quel mio eskimo - Francesco Guccini.net

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QUEL MIO ESKIMO
INTERVISTA A FRANCESCO GUCCINI
DI CECILIA MORETTI
l mito americano,
il rock, la beat
generation,
Bob Dylan, Borges,
Hemingway, On the
road, Doss Passos
e Steinbeck: c’è tutto
questo e altro ancora
nel Sessantotto,
“senza Marx
né Marcuse”,
che ci racconta
Francesco Guccini.
Tanta poesia
e pochissima politica,
la voglia di vivere
dei vent’anni, la felicità
dell’inconsapevolezza.
Jan Palach come eroe
libertario al di là
degli steccati ideologici
e delle appartenenze
I
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Basta la prima parola e non ti restano dubbi. È Francesco Guccini
che parla. È la sua voce. Quella
che canta «il mistero delle vite
che si dipanano lungo la scacchiera di giorni e strade»; quella che
«a volte morde e colpisce basso e
a volte sventola come bandiera»;
quella che evoca «nebbie, ricordi,
pene, profumo». Una voce che,
concreta e sognante, ruvida e confortevole, entra sotto pelle e parla
al cuore come di cose tue. Prende
un brivido a sentirlo rivolgersi a
te e per un attimo viene voglia di
lasciar perdere le domande sul
’68 e chiedergli, semplicemente,
una canzone. Perché, come spiega
lo stesso Guccini, «sono il fatto
di un momento, qualcosa di semplice, etereo e volatile».
L’INTERVISTA
Francesco Guccini
SENZA IDEOLOGIA
Ma la poesia, la musica, le canzoni possono avere forza rivoluzionaria?
Oddio, non esageriamo, fino a
un certo punto... Le canzoni, che
pure si possono fare con grande
serietà, non hanno trascendenze e
velleità. Insomma, «a canzoni
non si fan rivoluzioni», servono
cose un po’ più robuste; però possono essere delle ottime compagne di strada, ecco, questo sì.
Il ’68, allora, è stato più un’esperienza
politico-ideologica o umana ed esistenziale, una sorta di cammino di liberazione personale?
Direi che è stato più il proseguimento di una vicenda umana,
non soltanto mia, ma di tutta
quella generazione che veniva dagli anni ’50, piena di desiderio, a
volte forse anche inconscio, di
cambiamento. E qualcosa è cambiato davvero, a poco a poco… Il
tutto è esploso dapprima fuori
d’Italia, negli Stati Uniti e in
Francia specialmente, e poi è arrivato anche da noi, concludendo, o
forse iniziando - è sempre difficile dire se un periodo nasce o finisce - una fase di mutazioni ad
ampio spettro, innanzitutto sociali. Dunque, prima che politico, direi che il ’68 è stato un fatto
propriamente umano, insomma,
un fenomeno di costume.
Nella Sua autobiografia curata da Massimo Cotto, Portavo allora un eskimo
innocente, non ci sono riferimenti espliciti al ’68 “politico”, sebbene tante pagine siano dedicate a quegli anni. Viene
da chiedersi quali fossero modelli, miti
e simboli di Francesco Guccini in quel
periodo...
Mah... Allora venivamo tutti da
una specie di ammirazione-mito
per l’America e, quando dico
America, intendo gli Stati Uniti.
L’America era il mito in tutto:
musica, cinema, arte, poesia, letteratura, moda, look. Ecco, noi
nei primi anni ’60, fine ’50, leggevamo libri americani, ascoltavamo musica americana, guardavamo film americani: quelli erano gli indiscussi modelli di allora. Imitavamo le movenze di Elvis Presley e sapevamo quasi a
memoria Caldwell, Hemingway,
Doss Passos e Steinbeck. Per
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“L’America era il cuore, era il destino...
il mondo sognante e misterioso di Paperino”
quanto riguarda invece la musica
più nello specifico, agli inizi rifacevamo soprattutto certe canzoni
francesi, come quelle dei cantautori Jacques Brel o Georges Brassens, e ci ispiravamo anche a
qualche piccolo modello italiano,
per così dire, un po’ carbonaro…
Poi a metà degli anni ’60 è tornata forte la lezione americana, con
Dylan in testa. Lui ci ha spalancato le porte della contestazione
studentesca e della canzone di
protesta, influenzando molto il
comporre di quel periodo: eravamo dylaniani fino al midollo.
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Era, insomma, un’America che sapeva
«di Coca-Cola e burro di noccioline, di
frutta sciroppata in scatola e di macedonia, ma soprattutto di cioccolata». Ma poi
il rapporto con l’America è cambiato...
Sì, nel 1970, quando ci sono andato per rivedere finalmente
Eloise, la mia ragazza americana... Ero pieno di curiosità, ma
l’America che conoscevo era fatta
di miti, immaginazione e fantasie. Così il mito si è presto infranto, tra banali ma fastidiose questioni di differenza di mentalità e
più seri problemi, come la discussione sull’intervento in Vietnam.
Era meglio l’America immaginata di quella vissuta, l’America che
amavo era quella presieduta da
Paperino e non quella di oggi, capitalista, che si inventa la guerra
in Iraq, governata da Bush.
Che cosa resta oggi del ’68? È più una
rivoluzione fallita o una breccia culturale riuscita?
È difficile dirlo, ma una rivoluzione fallita no sicuramente. Con
il ’68 è successo qualcosa che ha
lasciato tracce indelebili. Ma,
purtroppo, subito dopo il fenomeno si è fortemente politicizzato, fino alle conseguenze, che tutti conosciamo, degli anni di
piombo… Adesso è tutto diverso, al giorno d’oggi le cose si
evolvono e mutano in maniera
estremamente veloce, ed è complicato dire con lucidità che cosa
è rimasto. Certo, costumi, abbigliamento, sessualità in quegli
anni hanno visto cambiamenti
fortissimi, ancora attuali.
In Adulti con riserva. Com’era allegra
L’Italia prima del ’68, Edmondo Berselli
sostiene che con il ’68 ideologico la politica abbia preso il sopravvento sulla
fantasia e sia rimasta uccisa la carica
creativa degli anni ’60. Condivide?
Sì e no. Di carica creativa ce n’è
stata anche dopo il ’68, anzi, forse
negli anni successivi ancora più
di prima, perché il ’68 vero e proprio è stato decisamente troppo
politicizzato. Ma l’idea di Berselli è più complessa: secondo lui
prima del ’68 eravamo più inconsapevoli e inconsci di tutto e
quindi, forse, più felici…
Dunque l’ideologia non è riuscita a uccidere la poesia della rivolta giovanile?
In parte sì e in parte no. Da quel
momento ne sono successe di
tutti i colori, è accaduto tutto il
contrario di tutto. I tempi intorno a noi cambiavano, crescevano
le persone convinte di avere la
verità in tasca e si aprivano gli
anni ’70, un decennio controverso, fatto di sogni ma anche di
piombo.
L’INTERVISTA
Francesco Guccini
“Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi...
non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni”
«Portavo allora un eskimo innocente
dettato solo dalla povertà / non era la
rivolta permanente: diciamo che non
c'era e tanto fa / Portavo una coscienza
immacolata che tu tendevi a uccidere,
però / inutilmente ti ci sei provata con
foto di famiglia o paletò /». Che cosa
rappresenta il Suo “eskimo innocente”
e quali sono le analogie e le differenze
tra il mondo di Eskimo e quello delle
nuove generazioni, il mondo che ha
cantato in Culodritto?
Be’, il vivere è sempre quello, è
storia antica, ma il cambiamento
è totale. Noi venivamo dalla
guerra e dal dopoguerra, eravamo
immersi in una realtà talmente
diversa che i giovani, e i giovanissimi soprattutto, non riescono
neanche a immaginarla. Era il
mondo delle case distrutte, delle
città per terra, dei viaggi sui carri
bestiame… Sono altri universi.
Definisco il mio eskimo “innocente” perché non lo presi come
divisa, ma come cappotto che costava poco, lo comperai perché faceva freddo, a Trieste, finito il
servizio militare. “Innocente”, insomma, nel senso che non era politicizzato, non aveva significati
ideologici.
Che cosa leggeva nel ’68?
Be’, adesso non ricordo con esattezza… Amavo molto Jorge Luis
Borges: l’ho scoperto agli inizi degli anni ’60 e tutto quello che
usciva me lo leggevo. Borges è
uno scrittore che reinventa il tempo: molti miei brani sono giocati
sul filo della memoria, mi piace
guardare al passato e nelle mie
canzoni si respira forte il senso del
tempo che passa. Comunque, a
Francesco ‘Elvis’ Guccini
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“Perché a vent’anni è tutto ancora intero,
perché a vent’anni è tutto chi lo sa...”
casa nostra, nonostante le origini
modeste, si è sempre letto molto,
di tutto un po’: fantascienza, gialli, romanzi d’avventura e anche la
poesia, da quella dei poeti medievali a quella di Eliot, Gozzano e
Garcia Lorca. La poesia mi era entrata dentro a Pàvana e mi colpiva, più che per la bellezza in sé,
per la sua capacità di raccontare
storie. Il mio cruccio, invece, erano i fumetti: Linus, Snoopy, Paperino, la passione giovanile della mia
generazione. Dovevo leggerli di
nascosto, perché mio padre me li
proibiva, temendo mi disabituassero alla vera lettura.
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Ma nel ’68 leggeva più Marx e Marcuse
o Kerouac e Salinger?
Ho letto Salinger e Kerouac piuttosto prima del ’68, On the road
per la prima volta nel ’59. Letture politiche, invece, non ne ho
mai fatte in vita mia: leggevo
narrativa, saggi, mi interessavo di
tradizioni popolari, tutto un altro
genere di cose, sicuramente non
Marx, né Marcuse.
Si sente più figlio degli anni ’60 o del
’68?
Di nessuno dei due! Io purtroppo sono figlio degli anni ’40 ed è
allora che è cominciata la mia
formazione, che poi ha attraversato tutti gli anni ’50. Insomma,
son partito molto molto prima… ahimé!
Lei ha tradotto in italiano Mrs. Robinson per i Royals, un gruppo beat di Ravenna. Francesco Merlo, in un articolo
apparso su Repubblica, ha scritto che
per capire a fondo lo spirito del “vietato
vietare” e cogliere la vera essenza degli
ideali di ribellione dei giovani sessantottini, è molto meglio ascoltare Simon e
Garfunkel piuttosto che pensare a slogan, cortei e manifestazioni di piazza.
Lei che dice?
Condivido, ma erano comunque le
diverse forme in cui si manifestava
quello stesso fenomeno che stava
accadendo. Io, ad esempio, me ne
andai in Olanda a inseguire i Provos, un gruppo di ragazzi che - in
Italia ancora non succedeva - viveva già allora fuori casa: nella stesse
stanze si mescolavano lingue e nazionalità, c’era una coppia di gallesi, una di norvegesi, io e un altro
italiano… Si parlava, ci si confrontava e tutto questo per me era
entusiasmante, ma soprattutto lo
era il fatto di avere vent’anni, era
L’INTERVISTA
Francesco Guccini
“... a vent’anni si è stupidi davvero,
quante balle si ha in testa a quell’età”
medie unificate e le differenze
sociali tra chi lavorava e chi studiava erano molto marcate. Gli
studenti costituivano una specie
di piccola classe élitaria molto
attiva, che muoveva, faceva, sperimentava…
Le sembra un’immagine più sessantottina e rivoluzionaria una ragazza in minigonna o un corteo di eskimi e bandiere?
Non si può scegliere. Assolutamente tutte e due, sono due facce
della stessa medaglia.
La Sua canzone Dio è morto è stata
censurata dalla Rai e trasmessa da Radio Vaticana, con tanto di elogi di Papa
Paolo VI. Come mai?
questa la vera bellezza. Avevamo
la forza della giovinezza, quella
che spinge a fare, provare, cercare... erano i tempi in cui nelle
osterie di Bologna si beveva, ci si
raccontava, si leggevano poesie e si
cantavano canzoni con la chitarra;
si “masticava la notte” tra allegria
e voglia di vivere. Forse è proprio
la giovinezza il rimpianto più
grande di quegli anni.
Quindi, il ’68 come metafora di una
tappa obbligata del percorso personale
di ogni ragazzo verso la maturità?
Sì. Rappresenta la continua voglia di fare, cambiare, migliorare, tipica dei vent’anni. Fra l’altro, il ’68 era un fatto che riguardava soprattutto gli studenti; in
quegli anni non c’erano ancora le
Sugli elogi del Papa in realtà ho
qualche dubbio… Penso che siano più che altro una trovata di
propaganda, credo che Paolo VI,
poveretto, non l’abbia mai ascoltata. Però, a differenza della Rai
che non volle saperne di metterla
in onda, neppure quando entrò
nella hit parade dei dischi più
venduti, Radio Vaticana trasmise
la canzone. E questo per via di
quel gruppo che sosteneva, in linea con la spinta innovativa di
Giovanni XXIII, la nuova tendenza della Chiesa di allora, una
Chiesa molto diversa da quella di
oggi. Quei giovani capirono, riuscendo a trovare una loro chiave
interpretativa, che la canzone non
era blasfema, ma anzi un invito
trasversale alle nuove generazioni, a pensare e rinnovarsi, lasciando uno spiraglio di speranza. Il
Dio che muore è un dio con la d
minuscola, un dio laico simbolo
dell’autenticità.
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«Quando la piazza fermò la sua vita/
sudava sangue la folla ferita/ quando la
fiamma col suo fumo nero/ lasciò la
terra e si alzò verso il cielo». 1970, Primavera di Praga: la prima canzone a celebrare il sacrificio di Jan Palach. Che
cosa simboleggia lo studente praghese
che si è dato fuoco nel 1969 in Piazza
San Venceslao?
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È un simbolo oltre le appartenenze politiche, senza strumentalizzazioni o sovrastrutture. Rappresenta un gesto di libertà, un grido
contro tutte le tirannie, il desiderio libertario che è sempre esistito
nell’uomo e che io ho sempre avvertito molto forte in me. Un
ideale, che qualcuno ha difeso fino
all’estremo sacrificio, che non ha
colori o etichette, non può essere
fatto proprio da un’ideologia e va
ben al di là degli schieramenti di
destra e sinistra.
Siamo alla fine. Qualcosa sul ’68 che
non Le ho chiesto e Lei vorrebbe raccontarmi…
Non saprei… perché vede, esserci
è diverso che raccontarlo dopo. A
esserci si provano sensazioni, per
l’età del momento, per gli amici di
allora, per il mondo che c’era, che a
raccontarle dopo a volte sfuggono.
E allora è un po’ quella malinconia
di quando hai conosciuto una persona e poi l’hai persa. E con lei se
n’è andata una parte di te.
L’Intervistato
FRANCESCO GUCCINI
È nato a Modena nel 1940. Studiato
oggi nelle scuole come esempio di
poeta contemporaneo, ha vinto il
premio Librex Guggenheim Eugenio
Montale per la sezione «Versi e musica». Ha insegnato per vent’anni
Lingua italiana all’Università americana di Bologna. Ha sceneggiato fumetti per Magnus e Bonvi. Ha scritto
i romanzi Cròniche epafániche,
Vacca d’un cane, Cittanòva blues e,
con Loriano Macchiavelli, Macaronì,
Un disco dei Platters, Questo sangue
che impasta la terra, Lo Spirito e altri
briganti, Tango e gli altri. Il suo ultimo album è Ritratti.
L’Autore
CECILIA MORETTI
Dottoranda di ricerca in latino umanistico, è
esperta in storia, letteratura e filologia dell’antichità. Collabora con diverse riviste del
settore.