la vita fraterna - Frati Minori Rinnovati
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la vita fraterna - Frati Minori Rinnovati
LA VITA FRATERNA Su invito del servo generale vogliamo insieme, anche se molto brevemente, rivisitare le nostre scelte di vivere in fraternità. Nessuna novità speciale e rivoluzionaria: semplicemente riprendere alcuni valori che il tempo e la nostra debolezza hanno reso opachi. Li ritengo esperienze di tutti! Il vivere la fraternità coinvolge in modo pieno e diretto le due dimensioni della nostra realtà personale: quella naturaleumana e quella spirituale-soprannaturale. Eliminando una delle due si rende impossibile un’autentica e armonica vita fraterna. Questa consapevolezza ci fa capire con più realismo le difficoltà (a volte anche le guerre) nel vivere questo valore evangelico che Francesco ha assunto in modo radicale nella sua esperienza di vita, costituendolo parte integrale del suo carisma. “Voi siete tutti fratelli” – dice Gesù. E Francesco, secondo il suo stile, abbraccia “sine glossa” quest’ affermazione evangelica. Nella sua vita e in quella dei suoi frati tutto deve pienamente aderire – iniziando dalle stesse nomenclature comunitarie – a questo principio. Nella Fraternità di Francesco spariscono i termini “superiore, priore, padre, abate” ecc… e germinano quelli di “servo, ministro, custode, guardiano, fratello”, portando nella Chiesa medievale una ventata di Vangelo. Dopo otto secoli di storia francescana questa nomenclatura non ci stupisce affatto. Non solo, ma forse, proprio noi, ne siamo talmente assuefatti che non penetriamo più il loro valore altamente evangelico. Essere tutti fratelli: un dono e un impegno altissimo ciò che ci viene offerto e proposto. Per aggiungere questa meta siamo chiamati a far emergere tutto ciò che di meglio è presente nella nostra realtà umana e nella nostra relazione con Dio. È necessario diventare autentici uomini e cristiani in pienezza. Possiamo affermare che siamo arrivati a questo livello? Non manca proprio nulla alla nostra maturità umana e spirituale? Impariamo a guardarci spassionatamente! Addentriamoci nella vita fraterna. Quando il Signore ci chiama a libertà, il nostro cuore si riempie di entusiasmo e di gioia. Ciò si verifica anche quando siamo chiamati ad uscire dalle nostre solitudine per entrare a far parte di una fraternità. È festa e siamo pronti a gustare l’agnello pasquale, in partenza per la terra promessa (fraternità). Tutto sembra facile, bello, armonioso: i fratelli appaiono angeli, senza difetti… il cammino inizia nell’esultanza… ma, man mano che ci addentriamo in esso incominciano a spuntare le difficoltà. Non avevamo prestato sufficiente attenzione al menù della cena pasquale: in esso erano previsti anche pane azimo ed “erbe amare”. Queste “erbe amare” spuntano anche nel menù della vita religiosa. Siamo chiamati ad integrarci con persone, personalità, situazioni che non solo non avremmo mai scelto, ma al contrario avremmo volentieri escluso della nostra vita, dalle nostre relazioni… A questo punto siamo chiamati a far entrare in campo la vita ascetica (le erbe amare). L’ascesi – attraverso esercizi di rinuncia, di astinenza, di abnegazione – ci libera progressivamente del nostro istinto primario e dai condizionamenti esterni aumentando in noi la disponibilità a compiere la volontà del Padre. Ciò ci abilità a vivere con concretezza la nostra vita quotidiana con quei specifici fratelli che il Padre ha chiamato e ci ha messo accanto. Quando la Parola di Dio ci narra le vicende del peccato di origine vuol rivelarci quanto è malato e complicato il cuore dell’uomo. Siamo costretti a rilevare le profonde debolezze del nostro essere. L’essere umano che rompe il suo rapporto con Dio sprofonda in una tragica debolezza e questo vale per ciascuno di noi; da qui la difficoltà a vivere un’autentica relazione fraterna. Come è possibile una elazione fraterna fra persone tanto pasticciate? Evangelicamente c’è una via: l’umiltà. L’umiltà mi porta primariamente a riconoscere la verità su me stesso: non posso vantare nulla più degli altri e come conseguenza mi sentirò chiamato a mettermi-sotto gli altri (sottomettermi), stare sotto per sostenerli, per diventare supporto che permette ad entrambi di stare in piedi. Il passaggio dell’umiltà all’accettazione è consequenziale. Devo imparare ad accettare le varie situazioni difficili e storte che nascono della debolezza del fratello. Solo così potrò ritrovare quella pace interiore che mi apre nuovamente all’amore dell’altro che mi sta di fronte, anche se scomodo. Mi apre, però, in un modo diverso, scevro da passioni per cui la stessa diversità diventerà una risposta per continuare il cammino verso la vera fraternità: è la porta stretta attraverso la quale il Vangelo ci invita a passare. Come è possibile entrare in una simile ottica? Solo quando sono convinto e credo fermamente che fondamento della fraternità è il Padre. È da Lui che siamo consacrati fratelli in Cristo, il Primogenito. È la fede che ci permette di vedere l’altro che vive con noi come un’opportunità per crescere, per migliorare, per raggiungere quella pienezza proposta dal Padre. Il fratello diverso e meno congeniale, accolto con misericordia come dono del Padre, diventerà l’occasione di una più vera e autentica conversione. Ricevere questo dono delle mani del Padre e disporsi, sull’esempio di Cristo a lavargli i piedi, è il cammino della Croce; unico cammino che permette di realizzare una fraternità autenticamente cristiana che ha le forze di integrare fratelli tanto diversi. Infatti, il Signore sceglie, secondo un suo criterio, per lo più tanto diverso dal nostro chi ci deve stare accanto – “Io ho scelto voi”. Le certezze e la consapevolezza di essere stati scelti del Signore per “stare” tra noi ci abilita alla determinazione di rimanere anche in quelle relazioni che momentaneamente non hanno nulla di piacevole e gratificante. La scelta di Dio diventa la nostra scelta, una scelta libera quotidianamente rinnovata basata essenzialmente sulla certezza che Dio è fedele e porterà a compimento il suo progetto di salvezza. Fare una simile scelta non è indolore e spontaneo. Nel nostro cuore vivono e si agitano le passioni. È negativo reprimerle o eliminarle; significa condannarsi a una esistenza mediocre senza orizzonti e senza avvenire. Il compio è educare le passioni. Compito alle volte ingrato e faticoso. Innanzitutto vanno identificati i movimenti e gli impulsi che esse attivano, diversamente non saranno mai evangelizzabili. Allora questa consapevolezza e coscienza delle specifiche passioni che si agitano in noi vanno sottoposte all’intelligenza affinché siano illuminate e ordinate. In questo processo diventa indispensabile una virtù che allo stesso tempo è un dono che viene dall’alto: il dominio di sé. Sarà proprio questa qualità che conduce la persona a raggiungere la pace interiore e nella pace la relazione con l’altro diventa positiva. La calma emotiva è fonte di relazioni interpersonali pacifiche. Armonizzare le spinte passionali apre la strada alla pace, all’amore, alla serenità, alla felicità… Si diventa finalmente liberi di amare. Amare chi? Tutti ovviamente, anche i nemici! Il Vangelo è perentorio: “Amate i vostri nemici”. Una valutazione estrema e un po’ frettolosa potrebbe portare a pensare che nella vita religiosa non si possa parlare di nemici. In realtà evangelicamente il nemico è chi rende fragile l’integrità spirituale e affettiva e con il quale ho spesso difficoltà relazionali che rallentano la corsa comune verso la comunione. Il mio compito sarà quello di discernere l’origine della perdita di pace interiore e inoltre cercare soluzioni di purificazione riequilibrando la relazione. Ovviamente l’obiettivo che ci si pone non può essere cambiare il fratello che mi considera nemico, ma vivere la relazione in un’ottica diversa da quella dello scontro diretto è amaro. Se siamo oggettivi ci rendiamo conto che spesso le tensioni nei confronti di un fratello nascono da banalità. È indispensabile imparare a considerare ed accogliere l’altro come colui che con i suoi limiti apre le nostre zone d’ombra offrendoci l’opportunità di lavorare sugli spazi ancora selvaggi della nostra vita interiore. Il perseverare nella relazione col fratello difficile (o nemico) per integrarmi con lui arricchirà notevolmente la mia vita interiore e mi condurrà ad un amore concreto: riuscirò ad amare come ama Gesù, come Lui ci ha amati. Quando, invece, lasciamo libero sfogo all’odio, alla discordia, alla gelosia, all’arrabbiatura, ai litigi, all’invidia…. Frantumiamo la fraternità. Siamo, per tanto, impegnati ad orientare decisamente il nostro cuore all’accoglienza, alla misericordia, al dialogo… affinché in noi prendano campo i frutti dello Spirito: amore, pace, gioia, dominio di sé, bontà, mitezza… solo così “guadagneremo” il fratello e potremo finalmente dar vita ad una fraternità che si qualifichi genuinamente evangelica. Tutto quello che abbiamo evidenziato diventa possibile solo dal momento in cui, secondo l’insegnamento evangelico, siamo pronti a lasciare tutto per seguire il Signore. Lasciare tuto. Belle parole! Ideale altissimo… ma tutto è tutto. E chi ce la fa? Probabilmente siamo partiti tutti con grande slancio emotivo, commettendo magari anche qualche imprudenza, ma, poi… cammin facendo ci si trova a riprendere qualcosa e un po’ alla volta anche più di qualcosa. Per seguire il Signore è necessario perdere la vita: solo chi la perde, la salva… La vocazione cristiana è vocazione al martirio (Francesco); il martirio, tuttavia, non si realizza esclusivamente con lo spargimento di sangue. Ci sono forme di martirio meno appariscenti, ma nonostante questo non meno genuine e autentiche. Nella vita religiosa la forma ordinaria del martirio che siamo chiamati a vivere è quello del dono e dell’abbandono. La vita religiosa, nella tradizione, è sempre stata tradotta in termini di dono totale dell’essere a Dio nel servizio dei fratelli. Diventare in ogni situazione, sempre dono puro: com’è difficile! Unicamente abbandonandosi totalmente all’agire di Dio, bandendo ogni riserva e gusto personale, c’è concesso di gustare il martirio: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me”! Abbiamo considerato la vita religiosa sotto un’angolatura che ha evidenziato alcune difficoltà che vanno prese in considerazione, affrontate e vissute nel cammino che permette di realizzare una fraternità evangelica. Le abbiamo denominate “erbe amare” e sicuramente qualche volta sono anche un po’ indigeste. Rivolgendoci al Signore, che possiamo considerare nostro medico e dietologo, ci sentiamo proporre dei rimedi per addolcire un po’ le situazioni e renderle vantaggiose per la nostra vita. Ne consideriamo brevemente due: la correzione fraterna e l’umiltà. Francesco, fedele esecutore del Vangelo, le ha fatte sue, le ha vissute e ce le ha trasmesse. La correzione fraterna è certamente un rimedio nell’affrontare e risolvere i problemi relazionali ma utilizzata con delicatezza e sensibilità particolari perché le relazioni presentano sempre una forte complessità. Ci dobbiamo avvicinare al fratello in punta di piedi affinché il contatto risulti quasi uno sfiorarlo delicatamente. Se incautamente scateno la sua suscettibilità otterrà sicuramente effetto negativo. Qui naturalmente mi riferisco a quando ci sentiamo spinti a vivere la correzione fraterna in senso attivo. Ma è soprattutto importante sapere come dobbiamo porci quando siamo chiamati a viverle in forma passiva, cioè quando sono gli altri che si sentono in dovere di correggerci. Il risvolto è completamente diverso: direi che questa è la verifica della nostra capacità di rivestirci del Vangelo e meglio di Cristo stesso. Dobbiamo coltivare la convinzione che tutto e grazia, dono di Dio. Tutto, proprio tutto. Anche quando Dio ci raggiunge mediante una correzione, o un’accusa, o un rimprovero (tutto concorre al bene…)… Dio ci propone una crescita, un miglioramento: è un bene per noi. Una correzione oggettivamente giusta ci offre un’immagine più realistica di noi stessi, ci sollecita a rimetterci in careggiata impegnandoci a riparare il male commesso che abbiamo potuto riconoscere. Ma il vantaggio lo troviamo anche quando la correzione, il rimprovero, l’accusa fossero ingiuste. Se in simili situazioni abbiamo il coraggio di portare in santa pace il peso che ne deriva ci avviciniamo sempre di più a Cristo nostro Signore, ci immedesimiamo il Lui accusato e condannato benché “santo, innocente e senza macchia”. Che cosa c’è di più sublime e desiderabile per il cristiano, ancor più per il religioso che essere icone di Cristo? È la grazia suprema che il Padre vuole fare a tutti, per questo a volte ci aiuta permettendo quelle situazioni che noi tanto temiamo e rifuggiamo. L’altro rimedio che prendiamo in considerazione è l’umiltà: sapersi mettere al di sotto di tutti. La verità di fondo è che noi siamo peccatori e che non facciamo tesoro delle innumerevoli grazie che il Signore mette a nostra disposizione per crescere nel bene e servire convenientemente i fratelli (“Se il Signore avesse dato…”). L’umiltà ci porta ad accettare che gli altri hanno dei diritti nei nostri confronti e che andrebbero serviti come dei padroni. L’umiltà ci stimola anche a riconoscere facilmente il nostro essere, i nostri sbagli, offrendoci la volontà di correggerci. La forza dell’amore, della consapevolezza dell’errore fa sgorgare un profondo dolore d’essere venuti meno alle aspettative divine e ci concederà la libertà di confessare sinceramene le nostre colpe e risveglierà in noi la generosità di dare soddisfazione con opere concrete.