PREGARE PER I VIVI E PER I MORTI
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PREGARE PER I VIVI E PER I MORTI
‘Quello che avete fatto al più piccolo fra voi …’ 28 Maggio 2012 ‘PREGARE PER I VIVI E PER I MORTI’ Etimologicamente intercedere significa "fare un passo tra (inter-cedere), interporsi", situarsi tra due parti per cercare di costruire un ponte, una comunicazione tra di esse. Riprendendo un'immagine del libro di Giobbe, possiamo dire che l’intercessore è colui che pone una mano su Dio e una sull'uomo, sulla spalla di Dio e sulla spalla dell'uomo divenendo lui stesso un ponte tra l'uno e l'altro. La postura di Mosè che in piedi sul monte, tende verso il cielo le sue braccia assicurando così la vittoria al popolo che sta combattendo contro Amalek, mostra innanzitutto la fatica fisica della preghiera per gli altri (le braccia tese verso l'alto si fanno pesanti, le mani aperte sembrano riempirsi di un peso insopportabile), tanto che Aronne e Cur, l’uno da un lato e l'altro dall'altro, devono sostenere le sue braccia (cfr. Es 17,8-13). Ma essa evidenzia anche la dimensione spirituale di tale preghiera: uno stare davanti a Dio a favore di qualcun altro, una compromissione attiva tra due pari, un situare se stessi al confine, uno stare sulla soglia, un porsi nel vuoto che intercorre tra Dio e l'uomo, un abitare il "tra". È la posizione di Aronne che ergendosi in mezzo (Sap 18,23) arrestò l'ira divina impedendole di raggiungere i viventi: è la posizione di Mosè che "si erge sulla breccia” (Sal 106,23) per stornare l'ira di Dio dal popolo; è la posizione del profeta cercato vanamente da Dio secondo Ez 22,30: "Ho cercato un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a ma non l'ho trovato". L'intercessore è I’uomo del confine, che sta tra due fuochi, nella delicatissima posizione di chi è completamente esposto, di chi si assume la responsabilità del popolo peccatore e la porta davanti al Dio santo e misericordioso. E’ una posizione cruciale. È la posizione di Gesù sulla croce, quando il suo stare tra cielo e terra, con le braccia stese per portare a Dio tutti gli uomini, diviene narrazione dell'esito ultimo dell'intercessione: il dare la vita per i peccatori da parte di colui che è santo, il "morire per" gli ingiusti da parte di colui che è giusto. Come il Servo del Signore che, ritenuto ingiusto e castigato da Dio, in verità, soffrendo e morendo per i peccatori, senza volontà di vendetta e di rivalsa, ha portato la loro situazione davanti a Dio divenendo loro intercessore: "Egli è stato annoverato tra gli empi, mentre portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53,12). Luca pone espressamente in bocca a Gesù crocifìsso l'invocazione di perdono per i suoi aguzzini: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34). E quella preghiera al momento della morte sintetizza un'intera vita spesa davanti a Dio per gli altri e mostra un Gesù divenuto lui stesso intercessione con la sua vita e la sua morte. E il Risorto continua a intercedere per gli uomini dall'alto dei cieli: egli, infatti, "è sempre vivo per intercedere" in favore dei credenti (Eb 7,25; cfr. 9,24); "è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi" (Rm 8,34). L'intercessione è una preghiera di domanda, una supplica, un'invocazione in cui facciamo memoria davanti a Dio di altri uomini. Nell'intercessione non chiediamo a Dio che sa ciò di cui abbiamo bisogno (cfr Mt 6,8.32), di ricordarsi di qualcuno, ma “davanti a lui" ci ricordiamo, noi stessi, di altre persone per vedere illuminata dalla parola del Signore la nostra relazione con esse. Mentre invochiamo da Dio perdono o aiuto 1 per chi e nel bisogno, noi ci impegniamo concretamente e facciamo tutto ciò che è in nostro potere per lui. In questo senso l'intercessione è lotta contro l'amnesia che ci minaccia, purificazione della nostra relazione con gli altri e concreta dedizione per coloro per i quali si prega. L’intercessione di Mosè è elemento costitutivo del suo ministero di guida del popolo: le tappe del cammino dell'uscita dall'Egitto sono scandite dalla sua continua intercessione. La figura di Mosè mostra come l'intercessione sia anche il faticoso situarsi del profeta tra la giustizia e la misericordia di Dio: la soglia abitata dall'intercessore è la tensione che abita il nome stesso di Dio, un nome che lo proclama misericordioso, lento all'ira e capace di perdono, ma anche giusto e che non lascia senza punizione (cfr. Es 34,6-7). Questo situarsi sul crinale segna anche la vita dell'intercessore che appare come uomo che abita la solitudine per incontrare il Signore, come Mosè che sale sul monte e vi rimane per lunghi giorni in solitudine e che esce dalla solitudine per incontrare il popolo e continuare il cammino con lui, come Mosè che scende dal monte e si situa nuovamente tra i suoi fratelli. L'intercessione pone l'uomo nell'alternanza di solitudine e solidarietà. L'intercessore è l’amico di Dio che, in nome di quella stessa amicizia, lotta contro Dio per il suo popolo, mostrandosi così amico del suo popolo. Se Gesù, nel suo ministero storico, ha pregato spesso per i suoi discepoli (si pensi alla preghiera di Gesù per Pietro, perché non venga meno la sua fede), anche ì discepoli sono chiamati a pregare gli uni per gli altri. Soggetto della preghiera nel cuore del discepolo e della comunità cristiana è lo Spirito santo, il Paracleto, che parla la lingua di Dio e insegna al credente a pregare intercedendo con insistenza per lui. L'intecessione manifesta la solidarietà e la comunione dell'intera comunità con un suo membro nel bisogno: "Mentre Pietro era in prigione, una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla chiesa per lui" (At 12,5). In particolare l'Apostolo svolge il suo ministero pastorale presso le sue comunità intercedendo, pregando per esse e venendo sostenuto dalla loro preghiera per lui. Anzi, l'atto stesso del pregare per gli altri sostiene anche colui che prega: "Colui che sostiene gli altri con l’intercessione, sostiene anche se stesso grazie a questo stesso atto e a coloro che egli sostiene'' (Dimitru Staniloae). Chiamato a pregare, il credente è chiamato in particolare a intercedere, a innalzare suppliche e preghiere "per tutti gli uomini" (1 Tm 2,1), manifestando così la volontà di Dio "che tutti gli uomini siano salvati" (1 Tm 2,3). Grazie all'intercessione, la volontà di Dio e l'amore universale che la anima diventano prassi quotidiana del credente convertendo il suo cuore. Infatti, la preghiera per gli altri nasce dall'amore e conduce all'amore purificando l'amore. Scrive Dietrich Bonhoeffer: "Una comunità cristiana vive dell'intercessione reciproca dei membri o perisce. Non posso giudicare o odiare un fratello per il quale prego, per quanta difficoltà io possa avere ad accettare il suo modo di essere o di agire. Il suo volto, che forse mi era estraneo o mi riusciva insopportabile, nell'intercessione si trasforma nel volto del fratello per il quale Cristo è morto, nel volto del peccatore perdonato. Questa è una scoperta veramente meravigliosa per il cristiano che incomincia a intercedere. Non esiste antipatia, non esiste tensione e dissidio personale che, da parte nostra, non possa essere superato nell'intercessione. L'intercessione è il bagno di purificazione a cui il singolo e il gruppo devono sottoporsi giornalmente... Intercedere 2 significa: concedere al fratello lo stesso diritto che è stato concesso a noi, cioè di porsi davanti a Cristo ed essere partecipe della sua misericordia". Del resto, come sarebbe mai possibile amare i nemici senza pregare per loro? La preghiera infonde intenzionalità al nostro agire e relazionarci e ne diviene il fondamento spirituale. Finora abbiamo parlato della preghiera dei vivi per i vivi, ma la Scrittura attesta anche la preghiera dei vivi per i morti (2 Mac 12,41-45) e dei morti per i vivi (2 Mac 15,11-16). Se nel secondo brano si attesta l'intercessione per i vivi da parte di due giusti trapassati come il sommo sacerdote Onia e il profeta Geremia, nel primo si narra di Giuda Maccabeo che esorta a pregare perché venga perdonato il peccato commesso da alcuni giudei morti in battaglia che si erano impadroniti di idoli e amuleti trovati in templi pagani. La preghiera per i defunti è sostenuta e resa possibile dalla fede nella resurrezione ("Se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti": 2 Mac 12,11) e diviene un compito della comunità credente che vive anche in questo modo la sua solidarietà con i fratelli defunti. La fede nella resurrezione è l’esito radicale dell'alleanza che Dio stringe con gli uomini e che parla di un amore divino che "vale più della vita" (Sal 63,4) e si spinge oltre la vita. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio dei viventi, non dei morti, sicchè i giusti che in vita si sono affidati a lui, ora, dopo la morte, sono viventi in lui. Si pensi a Mosè ed Elia attorno al Cristo trasfigurato (cfr. 9,2-8) davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. La comunione vissuta in vita non è spezzata dalla morte perché il credente trova la sua vita "in Cristo": coloro che vivono i loro giorni in Cristo restano pertanto in comunione con coloro che sono "morti in Cristo” e tra di loro si stabilisce una misteriosa comunione che rende possibile anche una comunicazione (cfr. Ap 7,13-17). Del resto, il battesimo, che incorpora il singolo credente all'evento pasquale e crea la comunione di coloro che nella storia formano il corpo di Cristo, rappresenta una morte simbolica per vivere in Cristo e infonde la convinzione che la morte fisica non spezza il legame del credente che, in Cristo, è unito alla comunità di fede. La chiesa attesta, fin dall'antichità, la possibilità di una preghiera per i morti, che si situa nella comunicazione dei linguaggi che unisce in Cristo i vivi e i morti. "L’unione ... di coloro che sono in cammino con i fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali" (LG 49). Così la liturgia della chiesa prega per i defunti soprattutto nelle anafore eucaristiche. La chiesa prega per tutti i suoi membri, vivi o morti, e prega per i morti nella santità e per i morti peccatori: tutti, infatti, sono bisognosi della misericordia di Dio, unica potenza di salvezza. "Ecco perché preghiamo ... e nominiamo i morti insieme con i martiri, i confessori, i presbiteri Noi siamo tutti un corpo solo, anche se un membro è più glorioso degli altri" (Giovanni Crisostomo). La chiesa, mentre prega per i morti, prega con loro. Unica, infatti,è la liturgia della chiesa celeste e terrestre. Pregando per i morti la chiesa fa regnare il perdono dei peccati su tutti: sui vivi come sui morti. Del resto, la salvezza che Cristo è venuto a portare è per tutti gli uomini e il Risorto è disceso agli inferi per annunciare il vangelo anche ai morti. Pregando per i morti la chiesa si inserisce nel piano di salvezza di Dio che ha come fine il Regno, la resurrezione finale, la vita eterna: allora che le preghiere tradizionali per i morti 3 invocano pace riposo eterno, "luce eterna", ed evocano immagini quali "il seno di Abramo”, il paradiso, la "Gerusalemme celeste". Che cosa significa pregare per i morti? Sono già presso Dio. Ha senso pregare per loro? Abbiamo visto che la preghiera per i defunti è espressione del nostro legame con essi. Attraverso la nostra preghiera rendiamo loro un ultimo servigio. Preghiamo per loro che, nella morte, riesca il passaggio a Dio e che, morendo, si abbandonino all'amore di Dio. Ci chiediamo quale sia il messaggio che i defunti ci rivolgono con la loro vita e la loro morte. Nel Libro zibellino dei morti si accompagna ancora il defunto per quaranta giorni dopo la sua morte con preghiere e rituali, per facilitargli il passaggio al nirvana, la beatitudine eterna. In fondo non possiamo dire se il processo di morte duri quaranta giorni o se questi quaranta giorni vadano psicologicamente intesi più che altro dal punto di vista delle persone che prendono commiato dal defunto. Ciò significherebbe allora che abbiamo bisogno di quaranta giorni per ottenere, mediante la nostra intensa preghiera di intercessione per il defunto, la fiducia che ora è presso Dio e che vive la beatitudine eterna in pace con sé e con Dio. In ambienti cattolici è consuetudine celebrare una santa messa per i defunti anche nell'anniversario della morte. E alcuni spendono molti soldi per far dire il maggior numero possibile di messe per i defunti. In questo modo di pregare per i defunti dovremmo, da un lato, guardarci dall'ansia da prestazione, come se, attraverso la quantità di preghiere o di denaro che spendiamo per le messe, portassimo più in fretta l'anima in cielo. Dall'altro, dobbiamo staccarci dal pessimismo che la maggior parte delle anime siano in purgatorio. Dobbiamo avere fiducia nel fatto che il defunto è morto nell'amore di Dio e si è abbandonato a esso. Il processo di questo abbandonarsi nell'amore puro di Dio, in cui vivo dolorosamente tutta la mia impurità e oscurità, è ciò che definiamo purgatorio. La preghiera ha soprattutto la funzione di entrare in contatto con il defunto, di sentire la comunione con lui, di pregarlo di accompagnarci dal cielo e di intercedere per noi con Dio. E un'ottima usanza quella di celebrare, nell’anniversaro della morte, una messa a cui partecipano i membri della famiglia. In questa celebrazione eucaristica sentiranno allora in maniera particolare il legame con il defunto. E crescerà la fiducia che il defunto è presso Dio, nella sua gloria e che, volgendo lo sguardo al cielo, troviamo la giusta misura per vivere in questo mondo. La preghiera per i defunti non è soltanto un servizio d'amore verso di loro, bensì anche espressione del legame con essi, espressione della fede che l'amore è più forte della morte e che la morte non può distruggere il nostro amore per il defunto ma soltanto trasformarlo. Così la settima opera di misericordia spirituale, quella di pregare per i vivi e per i morti, è un servizio d'amore verso l'essere umano. Nella preghiera esprimiamo il nostro amore per l'altro e abbiamo fiducia nel fatto che attraverso la nostra preghiera l'amore di Dio agisce in maniera benefica nella persona per cui preghiamo. E, nella preghiera per i defunti, esprimiamo la realtà che non li lasciamo soli nel processo della morte, ma li accogliamo con il nostro amore. Ed esprimiamo che il legame dell'amore resta oltre la morte. Gabriel Marcel, il filosofo francese, ha detto: «L'amore significa dire all'altro: tu non morirai». Non dimentichiamo il defunto, ma nella preghiera ne teniamo desto il ricordo. E i morti ci rammentano la nostra morte. Ci rimandano a Dio, che è lui meta della nostra 4 esistenza. Pregare per i vivi e per i morti è lottare contro l'inferno della non-relazione che minaccia le nostre vite e far regnare l'amore che è legame vitale e salvifico invocando il Dio misericordioso e compassionevole. Infatti, "il Dio misericordioso si rallegra di vedere i suoi figli affrettarsi ad aiutare il prossimo. Il Misericordioso vuole e desidera che noi tutti ci facciamo reciprocamente del bene, sia mentre viviamo che dopo la morte" (Giovanni Damasceno). PER LA PREGHIERA De Profundis (Salmo 129) Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia preghiera. Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono: e avremo il tuo timore. Io spero nel Signore, l'anima mia spera nella sua parola. L'anima mia attende il Signore più che le sentinelle l'aurora. Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la misericordia, e grande presso di lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe. La preghiera di intercessione: farsi carico dell’altro presso Dio di Carlo Maria Martini Il testo è la trascrizione della lectio tenuta da S.Em. il cardinal Carlo Maria Martini il 3 gennaio 2008, presso la Hebrew University di Gerusalemme. Dall’inizio desidero dirvi di non aspettarvi da me una lezione formale. Io sono troppo avanti negli anni per questo tipo di esercizio, e per molto tempo ho lasciato il regolare contatto con la letteratura scientifica. Dunque, posso solo offrirvi alcuni pochi pensieri che mi aiutano nella preghiera quotidiana. Per questa ragione, pur tenendo come sottofondo l’intera problematica dell’intercessione, il mio preciso oggetto sarà la preghiera di intercessione. Mi baso in particolare su due scritti che costituiscono la mia principale fonte di ispirazione: la Bibbia Ebraica o Tanach e il Secondo Testamento, chiamato anche il Nuovo Testamento. Desidero iniziare con le parole di Gesù tratte dall’Evangelo di Luca (Lc 10,21): «Ti ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agl’intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così è piaciuto a te». Testi simili a questo si trovano anche nella Tanach, precisamente in Isaia 29,14: «Perirà la sapienza dei suoi sapienti e scomparirà l’intelligenza degli intelligenti», o in Isaia 19,11-12: «Certamente stolti sono i prìncipi di Tanis, i più sapienti dei consiglieri del faraone formano un consiglio stupido. Come potete dire al faraone: 'Io sono discepolo dei sapienti, discepolo di antichi regnanti'? Dove sono dunque i tuoi sapienti? Ti annuncino e facciano conoscere ciò che progettò il Signore 5 degli eserciti a proposito dell’Egitto». Dietro a queste istanze vi è una opposizione: da una parte, il dotto e il sapiente che pretendono di capire e, dall’altra, i piccoli e i fanciulli che sono immagine del popolo pronto ad accettare le cose del regno di Dio con la semplicità di un bambino. Nel suo duro linguaggio Paolo afferma: «Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo non conobbe Dio con la sapienza, piacque a Dio di salvare quelli che credono con la stoltezza della predicazione» (1 Cor 1,21). 1. Il sapiente e il dotto Con questa distinzione in mente, consideriamo dapprima il sapiente ed il dotto. Penso che la preghiera di intercessione è tra le cose che queste persone sono inclini a considerare come insignificanti e persino assurde. Anche noi a volte apparteniamo a questa categoria, quando pensiamo che la preghiera di intercessione rimanga come sospesa nell’aria senza produrre frutto, o quando la consideriamo di seconda classe, come devozionale, da compiersi semmai nei ritagli di tempo.Certamente il dotto ed il sapiente non obbietteranno al primitivo significato latino del termine «intercedere», che è «camminare nel mezzo», pronto ad aiutare ciascuna delle due parti o ad interporsi in favore di una di loro. Potrebbero anche non obbiettare all’intercessione compiuta da una persona verso un preciso uomo o donna o gruppo di persone. Vi sono molti esempi in questo, nell’antica letteratura ed altrettanto nella Bibbia. Là, ad esempio, Giuseppe domanda al capo dei coppieri del re d’Egitto di ricordarsi di lui quando costui sarà uscito di prigione ed a parlare in suo favore al Faraone (Gen 40,14) (il capo dei coppieri dimenticò poi di compiere ciò quando fu liberato e reintegrato nel suo lavoro!). Un uomo ed una donna possono parlare a nome di un altro uomo, o donna che sia, ad una terza persona affinché quest’ultima cambi i propri progetti e una sapiente intercessione può aiutare a trovare e a compiere una giusta decisione o a rovesciare una decisione sbagliata. Ma Dio non pone in essere decisioni sbagliate, e quindi, quando noi veniamo alla preghiera di intercessione (cioè «stare alla presenza di Dio per un’altra persona») domandiamo forse a Lui di intervenire e modificare la situazione di quell’uomo o donna? Qui il sapiente e il dotto pongono molte obbiezioni. Come può Dio essere mosso a cambiare il suo modo di pensare e correggere una decisione sbagliata? La mente di Dio non è forse immodificabile dall’inizio? Notiamo che questa obbiezione può essere portata a riguardo di ogni preghiera di petizione, ma essa diventa molto forte nel caso dell’intercessione, che è preghiera di petizione per altri. Infatti Dio generalmente dona un aiuto con la libera collaborazione della persona interessata. Quale può essere allora il senso dell’intrusione di altre persone? 2. I piccoli Ma contro il sapiente e il saggio stanno i piccoli, che ricevono dall’alto il dono dell’intercessione e danno grande valore a questo atteggiamento che è lo stare davanti a Dio per altri. Esso è presente in molti esempi biblici, da Abramo che pregò per scongiurare la punizione di Sodoma (Gen 18,22-32), a Mosè che intercedette per l’intero popolo di Israele (Es 32,11-13), ed anche per un solo individuo come sua sorella Miriam (Nu 12,13); da Samuele che, nonostante l’avvenuta rottura col popolo, promise di continuare ad intercedere per esso (1 Sam 6 12,23), a Davide che pregò per la vita di suo figlio (2 Sam 12,16-17); da Amos che pregò il Signore Dio di perdonare Giacobbe perché 'egli è così piccolo' (Amos 7,1-6), a Geremia che disse al popolo di pregare per il benessere della città in cui erano stati deportati (Ger 29,7) e così in molte altre situazioni. Se noi potessimo considerare anche la letteratura intertestamentaria, questi esempi si moltiplicherebbero. Questa attitudine la sento personalmente di grande interesse perché, dopo molti anni dedicati allo studio e all’insegnamento e a un ministero pubblico, ho deciso di vivere gli ultimi giorni della mia vita qui, a Gerusalemme, in una incessante intercessione per i bisogni delle mie sorelle e dei miei fratelli della Chiesa di Milano, che ho avuto l’onore di servire come Arcivescovo per più di ventidue anni, e per tutto il mondo e specialmente per le persone con le quali vivo, ricordando le parole dell’apostolo Paolo: «I giudei prima, e poi i greci». La preghiera di intercessione è dunque la mia prima priorità, la mia principale quotidiana occupazione. Come allora io posso praticarla se è considerata insignificante ed anche assurda? Penso che questa sera siamo chiamati ad entrare nel cuore dei piccoli e degli umili, nel cuore cioè della grande intercessione che abbiamo menzionato or ora, cosicché possiamo intravedere quanto essi hanno compreso del valore di questa preghiera. 3. Una rete di relazioni Parto dallo scritto di una giovane ragazza ebrea, Etty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943 all’età di ventinove anni. All’inizio degli orrori della Shoah, quando ormai regnava confusione e terrore fra gli Ebrei in Olanda riguardo alla loro sorte, il giorno 11 di luglio del 1942 (quel giorno era Shabbat), ella scrisse nel suo Diario: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». E il giorno successivo, di domenica, ella scrive una lunga preghiera nel suo diario, oltre ad altri pensieri: «Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dovere aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi... Sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita… E quasi ad ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi». Etty Hillesum scrisse questa pagina quando viveva il difficile passaggio dall’ateismo alla fede e scopriva a poco a poco lo sconosciuto volto di Dio. Ma queste parole, che possono creare sospetto alle menti formate in teologia, contengono una grande verità: Dio vuole farci attenti al nostro prossimo. Dio vuole non solo chiamarci alla solidarietà, la quale è definita come «un accordo generale tra tutte le persone di un gruppo o tra gruppi differenti poiché hanno un comune scopo» (cf. Longman, Dictionary of Contemporary English). Dio vuole molto più di questo, egli desidera un reale interessarsi degli uni per gli altri, un aversi a cuore, ad immagine della cura di Dio per ognuno di noi. Egli è sempre pronto a porre ad ognuno di noi il primordiale interrogativo che fu posto a Caino: «Dov’è tuo fratello Abele?» (Gen 4,9). Per questo il Signore spesso non mostra il suo volto, ma splende nell’aiuto dato ad un altro. Ciò è chiaramente espresso nella parabola dell’ultimo giudizio, nel vangelo di Matteo (25,31.46), dove il Signore dice a quelli che hanno aiutato il prossimo: «Tu l’hai fatto a me» (25,40). Egli è presente in ogni opera amorevole, in tutti i gesti di perdono, 7 nell’impegno di coloro che lottano contro la violenza, l’odio, la carestia, la sofferenza e via di seguito. Come dice Sant’Agostino: «Non rattristatevi o lamentatevi perché nasceste in un tempo dove non potete più vedere Dio nella carne. Egli infatti non ti tolse questo privilegio. Come egli dice: Qualunque cosa voi fate ai miei fratelli, l’avete fatta a me». Coloro che hanno il dono dell’intercessione vedono la luce di Dio nel volto di ogni essere umano. In altre parole noi possiamo dire che costoro considerano il mondo come una grande rete di relazioni (nel linguaggio dei computers il web), dove ciascuno è dipendente dagli altri. Tutto ciò è espresso con forza nelle parole dello staretz Zosima, una delle figure chiave del capolavoro di Dostoevskij, I fratelli Karamazov. Queste sono le parole di padre Zosima: «Amate il popolo di Dio. Noi non siamo più santi della gente del mondo perché siamo venuti qui e ci siamo chiusi fra queste mura, ma anzi chiunque è venuto qui, già per il fatto di esserci venuto, ha riconosciuto in se stesso di essere peggiore della gente del mondo e di ogni uomo sulla Terra… E quanto più a lungo vivrà un monaco fra le sue quattro mura, tanto più profondamente dovrà rendersene conto. Poiché in caso contrario non valeva la pena che venisse quaggiù. Ma quando riconoscerà non solo di essere peggiore di tutta la gente del mondo, ma anche di essere colpevole di fronte a tutti gli uomini, sulla Terra intera, di tutti i peccati universali e individuali, solo allora sarà raggiunto il fine della nostra unione. Giacché sappiate, miei cari, che ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla Terra, questo è indubbio, non solo a causa della colpa comune originaria, ma ciascuno individualmente, per tutti gli uomini e per ogni uomo sulla Terra. Questa consapevolezza è il coronamento della vita di un monaco e anzi di ogni uomo sulla Terra. Poiché i monaci non sono uomini diversi dagli altri, ma sono soltanto come dovrebbero essere tutti sulla Terra. Unicamente allora il nostro cuore si abbandonerà a un amore infinito, universale, che non conosca mai appagamento. Allora ciascuno di noi avrà la forza di conquistare con il suo amore il mondo intero e di purificare con le proprie lacrime tutti i peccati…». Ed egli così conclude: «Non siate superbi. Non siate superbi con i piccoli, non siate superbi nemmeno con i grandi. Non odiate chi vi respinge e disonora, chi vi ingiuria e calunnia. Non odiate gli atei, né i cattivi maestri e i materialisti, neppure i malvagi fra loro – per non parlare dei buoni giacché ve ne sono molti di buoni, specialmente ai nostri tempi. Ricordateli così nella vostra preghiera: 'Salva, o Signore, tutti coloro per i quali nessuno prega, salva anche quelli che non ti vogliono pregare'. E aggiungete anche: 'Non per orgoglio ti prego, o Signore, perché anch’io sono un vile peggio di tutto e di tutti…'». Certamente questa interdipendenza, questa profonda e necessaria interconnessione, per cui ognuno di noi è vincolato a tutti gli altri, è una profondo mistero spirituale, che sarà manifestato nella sua pienezza nell’ultimo giorno, quando la realtà di questo mondo sarà resa chiara a tutte le nazioni; quando – ricordando le parole del profeta Isaia – il Signore «distruggerà su questo monte il velo posto sulla faccia di tutti i popoli» (Is 25,7), allora noi potremo capire quanto tutto è stato tessuto e tenuto insieme dal Signore di tutti e che noi abbiamo formato insieme un grande web di relazioni reciproche. Oggi noi siamo chiamati a riconoscere poco alla volta questa mutua appartenenza, 8 che caratterizza tutti i nostri atti, secondo il comandamento: «Tu amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev 19,18). Noi siamo chiamati ad osservare questo comandamento non solo attraverso le nostre azioni, ma anche nella preghiera di intercessione. 4. La preghiera di intercessione Come spiegare ciò? Abbiamo visto che Dio stesso mostra nella Bibbia quanto egli abbia a cuore la preghiera di intercessione. Ma in questa preghiera noi non stiamo tentando di cambiare la mente di Dio. Secondo la comune interpretazione teologica, il significato della preghiera di petizione e di quella di intercessione, non è di ottenere un cambiamento della volontà di Dio, ma di far sì che la creatura abbia parte ai doni di Dio. Dio ci concede di desiderare quanto egli vuole donarci.Ma noi abbiamo notato che vi è molto di più. Vi è il fatto di una mutua responsabilità, che deve essere espressa non solo attraverso l’agire, ma anche per mezzo della preghiera. Dio ci vuole gli uni per gli altri, egli desidera che mostriamo per gli altri interesse, compassione, carità, mutuo aiuto, amore in ogni cosa. Dio vuole creare una grande unità nell’umanità, attraverso l’essere gli uni per gli altri, come Lui è misteriosamente in se stesso un perpetuo dono di sé. Così una piena comunione è realizzata tra gli esseri umani. Coloro che possono fare qualcosa per gli altri nel senso fisico, materiale, sono chiamati a farlo. Tutti gli altri sono invitati a unire la loro preghiera in una grande intercessione. Perciò la risposta soddisfacente riguardante la necessità della preghiera di intercessione sta nel mistero del piano di Dio, che vuole questa profonda comunione tra tutti i suoi figli. E Dio lo vuole perché egli è così, colui che dà se stesso, che ha cura degli altri, che li ama fino alla morte (cf. Gv 13,1). Certamente l’intercessione presuppone che la persona che la compie sia accetta al Signore, sia in un certo qual senso suo amico, come è detto di Abramo, a cui Dio non volle nascondere nulla di quanto stava per fare (cf. Gen 18,17). L’intercessore è qualcuno che sceglie di vivere secondo il progetto di Dio, che spera fermamente che esso si verifichi anche negli altri. È una persona che ha cura realmente dei suoi fratelli e delle sue sorelle e desidera che essi vivano secondo la volontà di Dio. Perciò la presenza di molti intercessori è anche un mezzo per realizzare una comunità che corrisponda al piano di Dio e promuovere il lavoro di riconciliazione tra individui, popoli, culture e religioni e tra l’uomo e il suo Dio. Queste sono alcune delle ragioni per cui mi sento inclinato alla preghiera di intercessione. Naturalmente so bene che la mia preghiera è molto povera, pigra, spesso piena di distrazioni. Ma non di meno la considero come un piccolo rigagnolo, che fluisce dentro il grande fiume che è l’intercessione della Chiesa e delle persone buone di tutta l’umanità. Questo grande fiume di intercessione fluisce e si immerge, per me come cristiano, nel grande oceano dell’intercessione di Cristo, che «vive sempre per intercedere» a nostro favore (cf. Eb 7,25; Rom 8,34). Così la mia piccola intercessione è parte di un grande oceano di preghiera in cui il mondo viene immerso e purificato. Lo stesso grande scrittore della fine del diciannovesimo secolo che ho citato prima, Dostoevskij, ci ha dato nello stesso libro una commovente descrizione della preghiera di intercessione. Lo staretz Zosima dice a un giovane: «Ragazzo, non scordare la preghiera. Nella tua preghiera, se è sincera, trasparirà ogni 9 volta un nuovo sentimento e una nuova idea che prima ignoravi e che ti ridarà coraggio; e comprenderai che la preghiera educa. Rammenta poi di ripetere dentro di te, ogni giorno, anzi ogni volta che puoi: 'Signore, abbi pietà di tutti coloro che oggi sono comparsi dinanzi a te'. Poiché a ogni ora, a ogni istante migliaia di uomini abbandonano la loro vita su questa Terra e le loro anime si presentano al cospetto del Signore e quanti di loro lasciano la Terra in solitudine, senza che lo si venga a sapere, perché nessuno li piange né sa neppure se abbiano mai vissuto. Ma ecco che forse, dall’estremo opposto della Terra, si leva allora la tua preghiera al Signore per l’anima di questo morente, benché tu non lo conosca affatto né lui abbia conosciuto te. Come si commuoverà la sua anima, quando comparirà timorosa dinanzi al Signore, nel sentire in quell’istante che vi è qualcuno che prega anche per lei, che sulla Terra è rimasto un essere umano che ama pure lei. E lo sguardo di Dio sarà più benevolo verso entrambi, poiché se tu hai avuto tanta pietà di quell’uomo, quanto più ne avrà Lui, che ha infinitamente più misericordia e più amore di te. Egli perdonerà grazie a te». 5. Sommario in 6 punti Possiamo ora sintetizzare ciò che abbiamo cercato di dire. 1. La preghiera di intercessione appare come un non senso per le persone che guardano solo a questo mondo e che misurano ogni cosa col metro dell’efficienza materiale e del frutto visibile. 2. La preghiera di intercessione è un dono dello Spirito di Dio che lavora per l’unità del piano divino per l’umanità. Questa preghiera è pregna di significato e potente nella sua dinamica, specialmente nel campo della riconciliazione tra gli uomini e tra l’uomo e il suo Dio. 3. La preghiera di intercessione è una conseguenza della legge della mutua appartenenza e della mutua responsabilità. Guarda all’unità del genere umano proponendo a ciascuno l’invito a partecipare alle difficoltà e ai drammi di ogni essere umano e a cooperare al piano di Dio per questo universo. 4. La preghiera di intercessione non consiste soltanto nel raccomandare a Dio le intenzioni di molta gente, ma anche nel domandare il perdono dei peccati dell’umanità e di ogni singola persona. 5. La preghiera di intercessione è una espressione della struttura dell’essere. In essa il primato non è quello della persona che è preoccupata della propria identità e benessere, ma quello della persona-in relazione, che è ha a cuore il bene-essere degli altri. In questo modo nasce un sistema di relazioni attraverso il quale alcune persone possono portare i pesi degli altri e soffrire per essi. Questa legge è molto misteriosa e perciò non sempre considerata, ma è uno dei pilastri del piano di Dio. Da questa struttura dell’essere deriva anche la possibilità e il valore di un vero dialogo interreligioso, dove ciascuno accetta di riconoscere non soltanto il valore dell’altro, ma anche di soppesare con pace le critiche che vengono fatte alla propria tradizione. 6. Da tutto questo deriva la necessità e l’urgenza della preghiera di intercessione. Essa è necessaria perché corrisponde all’intimo dell’Essere divino e porta in questo mondo l’immagine del mondo a venire e del grande mistero che sarà rivelato alla fine dei tempi. È urgente, perché la 10 necessità dell’umanità di superare oggi la violenza è terribilmente pressante e chiama all’azione tutta la gente di buona volontà. Tratto da: Archimandrite Sophrony, Starets Silouane, Moine du Mont Athos. Dopo la sua esperienza delle sofferenze dell’inferno, dopo l’indicazione del Signore: “Tieni la tua mente all’inferno”, lo staretz Silvano amava in particolare pregare per i morti, per quelli che soffrono nell’inferno, ma pregava anche per i vivi e per quelli che non erano ancora nati. Nella sua preghiera, che superava i limiti del tempo, qualsiasi riferimento a ciò che è transitorio nella vita umana, è scomparso. Nella sua sofferenza per il mondo, gli era stato dato di vedere negli uomini soltanto coloro che conoscevano Dio e coloro che non lo conoscevano. Gli era insopportabile pensare che uomini sarebbero andati a dimorare nelle “oscurità esterne” (Matteo 8, 22). Ci ricordiamo di una conversazione che ebbe con un eremita. Quest’ultimo gli disse con un’aria di evidente soddisfazione: “Dio punirà tutti gli atei. Bruceranno nel fuoco eterno”. Visibilmente turbato, lo Staretz Silvano gli replicò: “Eh bene! Dimmi, ti prego, se fossi messo in paradiso, e di là potessi vedere come qualcuno brucia nel fuoco dell’inferno, potresti essere in pace?”. “Che fare? È per colpa del loro errore”, disse l’altro. Allora, con il viso addolorato, lo Staretz rispose: “L’amore non può sopportare ciò… Occorre pregare per tutti gli uomini”. E realmente, pregava per tutti gli uomini; pregare soltanto per sé stesso gli era diventato estraneo. Tutti gli uomini sono soggetti al peccato, tutti sono privati della gloria di Dio (Romani 3, 23). Per lui che aveva già contemplato, nella misura che gli era stata concessa la gloria divina e che aveva in seguito vissuto la perdita di questa grazia, il minimo pensiero di tale privazione gli era penoso. Il suo cuore si consumava al pensiero che gli uomini vivono senza conoscere Dio e il suo amore, e pregava con una preghiera ardente perché il Signore, nel suo amore ineffabile, permetta loro di conoscerlo. *** Nel 1938 è morto un monaco del Monte Athos. Era un uomo molto semplice, un contadino russo che, arrivato al monastero verso l’età di vent’anni, vi visse cinquant’anni. La sua semplicità era notevole. Era giunto al Monte Athos dopo aver letto in un opuscolo sulla Santa Montagna che la Madre di Dio aveva promesso di intercedere e di pregare per chiunque avesse servito Dio nei monasteri dell’Athos. Lasciò dunque il suo villaggio dicendo: “Se la Madre di Dio è pronta a rispondere di me, andiamo alla Santa Montagna e la mia salvezza sarà affare suo”. Era un uomo stupefacente e diresse per lunghi anni le officine del suo monastero. In queste officine lavoravano dei giovani contadini russi che trascorrevano uno o due anni al Monte Athos al fine di accumulare, centesimo dopo centesimo, qualche centinaio di franchi, 11 al massimo: ciò che avrebbe permesso loro, una volta rientrati al villaggio, di farsi una casa, costruire una capanna e comperare la semente necessaria per il primo raccolto. Un giorno, i monaci che dirigevano altre officine gli chiesero: “Padre Silvano, come si fa che i vostri operai lavorano così bene mentre non li sorvegliate, mentre i nostri, che non togliamo gli occhi da loro, cercano tutto il tempo di imbrogliarci?”. Il padre Silvano rispose: “Lo ignoro. Tutto ciò che posso dirvi è come faccio. La mattina, non entro mai all’officina senza avere dapprima pregato per tutti questi bravi ragazzi; vado da loro con il cuore pieno di compassione e d’amore e quando entro nell’officina, li amo così tanto che lacrime d’amore inondano il mio cuore. Distribuisco loro i compiti per il giorno e, poiché sono deciso a pregare per loro tutto il tempo che durerà il loro lavoro, ritorno nella mia cella e prego per ciascuno di loro in particolare. Mi metto alla presenza di Dio e gli dico: “Mio Dio, ricordati di Nicola. È giovane, ha appena vent’anni ed ha lasciato al paese sua moglie che è ancora più giovane di lui ed il loro primo bambino. Puoi immaginare quale miseria li ha costretti a lasciarli e ciò perché non poteva farli vivere del suo lavoro? Nella sua assenza veglia su loro. Proteggili da qualsiasi male. Dagli il coraggio di portare a compimento il suo anno qui e tornare in Russia per trovare i suoi nella gioia, con abbastanza denaro ma anche coraggio per affrontare le difficoltà”. Proseguì: “All’inizio, pregavo con lacrime di compassione per Nicola, la sua giovane moglie ed il loro piccolo bambino ma, mentre pregavo, la sensazione della presenza divina mi riempiva sempre di più; ad un certo momento, divenne così intensa che, perdendo di vista Nicola, sua moglie, il loro bambino, le loro necessità, il loro villaggio, non avevo più coscienza che soltanto di Dio solo. La sensazione della presenza di Dio mi ha portato in un raccoglimento sempre più profondo; improvvisamente, all’interno stesso di questa presenza, incontrai l’amore di Dio e, nel cuore di questo amore, Nicola, la sua giovane moglie ed il bambino; allora, con l’amore stesso di Dio, ricominciai a pregare per loro; ma mi sentii di nuovo attirato in nuovi abissi nel fondo dei quali incontrai ancora una volta l’amore di Dio. È così che trascorro i miei giorni: prego per ciascuno dei miei operai, volta a volta, l’uno dopo l’altro; alla fine del giorno dico loro alcune parole, preghiamo insieme e vanno a riposarsi. Quanto a me, ritorno al monastero per assolvere ai miei doveri monastici”. Si può afferrare attraverso questo racconto quale sforzo e quale combattimento esigono la preghiera contemplativa, la compassione, la preghiera attiva. Il padre Silvano non si accontentava di dire: “Signore, ricordati di questo, di quello ed ancora di quest’altro!”; passava ore ed ore a pregare con compassione, pregare con amore, una compassione ed un amore che erano una sola cosa nel suo cuore. Signore misericordioso, ascolta la mia preghiera, fa che tutti i popoli della terra ti conoscano per il Santo Spirito. Signore, Signore, accorda la forza della tua grazia a tutti i popoli affinché ti 12 conoscano per il Santo Spirito e ti lodino nella gioia, poiché anche a me, impuro e misero, hai dato la gioia di desiderarti. Il mio cuore è attirato verso il tuo amore, giorno e notte, insaziabilmente. E PER TERMINARE La tradizione cristiana ama il numero quattordici. Ci sono quattordici stazioni della Via crucis. Il quattordici è un numero di guarigione. A Babilonia esistevano quattordici divinità guaritrici. E per sant'Agostino il numero quattordici ci rimanda alla morte e alla risurrezione di Gesù, che hanno trasformato e guarito la nostra esistenza. Gesù infatti è morto il quattordici di Nisan. E’ il primo mese dell’anno ebraico che coincide ad aprile/maggio del nostro calendario. La sera del 14° giorno ha inizio la festa del Pesah, la Pasqua. Le quattordici opere di misericordi sono espressione della dimensione salvifica della nostra fede. Attraverso queste opere l'amore salvifico e redentore di Gesù Cristo deve riversarsi in questo mondo al traverso di noi. La redenzione è avvenuta una volta per tutte in Gesù Cristo. Ma gli autori del Nuovo Testamento sono convinti che la redenzione per mezzo di Gesù Cristo si riversa in questo mondo e diventa attuale in esso mediante l'operato dei discepoli di Gesù. In particolare l'evangelista Matteo scrive il suo vangelo per la comunità ecclesiale, affinché in essa si faccia visibile e tangibile la salvezza di Gesù Cristo per tutti gli uomini. I discepoli di Gesù devono essere il sale della terra e la luce del mondo, affinché la luce di Gesù illumini gli esseri umani attraverso di loro. Quando Gesù fece la sua comparsa in Galilea, per Matteo si avverò la promessa del profeta Isaia: «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». La luce che è rifulsa in Gesù deve continuare a splendere in questo mondo per mezzo dei suoi discepoli. Gesù dice ai discepoli: «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Cosi risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». Le quattordici opere di misericordia devono far risplendere in questo mondo la luce di Gesù Cristo, affinché gli esseri umani rendano gloria a Dio. I cristiani, quindi, non vogliono affermare se stessi con le opere, né davanti a Dio, né davanti agli uomini, ma vogliono adempiere il compito affidato loro da Gesù e portare la sua luce nel mondo. Nel caso delle quattordici opere di misericordia non si tratta del fatto che possiamo ottenere la salvezza mediante le opere. La tradizione cristiana è sempre stata consapevole che la salvezza viene da Gesù Cristo e che siamo giustificati dalla fede. Con Matteo e Giacomo, però, la chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che la fede senza le opere non è una vera fede. La fede deve esprimersi anche in un comportamento nuovo. Anche Giacomo, che insiste tanto sulle opere buone, sa che «ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall'alto e discendono dal Padre, creatore della luce». Allo stesso tempo, però, esorta i cristiani: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi: perché, se uno ascolta la Parola e non 13 la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla» (Gc 1,22-25). Otteniamo la salvezza per mezzo della fede e non per mezzo delle opere. Ma soltanto se la nostra fede si esprime anche nelle opere di misericordia saremo beati. Essere beati non significa ottenere la salvezza, ma essere felici, essere in armonia con se stessi. Non dobbiamo vedere le opere di misericordia in un'ottica moraleggiante. Mi sta particolarmente a cuore non tra smettere un senso di colpa se non compiamo tutte le opere di misericordia. Si tratta piuttosto di indicare una via su come possiamo esprimere la nostra fede e una via lungo la quale troviamo la felicità, una via che in fondo fa bene a noi, sulla quale troviamo la pace interiore. Giacomo qui parla di makàrios = beato, felice. E’ felicità che in Grecia era riservata agli dèi. Le opere di misericordia, nell'ottica di Giacomo, sono una via alla felicità. Non operano qualcosa di buono soltanto in coloro a cui mostro misericordia, ma donano anche a me la soddisfazione interiore. Posso rendermi conto pieno di riconoscenza che attraverso di me una persona ritrova più coraggio di vivere, che la sua strada torna a condurla nella speranza, nella fiducia, nell'amore e alla felicità. La misericordia è il grande tema nel vangelo di Matteo. Gesù è il Redentore misericordioso. Agisce misericordiosamente su di noi. Gesù ci insegna come possiamo comportarci misericordiosamente verso noi stessi e dimostrare misericordia ad altri. Nel suo Discorso del giudizio ci dimostra che veniamo misurati da Dio in base al fatto che abbiamo dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, che abbiamo accolto i forestieri, vestito gli ignudi, visitato i malati e fatto visita ai prigionieri. Oggi abbiamo difficoltà ad accettare l'immagine del giudizio. In passato ha intimorito molte persone. Ma, con il suo Discorso del giudizio, Gesù non vuole diffondere paura, bensì esortare alla decisione, all'apertura e alla solidarietà con le persone. Con l'immagine del giudizio vuole rinviarci a Dio, affinché viviamo in maniera giusta e retta. Le opere di misericordia ci rinviano a Dio e alle persone in cui incontriamo Cristo stesso. Gesù vuole aprirci gli occhi, affinché viviamo qui e ora in modo che il suo Spirito di misericordia ci pervada. Allora ci comportiamo in maniera misericordiosa con noi e con gli altri e proprio in questo modo facciamo l'esperienza - come ha espresso Giacomo - che siamo felici nel nostro operare giusto, che sperimentiamo la felicità rendendo felici altri, comportandoci con bontà verso noi stessi, facendo del bene agli altri, scoprendo sempre di più il mistero di Gesù Cristo, dimostrando misericordia ai suoi fratelli e sorelle e incontrando in loro Cristo stesso, che è per noi la fonte di ogni salvezza e misericordia. Educazione alla povertà (Tonino Bello, Sui sentieri di Isaia) L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara. Forse per questo il Maestro ha voluto riservare ai poveri la prima beatitudine. Non è vero che si nasce poveri. Si può nascere poeti, ma non poveri. Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti. Dopo una trafila di studi, cioè. Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi. Questa della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta tra le più complesse. Suppone un noviziato severo. 14 Richiede un tirocinio difficile. Tanto difficile, che il Signore Gesù si è voluto riservare direttamente l'insegnamento di questa disciplina. Nella seconda lettera che San Paolo scrisse ai cittadini di Corinto, al capitolo ottavo, c’è un passaggio fortissimo: "Il Signore nostro Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi". E' un testo splendido. Ha la cadenza di un diploma di laurea, conseguito a pieni voti, incorniciato con cura, e gelosamente custodito dal titolare, che se l'è portato con sé in tutte le trasferte come il documento più significativo della sua identità: "Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli il nido; ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo". Se l'è portato perfino nella trasferta suprema della croce, come la più inequivocabile tessera di riconoscimento della sua persona, se è vera quella intuizione di Dante che, parlando della povertà del Maestro, afferma: "Ella con Cristo salì sulla croce". Non c'è che dire: il Signore Gesù ha fatto una brillante carriera. E ce l'ha voluta insegnare. Perché la povertà si insegna e si apprende. Alla povertà ci si educa e ci si allena. E, a meno che uno non sia un talento naturale, l'apprendimento di essa esige regole precise, tempi molto lunghi, e, comunque, tappe ben delineate. Proviamo a delinearne sommariamente tre. Povertà come annuncio A chi vuole imparare la povertà, la prima cosa da insegnare è che la ricchezza è cosa buona. I beni della terra non sono maledetti. Tutt'altro. Neppure i soldi sono maledetti. Continuare a chiamarli sterco del diavolo significa perpetuare equivoci manichei che non giovano molto all'ascetica, visto che anche i santi, di questo sterco, non hanno disdegnato di insozzarsi le tasche. I beni della terra non giacciono sotto il segno della condanna. Per ciascuno di essi, come per tutte le cose splendide che nei giorni della creazione uscivano dalle mani di Dio, si può mettere l'epigrafe: "ed ecco, era cosa molto buona". Se la ricchezza della terra è buona, però, c'è una cosa ancora più buona: la ricchezza del Regno, di cui la prima è solo un pallidissimo segno. Ecco il punto. Ci vorrà fatica a farlo capire agli apprendisti. Ma è il nodo di tutto il problema. Farsi povero non deve significare disprezzo della ricchezza, ma dichiarazione solenne, fatta con i gesti del paradosso e perciò con la rinuncia, che il Signore è la ricchezza suprema. Un po' come rinunciare a sposarsi in vista del Regno non significa disprezzare il matrimonio, ma annunciare che c'è un amore più grande di quello che germoglia tra due creature. Anzi, dichiarare che questo piccolo amore è stato scelto da Dio come segno di quell'altro più grande. Sicché, chi non si sposa sembra dire ai coniugi: "Splendida la vostra esperienza. Ma non è tutto. Essa è solo un segno. Perché c'è un'esperienza di amore ancora più forte, di cui voi attualmente state vivendo solo un lontanissimo frammento, e che un giorno saremo tutti chiamati a vivere in pienezza". Analogamente, farsi povero significa accendere una freccia stradale per indicare ai viandanti distratti la dimensione "simbolica" della ricchezza, e far prendere coscienza a tutti della realtà significata che sta oltre. Significa, in ultima analisi, divenire parabola vivente della "ulteriorità". In questo senso, la povertà, prima che rinuncia, è un annuncio. E' annuncio del Regno che verrà. 15 Povertà come rinuncia E' la dimensione che, a prima vista, sembra accomunare la povertà cristiana a quella praticata da alcuni filosofi o da molte correnti religiose. Rinunciare alla ricchezza per essere più liberi. In realtà, però, c'è una sostanziale differenza tra la rinuncia cristiana e quella che, per intenderci, possiamo chiamare rinuncia filosofica. Questa interpreta i beni della terra come zavorra. Come palla al piede che frena la speditezza del passo. Come catena che, obbligandoti agli schemi della sorveglianza e alle cure ansiose della custodia, ti impedisce di volare. E' la povertà di Diogene, celebrata in una serie infinita di aneddoti, intrisa di sarcasmi e di autocompiacimenti, di disprezzo e di saccenteria, di disgusti raffinati e di arie magisteriali. La botte è meglio di un palazzo, e il regalo più grande che il re possa fare è quello che si tolga davanti perché non impedisca la luce del sole. La rinuncia cristiana ai beni della terra, invece, pur essendo fatta in vista della libertà, non solleva la stessa libertà a valore assoluto e a idolo supremo dinanzi a cui cadere in ginocchio. Il cristiano rinuncia ai beni per essere più libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare: che è la forma più allucinante di potere. Ecco allora che si introduce nel discorso l'importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, "depose le vesti". Chi vuol servire deve rinunciare al guardaroba. Chi desidera stare con gli ultimi, per sollecitarli a camminare alla sequela di Cristo, deve necessariamente alleggerirsi dei "tir" delle sue stupide suppellettili. Chi vuol fare entrare Cristo nella sua casa, deve abbandonare l'albero, come Zaccheo, e compiere quelle conversioni "verticali" che si concludono inesorabilmente con la spoliazione a favore dei poveri. E' la gioia, quindi, che connota la rinuncia cristiana: non il riso. La testimonianza, non l'ostentazione. Come avvenne per Francesco, innamorato pazzo di madonna Povertà. Come avvenne per i suoi seguaci, che si spogliarono non per disprezzo, ma per seguire meglio il maestro e la sua sposa: "O ignota ricchezza, o ben verace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro, dietro allo sposo; sì la sposa piace!". Povertà come denuncia Di fronte alle ingiustizie del mondo, alla iniqua distribuzione delle ricchezze, alla diabolica intronizzazione del profitto sul gradino più alto della scala dei valori, il cristiano non può tacere. Come non può tacere dinanzi ai moduli dello spreco, del consumismo, dell'accaparramento ingordo, della dilapidazione delle risorse ambientali. Come non può tacere di fronte a certe egemonie economiche che schiavizzano i popoli, che riducono al lastrico intere nazioni, che provocano la morte per fame di cinquanta milioni di persone all'anno, mentre per la corsa alle armi, con incredibile oscenità, si impiegano capitali da capogiro. Ebbene, quale voce di protesta il cristiano può levare per denunciare queste piovre che il Papa, nella "Sollicitudo rei socialis", ha avuto il coraggio di chiamare strutture di peccato? Quella della povertà! Anzitutto, la povertà intesa come condivisione della propria ricchezza. E' un'educazione che bisogna compiere, tornando anche ai paradossi degli antichi Padri della Chiesa: "Se hai due tuniche nell'armadio, una appartiene ai poveri". Non 16 ci si può permettere i paradigmi dell'opulenza, mentre i teleschermi ti rovinano la digestione, esibendoti sotto gli occhi i misteri dolorosi di tanti fratelli crocifissi. Le carte patinate delle riviste, che riproducono le icone viventi delle nuove tragedie del Calvario, si rivolgeranno un giorno contro di noi come documenti di accusa, se non avremo spartito con gli altri le nostre ricchezze. La condivisione dei propri beni assumerà, così, il tono della solidarietà corta. Ma c'è anche una solidarietà lunga che bisogna esprimere. Ed ecco la povertà intesa come condivisione della sofferenza altrui. E' la vera profezia, che si fa protesta, stimolo, proposta, progetto. Mai strumento per la crescita del proprio prestigio, o turpe occasione per scalate rampanti. Povertà che si fa martirio: tanto più credibile, quanto più si è disposti a pagare di persona. Come ha fatto Gesù Cristo, che non ha stipendiato dei salvatori, ma si è fatto lui stesso salvezza e, per farci ricchi, sì è fatto povero fino al lastrico dell'annientamento. L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara. Forse è proprio per questo che il Maestro ha voluto riservare ai poveri, ai veri poveri, la prima beatitudine. La luce del cristiano non può rimanere nascosta Niente è più freddo del cristiano che non si cura della salvezza degli altri. Non puoi qui tirar fuori la povertà; infatti quella donnetta che mise le due monetine ti accuserà. (Lc 21,1-4). Anche Pietro diceva: «Non ho nè argento nè oro» (Atti 3,6). Così Paolo era talmente povero da patir spesso la fame e mancare del necessario. Non puoi mettere avanti la tua umile condizione; gli apostoli infatti erano di basse origini, nati da poveri. Non puoi addurre il pretesto dell’ignoranza; anche loro erano illetterati. Non puoi obiettare che sei debole; così era anche Timoteo, che soffriva di frequenti infermità Chiunque può essere utile al prossimo, se vuole compiere la sua parte. Non vedete le piante ornamentali, come sono rigogliose, come sono belle, sviluppate, snelle e alte? Ma se avessimo un orto vorremmo avere melograni e olivi fecondi piuttosto che quelle; quelle infatti sono per il godimento, non per l’utilità; e se vi è qualche utilità, è molto poca. Così sono coloro che vedono soltanto i propri interessi; anzi non sono neppure così, ma atti solamente ad essere puniti. Quelle piante infatti servono almeno agli edifici e a riparo delle cose. Così erano quelle vergini: caste, decorose, modeste, ma a nessuno utili e perciò buttate nel fuoco (Mt 25,l-l3).Cosi sono quelli che non nutrono Cristo. Nota poi come nessuno di essi è accusato per i suoi peccati: non perché ha fornicato, non perché ha spergiurato, niente di tutto questo; ma perché fu inutile agli altri. Tale era colui che sotterrò il talento (Lc 19,1 l-28):presentava una vita senza colpe, a inutile agli altri. Come di grazia, potrebbe essere cristiano chi è così? Se il lievito mescolato alla farina non porterà tutto a fermentazione, è davvero lievito? E che dire di un profumo che non investa quanti si accostano? Lo si chiamerà ancora profumo? E non dire:«Non posso indurre gli altri»; perché , se sarai cristiano, questo non potrà non avvenire. Infatti come le cose che sono di eguale natura non sono in contraddizione tra loro, così di quanto stiamo dicendo: fa parte della natura stessa del cristiano. Non offendere Dio. Se dici che il sole non può 17 risplendere, gli fai torto; se dici che il cristiano non può far del bene, offendi Dio e lo rendi bugiardo E’ più facile infatti che il sole non scaldi e non brilli, che un cristiano non risplenda; è più facile che la luce sia tenebra, che accada questo. Non dire che è impossibile; è invece il contrario impossibile. Non offendere Dio. Se noi facciamo bene la nostra parte, questo avverrà sicuramente e si rivolgerà come un fatto naturale. Non può la luce di un cristiano restare nascosta; non può restare nascosta una fiaccola così splendente. (Omelie sugli Atti degli Apostoli di G.Crisostomo) Fratello del nostro Dio. Un personaggio si trova di fronte ad un quadro di Cristo Ecce homo e dice: Sei tuttavia terribilmente diverso da Colui che sei. Ti sei affaticato molto per ognuno di loro. Ti sei stancato mortalmente. Ti hanno distrutto totalmente. Ciò si chiama Carità Eppure sei rimasto bello, Il più bello dei figli dell’uomo. Una bellezza simile non si è mai ripetuta. O, come difficile è questa bellezza, come difficile! Tale bellezza si chiama Carità K. Woityla 18