il tempo di vita
d’un manufatto d’uso prima della sua obsolescenza, sono
cose ben diverse.
li che ancora fanno uso di armi di dotazione ai
belligeranti durante la seconda guerra mondiale.
Andrà tenuto presente che per oggetti databili per
ragioni esterne alla tipologia funzionale (in genere documentarie) non sono sempre coincidenti la
cronologia formale (ossia il nostro ‘post quem’) e
la data reale di realizzazione che, per molte ragioni, può ben essere assai più bassa.
Date le coordinate generali per affrontare la classificazione delle placche metalliche rinvenute
negli scavi di Campiglia Marittima, che per inciso assommano forse ad un migliaio e realisticamente pertengono ad almeno quattro diverse
corazzine trecentesche, converrà soffermarsi sul
primo esemplare che è stato possibile ricostruire. Gioverà segnalare che questa operazione, prima del genere sul territorio italiano, almeno a
quanto mi consta, è stata agevolata dal fatto che
il gruppo di placchette rinvenute (Fig. 10), anziché provenire da una sorta di ‘discarica’, come
si da invece per il resto rinvenuto nella torre B,
è stato recuperato in maniera unitaria all’interno del fondo del palazzo in un’area assai circoscritta, meno di due metri, e già in relativo ordine (US 4042). Benché dalla giacitura dei resti
non fosse direttamente ricavabile il modo in cui
le singole piastre andassero sovrapposte, è apparso comunque evidente a chi scrive, che esse
erano appartenute ad una singola corazzatura e
che costituivano larga parte della falda ed un
quarto circa della protezione del tronco. Malgrado non esistesse un prototipo di sicuro riferimento in quanto le piastre allo studio risultavano di dimensioni dissimili da qualsiasi manufatto pubblicato, ci si è giovati, quale utile raffronto, di un gruppo di lame ricomposte presenti al
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Fig. 14 – Resti di una corazzina dalla rocca di
Campiglia, dopo il restauro, Campiglia, Museo, vista
del fianco sinistro (Foto M. Bertoni).
Fig. 15 – Resti di una corazzina dalla rocca di
Campiglia, dopo il restauro, Campiglia, Museo, vista
del fianco destro (Foto M. Bertoni).
Musée de l’Armée a Parigi, (inv. G.Po. n. 207),
che provenivano dalla collezione George
Pauilhac (Tolosa 1871-Parigi 1958), un conoscitore attento che aveva formato larga parte della
propria raccolta in Spagna15.
Altro esemplare di una qualche utilità, come riferimento, mi è parsa anche la corazzina riparata in epoca d’uso, con placche spurie e composte su un incoiato piuttosto tardo (all’apparenza
seicentesco), della stessa collezione (inv. G.Po.
n. 709) (Fig. 11a, Fig. 11b).
Malgrado entrambe siano state datate verso il
1470-1480, la provenienza iberica (area in cui si
assiste alla diffusione di tipi, nati nella nostra
penisola, con un certo ritardo), ne fa buona testimonianza di fogge in uso da noi per il lungo
periodo che copre almeno la prima metà del
Quattrocento.
Ciò che rende particolarmente simile la corazzina di Campiglia, proveniente dalla strato 4042,
al primo dei pezzi parigini ora citati, è la serie di
terne di chiodini, a testa tonda, che fissavano le
placchette al tessuto che, nel caso nostro, par
essere stata semplice tela.
Questo dato va considerato tenendo comunque
presente che la nostra corazzina propone tali
terne di chiodi, dalla testa di circa 5 mm di diametro, con maggior rarefazione rispetto ai manufatti noti che adottarono simile soluzione e
che certo sono già quattrocenteschi.
L’aspetto costruttivo è relativamente semplice (Fig.
12, Fig. 13). Alla forcata si trovano due placchette a trapezio rettangolo disposte verticalmente e
con le punte ad angolo maggiormente acuto verso l’esterno, poi due serie di forma trapezoidale
ma con il lato retto, un po’ a rientrare, che indica
il sistema di embricatura insieme alla curvatura e
bombatura delle stesse.
Pressoché rettangolari sono invece quelle che definiscono i fianchi (Fig. 14, Fig. 15), sempre con
l’inferiore su tutte, mentre quelle del fronte e
della schiena risultano ad esse soprammesse. La
serie di lamelle centrali che formano la falda sui
glutei, sottostà (Fig. 16, Fig. 17) a quelle intermedie, una destra e una sinistra.
La falda che ne risulta è di almeno sette ordini di
lame, alte quattro centimetri e due millimetri ciascuna, col risultato che, malgrado il giuoco delle
sovrammissioni, essa doveva essere una ‘campa-
15
R.J. CHARLES , La collection Georges Pauilhac au Musèe
de Armée, « La revue Française», n. 182, Novembre 1965,
supplemento.
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Fig. 17 – Resti di una corazzina dalla rocca di
Campiglia, dopo il restauro, Campiglia M.ma, Museo,
vista della parte posteriore della falda (Foto M.
Bertoni).
Fig. 16 – Resti di una corazzina dalla rocca di
Campiglia, dopo il restauro, Campiglia M.ma, Museo,
vista del fianco sinistro e della spalla di tre quarti (Foto
M. Bertoni).
na’ di almeno 25 centimetri d’altezza. Sin qui, per
quanto difficile da concretizzare, vale a dire presentare su di un manichino in modo comprensibile, la ricostruzione era quasi scontata. Il ‘quasi’
conviene per il fatto che la parte centrale ed anteriore della falda, salvo le due lamelle trapezie alla
forcata, mancava interamente.
Ciò significa che, di fatto, stando alla sola evidenza archeologica, la grande zona trapezia in corrispondenza del pube, avrebbe potuto essere risolta
con maglia d’acciaio, forse rimossa e recuperata al
momento dell’abbandono della nostra corazzina.
Per questo motivo, nella ricostruzione su manichino si è preferito lasciare la zona lacunosa. Per
ricomporre le lame rimanenti, provenienti dalla
difesa del tronco, che si è supposto essere per lo
più pertinenti ad una stessa zona, si è partiti dallo spazio sotto l’ascella che è stato agevole ricostruire con quattro piastre pressoché rettangolari, embricate con l’inferiore su tutte, soluzione
questa che dimostra una qualche arcaicità di pensiero ma che risulta evidente per la posizione dei
ribattini. Uno dei dettagli più interessanti, dei
resti esaminati, seppure niente affatto sorprendente, era la presenza di due piastre, una sola
delle quali perfettamente conservata, che in sezione longitudinale risultavano a V molto diva-
ricato e la cui foggia fortemente rettangolare terminava da una banda con una punta a freccia e
dall’altra con un identico profilo ma al negativo. Tali caratteristiche non lasciavano dubbi che
i due reperti fossero lame destinate a porsi in
vita in sequenza adiacente, senza sovrammissioni,
così come appare su di un buon numero di brigantine quattrocentesche e cinquecentesche.
Con queste, alte cm 3,6 e dai lati di cm 7,5, nonché con calchi di esse, è stato ricostruito il giro
vita che ha permesso anche il controllo del posizionamento delle lamelle di falda.
In base alla posizione delle terne di ribattini che,
sul manufatto integro, erano certo disposte come
d’uso a creare anche un effetto decorativo regolare, si è potuto appurare che il quarto inferiore sinistro della corazzina era costruito partendo con la
lama inferiore su tutte le altre, che erano embricate di conseguenza. L’elemento determinante per
comprendere quale fosse la struttura dell’area di
protezione della cassa toracica è stata una placca,
maggiore delle altre che, pur essendo di foggia
trapezia era assai più quadrotta e con i ribattini
disposti in modo tale da indurre a credere che questa fosse spinta fortemente sulla sinistra, praticamente a formare l’inizio dello scavo dell’ascella.
Resta da chiarire l’estensione delle due piastre
che, contigue a questa, avrebbero completato la
metà sinistra della difesa del torace. L’apertura
frontale della nostra corazzina poteva al massimo consentire una ipotesi ricostruttiva che prevedesse due grandi placche, speculari rispetto alla
linea dell’allacciatura, ma ciò sarebbe stato contraddittorio rispetto a quant’altro ricostruito. Le
placche sono infatti eccessivamente estese per
risultare confortevoli se raccordate ad un petto
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Fig. 18 – Resti di una corazzina dalla rocca di
Campiglia, durante le fasi di ricomposizione (1998).
Vista della parte posteriore della falda. Si noti la lama
in eccesso nella fila a destra, priva di segni bianchi
sulle teste dei ribattini (Foto M. Scalini).
così rigidamente costruito. Infatti per ottenere
una struttura organicamente flessibile, ad un
petto, piuttosto irrigidito, avrebbe meglio corrisposto una zona addome-fianchi risolta con lamelle relativamente minute, come nell’esemplare del Castello Sforzesco.
La sorte ha voluto che nel vicino sito di Rocchette Pannocchieschi (Gr), altro luogo fortificato pisano, oggetto di studio di Daniele De Luca
(cui devo la generosa segnalazione e che molto
mi ha aiutato nel lavoro e non solo da un punto
di vista pratico) sia emersa una placca assai grande con caratteristiche e spessori simili a quelle
dei materiali campigliesi.
L’attenta considerazione di questo frammento ha
indotto al confronto fisico tra i reperti di Campiglia e la placca in questione, cosa questa che
ha subito dimostrato la strettissima parentela tra
gli oggetti: per di più, giustapponendo la base
della piastra di petto proveniente da Rocchette
a quelle di Campiglia, già sistemate nella loro
probabile posizione originale a difesa dell’addome, le dimensioni sono apparse talmente coerenti e compatibili da consentire l’inserimento
d’una terza sagoma della terza piastra a completare la difesa della metà sinistra del petto con il
risultato d’una scansione triplice e regolare.
Naturalmente al momento in cui si è deciso di
rimontare le placche di Campiglia su di un manichino (in un assemblaggio ovviamente reversibile) che corrispondesse alle conclusioni qui esposte, la placca di petto da Rocchette è stata sostituita da un calco in resina colorata, modellando
poi quella adiacente secondo un profilo superiore diagonale che garantisse una credibile continuità dei margini della terna di petto.
Sul manichino da esposizione sono state fissate
Fig. 19 – Bacinetto dalla rocca di Campiglia, dopo il
restauro, Campiglia M.ma, Museo, vista del lato
destro (Foto M. Bertoni).
anche alcune piastre con bordi curvi che mostrano
fitte chiodature, senza dubbio provenienti dai giri
ascellari anteriori e posteriori, come risulta nelle
più tarde brigantine, anche nell’area dello scollo.
Purtroppo nella sistemazione finale dei pezzi è
stato necessario rimuovere i tocchi di bianco (Fig.
18) che erano stati apposti in corrispondenza delle
chiodature per renderne meglio visibile l’andamento favorendo le fasi d’indagine ricostruttiva.
Per evidenziare e studiare la loro disposizione,
peggio leggibile sulle pur ottime foto di documentazione conclusiva che qui si presentano, ci si è
giovati come base di un manichino provvisorio in
polistirolo appositamente scolpito.
Il risultato finale può essere messo a confronto
con il così detto “ lamiere” di Churburg, una protezione di petto e fianchi che si estende, avvolgendo il tronco, in una serie di piastre rettangolari bordate d’ottone, di cui la frontale su tutte,
e che per ragioni storico-dinastiche è databile al
1361 circa16. Senza dubbio l’insieme, per un personaggio del rango di Ulrico IV di Matsch, cui
questo lamiere è pertinente, era, al momento
della sua realizzazione, quanto di più innovativo si potesse reperire sul mercato. La datazione
della corazzina in esame deve per ciò conformarsi
ad una tale considerazione ed essendo un manufatto destinato a ben diversa classe sociale, sarà
opportuno collocarla più innanzi nel tempo, anche per la sua complessità strutturale che prevede la presenza d’una falda di piastre anziché di
16
Cfr. M. SCALINI , Armamenti difensivi prerinascimentali,
in O. TRAPP M. SCALINI, L’armeria Trapp di Castel Coira,
Maniago (Pordenone) 1996, II, pp. 33-37.
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maglia, a coerente (ma anche più economico)
completamento della protezione.
Vista anche l’esistenza a Rocchette d’una analoga difesa dovremo concludere che al tempo della sua acquisizione essa era un manufatto discretamente diffuso ed accetto nell’uso; ritengo dunque che una sua datazione intorno al 1370 o poco
dopo sia la più confacente17.
Conferma ad una tale ipotesi di scaglionamento
cronologico può venire anche dal rinvenimento
di un bacinetto nelle stratigrafie della torre B
(Fig. 19), tipica protezione del capo della seconda metà del Trecento. Disgraziatamente la sua
frammentarietà permette di coglierne le caratteristiche formali e tecniche con una certa difficoltà. Un andamento scampanato in controcurva
in corrispondenza delle guance e delle bande
della mascella, si ricompone in un profilo quasi
dritto della parte posteriore con un rigonfiarsi
quasi impercettibile alla nuca. La cuspide, una
volta poco spinta all’indietro e di dimensioni contenute, perforata al sommo per l’apposizione della pennacchiera, lo pone verso gli anni settanta.
Anche il profilo ad S leggermente modulata del
margine che dalla fronte scende verso quello inferiore del coppo, fa pensare ad una datazione
comparativamente alta in accordo con quella
sostenibile per l’esemplare del Museo Bardini di
Firenze (Fig. 20)18. Peculiare è la forma dei perni delle cerniere per l’apposizione della visiera
mobile, le cui teste si configurano come rosette
ad otto ringrossi con al centro un bottone che
parrebbe conico e leggermente svasato.
Questo dettaglio decorativo, che trova riscontro sul bacinetto A 12 di Vienna, marcato dal
maestro A e verisimilmente databile intorno al
140019, non compare invece su di un bacinetto
dello stesso maestro del Museo Civico delle armi
Marzoli di Brescia e, per quanto significativo non
mi pare debba essere preso come probante per
17
La datazione del reperto è in contrasto con quella dello strato di appartenenza (US 4042) corrispondente ad
uno dei livellamenti effettuati dai militari fiorentini nel
corso della seconda metà del XVI secolo per rialzare il
piano di calpestio del fondo del palazzo. Analogamente a
quanto si verificò per le altre placche, il bacinetto e per i
resti di armi provenienti dalla torre B (vedi contributo
De Luca infra) si tratta di reperti residui finiti in contesti
stratigrafici più tardi a seguito del loro abbandono da
parte degli originari possessori, i militari pisani, al momento che quest’ultimi lasciarono la Rocca prima dell’occupazione fiorentina.
18
Cfr. M. SCALINI , Novità e produzione nell’armamento
basso medievale toscano, in Guerra e guerrieri nella Toscana Medievale, a cura di F. Cardini e M. Tangheroni,
Pisa 1990, pp. 157-182, in particolare p. 178.
19
L.G. BOCCIA , p. 49 in L.G. BOCCIA , F. R OSSI , M. M ORIN ,
Armi e armature lombarde, Milano 1980, p. 49.
Fig. 20 – Bacinetto, Toscana ?, sec. XIV, Firenze,
Museo Bardini (Foto M. Bertoni).
Fig. 21 – Resto (uno di due) di visiera a ribalta da
barbuta o da bacinetto dalla rocca di Campiglia, prima
del restauro, Campiglia, Museo (Foto G. Fichera).
una cronologia se non molto genericamente conforme. Senza dubbio l’intera panoplia campigliese rimase comunque in uso sino all’abbandono
della fortificazione da parte della guarnigione
pisana, conseguente alle vicende politiche d’inizio Quattrocento che comportarono anche l’acquisizione di Pisa da parte fiorentina.
Questa considerazione sul prolungato ‘tempo di
vita’ degli armamenti difensivi rinvenuti a Campiglia, è avallata da due ulteriori resti di visiera
a ribalta con vista a finestrelle che è propria delle barbute trecentesche (Fig. 21).
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Fig. 22a – Visiera a ribalta da barbuta o da bacinetto
(vista frontale), sec. XIV, Berna, Museo Storico
(deposito) (Foto M. Scalini).
Fig. 23 – Resto di visiera a ribalta da barbuta o da
bacinetto dalla rocca di Campiglia, possibile
ricostruzione grafica complessiva, Campiglia, Museo
( Disegno di M. Scalini).
Fig. 22b – Visiera a ribalta da barbuta o da bacinetto
(vista del lato destro di tre quarti), sec. XIV, Berna,
Museo Storico (deposito) (Foto M. Scalini).
Andrà comunque notato che tale tipologia di
difesa del volto, attestata nell’area che ci interessa almeno dal 1350, compare ancora, nell’iconografia ed in forme pressoché identiche, intorno al 1410-141520. Parrebbe anzi che le visiere a
ribalta con andamento rigonfio, anziché puntuto,
come frequentemente si trova oltralpe, solo per
fare un esempio poco noto, a Berna (Fig. 22a;
Fig. 22b), siano state mantenute più lungamente
in uso in ambito marinaro ove si può ben credere che fogge eleganti e deflettenti venissero meno
20
Penso agli affreschi di Spinello Aretino in Palazzo Pubblico a Siena.
richieste non essendovi pericolo d’impatto con
le lance cavalleresche21.
Una visiera molto simile ed in migliori condizioni si conserva alla Rocca di Imola22 dove fu rinvenuta nel 1974-1975 all’interno del pozzo del
mastio. Un altro esemplare, benché meno aderente al nostro, si segnala a Scharfenberg23, mentre un terzo, sempre rigonfio e di contenute dimensioni, sin qui mai discusso, si trova al
Bayerisches Arméemuseum di Ingolstadt, con la
vista risolta in una teoria di archetti fortemente
verticalizzati e cuspidati quasi alla moresca. Un
quarto è a Berlino, con vista a singola teoria di
grosse perforazioni quadre avvicinabile all’esemplare di Sion, ora a Zurigo. Sussistono inoltre
esemplari dotati di un lungo e ristretto prolungamento (quasi una ciabatta) nella parte inferiore centrale. Questi costituiscono una ulteriore
classe di materiali che attende una seria e con21
Ad evidenza, fino all’avvento delle armi da fuoco individuali, l’arma offensiva più micidiale che si potesse immaginare nel suo rapporto velocità d’impatto-peso ove si
consideri che sulla cuspide veniva a concentrarsi la massa
di cavallo e cavaliere al galoppo.
22
Inv. n. 822233, pubblicata da L. FOLLO, Note preliminari sul restauro di oggetti rinvenuti nella Rocca imolese,
« Bollettino dei Musei Ferraresi», 4, pp. 165-173.
23
L.G. BOCCIA , Qualche nota sugli armamenti difensivi
da Suffumbergo, in Scharfenberg - Suffumbergo. Un castello tedesco nel Friuli medievale, a cura di A. Biasi e F.
Piuzzi, Pasian di Prato (Udine), pp. 45-53.
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Fig. 24b – Resti di sei placchette di corazzina a chiodi
ottonati torre B, in parte con tessili mineralizzati,
schema grafico (M. Scalini).
Fig. 24a – Resti di dieci placchette di corazzina a chiodi
ottonati, in parte con tessili mineralizzati, provenienti
dallo scavo della torre B, schema grafico (M. Scalini).
vincente discussione come pure quelli dall’andamento conico già citati24.
Per ragioni di chiarezza espositiva ho ritenuto opportuno fornire una restituzione grafica d’una possibile ricostruzione della visiera in questione, mutuando la posizione dei fori di aereazione, minutissimi, da un resto di lamiera proveniente dalla
stessa area ma che non si può dire con certezza
proveniente dalla stessa protezione del volto (Fig.
22)25. Altre lamiere di ragguardevole misura presentano curvature che possono indurci a ritenerle
come provenienti da altri copricapo ma l’assenza
di elementi probanti consiglia prudenza.
Fermo restando che intorno al 1360 dovette fare
la sua apparizione la visiera imperniata dalle bande del coppo, in corrispondenza delle tempie e che,
nel lungo periodo tale soluzione risultò quella vincente, la visiera a ribalta ebbe certo grande fortuna
e la sua diffusione in area peninsulare appare sem-
24
Si veda almeno M. SCALINI , Armamenti difensivi trecenteschi, delle collezioni Carrand e Ressman, Firenze 1984.
25
Tengo a precisare che la ricostruzione grafica è scientificamente credibile, ma che la scelta di alcuni dettagli minori è di fatto discrezionale.
pre più attestata da rinvenimenti archeologici.
Oltre alla corazzina proveniente dall’US 4042,
sono meritevoli di discussione altre lamelle tra
le centinaia rinvenute nel proseguo degli scavi
all’interno della torre B (US 1042-1040).
Render ragione di tutto il materiale potrebbe risultare un inutile aggravio ma un futuro restauro
di tutti i reperti potrebbe condurre alla ricomposizione di vari altri esemplari, non necessariamente
più recenti di quello descritto innanzi.
Per sottolineare l’importanza del ritrovamento
e dunque del sito, vorrei però soffermarmi su
alcuni pezzi che spiccano per finitura, così da
fornire anche qualche ulteriore coordinata per
gli studi a venire.
Oltre a qualche placca bombata, di grandi dimensioni, ad andamento circolare o semi lunato del
margine, che potrebbe essere stata una forma di
protezione arcaica della spalla, spiccano tra le altre un certo numero di lamelle dai chiodi a testa
d’ottone o meglio con teste rivestite d’ottone. Ho
restituito a tratto le meglio conservate cercando di
rappresentare ogni tipologia (Fig. 24a; Fig. 24b).
Nel primo disegno il gruppo delle cinque superiori (una spezzata e lacunosa al medio è comunque ben ricostruibile nella sua forma e lunghezza originale per l’evidente andamento a trapezio
dei due resti rinvenuti) proviene ad evidenza dalle
parti componenti i giri ascellari e dalla parte centrale della schiena.
Come la corazzina, analizzata in precedenza,
mostrava analogie con la protezione di Vienna
(Hofjagd u. Rüstkammer, inv. n. 190) (Fig. 25),
che si è datata al 1460 e che io stesso ho posto
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nel terza quarto del Quattrocento, così, queste
lame ricordano alcune visibili su brigantine addirittura cinquecentesche.
Una datazione tanto bassa per questi reperti appare insostenibile per ovvie ragioni, per altro
esterne alla classificazione stessa del manufatto.
Oltre a ciò, in realtà, rispetto a molte testimonianze presenti nei musei, quelle campigliesi si
qualificano per una maggiore grandezza ed in
particolare, la placca trapezoidale ricostruita
come su detto, punta chiaramente ad un tipo di
corazzatura trecentesca, allacciata con corregge
nella parte tergale, analoga a quella indosso al
San Giorgio bronzeo di Praga del 137326. Due
resti di lamelle, con ogni probabilità provenienti dallo stesso insieme cui appartennero tutte
quelle dai chiodi rivestiti d’ottone qui in esame,
mostrano chiodature sparse, ma ordinate in serie, lontane dai margini della piastra. In un caso,
considerando la disposizione dei resti mineralizzati di tessuto, che risulta ortogonale ai margini della lamella, si è evidentemente in presenza d’un estrema lama di falda ma, nell’altro reperto, ove la tramatura e l’ordito si propongono
a 45° rispetto ad essi, credo si sia in presenza
d’una parte di protezione della spalla destra,
proveniente dalla zona tra scapola e testa dell’omero.
Complessivamente si può osservare che l’equipaggiamento di cui fecero parte questi resti, dovette essere di un certo spicco, indubbiamente si
trattava di un manufatto costoso e realizzato con
attenzione anche alla resa estetica del lavoro.
Questa corazzina, che poteva avere il petto risolto da una unica grande piastra, come nel caso
del San Giorgio di Praga o della corazzina del
Castello Sforzesco di Milano, dovrebbe datarsi
tra il 1370 ed il 1380, confermando che la dotazione di armamenti della rocca campigliese fu
oggetto di attenzione e forse di rinnovamento
proprio in quel decennio.
Fig. 25 – Corazzina (con petto di due piastre e resta
posteriore) qui con cappellina celata non coeva, Italia
centrale?, sec. XV, Wien Hofjagd und Rüstkammer,
inv. n. A 190.
Resta a vedersi in che misura le fonti documentarie o d’archivio potranno fornirci precisazioni
ed eventualmente conferme a quest’ipotesi e di
come altri materiali di scavo si rapportino con
quelli metallici qui presi in considerazione.
26
M. SCALINI , L’arte del bronzo in Italia 1000-1700, Busto Arsizio 1988, p. 46, figg. 168-169.
MARIO SCALINI
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