PREGARE DIO PER I VIVI E PER I MORTI “Pregare Dio per i vivi e

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PREGARE DIO PER I VIVI E PER I MORTI “Pregare Dio per i vivi e
PREGARE DIO PER I VIVI E PER I MORTI
“Pregare Dio per i vivi e per i morti”: la lista delle opere di misericordia spirituali culmina con la
preghiera. Come l’amore, anche la preghiera è un’opera, un lavoro. Pregare è un’azione faticosa. E
la preghiera qui intravista è l’intercessione, la preghiera per gli altri. Ovvero, la preghiera in cui
l’uomo manifesta l’inscindibile connessione tra la relazione con Dio e la responsabilità per gli
uomini, la confessione di fede e l’impegno storico, l’amore per il Signore e la solidarietà con i
fratelli. Pregando, noi portiamo tutto il nostro essere davanti al Signore, dunque anche le relazioni
che ci hanno plasmato e che nutrono la nostra vita. Come viviamo con e per gli altri, cosi noi
preghiamo con e per gli altri.
Etimologicamente intercedere significa “fare un passo tra (inter-cedere)”, “interporsi”, situarsi
tra due parti per cercare di costruire un ponte, una comunicazione tra di esse. Riprendendo
un’immagine del libro di Giobbe, possiamo dire che l’intercessore è colui che pone una mano su
Dio e una sull’uomo, sulla spalla di Dio e sulla spalla dell’uomo divenendo lui stesso un ponte tra
l’uno e l’altro (cf. Gb 9,33). La postura di Mosè che, in piedi sul monte, tende verso il cielo le sue
braccia assicurando così la vittoria al popolo che sta combattendo contro Amalek, mostra
innanzitutto la fatica fisica della preghiera per gli altri (le braccia tese verso l’alto si fanno pesanti,
le mani aperte sembrano riempirsi di un peso insopportabile), tanto che Aronne e Cur, l’uno da un
lato e l’altro dall’altro, devono sostenere la sue braccia (cf. Es 17,8-13). Ma essa evidenzia anche la
dimensione spirituale di tale preghiera: uno stare davanti a Dio a favore di qualcun altro, una
compromissione attiva tra due parti, un situare se stessi al confine, uno stare sulla soglia, un porsi
nel vuoto che intercorre tra Dio e l’uomo, un abitare il “tra”. E la posizione di Aronne che
“ergendosi in mezzo” (Sap 18,23) arrestò l’ira divina impedendole di raggiungere i viventi; è la
posizione di Mosè che “si erge sulla breccia” (Sal 106,23) per stornare l’ira di Dio dal popolo; è la
posizione del profeta cercato vanamente da Dio secondo Ezechiele 22,30: “Ho cercato un uomo che
costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a me per difendere il paese ... ma non l’ho
trovato”.
L’intercessore è l’uomo del confine, che sta tra due fuochi, nella delicatissima posizione di chi è
compieta- mente esposto, di chi si assume la responsabilità del popolo peccatore e la porta davanti
al Dio santo e misericordioso. E una posizione “cruciale”. E la posizione di Gesù sulla croce,
quando il suo stare tra cielo e terra, con le braccia stese per portare a Dio tutti gli uomini, diviene
narrazione dell’esito ultimo dell’intercessione: il dare la vita per i peccatori da parte di colui che è
santo, il “morire per” gli ingiusti da parte di colui che è giusto. Come il Servo del Signore che,
ritenuto ingiusto e castigato da Dio, in verità, soffrendo e morendo per i peccatori, senza volontà di
vendetta e di rivalsa, ha portato la loro situazione davanti a Dio divenendo loro intercessore: “Egli è
stato annoverato tra gli empi, mentre portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is
53,12).
Luca pone espressamente in bocca a Gesù crocifisso l’invocazione di perdono per i suoi aguzzini:
“Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). E quella
preghiera al momento
1
della morte sintetizza un’intera vita spesa davanti a Dio per gli altri e mostra un Gesù divenuto egli
stesso intercessione con la sua vita e la sua morte. E il Risorto continua a intercedere per gli uomini
dall’alto dei cieli: egli, infatti, “è sempre vivo per intercedere” in favore dei credenti (Eb 7,25; cf.
9,24); “è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi” (Rm 8,34).
L’intercessione è una preghiera di domanda, una supplica, un’invocazione in cui facciamo
memoria davanti a Dio di altri uomini. Nell’intercessione non chiediamo a Dio, che già sa ciò di cui
abbiamo bisogno (cf. Mt 6,8.32), di ricordarsi di qualcuno, ma “davanti a lui” ci ricordiamo, noi
stessi, di altre persone per vedere illuminata dalla parola del Signore la nostra relazione con esse.
Mentre invochiamo da Dio perdono o aiuto per chi è nel bisogno, noi ci impegniamo concretamente
e facciamo tutto ciò che è in nostro potere per lui. In questo senso l’intercessione è lotta contro
l’amnesia che ci minaccia, purificazione della nostra relazione con gli altri e concreta dedizione per
coloro per i quali si prega. L’intercessione di Mosè è elemento costitutivo del suo ministero di guida
del popolo: le tappe del cammino dell’uscita dall’Egitto sono scandite dalla sua continua
intercessione (cf. Es 15,25; 17,9.11; 32,11-14; Nm 11,2; 12,13; 14,13-19; eccetera). La figura di
Mosè mostra come l’intercessione sia anche il faticoso situarsi del profeta tra la giustizia e la
misericordia di Dio: la soglia abitata dall’intercessore è la tensione che abita il nome stesso di Dio,
un nome che lo proclama misericordioso, lento all’ira e capace di perdono, ma anche giusto e che
non lascia senza punizione (cf. Es 34, 6-7). Questo situarsi sul crinale segna anche la vita
dell’intercessore che appare come uomo che abita la solitudine per incontrare il Signore, come
Mosè che sale sul monte e vi rimane per lunghi giorni in solitudine (cf. Es 24,18; 34,28), e come
uomo che esce dalla solitudine per incontrare gli uomini e condividere il loro cammino, come Mosè
che scende dal monte e si situa nuovamente tra i suoi fratelli (cf. Es 34,29-35). L’intercessione pone
l’uomo nell’alternanza di solitudine e solidarietà. L’intercessore è l’amico di Dio (cf. Es 33,11) che,
in nome di questa stessa amicizia, lotta contro Dio per il suo popolo, mostrandosi così amico del
suo popolo (cf. 2Mac 15,14).
Se Gesù, nel suo ministero storico, ha pregato per i suoi discepoli (si pensi alla preghiera di Gesù
per Pietro, perché non venga meno la sua fede: cf. Lc 22,32), anche i discepoli sono chiamati a
“pregare gli uni per gli altri” (Gc 5,16). Soggetto della preghiera nel cuore del discepolo e della
comunità cristiana è lo Spirito santo, il Paraclito, che parla la lingua di Dio e insegna al credente a
pregare intercedendo con insistenza per lui (cf. Rm 8,26). L’intercessione manifesta la solidarietà e
la comunione dell’intera comunità con un suo membro nel bisogno: “Mentre Pietro era in prigione,
una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla chiesa per lui” (At 12,5). In particolare, l’Apostolo
svolge il suo ministero pastorale presso le sue comunità intercedendo, pregando per esse (cf. 2Cor
9,14; Col 1,3.9-11) e venendo sostenuto dalla loro preghiera per lui (cf. Rm 15,30; 2Cor 1,11; Fil
1,19). Anzi, l’atto stesso del pregare per gli altri sostiene anche colui che prega: “Colui che sostiene
gli altri con l’intercessione, sostiene anche se stesso grazie a questo stesso atto e a coloro che egli
sostiene”1. Chiamato a pregare, il credente è chiamato in particolare a intercedere, a innalzare
suppliche e preghiere “per tutti gli uomini” (1Tm 2,1), manifestando così la volontà di Dio “che
tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4).
Grazie all’intercessione, la volontà di Dio e l’amore universale che la anima diventano prassi
quotidiana del credente convertendo il suo cuore. Infatti, la preghiera per gli altri nasce dall’amore e
conduce all’amore purificando l’amore. Scrive Dietrich Bonhoeffer:
Una comunità cristiana vive dell’intercessione reciproca dei membri o perisce. Non
posso giudicare o odiare un fratello per il quale prego, per quanta difficoltà io possa
avere ad accettare il suo modo di essere o di agire. Il suo volto, che forse mi era estraneo
o mi riusciva insopportabile, nell’intercessione si trasforma nel volto del fratello per il
quale Cristo è morto, nel volto del peccatore perdonato. Questa è una scoperta
veramente meravigliosa per il cristiano che incomincia a intercedere. Non esiste
antipatia, non esiste tensione e dissidio personale che, da parte nostra, non possa essere
superato nell’intercessione. L’intercessione è il bagno di purificazione
a cui il singolo e
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il gruppo devono sottoporsi giornalmente ... Intercedere significa: concedere al fratello
lo stesso diritto che è stato concesso a noi, cioè di porsi davanti a Cristo ed essere
partecipe della sua misericordia 2.
Del resto, come sarebbe mai possibile arrivare ad amare i nemici senza pregare per loro? Non a
caso Gesù, dopo aver detto: “Amate i vostri nemici” (Lc 6,27), subito aggiunge: “Pregate per coloro
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D. Stàniloae, “Les prières pour autrui et la catholicité de l’Église”, in Con- tacts 77 (1972), p. 11.
D. Bonhoeffer, La vita comune, Queriniana, Brescia 1969, p. 112.
che vi maltrattano” (Lc 6,28). La preghiera infonde intenzionalità al nostro agire e relazionarci, e ne
diviene il fondamento spirituale.
Finora abbiamo parlato della preghiera dei vivi per i vivi, ma la Scrittura attesta anche la
preghiera dei vivi per i morti (cf. 2Mac 12,41-45) e dei morti per i vivi (cf. 2Mac 15,11-16). Se nel
secondo brano si attesta l’intercessione per i vivi da parte di due giusti trapassati come il sommo
sacerdote Onia e il profeta Geremia, nel primo si narra di Giuda Maccabeo che esorta a pregare
perché venga perdonato il peccato commesso da alcuni giudei morti in battaglia che si erano
impadroniti di idoli e amuleti trovati in templi pagani. La preghiera per i defunti è sostenuta e resa
possibile dalla fede nella resurrezione (“Se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero
risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti”: 2Mac 12,44) e diviene un compito
della comunità credente che vive anche in questo modo la sua solidarietà con i fratelli defunti.
La fede nella resurrezione è l’esito radicale dell’alleanza che Dio stringe con gli uomini e che
parla di un amore divino che “vale più della vita” (Sal 63,4) e si spinge oltre la vita. Il Dio di
Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio dei viventi, non dei morti (cf. Es 3,6; Mc 12,26-27),
sicché i giusti che in vita si sono affidati a lui, ora, dopo la morte, sono viventi in lui. Si pensi a
Mosè ed Elia attorno al Cristo trasfigurato (cf. Mc 9,2-8) davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. La
comunione vissuta in vita non è spezzata dalla morte perché il credente trova la sua vita “in Cristo”:
coloro che vivono i loro giorni in Cristo restano pertanto in comunione con coloro che sono “morti
in Cristo” e tra di loro si stabilisce una misteriosa comunione che rende possibile anche una
comunicazione (cf. Ap 7,13-17). Del resto, il battesimo, che incorpora il singolo credente all’evento
pasquale e crea la comunione di coloro che nella storia formano il corpo di Cristo, rappresenta una
morte simbolica per vivere in Cristo e infonde la convinzione che la morte fisica non spezza il
legame del credente che, in Cristo, è unito alla comunità di fede. La chiesa attesta, fin dall’antichità,
la possibilità di una preghiera per i morti, che si situa nella communicatio idiomatum
(comunicazione dei linguaggi) che unisce in Cristo i vivi e i morti: “L’unione ... di coloro che sono
in cammino con i fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata, anzi, secondo la
perenne fede della chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali” 3. Così, la liturgia
della chiesa prega per i defunti soprattutto nelle anafore eucaristiche. La chiesa prega per tutti i suoi
membri, vivi o morti, e prega per i morti nella santità e per i morti peccatori: tutti, infatti, sono
bisognosi della misericordia di Dio, unica potenza di salvezza. Nella preghiera per i defunti la
chiesa manifesta la sua qualità di corpo di Cristo e vive la solidarietà con tutte le membra di questo
corpo anche con coloro che già sono trapassati. La chiesa, mentre prega per i morti, prega con loro.
Unica, infatti, è la liturgia della chiesa celeste e terrestre. Pregando per i morti la chiesa confessa il
perdono dei peccati su tutti: sui vivi come sui morti. Del resto, la salvezza che Cristo è venuto a
portare è per tutti gli uomini e il Risorto è disceso agli inferi per annunciare il vangelo anche ai
morti (cf. 1Pt 3,18-20; 4,6). Pregando per i morti la chiesa si inserisce nel piano di salvezza di Dio
che ha come fine il Regno, la resurrezione finale, la vita eterna. Ecco allora che le preghiere
tradizionali per i morti invocano “pace”, “riposo eterno”, “refrigerio”, “luce eterna”, ed evocano
immagini quali “il seno di Abramo” (Lc 16,22), il “paradiso” (Lc 23,43), la “Gerusalemme celeste”
(Ap 21,2).
Pregare per i vivi e per i morti è lottare contro l’inferno della non relazione che minaccia le nostre
vite e far regnare l’amore che è legame vitale e salvifico invocando il Dio misericordioso e
compassionevole. Infatti, “il Dio misericordioso si rallegra di vedere i suoi figli
affrettarsi ad aiutare
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il prossimo. Il Misericordioso vuole e desidera che noi tutti ci facciamo reciprocamente del bene,
sia mentre viviamo che dopo la morte”4.
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4
Concilio Vaticano II, Lumen gentium 49, in Enchiridion vaticanum I, p. 592, nr. 419.
Giovanni di Damasco, Su quanti si sono addormentati nella fede, PG 95, 262B.