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Cinema e realtà (televisiva)
FIABE CATODICHE: COME DIVENTARE MILIONARIO E VIVERE FELICE
La casalinga di Pavia che trionfa al telequiz di Canale 5 sembra il pendant dei ragazzi
pezzenti di Mumbai raccontati nel film di Danny Boyle “Slumdog Millionaire”,
premio Oscar 2009. La morale sottesa a tale fabula mediatica vorrebbe mostrarci che,
grazie ad un gioco tivù, sia una modesta, ma acculturata signora della provincia
lombarda, sia un indiano reietto, ma tenacissimo ce la possono fare a coronare i loro
sogni. Reality o irreality show?
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di Fabio Mercanti
Ha 300mila euro in tasca e ci sono molte persone che la stanno guardando. Le luci si accendono e
lei entra in scena a capo chino. Non è una ladra, non li ha rubati quei soldi. Se li è guadagnati stando
seduta su una sedia e rispondendo a delle domande. E soprattutto dando la risposta esatta.
Si chiama Michela De Paoli e fa la casalinga. Indossa una camicetta rossa, una giacca nera e dei
jeans. Ha un bel viso rotondo ed occhi socchiusi, delle sottili fessure con cui guardare il monitor. È
una persona timida, si vede, e non è fatta per stare davanti alle telecamere. Lassù, tra il pubblico, c’è
suo marito che la guarda e le fa i complimenti e lei rimane seria, sorride di tanto in tanto e ride solo
alle battute del presentatore. Ride alzando il mento in alto.
Michela De Paoli è una che ha fatto una tesi su Alfred Kubin, pittore espressionista boemo, che fece
parte del gruppo Blaue Reiter ed autore del romanzo visionario L’altra parte (1909). È anche una
che sa cosa sia l’aspidistra, anche perché ha letto il romanzo di Orwell Fiorirà l’aspidistra (1936).
Lettrice avida, come dice lei, fin da piccola: il suo hobby è l’apprendimento, legge di tutto e in tv
guarda le fiction di argomento storico. Al telespettatore medio quelle domande sembrano
appartenere ad un altro pianeta: “di cosa parliamo se diciamo Blaue Reiter?”. Una donna qualsiasi,
in fondo, una donna che è senza lavoro e che si occupa della casa. Una donna che si è sposata con
un uomo qualsiasi e che ora è lassù, tra il pubblico, e la guarda e piange di gioia. Lui ha i lineamenti
balcanici. Insieme sognano una crociera nei mari del Nord Europa.
Lo scopo del gioco lo sappiamo e conosciamo anche gli aiuti. Lei non ne ha usato nemmeno uno ed
ha solo una domanda davanti a sé. Questa:
“Secondo il libro della Genesi cosa fa Adamo dopo essere stato cacciato dal Paradiso terrestre?”
a) offre sacrifici a Dio
b) lavora la terra
c) si unisce a Eva
d) costruire una casa
Lei ci pensa e ci ripensa, chiede aiuto al pubblico e questo sembra sicuro nel dare la risposta b. Non
ci sta e chiede a casa, poi ne scarta due. Rimangono a e c. Se uno non la sa può ragionarci su e il
conduttore ti dà tutto il tempo, ma pensi che hai in mano un assegno che ti fa sicuramente comodo,
soprattutto se sei senza lavoro. Stai pensando di mollare tutto e tornartene a casa. Ma poi, non si sa
come, forse perché tenti il tutto per tutto e ti butti, o perché ti viene in mente che appena cacciato
Adamo dal paradiso, subito si racconta di Caino e Abele e in qualche modo dovranno pur essere
nati dato che l’uomo è stato maledetto e di creazioni divine non ce ne sono più. Suo marito, che sta
sempre al solito posto, saluta e ringrazia i suoceri per quella ragazza speciale, qualcosa che
sentiamo di rado nelle nostre giornate, ma lì siamo in tv e tutto può succedere. Proprio quando
sembra decisa di tornarsene a casa con i 300mila dà la risposta, quella definitiva, quella da
accendere.
Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino
Poche sere dopo è sempre la tv ad offrirci un’emozione simile, ma stavolta si tratta di finzione. Il
film lo conosciamo, è del 2008 e si intitola The Millionaire (o meglio Slumdog Millionaire), ha
incassato molto, e come sempre in questi casi se ne è parlato a lungo. “Un plot ridicolo” disse
Rushdie dalle pagine del Guardian, prendendosela sia con il pessimo adattamento cinematografico –
e in generale con molti adattamenti della storia del cinema – sia con la banalità e assurdità della
storia, di come questa è narrata e quindi con lo stesso romanzo di Vikas Swarup, “romanzo dalle
pretese ridicole”. Lo scrittore indiano – una delle firme più prestigiose dei nostri tempi – si è
certamente sentito chiamato in causa data l’ambientazione del film (a spasso per l’India) sia perché
i protagonisti sono dei giovanissimi orfani della baraccopoli di Mumbai, realtà che Rushdie certo
conosce. E proprio per questo ha voluto attaccare il film.
È impossibile, sostiene Rushdie, che quei ragazzi – il protagonista Jamal Malik e suo fratello Salim
– poco più che bambini e nelle loro condizioni, con un viaggio in treno finiscano al Taj Mahal nei
pressi di Agra, India settentrionale. È impossibile inoltre che riescano a farsi capire così facilmente
e che l’eroe del film possa parlare un inglese tanto fluente da poter partecipare al quiz televisivo
“Who wants to be a millionaire”. E poi altri dubbi; su come fanno a procurarsi una pistola e ad
usarla così disinvoltamente, a compiere fughe così rocambolesche…
Osservazioni giuste, ma sono tutte valide per la gran parte delle produzioni che il cinema
all’americana, anche quello che viene da un regista britannico, ci ha insegnato a guardare e col
quale siamo cresciuti. Danny Boyle, regista del film, ci aveva appassionati a scene di
fughe/inseguimenti a piedi per la città già dagli anni ’90 con Trainspotting (anche quel film veniva
da un libro), ma se allora erano dei giovani sbandati che fuggivano per le strade di Edimburgo dopo
un furto, ora abbiamo sicuramente personaggi più positivi: bambini che fuggono dopo le marachelle
oppure che scappano da fanatici religiosi armati o da profittatori e sfruttatori. Il tutto ambientato tra
le baracche di Mumbai. Sono bimbi svegli e riescono in maniera avventurosa a venire fuori dai guai
in cui si cacciano per la loro innocenza e ingenuità. Inteneriscono, commuovono e tifiamo per loro.
Come fanno con un viaggio in treno a finire al Taj Mahal? Con un escamotage: cadono dal treno e,
ruzzolando, si trovano quel “paradiso” davanti. Ma c’è da notare che hanno qualche anno in più,
non sono più dei bambini ma dei ragazzi, e con tutte le loro ambizioni. La narrativa e il cinema non
sono nuovi a queste trovate per spingere la narrazione avanti nel tempo lasciando dei vuoti nella
vita dei protagonisti.
Accanto al monumento funebre i due giovani, Jamal e suo fratello Salim, superano l’innocenza e
entrano nel regno del peccato. Piccoli furti e truffe ai danni dei turisti li fanno diventare dei giovani
malviventi che le provano tutte per sopravvivere. Come fanno a farsi capire? Come riescono a
parlare correttamente inglese con gli americani (quelli della vera America “che paga”)? A mio
avviso il punto non è come fanno, ma che possono averlo imparato. Anche se sono cresciuti negli
slums.
Boyle non si basa sul libro per farne un film realista sulla condizione delle baraccopoli in India,
altrimenti non ce l’avrebbe raccontata – né lui né Swarup – attraverso le domande di un quiz a
premi di creazione anglosassone e di diffusione internazionale. Quella storia è ciò che può venire
fuori da quelle baracche: la sincerità di chi “tende a rispondere” quando gli si fa una domanda (tanto
da confessare un omicidio), la voglia di vivere di chi non ha nulla, il desiderio di imparare, il
riscatto sociale conquistato con l’impegno e, soprattutto, l’amore. Un amore che dura una vita. Poi
però c’è l’altra faccia della medaglia: Salim e il riscatto sociale conquistato con una pistola, parole
grosse e violenza. Ma questa è destinata a morire in una vasca di soldi che non valgono nulla,
mentre l’altra permette di cancellare tutte le ferite del tempo con un solo bacio.
Un film americano, quindi, fino al midollo e Rushdie lo sa: “roba da pubblico western”. Ma un film
americano che sposta non solo l’ambientazione in India, ma lo stesso sogno: quello che permette a
chiunque di diventare presidente o almeno che può permettere di vincere 20 milioni di rupie. Ma a
Jamal quei soldi non importano molto, quello che conta è essersi fatto vedere, aver così ritrovato la
sua Latika e poter vivere insieme, perché di amore soltanto non si può vivere, è stata lei a dirglielo.
C’è tutta l’India delle baraccopoli a guardare il suo Jamal e tifare per lui, ad augurargli di riuscire:
perché “sta scritto”, perché quello è il suo destino, perché quello è il desiderio di miliardi di indiani
che sognano oltre che di vincere un quiz, almeno di parlare inglese correttamente, di guardare al
futuro e di affrontarlo con le proprie forze. Un successo che acquista ancora più valore (anche
cinematografico) se ottenuto grazie e nonostante le difficoltà e le insidie della vita.
Non bisogna credere però che nel film non ci siano elementi realistici: questi stanno nello scenario
che fa da sfondo alle vicende dei protagonisti. Ora possono essere gli scontri religiosi (in cui perde
la vita la madre dei due fratelli) ora la schiavitù dei bambini costretti a chiedere l’elemosina e a
subire vioenza. Ma c’è una presenza che è più viva che mai: Mumbai. “Là dove prima c’erano le
nostre baracche adesso ci sono uffici” fa notare Salim a suo fratello: intanto che loro crescono e che
fanno esperienze anche una nuova India sta crescendo. Questa è un’immagine suggestiva che,
forzando un po’ l’accostamento, ci riporta a La 25° ora, altro grande film del nostro secolo (2002).
Ma mentre nella scena di Boyle i due “slumdogs” guardano la loro Mumbai in evoluzione dall’alto
di un grattacielo in costruzione, in quello di Spike Lee un broker e un docente universitario stanno
sorseggiando una birra fresca in un lussuoso appartamento a Manhattan e laggiù, davanti a loro, si
stende il vuoto lasciato dal crollo delle Twin Towers.
La nostra modesta casalinga di Pavia non è certo diventata l’eroe di milioni di persone; il suo è stato
soltanto un gioco, ma ci dimostra che con umiltà e cultura si può arrivare a dei risultati senza
passare per altre vie, magari meno impegnative. Il nostro “pezzente milionario”, self-made man
indiano con un destino “scritto”, è come se ci chiedesse se dalla nostra parte di mondo siamo ancora
capaci di darci da fare per venire fuori dalle nostre difficoltà e di sognare come lui.