Print Current Page

Transcript

Print Current Page
Trainspotting, poco è cambiato
A colloquio con il regista inglese Danny Boyle che, a distanza di vent’anni è
ritornato a raccontare la vita spesso squallida dei suoi ragazzi scozzesi
/ 27.02.2017
di Blanche Greco
Entusiasta, allegro, eccitato come un bambino al luna park, Danny Boyle, che abbiamo incontrato a
Roma dove ha presentato Trainspotting 2 prima di volare al Festival di Berlino, non è cambiato,
malgrado gli anni, gli Oscar (ne ha ricevuti otto per The Millionaire, nel 2008), e qualche delusione.
Il primo Trainspotting, tratto dall’omonimo romanzo di Irvine Welsh, che catapultò Edimburgo e la
sua periferia, e quei quattro disgraziati tossici e sbandati, e lui stesso, sulla scena cinematografica
internazionale, era un film duro, graffiante, povero, ma la sceneggiatura era disseminata di ironia e
di un ingenuo candore che finiva sempre col riconciliarti con le follie di quei balordi senza speranza:
Mark Renton (Ewan McGregor), Sick Boy (Jonny Lee Miller), Spud (Ewen Bremner) e Begbie (Robert
Carlyle).
Se con Piccoli omicidi tra amici, la sua prima regia cinematografica, si era fatto conoscere, con
Trainspotting Danny Boyle diventò un regista di «culto» e il film ebbe un successo insperato. Adesso,
vent’anni dopo, come fece Dumas con i suoi quattro Moschettieri, Boyle con Trainspotting 2
(lanciato anche come TS2) torna a Edimburgo sulle tracce di Renton, quello che aveva colto al volo
l’unica opportunità per un futuro diverso e tradendo gli altri, era scappato con il «malloppo»
dell’unico colpo andato a segno. «Una opportunità è l’inizio di un tradimento» sentenzia oggi più
volte, Spud, commentando la concatenazione di eventi, quasi una reazione a catena, di espedienti,
bugie, animosità, affetto e violenza che s’innesca dal nuovo incontro dei vecchi amici.
«È una frase quasi filosofica, che ben descrive la realtà che lega il primo film al secondo, e
accomuna i quattro amici, ancora una volta, pronti a tradirsi l’un l’altro. Irvine Welsh l’aveva scritta
in Porno, il romanzo che è il seguito di Trainspotting, e al quale ci siamo ispirati, ma io ho voluto
enfatizzarla nel film» – ci ha raccontato Danny Boyle ridendo – «perché ben si adattava anche a noi,
che, di nuovo insieme dopo vent’anni per fare questo film, abbiamo dovuto venire a patti, proprio
come i protagonisti, con le occasioni e i tradimenti, che nel frattempo ci avevano diviso, e con le
“sanguinose offese” e i terribili anatemi che ci eravamo lanciati».
Emblematico fu il caso di The Beach, primo film americano di Danny Boyle, «l’occasione», per il
quale aveva dato a Ewan McGregor il ruolo di protagonista, salvo poi fare marcia indietro, all’ultimo
momento, quando lo Studio Hollywoodiano gli assegnò Di Caprio, già all’epoca una star.
Ma adesso tutto questo è passato, resta forse un po’ di nostalgia come in Trainspotting 2, dove i
ricordi però diventano il riscatto di Spud. «La nostalgia nel film c’è, ed è un sentimento difficile da
tenere a bada in certi momenti. Lo spettatore che ha visto il primo film, non può non pensare anche
a se stesso e a ciò che ha fatto in questi vent’anni guardando quel che è successo ai protagonisti», ci
spiega Boyle divertito, «tuttavia più che sul tempo che passa e sulla nostalgia, il mio film vuole
essere una riflessione sul maschio, sul suo modo di diventare uomo, che spesso, nel passaggio tra
l’adolescenza e l’età adulta, al contrario della donna, fa fatica a crescere e si perde. Forse perché è
tipico dei maschi restare testardamente abbarbicati al mito di una gioventù felice, spavalda,
“gloriosa” e irresponsabile, proprio come i miei protagonisti, sopravvissuti alle tante esperienze
dell’adolescenza, che non sono mai diventati veramente adulti. Così a Mark Renton non resta che
inventarsi i figli che non ha avuto, mentre gli altri tre, incapaci di fare i padri hanno lasciato alle
donne tutto il lavoro. Come al solito, perché le donne sono più brave degli uomini ad adeguarsi alle
diverse “stagioni” della vita».
Irrequieti, in cerca di rivalsa, incalzati dal ricordo di ciò che non hanno fatto, ma anche dalle proprie
necessità, i protagonisti di TS2 si muovono in una realtà che non esiste veramente, in una
Edimburgo a tratti bella come una cartolina, a tratti periferica e squallida, con case circondate da
strade dissestate e calcinacci. «Trainspotting era un film realistico, anche se il mio non è mai stato
un “realismo sociale” alla Ken Loach», puntualizza Boyle, «invece in questo film i miei personaggi
vivono in un mondo tutto loro, una sorta di “bolla” governata dalle loro pulsioni e dalle loro
personalità. Il primo film era più “politico”, basta ricordare il monologo “scegli la vita” di Renton,
dove con l’arroganza della gioventù si faceva beffe del “sistema”: quando lo recita di nuovo in TS2 è
un uomo di mezza età ed è lui stesso il bersaglio delle proprie ironie, e il tono è pieno di amarezza e
di rabbia, perché l’angoscia non lo fa dormire la notte. Questo è un film più intimo, che parla di noi
tutti».
In TS2 non mancano i giovani, quei figli ignorati dai padri, o quelle amanti troppo giovani, magari
dell’est in cerca di un destino migliore e Danny Boyle, che ha tre figli più che ventenni, conclude
confessandoci, serissimo, di aver pensato e lavorato a questo film per quasi dieci anni, eppure il
soggetto era un gruppo di cinquantenni, una realtà, per lui, sicuramente più facile di un discorso sui
giovani di oggi. «Quello che è capitato alla classe operaia intorno al 1980, in cui con la
robotizzazione dell’industria si cominciarono a perdere posti di lavoro, adesso sta succedendo alla
classe media. I posti di lavoro svaniscono e noi non sappiamo come aiutare i nostri giovani.
Loro, in compenso, hanno mezzi magnifici e scelte “alternative”, come dice anche Renton nel suo
monologo: “Cerchi qualcosa? Vai su Facebook. Ti senti solo? Vai su Facebook. Ti senti ancora solo?
Non sei solo, sei su Facebook!” Sono scelte facili, e false, che a lungo andare temo, tolgono ai
giovani ogni volontà, perché gli danno veramente poco. Ma, insomma, dobbiamo fidarci dei nostri
figli e attendere che trovino il modo, di farsi largo nella vita, da soli, artefici come noi, del proprio
destino».