Immigrazione e lavoro in Catalogna, 1939 -1975

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Immigrazione e lavoro in Catalogna, 1939 -1975
Immigrazione e lavoro in Catalogna, 1939 -1975
Javier Tébar Hurtado
ABSTRACT:
In questo articolo esaminiamo la centralità del lavoro nell’ambito del fenomeno migratorio, che
assume particolare importanza in una società industriale come quella catalana. L’incorporazione
degli immigranti nelle principali aree della regione si verificò fondamentalmente attraverso
l’ambiente operaio, lasciando supporre che fu proprio la classe operaia catalana a ricevere il
maggior impatto dall’immigrazione. Qui muoveremo dall’idea che la condizione salariale e i
vincoli del lavoro possono fornirci alcuni indizi importanti circa l’inserimento degli immigrati
nella società catalana. In primo luogo, analizzeremo la dimensione e le caratteristiche della
manodopera immigrata all’interno della popolazione attiva della regione; successivamente
verranno presentate alcune considerazioni relative alla struttura occupazionale e alla mobilità
degli immigrati nella grande industria, per concludere con un’approssimazione alle “figure
sociali” dell’immigrazione nel mercato del lavoro di Barcellona.
1
I nuovi inurbati
Immigrazione e lavoro in Catalogna, 1939-1975
Javier Tébar Hurtado1
Dedicato a José Luis López Bulla, autore di Cuando hice las maletas
Non ci deve impressionare troppo il numero proporzionalmente alto di stranieri registrati a
Chicago: 28% stranieri e 70% figli di stranieri contro il 24% di americani e il 35% di figli di
almeno un americano. Eppure gli stranieri sono sempre gli “arlecchini”. Nelle città antiche e
persino in alcune di quelle medievali si mantengono fuori e non vivono all’interno delle mura.
Qui, invece, entrano al suo interno e vi si installano: è che il perimetro è estremamente
grande e la città è costruita solo per metà, abbonda di spazi vuoti, nelle fabbriche, lungo i
binari, “zone interstiziali” dove si sta dentro la città senza realmente starvi, senza mescolarsi
ancora con la sua carne e il suo sangue: un po’ come quegli organismi che vivono nelle
cavità, che sebbene siano interne, sono immerse nell’ambiente e nel liquido esterno2.
L’immigrazione proveniente dalle altre regioni spagnole che raggiunge la
Catalogna durante i decenni centrali del Novecento costituisce un tema chiave per
comprendere l’evoluzione della stessa società catalana, tanto in termini socio-economici
quanto in quelli strettamente politici, ideologici e culturali. Il paese attuale – in
particolare il paese “reale” – è ancora in buona parte il risultato di quel fenomeno, in
una fase in cui stanno arrivando flussi migratori molto consistenti di lavoratori
immigrati da altri stati e continenti. Nondimeno, sul dibattito attorno a questo tema
sembrano proiettarsi, sotto molti aspetti, le ombre del passato.
Dagli anni cinquanta fino ai settanta, le migrazioni interne in Spagna assumono
una dimensione di massa e sembrano acquisire un carattere unidirezionale, dalle regioni
economicamente povere verso quelle ricche, che pertanto conoscono un saldo netto
migratorio molto positivo. In questi anni Barcellona e il suo hinterland ricevono
un’immigrazione che proviene soprattutto ma non esclusivamente dall’Andalusia e
dall’Estremadura. Tale movimento migratorio consisterebbe nel passaggio dai campi ai
suburbi di migliaia di singoli membri di famiglie e di intere famiglie, dalle zone
1
Membro del Centre d’Estudis sobre les Èpoques Franquista i Democràtica della Universitat Autònoma
de Barcelona e direttore della Fundació Cipriano García de Comissions Obreres de Catalunya. Il testo fa
parte di un'opera in corso di stampa in catalano per Cossetània Edicions.
2
M. Halbwachs, Chicago, experiencia étnica, in «Revista Española de Investigaciones Sociológicas», n.
108, 2004, p. 249. Pubblicato originariamente nel 1932 sulla rivista «Annales de geographie».
2
economicamente depresse ai principali centri industriali (Barcellona, Madrid, Valenza,
San Sebastián, Bilbao)3. La meccanizzazione e la fine dell’agricoltura tradizionale
funzionarono da impulso per la fuga non solo di braccianti, ma anche di piccoli
proprietari impoveriti e di artigiani rurali alla ricerca di un’occupazione nel mercato del
lavoro urbano4. Questo fenomeno fu per esempio analizzato in profondità nel film
Surcos [Solchi, ndt] (1951), un documento di grande valore – superiore di gran lunga ad
altri film5 – nel quale il regista falangista José Antonio Nieves Conde getta uno sguardo
– non privo di una esaltazione della vita dei campi degna di un Catone – duro e senza
speranza sulla miseria cui i contadini sono spinti dalle promesse di facili guadagni che
la città comunica all’esterno per attirarli, ma alle quali – secondo l’autore –
si
contrappone invece un mondo dominato dal mercato nero e dalla più dura legge della
sopravvivenza6. Le aspettative frustrate degli emigranti sono conosciute nel mondo
anglosassone con il motto The sidewalks are made of gold e in Spagna con l’espressione
ben più prosaica enganchar los perros con longanizas [letteralmente attrarre i cani con
le salsicce, ndt]7. In effetti, la forza di attrazione che la città esercitava ebbe grande
influenza su quella parte di popolazione che si sarebbe trasformata nei nuovi inurbati8,
abitanti di uno spazio “in cui si sta nella città senza starvi dentro”: baracche sparse,
segregazione residenziale come spazio insulare all’interno di determinati quartieri9, città
dormitori dentro poligoni di nuova costruzione in periferia10 e quartieri spontanei lì
dove prima era il nulla11.
3
M. Siguán Soler, Del campo al suburbio. Un estudio sobre la inmigración interior en España, Gráfica
Diana, Madrid, 1959.
4
C. Barciela, Crecimiento y cambio en la agricultura española desde la guerra civil, in J. Nadal, A.
Carreras, C. Sudrià (comp.), La economía española en el siglo XX. Una perspectiva histórica, Ariel,
Barcelona, 1987, pp. 271-272.
5
Nel testo si farà spesso riferimento a questo tipo di produzioni, in quanto consideriamo che il cinema sia
una fonte di assoluto interesse per dare conto dell’immaginario, variegato e contraddittorio, attorno
all’emigrazione, prima e durante quegli anni. Vedi M. Galiano, Movimientos migratorios y cine, in
«Historia Actual Online», n. 15, 2008, pp. 171-183.
6
Il film, che si inscrive all’interno del neo-realismo spagnolo, potè contare sulla sceneggiatura dello
scrittore anch’egli falangista G. Torrente Ballester e sulla partecipazione della peculiare e versatile attrice
N. Zaro. Vedi R. Gubern, Historia del cine español, Cátedra, Madrid, 1995.
7
Alcune riflessioni personali circa questi aspetti sulla base della propria esperienza in J.L. López Bulla,
Cuando hice las maletas. Un paseo por el ayer, Península, Barcelona, 1997, p. 15.
8
L’espressione è di Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, in Quaderni dal carcere. Note sul
Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma, 1991, p.
457.
9
A. Romeu Sabater, Estudio sociológico de un barrio barcelonés, in «Cuadernos de información
económica y sociológica», n. IV, 1956, pp. 261-290.
10
A.C. Comín e J. García-Nieto, Juventud Obrera y conciencia de clase. El proceso inmigratorio y su
función innovadora en la sociedad catalana, Edicusa, Madrid, 1974, p. 60.
11
Su quest’ultimo fenomeno, vedi A. Puig, La construcció de l’espai urbà, 1840-1970, in AAVV,
Indústria i ciutat. Sabadell, 1800-1980, Abadia de Montserrat, Barcelona, 1994.
3
Alla fine degli anni cinquanta, i movimenti migratori interni si combinano con
quelli verso i paesi dell’Europa occidentale (Francia e Germania su tutti). Si tratta di un
movimento associato all’alta domanda di manodopera12 abbondante e a basso costo
destinata alla produzione di massa nella sua fase più avanzata legata ai progressi della
razionalizzazione
dell’organizzazione
produttiva13.
I
movimenti
migratori
si
intensificheranno con l’inizio della liberalizzazione economica varata dalla dittatura
franchista a partire del cosiddetto Piano di stabilità (1959), che apre una tappa di
crescita economica e di espansione industriale senza precedenti14 e per la quale era
necessaria ora una grande quantità di manodopera da inglobare nel mercato del lavoro
urbano spagnolo. Questa crescita economica venne peraltro favorita dallo stesso ciclo
espansivo dei mercati internazionali nell’ambito della cosiddetta età dell’oro del
capitalismo15. Per questi anni si utilizza l’espressione miracolo economico spagnolo, la
cifra del quale fu il cosiddetto desarrollismo [sviluppismo, ndt] del regime del generale
Franco durante i dorati anni sessanta, nei quali si mescolava la pura propaganda
necessaria alla stabilità della dittatura e la messa in campo di politiche economiche che
avevano nei costi sociali il loro rovescio della medaglia16.
In quel momento, il fenomeno migratorio era un tema di attualità sia in Spagna
sia a livello internazionale. Tra l’altro, il dibattito si concentrava soprattutto sulla libertà
di spostamento dentro e oltre le frontiere nazionali. Le encicliche di Giovanni XXIII,
Mater et Magistra (1961) e Pacem in Terris (1963), che riassumevano il nucleo
concettuale del rinnovamento del Concilio Vaticano II e nelle quali veniva analizzato il
movimento della popolazione a favore della libertà di movimento individuale, ebbero
una certa risonanza, specialmente nei paesi cattolici come la Spagna17. In quegli stessi
anni la dittatura mostrava propositi di intervento sui flussi migratori, sia interni sia verso
l’estero. Tentò di regolarli e di favorirli a partire dall’approvazione della legge de Bases
de ordenación de la emigración del 22 dicembre 1960 e dalla successiva legge de Bases
12
J.P. de Gaudemar, Movilidad del trabajo y acumulación de capital, Era, Méxic D.F., 1979.
B. Coriat, El taller y el cronómetro. Ensayo sobre el taylorismo, el fordismo y la producción en masa,
Siglo XXI, Madrid, 1982, pp. 104-106 (La fabbrica e il cronometro. Saggio sulla produzione di massa,
Feltrinelli, Milano, 1979).
14
A. Rodríguez e R. d’Alòs, Economía y territorio en Catalunya. Los centros de gravedad de población,
industria y renta, Editorial Alba, Barcelona, 1978, p. 14; J.L. García Delgado, La industrialización y el
desarrollo económico de España durante el franquismo, in J. Nadal, A. Carreras, C. Sudrià (Comp.), La
economía española en el siglo XX. Una pespectiva histórica, Ariel, Barcelona, 1987, pp. 177-185.
15
E.J. Hobsbawm, Historia del siglo XX, 1914-1991, Crítica, Barcelona, 2000, pp. 261-289 (Il secolo
breve. 1914-1991. L’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano, 1997).
16
A.C. Comín, Per una estratègia sindical, Edicions 62, Barcelona, 1970, pp. 7, 12 e 22.
17
L.A. Martínez Chachero, El Papa Juan XXIII y los movimientos de población, in «Revista de Política
Social», n. 65, 1964, pp. 65-80.
13
4
de ordenación de la emigración del 3 maggio 1962. Ciò nonostante, sono molto evidenti
i limiti del controllo effettivamente esercitato dal franchismo, visto che il regime non
riuscì a legalizzare e a canalizzare regolarmente l’emigrazione all’estero, nonostante il
luogo comune ancora oggi ampiamente diffuso circa l’effettivo controllo assoluto
esercitato dal franchismo18. Neanche è ben chiaro se le autorità franchiste abbiano
conseguito in qualche modo la normalizzazione delle migrazioni interne, e meno che
mai in termini assoluti. A rischio di apparire schematici, possiamo affermare che
l’“immigrato” era il prodotto sia dell’industrializzazione sia di un processo di
urbanizzazione del paese che avevano favorito attorno agli anni sessanta un sistema di
piena integrazione tra le città spagnole, anche con notevoli differenze tra di loro19.
Pertanto, in questa logica l’immigrato era e, malgrado alcune voci discordi, avrebbe
continuato ad essere per molti anni il lavoratore20.
Nostro obiettivo è di esaminare la centralità del lavoro nell’ambito del fenomeno
migratorio, che assume particolare importanza in una società industriale come quella
catalana21. L’incorporazione degli immigranti nelle principali aree della regione si
verificò fondamentalmente attraverso l’ambiente operaio, lasciando supporre che fu
proprio la classe operaia catalana a ricevere il maggior impatto dall’immigrazione. Qui
muoveremo dall’idea che la condizione salariale e i vincoli del lavoro possono fornirci
alcuni indizi circa l’inserimento degli immigrati nella società catalana22. In primo luogo,
analizzeremo la dimensione e le caratteristiche della manodopera immigrata all’interno
della popolazione attiva della regione; successivamente verranno presentate alcune
considerazioni relative alla struttura occupazionale e alla mobilità degli immigrati nella
grande industria, per concludere con un’approssimazione alle “figure sociali”
dell’immigrazione nel mercato del lavoro di Barcellona.
18
J. Babiano e A. Fernández Asperilla, En manos de tratantes de seres humanos (notas sobre la
emigración irregular durante el franquismo), in «Historia Contemporánea», n. 12, 2003, pp. 35-56.
19
J.L. Oyón, Crecimiento de las ciudades (1840-1936), in F. Bonamusa e J. Serrallonga (Eds.), La
sociedad urbana en la España contemporánea, Asociación de Historia Contemporánea, Barcelona, 1994,
pp. 12-14.
20
A. Sàez, El demogràfic i la vessant econòmica, in AAVV, Immigració i reconstrucció nacional a
Catalunya, Blume, Barcelona, 1980, p. 32.
21
G. Noiriel, Le creuset français. Histoire de l’immigration XIX-XX siècles, Seuil, París, 1988, p. 137.
22
J. Babiano, El vínculo del trabajo: los emigrantes españoles en la Francia de los treinta gloriosos,
«Migraciones y Exilios», n. 2, 2001, p. 10.
5
Volume e caratteristiche della manodopera immigrata
Il fenomeno migratorio contribuisce ad accelerare le modalità di trasferimento
della popolazione, che dalla fine del XIX secolo erano cambiate come conseguenza dei
processi di industrializzazione, dell’internazionalizzazione del mercato del lavoro, della
rivoluzione dei trasporti e dei mutamenti sociali23. Ciò non vuol dire che non vi fossero
altre tipologie di migrazioni di carattere stagionale legate all’agricoltura24, come per
esempio nelle risaie del Delta dell’Ebro, o associate agli impianti idroelettrici dei
Pirenei nella provincia catalana di Leida e alle opere pubbliche infrastrutturali in diverse
aree della regione25. Con tutta probabilità queste costituirono il punto di partenza
dell’emigrazione definitiva verso la città, ma furono soprattutto i flussi migratori,
identificabili – a causa dell’entità e delle modalità di trasferimento – con il cosiddetto
esodo rurale ad assecondare i processi di cambiamento strutturale e le trasformazioni
sociali verificatesi all’interno della società catalana e spagnola di quegli anni26.
L’aumento delle correnti migratorie verso la Catalogna rappresentò un fenomeno
essenziale per la ripresa economica degli anni cinquanta e soprattutto per l’espansione
industriale, molto intensa nel caso catalano, del decennio successivo. Parallelamente,
ebbe un’influenza molto rilevante anche nella formazione del nuovo movimento operaio
sorto in quegli anni, da identificarsi con le cosiddette Commissioni Operaie27. In
generale, l’intensità di questo incremento fu tanto forte da avere conseguenze a tutti i
livelli della società catalana. L’evoluzione delle correnti migratorie inizia comunque a
modificarsi tra la fine degli anni sessanta e settanta, quando – in coincidenza con il
cambiamento nello scenario economico derivante dalla stessa crisi del modello di
23
Il lavoro più recente, ma al tempo stesso riferimento obbligato anche per le questioni relative al
cambiamento sociale urbano e al movimento anarchico, è quello di J.L. Oyón, La quiebra de la ciudad
popular. Espacio urbano, inmigración y anarquismo en la Barcelona de entreguerras, 1914-1936,
Ediciones del Serbal, Barcelona, 2008, pp. 25-39.
24
Lo studio pioneristico fu quello di J. García Fernández, El movimiento migratorio de los trabajadores
en España, in «Estudios Geográficos», vol XXV, n. 95, 1964, pp. 138-174.
25
H. Capel, Los estudios acerca de las migraciones interiores en España, in «Revista de Geografía», vol.
I, n. 1, 1967, pp. 85-87; V. Pérez Díaz, Nota sobre migraciones rurales internas y disparidades
regionales en el medio rural, in «Revista de Estudios Agrosociales», n. 58, 1967, pp. 63-83; H. Capel
(Dir.), Les tres xemeneies. Implantació industrial, canvi tecnològic i transformació d’un espai urbà
Barcelona, Vol. 3, Fecsa, Barcelona, 1994, pp. 26-27.
26
All’interno di questo quadro interpretativo si colloca il lavoro di M. González Portilla e R. García
Abad, Migraciones interiores y migraciones en familia durante el ciclo industrial moderno. El área
metropolitana de la ría de Bilbao, in Scripta Nova, Universitat de Barcelona, Vol. X, n. 218 (67), 2006,
p. 12.
27
S. Balfour, La dictadura, los trabajadores y la ciudad. El movimiento obrero en el área metropolitana
de Barcelona (1939-1988), Ed. Alfons El Magnànim, València, 1994, pp. 34 ss. Vedi anche C. Molinero,
P. Ysás, J. Tébar, Comisiones Obreras de Catalunya: de movimiento sociopolítico a confederación
sindical, in D. Ruiz (Dir.), Historia de Comisiones Obreras (1939-1988), Siglo XXI, Madrid, 1994, p. 75.
6
produzione collegabile all’aumento del prezzo del petrolio (1973) – comincia a
sgonfiarsi il fenomeno migratorio interno verso la Catalogna. Va rilevato, tuttavia, che
la relazione tra l’evoluzione economica e le migrazioni – normalmente accettata da più
parti – deve essere assunta con forte cautela, in quanto se è vero che i flussi migratori
erano iniziati in occasione della stessa espansione economica, non è altrettanto chiaro
che si siano esauriti in maniera automatica a causa della crisi28.
Nonostante le sue deficienze e la sua incompletezza, il censimento della
popolazione – a scadenza decennale – e i registri municipali – elaborati ogni cinque
anni, ma con notizia annuale delle iscrizioni e delle cancellazioni – rappresentano una
prima fonte per tentare di analizzare il ruolo dell’immigrazione nell’ambito delle
dinamiche in atto. I problemi di diversa natura che le fonti censuali presentano –
segnalati in un altro paragrafo del presente articolo – aumentano quando vogliamo
approfondire la relazione tra immigrazione e lavoro. I censimenti degli anni quaranta e
cinquanta non vi fanno affatto riferimento, e solo dal 1960 migliorerà la situazione
grazie alla pubblicazione di statistiche da parte dei differenti organi officiali29.
Appare utile richiamare l’attenzione sulla natura delle fonti statistiche, e in
particolare sugli aspetti quantitativi delle migrazioni. Questi ultimi non solo possono
risultare poco indicativi e hanno sempre bisogno di un’interpretazione critica, ma
condizionano fortemente il nostro stesso criterio circa l’oggetto del calcolo, in quanto
dobbiamo chiederci cosa possiamo aspettarci e a quale scopo servivano quelle fonti. I
censimenti e le statistiche ufficiali disponibili – che siamo obbligati a utilizzare –
adottano particolari definizioni e ciò fa sì che in più occasioni si producano
deformazioni, intenzionalmente o meno, nelle fonti stesse prodotte dagli apparati
amministrativi incaricati30. In altri termini, accenniamo al problema relativo
all’approccio metodologico alle informazioni che utilizziamo. Malgrado ciò, la
28
M. Marín, Franquismo e inmigración interior: el caso de Sabadell (1939-1960), «Historia Social», n.
56, 2006, p. 132.
29
Il Servicio de Migraciones Interiores de la Dirección General de Empleo del Ministerio de Trabajo
inizia in quell’anno la raccolta e la publicazione dei dati riferiti al movimento della popolazione attiva.
Sempre nel 1960, da parte dello stesso ministero, viene condotta un’inchiesta sui flussi migratori da
lavoro in Spagna. Il primo a utilizzare queste fonti fu J. García Fernández, El movimiento migratorio de
los trabajadores en España, in «Estudios Geográficos», vol. XXV, n. 95, 1964. Solo dal 1961 l’Instituto
Nacional de Estadística inizia la pubblicazione di una Estadística de Migración Interior all’interno del
«Boletín de Estadística» e degli «Anuarios Estadísticos». Per mezzo di essi, venivano forniti dati
quantitativi relativi al movimento migratorio per province, sulla base delle cancellazioni e delle iscrizioni
nei registri municipali, seppure con cifre inferiori alla realtà in quanto non venivano tenuti in
considerazione molti dei cambi di residenza avvenuti.
30
Una questione che, tra le altre, viene posta dalla sociologia italiana ed è oggetto privilegiato della
prospettiva microstorica di alcuni autori, come per esempio M. Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio.
Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo novecento, Einaudi, Torino, 1987, pp. 27 ss.
7
difficoltà di reperimento delle notizie sulle migrazioni individuali in termini quantitativi
sufficientemente rilevanti da assumere un valore statistico fa sì che i censimenti e le
statistiche debbano necessariamente essere considerati come le fonti privilegiate, pur
non sempre del tutto attendibili, per quantificare gli emigranti. Ciò che invece non
possiamo fare è quantificare le emigrazioni, poiché il numero di queste sarà sempre
superiore a quelli, a parte alcune situazioni eccezionali che li rendono omogenei31. Per
esempio, le registrazioni effettuate dagli annuari dell’Instituto Nacional de Estadíticas,
che come abbiamo detto in precedenza raccolgono i dati dei registri comunali, ci
offrono informazioni in base alle quali è realmente difficile contare le iscrizioni e le
cancellazioni degli immigranti. Inoltre le somme totali di alcune classificazioni
presentano notevoli incongruenze ed errori, in alcuni casi più marcati che in altri.
Queste cifre quindi devono essere considerate con estrema cautela.
Nel periodo compreso tra il 1950 e il 1975 in Catalogna va aumentando la
popolazione attiva nei settori non agrari, analogamente a quanto avviene nei paesi
industrializzati. Il tasso di attività – la percentuale di popolazione attiva sul totale della
popolazione – segue un’evoluzione differenziata: se all’inizio del XX secolo tanto in
Catalogna come in Spagna si contava approssimatamente il 41% di popolazione attiva e
un 59% di popolazione passiva, nel 1969 la Catalogna contava una popolazione attiva
pari al 44%, mentre la media spagnola si fermava al 40%32. In questa crescita ebbe un
ruolo determinante, in quanto principale centro industriale del paese, la provincia di
Barcellona, che tra il 1955 e il 1975 passa in cifre assolute da 1,05 a 1,7 milioni di
occupati33. In forma rapida e similare alle province di Madrid e Bilbao e rispettive zone
di influenza34, a Barcellona si assiste a un aumento del lavoro salariato tra la
popolazione attiva, che pone in evidenza il differente grado di sviluppo del rapporto
salariale rispetto al resto delle province catalane, come anche tra la Catalogna e il resto
del paese35. I censimenti indicano che tra il 1960 e il 1970 la componente dei “lavoratori
salariati” passa dal 63% al 74% della popolazione attiva catalana, mentre il gruppo degli
31
J. Arango, Las “Leyes de las Migraciones” de E.G. Ravenstein, cien años después, in «Revista
Española de Sociología», n. 32, 1985, pp. 9-10.
32
Ll. Recolons, La població de Catalunya. Distribució territorial i evolució demogràfica, 1900-1970,
Institut d’Estudis Catalans, Barcelona, 1976, pp. 196-197.
33
Ibidem, p. 59.
34
J. Babiano, Emigrantes, cronómetros y huelgas. Un estudio sobre el trabajo y los trabajadores durante
el franquismo (Madrid, 1951-1977), Siglo XXI, Madrid, 1995, pp. 72-73. Vedi pure J.A. Pérez, Los años
del acero. La transformación del mundo laboral en el área industrial del Gran Bilbao (1958-1977).
Trabajadores, convenios y conflictos, Biblioteca Nueva, Madrid, 2001, pp. 60-61.
35
J. Cardelús, Josep M. Oroval Planas, Àngels Pascual, La población en Catalunya, in «Materials. Crítica
de la cultura», n. 8, 1978, p. 86.
8
“impresari e piccoli imprenditori” e dei lavoratori “autonomi” passano rispettivamente
dal 3% al 4% e dal 18% al 15%36.
Quadro 1
Incremento della popolazione attiva nella provincia di Barcellona
suddivisa per settore di attività, esclusa l’agricoltura
Industria estrattiva
Industria manifatturiera
Costruzione e opere pubbliche
Acqua ed energia
Totale settore secondario
Commercio
Trasporti e stoccaggio
Altri servizi
Totale settore terziario
1950
8.914
490.252
77.347
7.783
584.296
116.846
55.659
171.814
344.319
1960
9.686
583.578
97.452
9.393
700.109
144.912
69.501
199.699
414.112
1970
12.774
715.147
151.227
12.412
891.560
205.482
85.020
289.230
579.732
Diff. 1970-1950
3.860
224.895
73.880
4.629
307.264
88.636
29.361
117.416
235.4134
incremento %
43,30%
45,87%
95,52%
59,48%
50,40%
75,80%
52,70%
68,30%
68,40%
Fonte: E. Pinilla de las Heras, Estudios sobre cambio social y estructuras sociales en Cataluña, CIS,
Madrid, 1979, p. 69.
Ma qual era il peso della popolazione immigrata sulla popolazione attiva
catalana? All’immigrazione, intesa come proveniente da fuori della Catalogna, è stato
attribuito un incremento del 30,42% della popolazione attiva catalana tra il 1950 e il
197137. Più nello specifico, all’immigrazione è direttamente riconducibile pressoché la
metà della crescita della popolazione attiva durante gli anni cinquanta, ma solo un terzo
durante il decennio successivo38. Questa evoluzione è legata principalmente al fatto che
dagli anni sessanta si manifesta un flusso migratorio interno alla stessa Catalogna di una
certa entità, con un trasferimento per nulla inconsistente di popolazione rurale verso il
settore secondario e terziario, tale da relativizzare quello che appare dunque lo
stereotipo che vuole la Catalogna come destinazione esclusiva dell’immigrazione dal
sud della Spagna39.
Le cifre ufficiali ci dicono che gli immigrati che giungono in Catalogna tra il
1960 e il 1975 sono per lo più giovani, spesso non sposati, ma anche in proporzioni
elevate appartenenti a famiglie costituite, i cui figli si incorporano rapidamente
36
Rielaborazione da Censo de la Población de España. 1970. Decenal e Censo de la Población de
España. Avance de resultados, 1972.
37
C. Molinero e P. Ysàs, Comissions Obreres, in P. Gabriel (Coord.), Comissions Obreres de Catalunya,
1964-1989. Una aportació a la història del moviment obrer, Empúries, Barcelona, 1989, pp. 45 e 48.
38
A. Sáez, L’activitat econòmica dels catalans. L’evolució de la població activa a Catalunya. 1950-1970,
in J. Sardà et al., L’economia de Catalunya avui, Banco de Bilbao, Barcelona, 1974. Idem, El demogràfic
i la vessant econòmica, in AAVV, Immigració i reconstrucció nacional a Catalunya, Blume, Barcelona,
1980, pp. 25 e 31.
39
J. Cardelús, J.M. Oroval Planas, A. Pascual, La población en Catalunya, in «Materials. Crítica de la
cultura», n. 8, 1978, p. 81.
9
all’attività lavorativa40. D’altra parte, tra la popolazione immigrata sono sempre più
numerosi gli uomini che le donne, sia nella fascia di età compresa tra i 16 e i 24 anni sia
soprattutto in quella che la fonte indica come compresa tra i 25 e i 65 anni, peraltro
tanto ampia da perdere molto della sua significatività. Il peso degli adulti giovani tra i
15 e i 34 anni, ossia in piena età di lavoro, fu certamente importante, tanto da superare
tra il 1951 e il 1975 il 50% del totale degli immigrati41. La popolazione attiva immigrata
nella provincia di Barcellona in comparazione con il resto della Catalogna ci dice,
secondo i dati ufficiali, qualcosa che già sappiamo: la sua forte concentrazione nella
provincia di Barcellona, specialmente nei municipi del primo anello della città, con
percentuali, tra il 1961 e il 1977, quasi sempre superiori al 90% del totale della
popolazione immigrata. Il decentramento industriale, tra le altre cause, gioca anch’esso
a favore di questa alta concentrazione nei municipi nei dintorni di Barcellona. Tra il
1964 e il 1972, infatti, furono oltre 500 le imprese industriali che si spostarono, i 4/5
delle quali erano prima ubicate all’interno della città, con un movimento che le portò in
generale a sistemarsi nel primo anello metropolitano, soprattutto nei municipi del Baix
Llobregat a sud di Barcellona. Quest’ultima zona, come in precedenza era avvenuto per
i municipi del versante occidentale del Barcellonese – segnatamente Hospitalet –
divenne l’area di espansione immediata di Barcellona, anche per la sua prossimità al
porto, dove si svilupperà una importante attività legata all’industria automobilistica, a
cominciare dalla filiale della Fiat (Seat), e dalle imprese legate alla componentistica.
Nel versante orientale di Barcellona, specie all’interno del nucleo di Badalona-Santa
Coloma de Gramenet, invece, si ha una dinamica più autonoma rispetto al capoluogo;
qui la base dell’industrializzazione, dal tessile alle confezioni ad alcune imprese
chimiche, del vetro e della carta, appare condizionata dalla mancanza di spazio
necessario al suo sviluppo. Quanto al secondo anello metropolitano, esso nel periodo
1962-1974, assorbiva già oltre il 40% degli spostamenti delle imprese, che in buona
parte avevano come destino il municipio del Vallès Occidental42.
40
A questo proposito, si segnala C. Molinero, P. Ysás, J. Tébar, Comisiones Obreras de Catalunya: de
movimiento sociopolítico a confederación sindical, in D. Ruiz (Dir.), Historia de Comisiones Obreras
(1939-1988), Siglo XXI, Madrid, 1994, p. 74.
41
A. Cabré e I. Pujades, La població: immigració i explosió demogràfica, in Història Econòmica de la
Catalunya contemporània. Vol. V, Barcelona, 1988, pp. 48-52. Circa il peso degli immigrati tra i 16 e i
35 anni – cioè in età di maggiore fertilità – che giunsero in Catalogna tra il 1960 e il 1970, la percentuale
abitualmente proposta è del 52,2% sul totale della popolazione immigrata nello stesso periodo. Vedi M.A.
Vila, Les migracions i Catalunya, El Llamp, Barcelona, 1984, p. 80.
42
E. Llarch e X. Sáez, El fet metropolità a Barcelona: una aproximació econòmica, in «L’Avenç», n. 88,
1985, pp. 56-57.
10
Grafico 1
Percentuali di popolazione attiva immigrata rispetto
alla popolazione attiva in provincia di Barcellona e in Catalogna
6%
5%
4%
3%
2%
1%
0%
1962
1964
1967
1969
1971
1973
1975
% popolazione attiva immigrata sulla popolazione attiva in provincia di Barcellona
% popolazione attiva immigrata sulla popolazione attiva in Catalogna
Fonte: rielaborazione da Instituto Nacional de Estadística, Anuarios Estadísticos, 1961-1968 e da Banco
de Bilbao, Renta Nacional de España y su distribución provincial. Serie homogénea 1955-1975, Bilbao,
1978, pp. 119-122.
Così come indica il grafico 1, il computo della popolazione attiva degli
immigrati appena giunti sul totale della popolazione attiva catalana negli anni per i quali
disponiamo di questi dati, mostra che essa rappresenta una percentuale prossima al 5%
(poco meno di 78.000 unità) nel 1964, per scendere drasticamente all’1% nel 1971 (23
mila) in un momento di crisi congiunturale. Analogamente, possiamo anche dedurre che
le cifre degli attivi immigrati, che furono più alti nel caso della provincia di Barcellona,
rappresentano quasi sempre poco più del 2% rispetto al totale della popolazione attiva
catalana. Si può concludere in termini generali che la popolazione immigrata attiva andò
progressivamente riducendo il suo protagonismo durante questa tappa.
11
Grafico 2
Numero di giornalieri qualificati e non qualificati tra la
popolazione immigrata 1961-1968
35.000
30.000
25.000
20.000
15.000
10.000
5.000
0
1961
1962
1963
1964
Qualificati
1965
1966
1967
1968
Non qualificati
Fonte: rielaborazione da Instituto Nacional de Estadística, Anuarios Estadísticos, 1961-1968
Rispetto alla composizione degli attivi immigrati, questa vedeva una
schiacciante maggioranza operaia. Tra il 1961 e il 1968, la cifra di quelli raggruppati
sotto la definizione di “giornalieri”, intesi come dipendenti salariati subordinati,
rappresentava una percentuale quasi sempre superiore all’80% sul totale delle persone
che giunsero in Catalogna. Seguiva, con percentuali significative, il gruppo degli
“impiegati, amministrativi, dipendenti e simili” e in ultimo quello dei “professionisti
tecnici e affini”. Dopo la modificazione intervenuta nel 1969 nella classificazione dei
gruppi della popolazione attiva immigrata, il gruppo più numeroso risultò essere quello
dei “lavoratori industriali e della manodopera non agricola”, che rappresentava anche in
questo caso una percentuale vicina all’80% del totale degli immigrati, ad esso seguiva in
una percentuale molto inferiore il “personale amministrativo”, e con punte in alcuni
anni come il 1971, il gruppo di quelli che venivano classificati come “altri attivi”.
La maggioranza degli immigrati, come è noto, proveniva soprattutto dalla
manodopera rurale (braccianti, mezzadri, affittuari, pastori e gruppi di piccoli
proprietari impoveriti), tuttavia non deve essere trascurata la presenza, in una
proporzione minore che non siamo in grado di quantificare, di altri strati rurali di tipo
12
artigianale43 (calzolai, arrotini, barbieri, ecc.) e di lavoratori qualificati (osti, minatori,
cavatori, operai di piccole officine metallurgiche, ecc.)44. La provenienza rurale
presupponeva in generale una preparazione nulla rispetto al lavoro industriale e una
scarsa specializzazione professionale. Va detto che le cifre fornite dagli annuari
dell’Instituto Nacional de Estadística circa il gruppo dei “giornalieri” segnalano che la
proporzione dei qualificati al momento dell’arrivo a Barcellona non è del tutto
disprezzabile. Dal punto di vista statistico, nell’intervallo 1961-1968 il numero dei
“giornalieri” qualificati in cifre assolute si mantenne tendenzialmente al di sotto dei non
qualificati, specie nel 1964, pur non discostandosi molto dal numero di questi ultimi.
Non è del tutto chiaro, d’altra parte, quale significato venisse dato ai termini
“qualificati” e “non qualificati”45, i quali conobbero successive modificazioni nel corso
degli anni, derivanti anche dal mutamento delle forme, del tipo e dell’organizzazione
del lavoro. Inoltre vanno tenute in conto le grandi difficoltà, dopo la guerra civile, di
mettere in pratica meccanismi di qualificazione dei lavoratori, in ambito agrario come in
quello industriale, che fino agli anni sessanta fu sottoposto a un controllo ufficiale
assoluto da parte del regime. Nonostante il cambiamento, l’equilibrio tra l’offerta e la
domanda di lavoro qualificato non si realizza nel mercato del lavoro, ma all’interno
delle imprese stesse46. Spesso queste ricorrono alle scuole apprendisti per giovani
lavoratori, le quali fino ai primi anni settanta sono al centro delle strategie di formazione
professionale messe in atto da alcune delle grandi imprese metallurgiche di Barcellona.
È il caso di un’impresa presente da tempo come la Maquinista Terrestre Marítima, ma
anche di quelle create successivamente come la Hispano-Olivetti e in alcune più recenti
come la grande impresa automobilistica Seat, dove la scuola apprendisti venne creata
nel 195747.
43
C. Barciela, Crecimiento y cambio en la agricultura española desde la guerra civil, in J. Nadal, A.
Carreras, C. Sudrià (comp.), La economía española en el siglo XX. Una perspectiva histórica, Ariel,
Barcelona, 1987, p. 272. Per la “città satellite” di Cornellà de Llobregat, vedi A.C. Comín e J. GarcíaNieto, Juventud Obrera y conciencia de clase. El proceso inmigratorio y su función innovadora en la
sociedad catalana, Edicusa, Madrid, 1974, p. 75.
44
Dati tratti dalla trascrizione delle intreviste della collezione Biografies Obreres: fonts orals i militància
sindical, 1939-1978), Arxiu Històric de Comissions Obreres de Catalunya.
45
Questa stessa domanda viene posta da alcuni specialisti dell’immigrazione, come Jaume Nualart nel
1965. Vedi il suo Conversaciones sobre immigración interior. Barcelona 19 a 22 Octubre 1965,
Publicaciones del Patronato Municipal de la Vivienda, Barcelona, 1966, p. 103.
46
A. Soto, Rupturas y continuidades en las relaciones laborales del primer franquismo, 1938-1958, in
Carlos Barciela (Coord.), Autarquía y mercado negro: el fracaso económico del primer franquismo,
1939-1959, Crítica, Barcelona, 2003, pp. 3 e 9.
47
A. Tappi, Un’impresa italiana nella Spagna di Franco. Il rapporto FIAT-SEAT dal 1950 al 1980,
Crace, Perugia, 2008, p. 69.
13
Grafico 3
Pe rcentuale di popolazione immigrata in età lavorativa e di popolazione
attiva immigrata in provincia di Barcellona 1961-1973
100%
90%
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
% popolazione immigrata in età lavorativa non inclusa nella popolazione attiva immigrata
% popolazione attiva sul totale della popolazione immigrata in età lavorativa
Fonte: Instituto Nacional de Estadística, Anuarios Estadísticos, 1961-1973
Tra il 1961 e il 1973, la percentuale della “popolazione attiva” immigrata, ossia
gli occupati più i disoccupati, sul totale degli immigrati in età di lavoro (14-64 anni), si
colloca su valori compresi tra il 70% e l’80%, se si esclude il 1963, anno per il quale la
statistica mostra peraltro problemi di discordanza tra le cifre totali fornite e alcune dei
raggruppamenti, come nel caso del gruppo classificato come “popolazione attiva”. Le
cifre sono alte ed è logico, visto che, come si è detto, la maggioranza emigrava proprio
perché alla ricerca di lavoro. Eppure, questo aspetto ci porta a considerare un’ultima
questione che conviene affrontare correttamente e che riguarda la classificazione degli
immigrati appena giunti raggruppati sotto la rubrica di “inattivi”. In linea di principio, in
essa dovevano essere inseriti anziani, pensionati, giovani, handicappati, studenti, che
non lavoravano perché non erano in grado di farlo per una pluralità di ragioni. Se
all’interno degli immigrati compariamo il gruppo di chi è in condizione di lavorare e
quello di chi non lo è, ciò che emerge con forza è che anno dopo anno le cifre di
“inattivi” immigrati diviene più alta ed è sempre superiore a quello degli “attivi”
immigrati, in alcune occasioni anche di molto.
14
Grafico 4
Nu mer o di i m mig ra ti in at ti vi e at ti vi 1 9 6 1 -1 9 7 7
1 0 0 .0 00
9 0 .0 0 0
8 0 .0 0 0
7 0 .0 0 0
6 0 .0 0 0
5 0 .0 0 0
4 0 .0 0 0
3 0 .0 0 0
2 0 .0 0 0
1 0 .0 0 0
0
1961
1963
1965
1967
1969
ina tti vi
1971
1973
1975
1977
a tti vi
Fonte: Instituto Nacional de Estadística, Anuarios Estadísticos, 1961-1977
Anche in termini assoluti, per la denominata “popolazione inattiva” immigrata
stiamo parlando di una cifra che in alcuni anni del periodo 1961-1977 supera le 80.000
unità e che comunque nella maggioranza degli anni è prossima a 70.000. In realtà,
questi dati ci mettono in allarme circa i problemi di informazione statistica e di
classificazione, cui si è accennato, ma anche di altra natura. Di questi problemi erano
coscienti alcuni dei convenuti a un seminario sull’emigrazione interna tenutosi a
Barcellona nel 1965. Un esponente di primo piano dell’Instituto Nacional de Estadística
come José Ros Jimeno riconosceva che “inattivi” era una definizione “molto
indeterminata” alla quale corrispondeva nel caso di Barcellona una cifra pari fino al
60% degli immigrati giunti in città l’anno precedente. Nella stessa direzione, alcuni
partecipanti ritenevano che dietro il termine, ciò che non era cambiato era la presenza di
una massa di popolazione dedita ad attività non dichiarate48. Ci riferiamo al fatto che un
volume significativo di popolazione immigrata in Catalogna rimaneva esclusa dal
mercato del lavoro regolare e, di conseguenza, appare molto complicato sia quantificare
48
J. Nualart, Conversaciones sobre immigración interior. Barcelona 19 a 22 Octubre 1965,
Publicaciones del Patronato Municipal de la Vivienda, Barcelona, 1966, p. 106.
15
la dimensione reale della manodopera sia valutare con precisione il suo effetto
sull’economia catalana e di Barcellona. Ne deriva che il quadro che abbiano di fronte è
alquanto insufficiente. Tuttavia esso ha il merito di riconoscere le difficoltà di metodo e
in particolare il fatto che le cifre ufficiali vanno sempre considerate al ribasso.
Struttura del lavoro e mobilità lavorativa degli immigrati
Nella prima metà degli anni settanta, il comparto industriale all’interno
dell’economia catalana detiene un peso comparabile a quello dei paesi più
industrializzati dell’Europa occidentale49. Ciò è vero al punto che oltre all’analogia
riguardo alla forte crescita demografica e al tipo di distribuzione dell’occupazione per
settori di attività con gli stati settentrionali della Comunità Economica Europea – tra cui
Germania federale, Gran Bretagna, Danimarca e Francia –, il tasso di attività della
popolazione catalana nel 1973 (40,3%) appare addirittura superiore a quello registrato
nella maggioranza di quei paesi. La struttura dell’occupazione nella provincia di
Barcellona, il principale centro industriale, non fece segnare mutamenti sostanziali
durante quegli anni50, ma se consideriamo il medio periodo compreso tra il 1957 e il
1975 dobbiamo prendere atto che la popolazione occupata nell’industria in Catalogna si
era praticamente duplicata. Nella crescita dell’occupazione intersettoriale un ruolo non
secondario era detenuto anche dal settore della costruzione, delle opere pubbliche e
delle industrie ausiliarie, seguito dall’industria della carta e arti grafiche e
dell’alimentazione. A parte naturalmente la concentrazione in termini assoluti della
manodopera nel settore metalmeccanico51.
In effetti, parallelamente al declino del tradizionale settore tessile catalano52, si
ebbe un boom del comparto metalmeccanico e una rapida espansione dell’industria
legata ai beni di consumo durevoli – elettrodomestici e automobili, come la popolare
Seat 600 –, destinata a rappresentare la base dell’egemonia industriale all’interno
dell’economia catalana. Intanto si registrava l’arrivo del turismo di massa in un paese in
cui lo slogan più originale era “Spain is different”, con l’allora ministro del turismo,
49
A. Rodríguez e R. d’Alòs, Economía y territorio en Catalunya. Los centros de gravedad de población,
industria y renta, Alba, Barcelona, 1978, p. 14; M. Llonch (Ed.), Treball tèxtil a la Catalunya
contemporània, Pagès, Lleida, 2004.
50
J. Alcaide Algunes puntualitzacions sobre el desenvolupament socioeconòmic català, in Banco de
Bilbao, L’economia de Catalunya avui, Barcelona, 1974.
51
E. Pinilla de las Heras, Estudios sobre cambio social y estructuras sociales en Cataluña, CIS, Madrid,
1979, p. 68.
52
M. Llonch (Ed.), Treball tèxtil a la Catalunya contemporània, Pagès, Lleida, 2004.
16
Manuel Fraga Iribarne, in prima linea53. Com’è noto, l’edilizia visse un’espansione
senza precedenti, indotta dallo stesso turismo che toccava le coste catalane alla ricerca
del sole a prezzi economici, dalla domanda di alloggi da parte degli immigrati nei centri
industriali, dalle opere pubbliche legate alla richiesta di infrastrutture da parte della
stessa società industriale. Ma fu senza dubbio la mancanza di libertà e di istituzioni
democratiche, nonché la connivenza tra gli interessi dei grandi costruttori privati e il
mondo politico, a intensificare ancora di più questa crescita del settore54.
In questo contesto economico non è casuale pertanto che le prime esperienze
degli immigrati, con poca preparazione per il lavoro industriale, fossero collegate
all’edilizia e al lavoro temporaneo, in quanto richiedevano una scarsa formazione
professionale ed erano caratterizzate da un alto turn over. Le cronache suburbials di
Francesc Candel su questi lavoratori sono realistiche quanto squallide: «preparano il
cemento, spingono carriole o aggiustano strade, con caschi gialli e rossi»55. I manovali
immigrati della costruzione – terminava Candel – erano, in generale, nel suo paese
manovali del «lavoretto» e a Barcellona «vivono in pensione, mangiano nei bar, soli e
sfiduciati»56. Il settore dà lavoro, in una percentuale crescente, a una parte considerevole
di immigrati adulti che hanno maggiori difficoltà dei giovani per trovare
un’occupazione o dei lavoratori autonomi per conseguire una qualifica professionale.
Nel complesso, dunque, fu abituale che i nuovi arrivati, durante un periodo più o meno
lungo, fossero impegnati nei lavori più ripetitivi, che richiedevano maggiore sforzo
fisico e minore preparazione professionale. Erano richieste tipiche del settore edile e
delle sue industrie ausiliarie, caratterizzate da un elevato grado di rotazione e di
stagionalità. In ogni caso, vale la pena di ricordare che nulla di tutto ciò era eccezionale
e che anzi si trattava di un processo abbastanza comune al resto delle migrazioni di
questo tipo.
53
La scarsa attenzione al tema è stata in parte recentemente colmata da S.D. Pack, Tourism and
dictatorship Europe’s peaceful invasion of Franco’s Spain, Palgrave Macmillan, New York, 2006.
54
J. Catalán, El creixement de la indústria: miracle o miratge?, in B. de Riquer (Dir.), Història, Política,
Societat i Cultura als Països Catalans. De la dictadura a la democràcia, 1960-1980. Vol. 11, GEC,
Barcelona, pp. 110 ss.
55
I due caschi gialli e rossi costituirono un’icona in vita per anni: basti pensare a questi uomini ritratti dai
disegnatori dell’epoca, come per esempio l’Esquerrà (pseudonimo di Just de Nin), vignettista delle
pubblicazioni antifranchiste «Luchas Obreras» e «Lluita Obrera», legatee al movimento delle Comisiones
Obreras durante gli anni settanta. Le due collezioni complete di queste pubblicazioni sono conservate
nell’Arxiu Històric de Comissions Obreres de Catalunya. Vedi J. Tébar e J. García (coords.), La premsa
silenciada. Clandestinitat, exili i contrainformació (1939-1977), Fundació Cipriano García de
Comissions Obreres de Catalunya, Barcelona, 2003.
56
F. Candel, Immigrantes y trabajadores, Planeta, Barcelona, 1972, p. 38.
17
La scarsa stabilità occupazionale di questi lavoratori va ricercata nella relazione
con il caporalato, un fenomeno particolarmente esteso che riguardava direttamente molti
immigrati e concretamente il settore edile. Nel film No se admite personal57, prodotto e
distribuito clandestinamente, viene descritta dall’apparire dell’alba la giornata di un
lavoratore immigrato a Barcellona in cerca di un’occupazione. Si tratta di un documento
audiovisivo di straordinario interesse che ci mostra che il punto di riunione di questa
attività illegale ma tollerata, era la piazza del Bisbe Urquinaona di Barcellona. Lì
venivano additati quei lavoratori cui gli intermediari offrivano un’occupazione nel
settore della costruzione a prezzi fissi, senza contrattazione e quindi senza neanche
alcun tipo di diritto58. Nel 1965 durante il citato seminario di Barcellona sulle
migrazioni interne, monsignor Cortinas – popolarmente conosciuto come “padre
Botella”, della borgata del Buen Pastor – si spinse a formulare una petizione al
responsabile della Direzione generale del Lavoro, José Luis Rivera, nella quale
affermava che gli impresari, nelle pastoie burocratiche degli organi ufficiali, erano
costretti a ricorrere al caporalato, al fine di ottenere lavoratori temporali, tanto che per
questo motivo egli richiese che il sistema di reclutamento fosse più fluido e che si
applicasse un controllo rigoroso sul caporalato59. Di fronte a tale richiesta, uno dei
convenuti, Julio Muñoz Campos, vicepresidente del Patronato municipale delle case
popolari di Barcellona mostrò il cinismo tipico delle autorità dell’epoca. Sebbene
riconoscesse come vere le parole del monsignore – al punto che egli si proclamò «un
acceso persecutore di questo tipo irregolare di reclutamento irregolare» –, sostenne
tuttavia che la verità era che gli stessi “produttori”, cioè i lavoratori “assunti”
nell’ambito del caporalato erano i principali responsabili di questa situazione. La sua
57
Per la regia di Antoni Luchetti e Agustí Coromines, gennaio 1968, Productora 15’. Il film venne
prodotto dal Grup de Producció, cui appartenevano, fra gli altri, coloro che negli anni divennero
importanti produttori cinematografici come Pere Ignasi Fages, registi come Pere Joan Ventura o
fotoreporter come Manuel Esteban. Questo nucleo si legò sin dall’inizio all’organizzazione dei comunisti
catalani, il Partido Socialista Unificado de Catalunya (PSUC), molti membri del quale parteciparono
anche ai Volti, una rete per la distribuzione clandestina di questo tipo di materiale alle mostre pubbliche,
che mettevano in discussione la legalità della dittatura. Copia di questo materiale è conservato
nell’Institut del Cinema Català, una fondazione privata con sede a Barcellona.
58
P. Montes Marmolejo, Memorias andaluzas, Laia, Barcelona, 1980, pp. 27-32. Si tratta di una delle
poche opere che assume il punto di vista dell’emigrante, che da Coin (Malaga) giunge in Catalogna nel
1956 e che si sposta per diversi municipi della provincia di Barcellona (St. Boi, El Prat, St. Despí,
Cornellà, Hospitalet e Collblanc). L’opera si perde in luoghi comuni e a parte alcuni aneddoti specifici,
ha un valore tutto sommato relativo. Forse ciò che più colpisce è il prologo di Joaquim Moles nel quale si
utilizza un tono che oggi appare di sufficienza, tipico di un membro di una società industriale e civilizzata
che concede l’opzione di integrarsi agli immigrati (pp. 5-6). Vedi anche le cronache di F. Candel,
Immigrantes y trabajadores, Planeta, Barcelona, 1972, pp. 94 e 97.
59
J. Nualart, Conversaciones sobre immigración interior. Barcelona 19 a 22 Octubre 1965,
Publicaciones del Patronato Municipal de la Vivienda, Barcelona, 1966, p. 128.
18
argomentazione si basava sul presupposto che la loro stessa libertà di essere assunti da
chi avessero voluto li spingeva normalmente a guadagnare di più con le offerte
“temporali” che ricevevano nel “mercato del lavoro” della piazza Urquinaona60.
Un’altra componente della manodopera immigrata era impiegata nelle attività
legate al turismo, che in quegli anni garantiva numerosi posti di lavoro, specialmente
sulle coste del litorale catalano. Erano lavoratori “stagionali”, che in molti casi
ritornavano a casa dopo aver “fatto l’annata” o in altri si stabilivano definitivamente
sulla costa. Alcune considerazioni, debitrici delle forme di vita catalana, hanno visto in
quest’ultima scelta qualcosa che «sviliva fortemente il carattere autoctono locale,
mostrando al turista un ambiente volgarmente falsato»61. Una visione distinta, e
sicuramente più aderente alla realtà, è quella del regista Josep Maria Forn nel suo film
La piel quemada [La pelle bruciata, ndt] (1967). In esso viene denunciato il sistema del
caporalato nella Spagna meridionale quale fattore all’origine dell’emigrazione verso la
Catalogna. La storia è presto detta: l’emigrante sprovveduto di un piccolo paesino della
Costa Brava aspetta l’arrivo della moglie e dei suoi due figli dall’Andalusia per vivere
nell’appartamento in affitto che ha trovato dopo mesi di vita solitaria. Il protagonista
sarà però vittima delle insidie costituite dalle giovani turiste in bikini in cerca del sole e
del divertimento62.
In quanto al lavoro delle donne immigrate, esso era all’inizio fortemente legato
ad attività spesso al di fuori dal mercato regolare e all’interno dell’“economia
sommersa”. Si trattava di svolgere mansioni di fatica o anche di lavorare a un prezzo
stabilito in casa, preparando le pezze per l’industria tessile e della confezione63. Le
donne sono “invisibili” per le statistiche, però alcuni indizi mostrano il loro legame con
l’economia irregolare. Un esempio ci viene dalle parole di Montserrat Obradors
Domènech, un’assistente sociale di Sabadell, che nel novembre del 1965 affermava che
spesso nel suo paese molte delle donne immigrate mostravano “maestria” professionale,
ma aggiungeva anche che la maggioranza facevano le pulizie nelle case private,
concludendo: «naturalmente, non dicono che sono a servizio e guadagnano come tali e
60
Ibidem, p. 129.
M.A. Vila, Les migracions i Catalunya, El Llamp, Barcelona, 1984, p. 79.
62
R. Gubern, Historia del cine español, Cátedra, Madrid, 1995.
63
S. Balfour, La dictadura, los trabajadores y la ciudad. El movimiento obrero en el área metropolitana
de Barcelona (1939-1988), Ed. Alfons El Magnànim, València, 1994, pp. 55 ss. S. García, El moviment
obrer, novament, in «L’Avenç», n. 95, 1986, p. 39.
61
19
quasi tutte lavorano, perché ne hanno bisogno, ma devono apparire “inattive”»64.
Dunque, al di là delle specificità del mercato del lavoro di Barcellona, caratterizzato
tradizionalmente da un tasso molto elevato di attività femminile rispetto al resto della
Spagna65, probabilmente la situazione della provincia condivideva alcune similitudini
con quella documentata in maniera convincente della “Grande Bilbao”, vale a dire il
fatto che le donne immigrate riempivano il vuoto creato dalle donne locali nello
svolgimento di queste mansioni66. Le cifre officiali sul tasso di attività femminile in
Spagna, che normalmente si trova parecchio al di sotto di quello di altri paesi limitrofi,
segnano un aumento significativo tra il 1962 e il 1976. Ciò nonostante, è risaputo che i
dati ufficiali sottovalutano la presenza delle donne nel mercato del lavoro e anche che il
lavoro sommerso era alimentato soprattutto, anche se non esclusivamente, da
manodopera femminile67. Il lavoro delle donne immigrate è molto legato a relazioni di
lavoro poco chiare e pertanto da queste fortemente dipendenti. Ciò induce a considerare
la necessità di indagare l’espansione dell’economia sommersa, un fenomeno strutturale
e di grande ampiezza, per verificare il suo effetto – con altri fattori, come l’incremento
del lavoro industriale di quegli anni in Spagna – sullo stesso tasso di attività lavorativa
delle donne lavoratrici68.
La mancanza di protezione legale e le evidenti irregolarità del mercato del
lavoro non riguardano unicamente uomini e donne adulti. Caratteristiche analoghe sono
registrabili per quanto concerne il lavoro infantile – ossia quello dei minori di 14 anni –
che era proibito per legge. Un reportage giornalistico su questo fenomeno e sulle
condizioni di lavoro, tanto a Madrid come a Barcellona, mostrava una situazione
realmente grave. Nel 1967 in Spagna erano 700 mila i bambini non scolarizzati. A
Barcellona le cifre relative a minori che lavoravano clandestinamente si aggiravano
64
L’assistenza sociale, molto attiva durante questi anni, si riflette in un documento del 1964 relativo a un
quartiere di Sabadell. Vedi C. Obradors, La Integración del suburbio en la comunidad urbana, Nova
Terra, Barcelona, 1966. Per il suo intervento, J. Nualart, Conversaciones sobre immigración interior.
Barcelona 19 a 22 Octubre 1965, Publicaciones del Patronato Municipal de la Vivienda, Barcelona,
1966, p. 107.
65
N. Varo, Mujeres en huelga. Barcelona metropolitana durante el franquismo, in J. Babiano (Ed.), Del
hogar a la huelga. Trabajo, género y movimiento obrero durante el franquismo, Catarata, Madrid, 2007,
p. 145.
66
J.A. Pérez, Los años del acero. La transformación del mundo laboral en el área industrial del Gran
Bilbao (1958-1977). Trabajadores, convenios y conflictos, Biblioteca Nueva, Madrid, 2001, pp. 90-91 e
pp. 126-128.
67
Fundación Foessa, Informe sociológico sobre la situación social en España 1970, Euroamérica,
Madrid, 1971, p. 133.
68
E. Pinilla de las Heras, Immigració i Mobilitat social a Catalunya, 2 voll., Intituto Católico de Estudios
Sociales de Barcelona, fascicolo 4, 1973, pp. 87-88. Vedi anche S. García, El moviment obrer, novament,
«L’Avenç», n. 95, 1986, p. 39.
20
attorno alle 50.000 unità, spesso in riferimento a lavori assolutamente penosi: forni per
il vetro, sguatteri, magazzinieri e così via69.
Nel complesso, questi lavoratori che giungevano in Catalogna negli anni presi in
considerazione, erano occupati sempre all’interno delle categorie meno qualificate e
negli scaglioni più bassi della scala salariale, mentre la minore preparazione li rendeva
più frequentemente vittime di infortuni sul lavoro. Secondo lo stesso Instituto Nacional
de Estadística, durante gli anni sessanta e settanta si ebbero le cifre più elevate di
infortuni sul lavoro, al di sopra del milione se contiamo tutta la Spagna. Come si può
osservare nel grafico 5, queste cifre furono specialmente alte e pertanto gravi nel caso di
Barcellona (1/4 del totale), quasi il doppio degli infortuni sul lavoro avvenuti a Madrid e
il triplo di quelli di Bilbao nello stesso periodo70.
Grafico 5
Numero degli infortuni sul lavoro a Barcellona, Vizcaya e Madri d
in comparazione con il totale s pagnol o, 1952-1976 (percentuali)
25
20
15
10
5
0
1952
1954
1956
1958
1960
Barcellona su totale Spagna
1962
1964
1966
1968
Vizcaya su totale Spagna
1970
1972
1974
1976
Madrid su totale Spagna
Fonte: rielaborazione da Instituto Nacional de Estadística, Anuarios Estadísticos, 1952-1977
È molto probabile che gli immigrati, in maggioranza senza esperienza di lavoro
nell’industria e quindi privi di preparazione professionale, fossero uno dei gruppi più
colpiti da questo problema, però non conosciamo le proporzioni. I flussi migratori,
69
J. Ma Huertas Claveria, El trabajo infantil en nuestras grandes ciudades, in «Tele/eXpres», 30 ottobre
1967.
70
Su Bilbao, vedi A. Pérez, Los años del acero. La transformación del mundo laboral en el área
industrial del Gran Bilbao (1958-1977), Biblioteca Nueva, Madrid, 2001, pp. 109-116. Le conseguenze
di questi infortuni hanno costituito dalla Transizione post franchista uno dei problemi specifici più
importanti e di più difficile soluzione. Vedi A. Bilbao, El accidente de trabajo: entre lo negativo y lo
irreformable, Siglo XXI, Madrid, 1997.
21
d’altra parte, coincidono con il triennio 1956-1958, quando vengono introdotte forme
neotayloristiche nella produzione e sistemi di organizzazione scientifica del lavoro tipici
del peculiare modello di fordismo “alla spagnola”71. In effetti, alcuni gruppi di
imprenditori di Barcellona riscoprono il taylorismo, nonostante a volte le serie difficoltà
nella sua applicazione pratica in alcuni casi a causa del ritardo tecnologico o della
mancanza di rigore e competenza. Ciò fa sì che attorno al 1964 esistesse un
atteggiamento negativo nei suoi confronti da parte di alcuni dirigenti industriali72, che
sarà superata bene o male nel corso degli anni.
Tra gli immigrati, alcuni cominciavano a entrare in specifici segmenti
dell’industria metallurgica, inizialmente soprattutto in piccole officine, dalle quali a
volte avrebbero fatto il salto alla grande impresa sidero-metallurgica e meccanica. In
questi processi di assestamento e di adattamento, lo choc degli immigrati al cospetto
della vita urbana e industriale, nel caso catalano, derivava anche ma non esclusivamente
da abiti ed elementi culturali differenti, a cominciare chiaramente da una lingua diversa
dal castigliano. L’impatto dell’arrivo era percepito sin dal modo della gente di muoversi
per strada, di camminare, di vestirsi, di relazionarsi, dal suono delle canzoni, dai balli,
ma soprattutto dal ritmo frenetico della vita urbana73. La forma di concepire il tempo
degli immigrati, senza dubbio, faceva a pugni con quella dei catalani. Inoltre, l’origine
rurale degli immigrati appariva evidente sotto aspetti molto concreti, ma al tempo stesso
sufficientemente significativi. Come spiega Francesc Candel a proposito di questo choc
culturale tra gli immigrati, c’erano persone e non solo tra i più anziani, che dopo molto
tempo in città ancora non comprendevano il funzionamento dell’orologio o non erano in
grado di indicare il proprio domicilio. Altre volte capitava che una donna di 25 anni per
dire quando era nato suo figlio «sapeva solo ricordare che era stato in tempo di
vendemmia, nel periodo in cui con il marito andava a vendemmiare in Francia»74.
Ciò era forse ancora più evidente nel processo di adattamento al lavoro di
fabbrica. Sebbene durante gli anni sessanta l’immagine sociale – generalizzata e allora
molto semplicistica – diffusa tra la popolazione nata in Catalogna continuasse ad essere
71
A.C. Comín, Per una estratègia sindical, Edicions 62, Barcelona, 1970, pp. 19 e 39; Idem, La
deshumización de los accidentes de trabajo, in «Cuadernos para el Diálogo», n. 25, 1965; J. Babiano,
Paternalismo industrial y disciplina fabril en España (1938-1958), CES, Madrid, 1998. Per lo specifico
della filiale spagnola della Fiat, vedi A. Tappi, Un’impresa italiana nella Spagna di Franco. Il rapporto
FIAT-SEAT dal 1950 al 1980, Crace, Perugia, 2008, pp. 60-70.
72
E. Pinilla de las Heras, L’empresari català, Edicions 62, Barcelona, 1967, pp. 143-144.
73
J.L. López Bulla, Cuando hice las maletas. Un paseo por el ayer, Península, Barcelona, 1997, pp. 3348.
74
F. Candel, Apuntes para una sociología del barrio, Península, Barcelona, 1972, p. 56.
22
quella di immigrati impiegati in due soli settori (quello della costruzione e delle opere
pubbliche per i semiqualificati e non qualificati, e quello della pubblica amministrazione
per gli impiegati)75, la realtà era che già da tempo gli immigrati si erano andati via via
inserendo nel settore industriale: il tempo di lavoro scandito dall’orologio Phuc, che
rappresentava il primo segnale dell’ingresso in un universo dove tutto era misurato e
dove vigeva un ordine soggetto a una disciplina che prevedeva sforzi manuali continuati
e movimenti ripetitivi, concentrati, accompagnati dal frastuono delle macchine e della
massa di persone, protagoniste di un processo circolare, compreso tra un inizio e una
fine sempre identici76. Movimenti segmentati attorno alla catena di montaggio, con
nuovi metodi di lavoro connaturati a un determinato modello di vivere, di pensare, di
sentire77.
In base a un’indagine condotta in una fabbrica tra il 1961 e il 1963 – su un
campione di 1.645 lavoratori, il 61% dei quali non erano catalani –, Jaume Nualart
affermava che gli immigrati costituivano una manodopera poco addestrata e occupavano
quasi nella loro totalità i posti meno qualificati, al punto da aver bisogno di appena tre
mesi di apprendimento78. Lo studio stabiliva una relazione alquanto stretta tra la
distribuzione dei “non catalani” all’interno dell’impresa e la struttura delle migrazioni
interne in Spagna sulla base della professione degli immigrati. La ricerca di questa
proporzionalità è stata una tendenza quasi ossessiva per molti anni79. Lo stesso Nualart
muoveva di fatto da un presupposto erroneo, poiché non esisteva, come lui sosteneva,
una “subpopolazione migratoria” in Catalogna, ossia una popolazione omogenea di
immigrati, ma ve ne erano come minimo due o più, in base alla loro condizione
75
Nel 1970, la Fundació Bofill chiese collaborazione per far fronte alla impressionante ondata migratoria,
al fine di conoscere se si stava creando una popolazione marginale o se, viceversa, essa poteva essere
integrata, anche culturalmente e linguisticamente nella società di arrivo. E. Pinilla de las Heras, Estudios
sobre cambio social y estructuras sociales en Cataluña, CIS, Madrid, 1979, pp. 174, 99 e 63. Sulla sua
partecipazione a questo incarico, vedi J. Pujol, Memòries. Història d’una convicció (1930-1980), Proa,
Barcelona, 2007, pp. 210-211.
76
J. P. de Gaudemar, El orden y la producción. Nacicimiento y formas de la disciplina de fábrica, Trotra,
Madrid, 1991, p. 21 ss. Una cronaca relativa a questo scenario in J.L. López Bulla, Cuando hice las
maletas. Un paseo por el ayer, Península, Barcelona, 1997, pp. 49-66.
77
A. Gramsci, Americanismo e fordismo, in Quaderni dal carcere. Note sul Machiavelli, sulla politica e
sullo Stato moderno, a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma, 1991, pp. 462-463.
78
J. Nualart, Conversaciones sobre immigración interior. Barcelona 19 a 22 Octubre 1965,
Publicaciones del Patronato Municipal de la Vivienda, Barcelona, 1966, p. 103.
79
Per un caso che consideriamo estremo, malgrado tutte le avvertenze metodologiche dell’autore, vedi
I.E. Pitarch, Ciutadans de Catalunya: militància i representativitat política, in AAVV, Immigració i
reconstrucció nacional a Catalunya, Blume, Barcelona, 1980, pp. 81-94. Vedi pure P. Negre, El obrero y
la ciudad, Ariel, Barcelona, 1968, p. 80.
23
socioprofessionale e alla loro formazione80. Né è possibile certamente considerare
l’esistenza di una popolazione catalana indifferenziata, come spesso è stato fatto.
D’altra parte, determinare statisticamente le proporzioni dell’inserimento della
forza lavoro immigrata nella struttura occupazionale e nelle categorie socioprofessionali
appare operazione molto complicata, così come dimostrano alcuni studi realizzati negli
anni settanta. Le ricerche sociologiche basate sulle inchieste relative a determinate aree
e/o imprese hanno tentato di superare queste difficoltà81. Utilizzando i dati di
un’inchiesta condotta tra novembre e dicembre del 1978, la sociologa Carlota Solé
giungeva a concludere innanzitutto che gli immigrati erano inseriti negli strati inferiori
della struttura occupazionale (servizi domestici, operai non qualificati e semiqualificati),
in misura maggiore rispetto alla popolazione locale; in secondo luogo che l’industria
tessile assorbiva in quel momento più operai catalani che immigrati, specialmente
donne; in terzo luogo che nell’industria chimica e meccanica le proporzioni di operai
locali e immigrati si equivalevano e che invece il settore edile e le attività diverse
(pulizie, servizi alberghieri, trasporti o altro) erano appannaggio soprattutto di
immigrati82. Questa ricerca, tuttavia, risente fortemente di una visione alquanto
schematica, poiché considera esclusivamente l’esistenza del gruppo degli immigrati e
dei catalani, senza approfondire le differenze interne agli uni e agli altri.
In effetti, i limiti delle fonti in relazione a queste problematiche sono legati a una
serie di condizioni che riguardano direttamente la raccolta delle informazioni destinate
alla realizzazione delle stesse inchieste. In quel periodo Pinilla de las Heras elaborò una
lista sintetica ma esplicativa ed efficace, a proposito delle difficoltà sul tappeto:
disinformazione riguardo al numero delle imprese e degli occupati, alla struttura della
divisione del lavoro, alla suddivisione dell’occupazione per categorie socioprofessionali
e per dimensione di impresa nel terziario. Infine, egli menzionava le difficoltà derivanti
dalla presenza diffusa della piccola impresa tipica della Catalogna, caratterizzata dalle
irregolarità nei versamenti delle quote della previdenza sociale, dal momento che, come
egli stesso avvertiva sempre nelle sue inchieste, erano state riscontrate cifre superiori
80
J. Nualart, La población inmigrante en las empresas de Barcelona, estudio de un caso, in «Boletín
Oficial de Ingenieros Industriales de Barcelona», 1976. Sia il riferimento sia la critica provengono da E.
Pinilla de las Heras, Immigració i Mobilitat social a Catalunya, Instituto Católico de Estudios Sociales de
Barcelona, 2 voll., Barcelona, Fascicle 1, 1973, pp. 87-88.
81
C. Solé, Les classes socials a Catalunya, comunicació al Congrés de cultura catalana, aprile 1977,
document n. 11 de la ponència sobre estructura social, p. 100. E. Pinilla de las Heras, Estudios sobre
cambio social y estructuras sociales en Cataluña, CIS, Madrid, 1979, pp. 74, 99 e 514-515.
82
C. Solé, Los immigrantes en la sociedad y en la cultura catalanas, Península. Barcelona, 1982, p. 27,
Eadem, La integración sociocultural de los immigrantes en Cataluña, CIS, Madrid, 1981.
24
del 5-8% rispetto a quelle ufficiali. Per non parlare del fatto che le stesse cifre
dell’Instituto Nacional de Previsión (il corrispettivo del nostro Istituto nazionale di
previdenza sociale, ndt) contengono omissioni concentrate in una o due categorie
professionali83.
La mobilità lavorativa sembrerebbe accentuata alla fine degli anni settanta,
almeno in comparazione con la sua evoluzione nel decennio precedente. Poiché si
trovavano su un gradino sociale inferiore, gli immigrati sperimentavano un maggior
grado di mobilità lavorativa rispetto ai lavoratori locali. Con il passare degli anni,
tendevano a lavorare nell’ambito di attività qualificate, per conto proprio, e a risalire la
scala sociale. I catalani, nel complesso, erano meglio situati dal punto di vista
lavorativo, ma gli immigrati cambiavano occupazione con maggiore frequenza. Questa
situazione, secondo la stessa Carlota Solé, andava messa in rapporto con il livello
educativo e con la qualifica professionale, tradizionalmente elevati tra i locali di
qualsiasi classe sociale: attorno al 30% degli operai immigrati non avevano alcun titolo
di studio a fronte del 9% degli operai catalani84. Non vi è dubbio quindi che esistesse
per la maggioranza degli immigrati l’aspirazione a lavorare nelle grandi fabbriche di
Barcellona in quanto sinonimo sia di stabilità occupazionale, proprio per il carattere
fisso del tipo di contratto, sia di miglioramenti salariali, grazie alla possibilità di
svolgere ore straordinarie e di assecondare la richiesta di maggiore produttività. In
questo senso, stare in una grande impresa costituiva uno stimolo molto forte85.
Nell’ambito di una struttura occupazionale come quella di Barcellona in cui il mercato
del lavoro era molto segmentato e la piccola impresa era prevalente – secondo alcune
fonti, ancora nel 1979 le imprese industriali con meno di 250 lavoratori erano il 99,3%
del totale e occupavano il 75,5% dei lavoratori complessivi86 –, il lavoro nella grande
fabbrica, dove migliori erano le condizioni e i salari, rappresentava una meta ambita per
i salariati e costituì un potente fattore di mobilità verso l’alto tra i lavoratori immigrati,
83
E. Pinilla de las Heras, Estudios sobre cambio social y estructuras sociales en Cataluña, CIS, Madrid,
1979, pp. 64-65.
84
C. Solé, Los immigrantes en la sociedad y en la cultura catalanas, Península, Barcelona, 1982, p. 28.
85
J. Botey, Cinquanta-quatre relats d’immigració, Centres d’Estudis de L’Hospitalet de Llobregat,
Barcelona, 1986, pp. 131 ss. Vedi anche F. Candel, Inmigrantes y trabajadores, Planeta, Barcelona, 1972,
p. 130.
86
J.B. Cosas, L’empresa a Catalunya, in «Avui», 24 luglio 1979, p. 12, citato in E. Ucelay Da Cal, La
Catalunya populista. Imatge, cultura i política en l’etapa republicana (1931-1939), La Magrana,
Barcelona, 1982, p. 53.
25
benché esistessero considerevoli differenze di livello ancora molto forti rispetto ai
lavoratori di origine catalana87.
La domanda da farsi è in quale grado l’importanza della mobilità lavorativa nel
processo di “integrazione” sociale – come detto, con differenti elementi di
discriminazione riguardo agli immigrati – assicurò un’identificazione con la società
catalana. Senza dimenticare tuttavia che, se l’etnicità non risiede solamente nella
differenza, ma nella sua entità, certamente tra gli immigrati questo tipo di coscienza
poté dare diversi risultati, poté condurre al rafforzamento della loro identità originaria o
viceversa alla loro “catalanizzazione”88. E ancora come questa coscienza poté generare
l’adozione di identità divise, che in base a ciò che emerge dalla transizione politica
spagnola fino ad oggi sono state predominanti89.
Le figure sociali dell’immigrazione nel mercato del lavoro di Barcellona
La popolazione attiva immigrata alimentò una “considerevole riserva di
manodopera” e fece sì che la popolazione attiva preesistente sottolineasse la propria
differenza rispetto ai nuovi inurbati90. Inoltre, l’ingresso nel mercato del lavoro da parte
degli immigrati nel tipo di settori e di categorie che abbiamo descritto permette di
parlare dell’esistenza di una certa complementarietà tra la manodopera immigrata e
quella catalana. La prima non entrava in competizione per i posti di lavoro occupati
dalla popolazione locale e da quella immigrata da più tempo. Questo atteggiamento
rispondeva a una concezione duale del mercato del lavoro, per la quale esisteva un
segmento primario ricoperto dai lavoratori locali (lavori qualificati, remunerati o molto
ben remunerati e non manuali) e uno secondario destinato agli immigrati (poco
qualificato, meno remunerato e con mansioni più defatiganti). In questo modo, la
manodopera immigrata conobbe una promozione lavorativa solamente come
87
Così come ha dimostrato sulla base di uno studio relativo all’impresa meccanica Maquinista Terrestre i
Marítima S. García, La Maquinista Terrestre y Marítima. Característiques de la força de treball a
Barcelona, in «Revista Catalana de Geografia», n. 13, 1990, pp. 24-29. L’autrice realizzerà poi una
ricerca molto innovatrice incentrata sull’auto-organizzazione operaia a Barcellona prendendo in esame i
consumi collettivi e mettendoli in relazione con i trasferimenti di occupazione degli immigrati. S. García,
Urbanisation, working class organisation and political movement in Barcelona, tesi di dottorato, Hull
University, 1983. Una sintesi in Barcelona ens fa ciutadans, 1988, manoscritto depositato presso l’Arxiu
Històric de Comissions Obreres de Catalunya.
88
D. Comas, P. Grioles, M. Soronellas, Emigración, etnicidad y redes de parentesco en un barrio de
Tarragona, in J.J. Pujadas e J. Cucó, Identidades colectivas: etnicidad y sociabilidad en la Península
Ibérica, Generalitat Valenciana, València, 1990, p. 110.
89
S. Balfour e A. Quiroga, España reinventada. Nación e identidad desde la Transición, Península,
Barcelona, 2007, pp. 273-276.
90
J.M. Muntaner, Aspectes econòmics de la immigració, in «Qüestions de Vida Cristiana», n. 31, 1966,
pp. 79-90.
26
conseguenza dell’abbandono dei lavoratori locali dalle mansioni meno dequalificate
ogni volta che avveniva una riorganizzazione della produzione che garantisse a questi
ultimi una maggiore qualificazione nel settore industriale o il passaggio al terziario91.
Nel mercato del lavoro di Barcellona, tuttavia, potevano osservarsi fenomeni
non contemplati in questo schema polarizzato92. Oltre alla segmentazione legata al
genere, tra la manodopera immigrata poteva essere individuata anche sorta di gerarchia
sociale fissata, in origine, sulla base di una distinzione tra l’“immigrazione vecchia” e
l’“immigrazione nuova”. Di fatto, i primi potevano aver mostrato un rifiuto ancor
maggiore rispetto ai lavoratori catalani nei confronti degli immigrati recenti93. Poteva
inoltre verificarsi quello che è stato denominato come gerarchia delle qualifiche, nella
quale in maniera analoga ad altre situazioni, intervenne una combinazione di distinzioni
per anzianità e anche per luogo di origine degli immigrati94.
Rispetto a ciò, vale la pena sottolineare che la forma con cui gli immigranti
provenienti da determinati paesi e da alcune regioni si raggruppavano – grazie
all’“effetto chiamata” – in colonie concentrate in alcuni municipi catalani95, aveva
anch’essa a che vedere con il mondo del lavoro. In questo senso, appare corretta l’idea
che l’emigrante giungeva in città certo di avere un lavoro – come assicurava in quegli
stessi anni Joaquim Maluquer de Sostres nella sua analisi –, poiché questa dinamica
avveniva sulla base di vincoli di amicizia o familiari che preparavano l’arrivo
dell’emigrante. In questa maniera si stava parlando in realtà, senza utilizzare il termine,
delle reti sociali attivate dalle emigrazioni96.
A partire da questo sostrato si costruivano determinate “figure sociali”: i
galiziani tramvieri, i lavoratori qualificati castigliani e quelli andalusi “specialisti”
(semiqualificati) della Seat, i bancari aragonesi, i manovali dall’Andalusia o
dall’Estremadura. Tutti costoro corrispondevano a determinate realtà. Alcune
testimonianze relative alla fabbrica di vetro Celo di Sant Adrià del Besòs, ad esempio,
91
M.J. Piore, The Dual Labour Market: Theory amb Implications, in D.M. Gordon, Problems in Political
Economy, Hearth, Lexington, 1971.
92
Una critica a questa visione dicotomica sull’emigrazione in A. Zolberg, Contemporany Transnational
Migrations in Historial Pespective: Patterns and Dilemmas, in M.M. Kritz (ed.), U.S. Immigration and
Refugee Policy: Global and Domestic, Issues, Lexington Books, Lexington, 1983, pp. 36-37.
93
Per il quartiere Poble Nou di Barcellona vedi P. Negre, El obrero y la ciudad, Ariel, Barcelona, 1968,
p. 17.
94
J. Babiano, El vínculo del trabajo: los emigrantes españoles en la Francia de los treinta gloriosos, in
«Migraciones y Exilios», n. 2, 2001, p. 12.
95
A La Bisbal vi erano andalusi di Cuevas Bajas (Malaga); a Cambrils immigrati di Don Benito
(Estremadura); a Mataró di Cehegín (Murcia); a Cornudella, vicino Reus, di Jaén e Granada, giusto per
fare alcuni esempi desunti da F. Candel, Immigrantes y trabajadores, Planeta, Barcelona, 1972, p. 21.
96
Citato in F. Candel, Immigrantes y trabajadores, Planeta, Barcelona, 1972, p. 23.
27
riconoscevano che, dopo il lavoro nei campi al paesello, entravano in fabbrica e quando
il direttore domandava loro di dov’erano, verificavano che provenivano entrambi da
Alcanar (Baix Montsià). In seguito questo lavoratore si rendeva conto che in quella zona
c’erano molti suoi compaesani97.
Gli esempi più significativi circa la gerarchia sociale per luoghi di provenienza
all’interno del fenomeno migratorio è quello dei galiziani in Catalogna. Si trattava di un
gruppo fortemente endogamico, nel quale l’essere compaesani costituiva un vincolo
molto stretto utile per trovare casa e lavoro quando si arrivava dal paese di origine, in
quanto veniva a stabilirsi un sistema di compensazioni e di scambi di favori. Forse per
questo motivo, essi mostravano una tendenza molto forte a riunirsi tanto per luoghi di
residenza quanto per mestiere. Le pensioni galiziane in molte occasioni si associavano
ad alcuni mestieri come l’arrotino o il carpentiere, e allo stesso modo si parlava di bar
dei tassisti o dei conduttori dei tricicli e dei motocarro. Espressione di questo universo
furono i bar della zona di Correus a ridosso del porto della città. A margine della
sopravvivenza di mestieri tradizionali (l’arrotino è il più caratteristico e importante, ma
lo erano anche i mestieri ambulanti, “volanti”, quali il ciabattino, le caldarrostaie, ecc.),
una componente significativa dei lavoratori salariati galiziani si concentrava
principalmente nel settore alberghiero, nella piccola imprenditoria e nel trasporto
pubblico, oltre al lavoro autonomo, specie tra i tassisti98.
Lo scrittore Francesc Candel, che abitava nella Zona franca del porto della città,
assicurava che vi erano sempre più galiziani che compravano un taxi. Ma al tempo
stesso si interrogava se questo non fosse uno stereotipo analogo a quello che voleva la
maggioranza dei galiziani immigrati conducenti degli autobus di Barcellona99. Come
tutti gli stereotipi, quell’idea diffusa tra la popolazione di Barcellona conteneva un
fondo di verità: i galiziani in effetti erano ben rappresentati tra gli autisti degli autobus e
dei tram della città e ciò aveva molto a che fare, anche se non esclusivamente, con
l’azione di un prestigioso avvocato galiziano, Alfredo Casanova, domiciliato a
Barcellona, che divenne sindaco. Sembra che questo politico locale offrisse posti
nell’azienda tranviaria ai suoi compaesani, e che quando ciò non fosse possibile
assicurava loro un posto come autista, o a volte come fattorino sugli autobus o, ancora,
come portiere degli stabili della città. Anche tra i funzionari di dogana, soprattutto negli
97
M. Carreras, E. Ferrando, J. Villarroya, La immigració a Badalona durant el segle XX, Museo de
Badalona – Ajuntament de Badalona, Badalona, 2006, p. 199.
98
O. Sotelo Blanco, La emigración gallega en Catalunya, Sotelo Blanco, Barcelona, 1991, p. 136.
99
F. Candel, Immigrantes y trabajadores, Planeta, Barcelona, 1972, p. 33.
28
anni sessanta, gli immigrati galiziani potevano contare su alcuni “benefattori”, in questo
caso attraverso la figura di qualche ingegnere del porto o di qualche altro capo del
personale, tutti ovviamente loro compaesani. Olegario Sotelo Blanco, assicura che, in
misura minore, alla fine degli anni cinquanta, un galiziano relativamente importante era
in grado di garantire stabilità occupazionale alla Seat e un’abitazione, poiché la società
aveva costruito in quegli stessi anni gli alloggi per i suoi dipendenti nella Zona franca
del porto a ridosso della sua fabbrica100. È bene comunque fare i conti con i dati
quantitativi: a metà anni settanta gli immigrati galiziani alla Seat costituivano comunque
uno dei gruppi regionali più ridotti (1.776 unità e un 5,9% su un totale di quasi 31.000
lavoratori)101.
A proposito di questa grande impresa automobilistica, creata nel 1950 e di
proprietà dell’Instituto Nacional de Industria, lo stesso Candel faceva un altro
commento, anche se non in forma esplicita. Diceva lo scrittore che in una grande
impresa che non voleva nominare la maggioranza dei lavoratori erano di León, Toledo e
Ciudad Real, e questo perché – come abbiamo detto – capi e incaricati erano loro
compaesani castigliani102. Probabilmente, anche in questo caso l’autore di Els altres
catalans riporta una situazione reale, dal momento che i lavoratori castigliani della Seat
rappresentavano il 21,43% del totale103. Sulla base di alcuni elementi di cui disponiamo,
la presenza di lavoratori con questa origine sarebbe da mettere in relazione con
l’influenza di determinati personaggi dentro e fuori la Seat. In origine, colui che fu il
commissario capo della polizia di Barcellona tra gli anni cinquanta e sessanta, Pedro
Polo, ottenne che parecchia gente del suo paese natale, Santa Cruz de Moya entrasse
alle dipendenze dell’impresa. Segundo Montaña e i suoi fratelli originari di Vegadeo
(Lugo), ebbero una certa influenza e riuscirono a far assumere lavoratori di quella
provincia e delle zone asturiane confinanti104. Nonostante tutto ciò, furono tuttavia gli
andalusi con 10.554 lavoratori, pari al 35,05% del totale, a detenere la maggioranza alla
100
O. Sotelo Blanco, La emigración gallega en Catalunya, Sotelo Blanco, Barcelona, 1991, pp. 138 e
140.
101
F. Miguélez, SEAT. La empresa modelo del régimen. Lucha obrera y condición de fábrica, Dopesa,
Barcelona, 1977, pp. 29 e 36.
102
F. Candel, Immigrantes y trabajadores, Planeta, Barcelona, 1972, p. 38.
103
F. Miguélez, SEAT. La empresa modelo del régimen. Lucha obrera y condición de fábrica, Dopesa,
Barcelona, 1977, pp. 29 e 36.
104
Conversazione con Carlos Vallejo Calderón, lavoratore della Seat, 7 maggio 2008, Arxiu Històric de
Comissions Obreres de Catalunya.
29
Seat negli anni settanta, in gran parte come operai dequalificati impiegati alla catena di
montaggio105.
La concentrazione in certi settori e in determinate imprese di lavoratori
immigrati dagli stessi luoghi ci permette di riflettere su diverse questioni. Innanzitutto,
ci dice dell’esistenza durante gli anni del boom economico di forme di reclutamento
della manodopera immigrata organizzate dall’interno della Catalogna. L’esperienza
dell’immigrato Paco Montes lo confermerebbe quando fa riferimento ai modi attraverso
cui in molte occasioni i lavoratori immigrati giungevano ai municipi dei dintorni di
Barcellona106. Anni dopo nel 1984 anche il demografo Marc-Aureli Vila confermerà che
durante gli stessi anni del “miracolo economico”, impresari catalani e imprese non
catalane con sede in Catalogna si mettevano in contatto con lavoratori disoccupati o mal
pagati al fine di reclutare manodopera per il mercato del lavoro catalano107. Questo dato
contribuirebbe in qualche modo a relativizzare l’assunto per il quale esistevano flussi
non richiesti dalla Catalogna, ma esclusivamente lavoratori espulsi dalle aree
sottosviluppate del resto del paese, come è stato sostenuto in forma insistente da parte di
alcuni studiosi e politici108.
Gli esempi precedenti sulle forme dei legami di lavoro e degli stessi meccanismi
di reclutamento di manodopera pone, per concludere, anche l’importanza di studiare a
fondo il processo per il quale l’“emigrante” diviene “immigrante”109. Ciò significa
analizzare da dove proviene, chi era, che faceva prima, quali erano le sue forme di vita,
le sue pratiche precedenti, perché prende determinate decisioni e come le mette in
pratica, e semmai come si adatta e si integra110. Si tratterebbe pertanto di analizzare la
forte diversità dell’immigrazione da fuori della Catalogna facendo risaltare l’azione e la
105
F. Miguélez, SEAT. La empresa modelo del régimen. Lucha obrera y condición de fábrica, Dopesa,
Barcelona, 1977, pp. 29 e 36.
106
P. Montes Marmolejo, Memorias andaluzas, Laia, Barcelona, 1980, pp. 31-32.
107
È quanto viene affermato nel lavoro, peraltro figlio di una visione molto stereotipata e carica di
pregiudizi sul meridione di Spagna, di M.A. Vila, Les migracions i Catalunya, El Llamp, Barcelona,
1984, p. 81.
108
Tra i più significativi, J. Maluquer i Sostres, Població i societat a l’àrea catalana, Editorial A.C.,
Barcelona, 1965; J. Pujol, La immigració, problema i esperança de Catalunya, Nova Terra, Barcelona,
1976; Idem, Construir Catalunya, Pòrtic, Barcelona, 1979; Idem, Memòries. Història d’una convicció
(1930-1980), Proa, Barcelona, 2007, pp. 102-103.
109
P. Bourdieu, Meditaciones pascalianas, Anagrama, Barcelona, 1999.
110
Si tratta un approccio proposto dagli studiosi W. I. Thomas e F. Znaniecki, legati agli studi urbani
della scuola di Chicago, nelle loro ricerche pubblicate tra il 1918 e il 1920 sulle compagini rurali polacche
che emigrarono verso gli Stati Uniti, per le quali essi non fecero uso delle interviste, ma di materiali scritti
di tipo privato (lettere, autobiografie, ecc.) di questi emigranti. Vedi W. I. Thomas e F. Znaniecki, El
campesinado polaco en Europa y en América. Boletín Oficial del Estado y Centro de Investigaciones
Sociológicas, Madrid, 2004.
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direzione degli itinerari individuali111. Non vogliamo sostenere, come è ovvio, che la
totalità degli immigrati abbia utilizzato questi stessi mezzi e modalità per accedere al
mercato del lavoro112, però muovendo da questi casi si può svolgere qualche
considerazione rispetto all’importanza delle reti nella configurazione del sistema
migratorio per gli anni presi in esame113.
Come è noto, devono esistere dei fattori strutturali che potenzialmente rendano
possibile l’emigrazione – identificabili con l’espulsione dalle zone rurali, normalmente
le più depresse economicamente, e con l’attrazione esercitata da quelle urbane più
industrializzate –, tuttavia risultano del tutto necessari, a un livello differente, i
meccanismi che si stabiliscono tra le sue forme di mantenimento e le sue caratteristiche.
Una di queste è costituita dalle reti sociali, di parentela o di amicizia, implicite nei
movimenti migratori, che assolvono differenti funzioni poco conosciute e che però
giocano un ruolo nella loro formazione e nel loro supporto114. Esse collegano luogo di
origine e di arrivo con informazioni e vincoli, e conferiscono una natura sociale alle
cause di un movimento di popolazione che non rispondono esclusivamente a ragioni
economiche.
Traduzione dal catalano di Andrea Tappi
111
Studio pionieristico e riferimento obbligato è quello di A. Puig, De Pedro Martínez a Sabadell:
l’emigració, una realitat no exclusivament econòmica, 1920-1975, tesi di dottorato, Universitat
Autònoma de Barcelona, 1991.
112
Sulla loro importanza nelle “migrazioni da lavoro”, vedi A. Portes e J. Böröcz, Migración
contemporánea. Perspectivas teóricas sobre sus determinantes y sus modalidades de incorporación, in G.
Malgesini (comp.), Cruzando fronteras. Migraciones en el sistema mundial, Icaria – Fundación Hogar del
Empleado, Barcelona, 1998, p. 53.
113
Una ricerca esemplare in questo senso è quella di R. Abad, Las redes migratorias entre el origen y la
Ría de Bilbao a finales de siglo XIX: una aproximación metodològica, in «Revista de Demografía
Histórica», XX, I, seconda epoca, 2002, pp. 21-51.
114
G. Malgesini, Introducción, in G. Malgesini (comp.), Cruzando fronteras. Migraciones en el sistema
mundial, Icaria – Fundación Hogar del Empleado, Barcelona, 1998, pp. 11-40.
31