RASSEGNA STAMPA

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RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
martedì 29 settembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
INFORMAZIONE
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VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Radio articolo 1 e Radio popolare Roma del 29/09/15
Elleesse –
Diritti civili, "lei disse sì" ma il governo
ancora no.
Intervengono F. Chiavacci, presidente Arci; M. Pecchioli, regista, e L. Soldani, attivista
http://www.radioarticolo1.it/audio/2015/09/29/25625/diritti-civili-lei-disse-si-ma-il-governoancora-no-con-f-chiavacci-m-pecchioli-e-l-soldani
Da Agi del 29/09/15
Taccuino settimanale
Roma: proiezione del film "Lei disse si'", un documentario che porta sullo schermo la vita
di una coppia di donne italiane che decidono di sposarsi in Svezia perche' non possono
farlo nel proprio paese. Presenti la presidente nazionale dell'Arci Francesca Chiavacci, la
regista Maria Pecchioli e le protagoniste Lorenza Soldani e Ingrid Lamminpaa (Camera
dei Deputati, Aula dei gruppi, via Campo Marzio 74 - ore 18,00)
(AGI)
Del 29/09/2015, pag. 13
Ius soli, ci vorrà un soggiorno lungo per la
cittadinanza
Soltanto un compromesso nella maggioranza: non basterà che il
genitore sia in Italia da 5 anni
Ilario Lombardo
«E’ vero, è un compromesso» risponde Marilena Fabbri, Pd, relatrice del disegno di legge
sullo ius soli. Celeste Costantino di Sel dice di più, parla di «compromesso al ribasso».
«Certo, per noi di sinistra, lo è – continua Fabbri – Ma le leggi non si fanno da soli,
soprattutto con una maggioranza così diversa. Sta di fatto che alla fine ci saranno persone
che questo diritto potranno rivendicarlo».
Ieri alla Camera è iniziata la discussione in aula sul ddl che introduce lo ius soli in forma
temperata. Cittadinanza agli stranieri e unioni civili sono la dote che Matteo Renzi deve
portare alla parte di sinistra dell’elettorato. Il Pd spera di incassare l’ok della Camera entro
ottobre, prima che dal Senato arrivi la legge di Stabilità. Il tempo c’è e le posizioni sono
abbastanza chiare. Contrarissima la Lega Nord, contraria, ma senza troppa convinzione,
Forza Italia. Tutti gli altri dovrebbero votare a favore dello ius soli. Con qualche distinguo.
Questa mattina Sel sarà accanto alle 24 associazioni (tra le quali Libera, Acli, Arci,
Caritas, Cgil) promotrici della campagna “L’Italia sono anch’io” che nel 2013 ha portato a
due proposte di legge di iniziativa popolare: «Un testo di riforma della cittadinanza molto
meno restrittivo di quello ora in discussione» spiega il vicepresidente Arci Filippo Miraglia.
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Il provvedimento all’esame prevede una versione soft dello ius soli. Ma mentre nella
formulazione precedente bastava che i genitori di bambini nati in Italia avessero la
residenza legale da almeno 5 anni, l’ultima declinazione del testo ha accolto emendamenti
di Ncd e Sc che vincolano la cittadinanza al possesso, da parte del padre o della madre,
del permesso di soggiorno di lunga durata. Il che comporta una serie di requisiti più
stringenti: alloggio idoneo, reddito minimo e adeguata conoscenza della lingua italiana. La
platea si riduce, com’è ovvio: «Ma abbiamo preferito tener conto del radicamento della
famiglia» dice Fabbri. Anche il contesto, spiega, ha avuto il suo peso, e visto l’esodo di
migranti in corso «non si è voluto prestare il fianco alle strumentalizzazioni».
Secondo “Italia sono anch’io”, che proponeva come condizione la residenza di un anno, gli
standard abitativi ed economici richiesti «potrebbero invece portare all’esclusione di molti
bambini». Reddito minimo vuol dire di base 450 euro circa, una cifra che aumenta a
seconda del numero dei figli. La legge richiede poi che tali requisiti siano validi al momento
della nascita del bambino, non dopo. Per chi invece è nato in Italia da genitori non in
possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo, varrà lo ius culturae, introdotto
per chi arriva in Italia entro il dodicesimo anno di età. In questo caso servirà un intero ciclo
scolastico. La novità è che non basterà la sola frequenza, ma almeno il «superamento con
successo» della scuola primaria.
Da Tiscali news del 29/09/15
Cittadinanza, via al confronto in aula sulla
nuova legge. Le associazioni: "Compromesso
al ribasso"
Arriva oggi alla Camera il testo della nuova legge sulla cittadinanza
approvato dalla Commissione Affari costituzionali dopo l’accordo tra il
Pd e il Nuovo centrodestra
di G.M.B.
Cittadinanza, via al confronto in aula sulla nuova legge. Le associazioni: “Compromesso al
ribasso”. Arriva oggi nell’aula della Camera il testo della nuova legge sulla cittadinanza
approvato dalla Commissione Affari costituzionali dopo l’accordo tra il Pd e il Nuovo
centrodestra. Sarà battaglia su un compromesso giudicato dalle associazioni “al ribasso” e
complessivamente molto deludente rispetto alle aspettative. Soddisfatti, invece, la
relatrice, Marilena Fabbri, del Partito democratico, e anche il deputato del Pd Khalid
Chaouki che ha sottolineato come una riforma di questa importanza andasse “condivisa
col il numero più ampio di forze politiche”. In effetti il lavoro di mediazione è stato molto
complesso. Basti pensare che dall’inizio della legislatura in tema di cittadinanza sono state
presentate oltre trenta proposte di legge, una delle quali di iniziativa popolare.
Il punto più controverso è ancora una volta lo ius soli. Che nel testo della commissione è
stato ulteriormente attenuato rispetto all’ipotesi originariamente prospettata dalla relatrice
dove si chiedeva che i genitori stranieri del bambino nato in Italia avessero la residenza
legale da cinque anni. Il nuovo testo (che è il frutto di un emendamento presentato da
Dorina Bianchi, del Nuovo centrodestra) richiede invece il possesso del “permesso di
soggiorno Ce per lungo soggiornanti”. Si tratta del permesso (a tempo indeterminato) che
può essere richiesto solo dopo aver avuto a almeno cinque anni il permesso di soggiorno.
La nuova normativa regolamenta anche la situazione dei bambini nati in Italia da genitori
stranieri privi di permesso di soggiorno di lungo periodo o che arrivano in Italia prima di
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aver compiuto 12 anni. Per loro si chiede il superamento della scuola primaria e la
legalizzazione della residenza dei genitori. E’ il principio dello ius culturae.
L’introduzione del requisito del permesso di soggiorno “lungo” è stata subito duramente
contestata dalle associazioni che giudicavano già eccessivamente restrittivo quello della
residenza legale per cinque anni. Uno degli emendamenti inviati alla commissione Affari
costituzionali dalla campagna “L’Italia sono anch’io” (che ha raccolto 200mila firme attorno
alla proposta di legge di iniziativa popolare) chiedeva che la “residenza legale senza
interruzioni”, fosse sostituita col soggiorno legale. Invece è arrivato l’accordo sul permesso
di soggiorno lungo.
Per ottenerlo – fanno notare le associazioni - è anche necessario avere, oltre ai cinque
anni di residenza regolare, anche un reddito minimo non inferiore all'importo annuo
dell'assegno sociale. Ed è questo il punto più debole dell’accordo. Infatti in questo modo si
introduce un legame tra l’acquisizione della cittadinanza e il censo. In sostanza, come ha
fatto notare l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), si escludono i figli
degli stranieri che – pur essendo regolari – attraversano difficoltà economiche.
Resta aperta una questione fondamentale, quella della retroattività. Si deve infatti ancora
decidere se il provvedimento varrà dal momento in cui entrerà in vigore o se riguarderà
anche quanti sono arrivati in passato e hanno i requisiti.
Da il Journal del 28/09/15
Che cos’è lo ‘ius soli’ ?
La legge che concede la cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia o
all’estero domani sarà all’esame della Camera.
Sono trascorsi due anni da quando, nel lontano 6 marzo 2012, alla Camera venivano
consegnate circa 200. 000 firme, per ottenere una proposta di legge di iniziativa popolare
sulla cittadinanza dei figli degli stranieri nati in Italia o all’estero. Le associazioni promotrici
di questa iniziativa erano l’ Arci, la Caritas, Libera, la Cgil, etc.. tutte unite sotto il nome di
“L’Italia sono anch’io”.
E domani, 29 settembre, alla Camera avrà luogo una discussione parlamentare su una
nuova legge sulla cittadinanza, che contiene però modifiche importanti, rispetto alla
versione precedente, approvata dalla Commissione Affari Costituzionali a inizio agosto.
Compromessi sostanziali, che il Partito Democratico ha raggiunto per venire incontro alle
richieste del Nuovo Centrodestra.
Ius soli temperato: la versione di agosto riconosceva la cittadinanza italiana “a chi è nato
nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia residente
legalmente in Italia, senza interruzioni, da almeno 5 anni, antecedenti alla nascita” e a chi
“è nato in Italia e ivi risieda legalmente, senza interruzioni, da almeno un anno,
antecedente alla nascita del figlio”.
Nella legge che sarà dibattuta domani alla Camera invece, il vincolo non è più la residenza
legale, bensì il lavoro e i documenti. Per assicurare la cittadinanza ai propri figli, i genitori
devono avere il permesso di soggiorno a tempo indeterminato oppure devono aver fatto la
richiesta prima della nascita del figlio.
Ma il fatto è che, coloro che possiedono il permesso di soggiorno indeterminato hanno un
permesso di soggiorno da almeno 5 anni. E la famiglia deve dimostrare di avere un reddito
minimo non inferiore rispetto all’assegno sociale annuo.
Ius culturae: Quanto ai criteri ‘scolastici’, la nuova legge diventa ancora più dura. I giovani
che sono entrati in Italia e non hanno compiuto ancora 13 anni, potranno ottenere la
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cittadinanza, se avranno frequentato in modo regolare per almeno 5 anni, gli istituti
scolastici nazionali. Così come era scritto anche nella versione di agosto.
Ma nella nuova veste, la legge impone ai giovani una conditio essenziale: niente
bocciatura nel ciclo delle scuole primarie, pena la proroga della cittadinanza.
Retroattività della legge: un’altra questione che resta in sospeso, che dovrà essere chiarita
domani in Aula e che vede già i commenti contrari di molte associazioni, è capire chi avrà
diritto alla cittadinanza. Coloro che sono nati e abitano in Italia già da molti anni e che
magari oggi hanno già compiuto la maggiore età o solo coloro che entreranno nel
Belpaese, a partire dall’entrata in vigore della legge?
Reddito e rendimento scolastico sembrano essere quindi le condizioni essenziali per il
raggiungimento della cittadinanza. Criteri forse troppo penalizzanti, dicono i membri di
“L’Italia sono anch’io”, imperniati come sono sullo status economico degli stranieri che
vivono in Italia, spesso estremamente precario.
http://iljournal.today/cronache/che-cose-lo-ius-soli/
del 29/09/15, pag. 1/3
La nostra tribù, mai una corrente
La storia di Pietro. L’ascolto degli altri e l’idea della politica come
partecipazione, due caposaldi dell’ingraismo che valgono assai più di
ogni ortodossia. Perché restano una buona bussola per un nuovo
impegno
Luciana Castellina
Quando chi viene a mancare ha più di cent’anni all’evento si è preparati, e dunque il
dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, perché proprio la loro lunga vita ci ha
finito per abituare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eternità. Pietro
Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tantissimi di noi che è difficile
persino pensare alla sua morte senza pensare alla propria. (E sono certa non solo per
quelli di noi già quasi altrettanto vecchi).
Così, quando domenica mi ha raggiunto la telefonata di Chiara e io ero a sedere al sole in
un caffè delle Ramblas a Barcellona dove, essendo di passaggio per la Spagna, mi ero
fermata per aspettare i risultati elettorali della Catalogna, il suo tristissimo annuncio è stato
quasi una fucilata. Perché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse asportato un
pezzo del mio stesso corpo.
Così, io credo, è stato per tutta la larghissima tribù chiamata «gli ingraiani», qualcosa che
non è stata mai una corrente nel senso stretto della parola perché la nostra introiettata
ortodossia non ci avrebbe neppure consentito di immaginare tale la nostra rete.
E però siamo stati forse di più: un modo di intendere la politica, e dunque la vita, al di là
della specificità delle analisi e dei programmi che sostenevamo. Sicché sin dall’inizio degli
anni ’60 e fino ad oggi, gli ingraiani sono in qualche modo distinguibili, sebbene le loro
scelte individuali siano andate col tempo divergendo, dentro e fuori del Manifesto; e poi
dentro e fuori le successive labili reincarnazioni del Pci. Oggi poi — dentro una sinistra che
fatica a riconoscere i propri stessi connotati e nessuno si sente a casa propria dove sta
perché vorrebbe la sua stessa casa diversa da come è –questo tratto storico
dell’ingraismo direi che pesa in ciascuno anche di più.
Vorrei che non si perdesse, perché al di là delle scelte diverse cui ha condotto ciascuno di
noi, è un patrimonio prezioso e utile anche oggi.
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Di quale sia stato il nucleo forte del pensiero di Pietro Ingrao, ho già parlato, io e altri, tante
volte, e ancora nell’inserto che il manifesto ha dedicato ai suoi cent’anni, riproposto on line
proprio ieri. Vorrei che quelle sue analisi e linee programmatiche che purtroppo il Pci non
fece proprie, non venisse annegato, come è accaduto per Enrico Berlinguer, nella retorica
riduttiva e stravolgente dell’ “era tanto buono, bravo onesto, ci dà coraggio e passione”.
Oggi, comunque, di Pietro vorrei affidare alla memoria soprattutto due cose, che poi sono
in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della politica come, innanzitutto,
partecipazione e perciò soggettività delle masse.
Quando incontrava qualcuno, o anche nelle riunioni e persino nel dialogo con un
compagno ai margini di un comizio, era sempre lui che per primo chiedeva: “ma tu cosa
pensi?” ;“come giudichi quel fatto?”; “cosa proporresti?”. Non era un vezzo, voleva proprio
saperlo e poi stava a sentire. Perché il suo modo di essere dirigente stava nel cercare di
interpretare il sentire dei compagni. Anche di portare le loro idee a un più alto livello di
analisi e proposta, certamente, ma sempre a partire da loro, per arrivare, assieme a loro, e
non da solo, a una conclusione, a una scelta.
Per questo quel che per lui contava, quello che a suo parere qualificava la democrazia e la
qualità di un partito, era la partecipazione, la capacità di stimolare il protagonismo, la
soggettività delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teoria né prassi significativa.
Non voglio esplicitare paragoni con l’oggi, sarebbe impietoso.
Rossana, rispondendo ad un’intervista di La Repubblica, ieri ha detto di Pietro, anche della
sua reticenza nell’assumere posizioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur
“ingraiani doc”, operammo la rottura della pubblicazione della rivista Il manifesto. E poi
ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiutava lo
scioglimento del partito proposto dalla maggioranza occhettiana, pur riconoscendosi nella
relazione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da compiere: fra
chi decise di uscire e dette vita a Rifondazione, e chi — come Pietro — decise invece che
sarebbe comunque restato nell’organizzazione, il Pds, che, già malaticcio, veniva alla luce.
“Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rimasta scolpita nella testa di tutti
noi. Certo, è vero: se Pietro si fosse unito alla costruzione di un nuovo soggetto politico
sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifondazione comunista più ricca e davvero
rifondativa, per via del suo personale apporto ma anche di quella larga area di quadri
ingraiani che costituiva ancora un pezzo vivo del Pci e sarebbero stati preziosi alla nuova
impresa; e invece restarono invischiati e di malavoglia nel lento deperire degli organismi
che seguirono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.
Pietro però capì subito che stare in quel contesto non era più “stare nel gorgo”, perché il
gorgo, sebbene assai indebolito, scorreva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si
impegnò nei movimenti che generazioni più giovani avevano avviato. E da questi fu
ascoltato.
La storia come sappiamo non si fa con i se. Ma riflettere su quel passaggio storico, per
ragionare sugli errori compiuti, da chi e perché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti
noi, sta cercando di costruire un nuovo soggetto politico.
Per farlo nascere bene mi sembra comunque essenziale portarsi dietro l’insegnamento
fondamentale di Pietro, che non è inficiato dal non avere, qualche volta, tentato
abbastanza : che non c’è partito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a
diventare una forza in grado di sollecitare la soggettività popolare, perché questa è più
preziosa di ogni ortodossia.
Ma vorrei che di Pietro ci portassimo dietro anche l’ottimismo della volontà.
Era lui che amava citare la famosa parabola di Brecht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri
trasse poi il titolo del suo libro sul comunismo italiano). Come ricorderete, il sarto insisteva
che l’uomo avrebbe potuto volare, finché, stufo, il vescovo principe di Ulm gli disse “prova”
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e questi si gettò dal campanile con le fragili ali che si era costruito. E naturalmente si
sfracellò. Brecht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Perché alla fine
l’uomo ha volato. E’ la parabola del comunismo: fino ad ora chi ha provato a realizzarlo su
terra si è sfracellato, ma alla fine, come è accaduto con l’aviazione, ci riusciremo.
E’ questo l’impegno che nel momento della scomparsa del nostro prezioso compagno
Pietro Ingrao vorrei prendessimo: di provarci.
Da il Tirreno.it del 28/09/15
Danneggiata nella notte la sede dell'Arci in
via Terreni
La denuncia su Facebook del presidente dell'associazione, Marco
Solimano: "La porta è stata forzata e i locali sono stati messi a
soqquadro, ma questi gesti intimidatori non riusciranno a fermarci"
LIVORNO. “Non saranno certo una porta scassinata e qualche seggiola rovesciata a
fermarci”. Con queste parole, sul proprio profilo Facebook, Marco Solimano ha dato notizia
dei danneggiamenti avvenuti presumibilmente durante la notte tra domenica 27 e lunedì
28 settembre alla sede dell’Arci Livorno in via Terreni.
Lo stesso presidente dell’associazione racconta quella che definisce “un’amara sorpresa”:
“La porta di ingresso – spiega Solimano – è stata forzata. I locali sono stati messi a
soqquadro, con la spazzatura e i vestiti sparsi ovunque”. La particolarità, come sottolinea il
presidente dell’Arci, è che dalla sede non è stato rubato niente. Per questo il gesto si
caratterizza come un vero e proprio atto di vandalismo.
“In quei locali – si rammarica Solimano – si svolgono quotidianamente i corsi di scuola di
italiano per profughi. Il centro – aggiunge – funziona anche come uno dei punti di raccolta
per indumenti e vestiario, sempre a favore dei profughi”. Il presidente di Arci non
comprende “il gesto e l’obiettivo di questa lesione ad una sede Arci”, e fa notare come
peraltro come sia stata danneggiata anche la porta che introduce anche ai locali della
sede dell’Unicef.
“Se qualcuno ha pensato stupidamente di mettere in atto un gesto intimidatorio e punitivo
– è la replica di Solimano – per le attività e i servizi che mettiamo in atto verso i richiedenti
asilo, ha sbagliato di grosso. Non saranno certo una porta scassinata e seggiole
rovesciate – conclude su Facebook – a farci tornare indietro”.
http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2015/09/28/news/danneggiata-nella-notte-la-sededell-arci-in-via-terreni-1.12170593
Da AgenParl del 28/09/15
Perugia, Benessere e sostenibilità: 3 giorni di
eventi in Umbria
(AGENPARL)- Perugia 29 set 2015 –
11 aree tematiche, 200 espositori, più di 200 eventi gratuiti per tutte le età e un
programma per le scuole: ecco i numeri di Fa’ la cosa giusta! Umbria
In un unico spazio, culturale e commerciale, il meglio dei prodotti e servizi innovativi per
uno stile di vita sostenibile: dal 2 al 4 ottobre torna in Umbria, presso il polo espositivo
Umbriafiere di Bastia Umbra (PG), la seconda edizione in Centro Italia di Fa’ la cosa
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giusta!, fiera del consumo consapevole e degli stili di vita sostenibili. Seminari, workshop,
dibattiti, educazione e didattica, dimostrazioni, presentazioni, mostre, convegni, cooking
show, laboratori pratici, qualità della vita, benessere del corpo e della mente, un
programma riservato alle famiglie e alle scuole per una tre giorni di eventi gratuiti non stop
sui diversi aspetti e le diverse anime della sostenibilità con al centro la mostra-mercato dei
prodotti e servizi green. I numeri: 11 aree espositive, 200 stand e più di 200 eventi gratuiti
dedicati al benessere e alla sostenibilità, da quella ambientale a quella economica, da
quella sociale a quella personale. Al centro degli eventi la mostra mercato per il pubblico
dei consumatori divisa in 11 aree tematiche: Abitare sostenibile, Buono da mangiare,
Mobilità nuova, Ethical fashion, Cosmesi naturale e biologica, Viaggiare, Editoria, Servizi
etici, Il pianeta dei piccoli, Cittadinanza e partecipazione e una speciale area Vegan.
La seconda edizione della fiera ospiterà al suo interno il VeganOK EXPO, un’area
dedicata esclusivamente ai migliori prodotti vegan. Un’iniziativa realizzata dagli
organizzatori della fiera in collaborazione con il team della Certificazione Etica VeganOK,
con VeganOK TG News, primo telegiornale vegan d’Italia, e con il patrocinio di Assovegan
– Associazione Vegani Italiani Onlus. Un’area pensata da persone che hanno fatto la
scelta vegan e che hanno a cuore la diffusione di questa esperienza etica e di tutto ciò che
riguarda il rispetto della vita di ogni essere vivente. Prodotti: design per l’arredamento da
interno e da esterno, mobili e oggettistica con elementi sostenibili, soluzioni tecniche per il
risparmio energetico di casa, ufficio e per le aziende, prodotti naturali per la cura e il
benessere del corpo e della mente, il meglio del fashion etico per uomo e per donna, ma
anche prodotti naturali per la cura dei più piccoli, così come giochi e accessori per
l’infanzia. Ancora, produzioni alimentari biologiche, a km zero e di qualità, eccellenze del
vino e della birra, servizi vantaggiosi dal punto di vista sociale e ambientale per famiglie e
aziende, nuove offerte e strumenti per programmare le proprie vacanze in luoghi naturali e
autentici, gruppi di acquisto di auto e mezzi elettrici e molto, molto altro. E per gli amanti
del buon cibo ci sarà anche l’area Street, bio & vegan food.
Fa la cosa giusta! Umbria, organizzata da Fair Lab, in collaborazione con Terre di mezzo
Editore (casa editrice che organizza da 12 anni a Milano l’edizione nazionale di Fa’ la cosa
giusta!), e con la partecipazione delle istituzioni regionali e locali, e delle più importanti
organizzazioni economiche umbre e le diverse anime della società civile regionale (nel
comitato promotore dell’iniziativa figurano infatti Acli, Arci, Cittadinanzattiva, Cgil, Cisl, Uil,
Legambiente, Libera e Forum del Terzo settore)
Fa’ la cosa giusta! Umbria è la principale vetrina per le aziende italiane – con
un’attenzione particolare alle realtà del Centro (Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Toscana
ed Emilia Romagna) – che producono, trasformano e vendono prodotti o servizi e che si
riconoscono nei principi della sostenibilità economica, ambientale e sociale.
Per info: www.falacosagiustaumbria.it – Ingresso in fiera € 3 (gratis fino a 14 anni)
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 29/09/15, pag. 4
Pietro Ingrao
Un vuoto pesante, eredità per l’Europa
XX Secolo. Rilettura degli scritti che annunciavano un nuovo periodo
storico nel mondo gravido di contraddizioni e conflitti come mai nel
passato. Profondità sociale e dimensione globale di un leader della
sinistra continentale che non si è mai stancato di opporre il
superamento critico del presente. Mentre nasceva la "cultura della
stabilità" che rielaborava restrittivamente il riformismo
socialdemocratico. La radicalità del pensiero che ci aiuta a uscire
dall’imbuto della crisi profonda che stiamo vivendo
Leonardo Paggi
Di Pietro Ingrao come uomo e come intellettuale, come politico e persino come poeta,
abbiamo già parlato in occasione dei suoi cento anni. La sua morte ci chiama ora a
pensieri più ardui che oltre la persona mettono in causa la storia, così aspra e
contraddittoria, del nostro Paese. Ci sentiamo spinti inevitabilmente a bilanci difficili, a
domande sul passato che non possono non essere anche interrogazioni sul futuro.
Quella di Ingrao è una bara pesante. In essa c’è in primo luogo racchiuso un enorme
patrimonio di lotte e di sacrifici del popolo italiano che se non hanno realizzato il
socialismo hanno cambiato la faccia del nostro Paese, rendendolo immensamente più
civile e più dignitoso. Una grande esperienza collettiva, che Ingrao ha voluto fino in fondo
ricordare e rappresentare anche simbolicamente, con quella sua tenace volontà di
mantenere il pugno alzato, persino quando il corpo piegato dagli anni cominciava ad
abbandonarlo. Quel gesto elementare non era vuota liturgia; intendeva piuttosto riproporre
al popolo, come agli intellettuali, il rigetto di ogni presunta fatalità della storia, inteso non
solo come atto di volontà, ma come forma obbligata di qualsiasi abitazione intelligente del
mondo. Al “disincanto” weberiano con cui tanti intellettuali italiani sono rientrati come veri
abatini nel conformismo dell’ordine, Ingrao non si è mai stancato di opporre la
trascendenza critica del presente come espressione necessaria di una ragione ragionante
degna di questo nome.
L’esercizio di questa ragione è più importante che mai. La bara di Ingrao ci ripropone
anche l’obbligo di cimentarsi senza mezze misure con quel drammatico rovesciamento dei
rapporti di forza che comincia a profilarsi nel nostro Paese, come nel resto di Europa, sullo
scorcio del XX secolo, a proposito del quale autori di tradizione socialdemocratica parlano
oggi di post democrazia. Mi riferisco alla svolta che si produce nel continente tra il 1989 e
il 1992, con la caduta del muro di Berlino, la fine dell’Unione sovietica, la riunificazione
della Germania e la firma del Trattato di Maastricht, che con la moneta senza stato e la
piena libertà di movimento dei capitali prefigura l’Europa di oggi, flagellata, senza difese,
dai marosi della crisi.
E’ lo spazio temporale in cui si inserisce l’ultima battaglia di Ingrao. Ripercorrendo i suoi
scritti colpisce la tenacia con cui si batte contro l’idea, allora senso comune, della fine della
storia; quella stessa che viene messa alla base dell’8 settembre, del «tutti a casa», del
Pci. Non sono analisi compiute e formalmente concluse, le sue, ma netta vi è la
consapevolezza che un nuovo periodo della storia del mondo si sta annunciando, gravido
di contraddizioni e conflitti superiori a quelli del passato, sia per profondità sociale che per
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dimensione globale. Insomma non è un caso che nel suo comunicato Tsipras abbia
parlato di Ingrao come di un leader della sinistra europea.
In quegli stessi anni la tradizione liberaldemocratica italiana elabora con la nozione di
“cultura della stabilità” una reinterpretazione singolarmente restrittiva del riformismo
socialdemocratico. La scienza economica, nata e cresciuta come indagine sulla
produzione della ricchezza e sulla sua distribuzione tra le classi sociali in conflitto, diventa
moneta e finanza, ossia scienza del rientro dal debito, che i tedeschi hanno posto come
condizione perentoria per l’abbandono del marco. La stabilità dei prezzi che il Modell
Deutschland è riuscito a realizzare diventa motivo di una ammirazione subalterna. I
“parametri” di Maastricht, che pongono limiti sempre crescenti al sostegno della domanda
interna, aprendo la strada alla stagnazione di oggi, sono invocati come salutare «vincolo
esterno» capace di mettere a norma una classe politica spendacciona. Per quanto
riguarda la “questione tedesca” il limite profondo di questo riformismo liberista sta nel non
vedere come dietro la virtuosa stabilità dei prezzi ci sia un’economia che, dopo aver
potenziato ininterrottamente la sua forza competitiva in termini di qualità e di prezzo, si
appresta a lanciare un nuovo assalto ai mercati mondiali, aggiogando al suo carro tutto il
progetto europeo.
Oggi che le politiche di austerità si intrecciano con una esplicita deflazione del sistema
della rappresentazione politica, sentiamo che tutta la cultura democratica del Paese è
giunta a un punto serio di verifica. Sentiamo che l’enorme patrimonio storico
simbolicamente racchiuso nella figura di Pietro Ingrao può essere salvato solo attraverso
la sua trasmissione e la sua traduzione in un contesto sociale completamente mutato. Per
uscire dall’imbuto della crisi organica che stiamo vivendo è indispensabile anche uno
sforzo di pensiero, una nuova radicalità nelle analisi. L’esperienza storica ci dice che da
una crisi organica si esce solo con la formazione di una nuova classe dirigente. «Si parla
di capitani senza esercito – scriveva Gramsci nel carcere– ma in realtà è più facile formare
un esercito che formare dei capitani». La natura della fase che stiamo vivendo, oltre che la
personalità di Ingrao a cui diamo l’estremo saluto, ci fa capire oggi meglio di prima la
congruità di questa affermazione.
del 29/09/15, pag. 5
«Difendere gli umili non è un agire per gli
altri, è un agire per me»
Documenti. Un testo che spiega i contrastanti sentimenti verso
l’impegno e la vita. Dal libro "Un sentimento tenace", le riflessioni di
Pietro Ingrao su incanto e disincanto dopo la scelta di non ricandidarsi
alle elezioni del 1992. «La politica e il fare, lo Stato e il produrre
possono consentire (per non dire: invocare) il silenzio dell’interrogarsi e
del contemplare?»
Avvertenza.
Nel gennaio del 1992 Ingrao rese nota la decisione di non porre la sua candidatura alle
imminenti elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati ove sedeva dal 1948 e della
quale aveva tenuto la presidenza nel corso della settima legislatura. Colpito dal poco
risalto che la stampa aveva tributato alla notizia del ritiro dalla politica istituzionale di uno
dei più grandi protagonisti della democrazia italiana, Bettini dedicò a Pietro Ingrao un
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articolo su Paese Sera in cui tracciava un profilo della sua personalità, mettendo in luce le
peculiarità della sua condotta politica e civile. Condotta che ancora oggi è da considerarsi
esemplare, quanto rara. Dopo aver letto l’articolo, Pietro Ingrao scrisse la lettera, che qui
pubblichiamo, a Goffredo Bettini in cui esprimeva i motivi profondi, personali e intimi, che
avevano guidato e avrebbero continuato a guidare il suo agire politico e nel mondo. Tredici
anni dopo, nel giorno del novantesimo compleanno di Pietro Ingrao, il 30 marzo del 2005,
Bettini rispose a quella lettera, continuando la riflessione sul valore della politica e sul
significato dell’appartenenza alla sinistra.
Oggi, che viviamo l’epoca delle “larghe” intese e del costante calo della partecipazione
causato da una classe dirigente sempre più delegittimata agli occhi degli elettori, queste
riflessioni appaiono allo stesso tempo monito e sprone al recupero del valore alto della
politica.
L’editore
Una lettera di Pietro Ingrao
Caro Goffredo,
torno a ringraziarti per l’articolo che hai scritto su di me: non solo per l’affetto e la stima
che esso esprime (e ci sono anche, in questo senso, parole che temo eccessive, molto);
ma perché l’articolo vede punti reali e radicati della mia esperienza e del mio sentire:
aspetti di me che raramente ho sentito cogliere così. E’ vero: ci sono due facce
contraddittorie (ma è giusto chiamarle così?) della mia vita. Evidentemente io devo avere
una “passione” per la politica che è tenace; altrimenti non si spiega come essa passione
duri così a lungo, e ancora adesso in un’età così avanzata fatichi a spegnersi. Posso dire
di più: ogni tanto mi accorgo che (diversamente, assai diversamente da quello che
qualcuno dice di me) a me interessa, nella politica, anche l’aspetto “tattico” (mi capisci:
non nel senso di furbesco). Me ne accorgo; e ripeto a me stesso che questo nelle mie
condizioni è esorbitante, e può essere anche un “vizio”; ma poi vedo che mi interessano
anche i passaggi “quotidiani”; quante volte sono tentato di impicciarmici! Perché non
staccarsene?
Tu spieghi ciò con una motivazione morale. Io ho sempre molte esitazioni ad adoperare
questo termine: perché io non sono in consonanza con un certo “eticismo”: il “dover
essere” mi sembra che contenga una astrazione; e io credo molto in una corporeità della
vita; credo nelle passioni vitali che ci scuotono e ci segnano. È vero. Io ho raccontato nel
mio ultimo libro che fui trascinato a pedate nella politica dalla resistenza a Hitler. Ho
ricordato una cosa che tutt’ora è in me nitidissima: quando di fronte al rischio che Hitler
vincesse, (i momenti terribili che la vostra generazione non ha vissuto), ho detto nella mia
mente: non ci sto. Anche in quel caso però, continuo ancora oggi a pensare che fosse
qualcosa di altro, o di non riducibile a un dovere etico.
Era una resistenza del mio essere, una difficoltà della mia vita ad adattarsi a quell’esito
(cioè a una vittoria del nazismo sul mondo).
Tu dici: il punto essenziale è per me dove «si difendono meglio gli umili e gli oppressi». E
questo coglie, con parole semplici, un sentimento che è tenace dentro di me. Io sento
penosamente la sofferenza altrui: dei più deboli, o più esattamente dei più offesi. Ma la
sento perché pesa a me: per così dire, mi dà fastidio, mi fa star male. Quindi, in un certo
senso, non è un agire per gli altri: è un agire per me. Perché alcune sofferenze degli altri
mi sono insopportabili.
Ti dirò un episodio che rischia di risultare stupidamente lacrimoso.
L’altra sera, ho visto a Mixer alcuni filmati sui bambini iracheni colpiti durante e dopo la
guerra dalle malattie e dalla penuria. Mi sono sembrati dei fatti letteralmente insopportabili.
E mi sono rimproverato la mia inettitudine o defezione dinanzi a quella insopportabilità.
Scusa queste parole: ho avvertito una nausea psichica. E mi sono vergognato, perché io
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non ho fatto e non facevo e non avrei fatto nulla di fronte a ciò che diceva, rappresentava
(significava) quella realtà. Questo episodio può dire la ragione per cui io rimango incollato
alla politica, persino sotto l’aspetto tattico. Non sono sicuro che ciò si possa rappresentare
come una motivazione morale. C’entrano gli “altri”, in quanto la loro condizione mi “turba”,
e senza gli “altri” non esisto (nemmeno sarei nato).
Ma veniamo alla questione che tu affronti. Tu dici, per me: «incanto» e «disincanto». È
chiaro: sono immagini, sono metafore. Forse sono ancora prudenti. A fare un po’ di
letteratura, si potrebbe dire più seccamente che io sono “scisso”. Sapessi quante volte
quell’intervenire nella politica (persino sotto l’aspetto “tattico”, o addirittura congiunturale)
mi appare di una lontananza astrale dai miei stati d’animo più profondi. Quante volte,
stando “dentro le mura”, so che vengo e sto “fuori le mura”: sento una estraneità, persino
una strana indifferenza in certi momenti. Mi chiedo: che ho a che spartire?
Tu dici: coscienza del limite della politica. Sì. E anche coscienza della astrazionemutilazione che reca in sé la norma. Ci mettono le brache dal momento che nasciamo. È
curioso che io mi sia interessato tanto di istituzioni e di Stato (cioè di “norme”, regole), e
abbia lavorato tanto (per mia scelta) dentro le istituzioni, con la crescente, fredda
coscienza che la norma è riduzione, quantificazione di fronte all’immisurabile, allo
“smisurato” della vita. Così succede: sto dentro la misura, e la rifiuto. Quante ne facciamo
per campare. Amando così la vita, accettiamo di essere “misurati” continuamente: come
fossimo sempre alla visita di leva. Per fortuna, nei rari momenti di forza e di libertà, io mi
dico: ma io non sono di questa città. (Comprendi da ciò la cautela grande, e sospettosa,
con cui cerco di adoperare la parola “morale” e la parola “diritti”: che cosa sono le leggi?
Chi le fa? A chi?). Il “convento”. Il convento è questa distanza; e la sensazione che questa
condizione che chiamiamo vivere sia certo il pane da mangiare (il “produrre”), ma anche la
passione (l’irriducibile alla “ragione”, a una qualche “ragione”) e il silenzio (come
interrogarsi).
La politica e il fare, lo Stato e il produrre possono consentire (per non dire: invocare) il
silenzio dell’interrogarsi e del contemplare? Non sembra. L’inutile e il gratuito sono
disprezzati in questo attuale modo di vivere: il cui motto è l’efficienza nel produrre e per il
produrre. Certo in un quarto (o in un quinto) del mondo non si muore più di fame e di
pellagra. E anche a me e a te piace molto mangiar bene, e una vita lunga. E paghiamo
debitamente il prezzo richiesto. Vedi come sono “scisso”. Invoco il silenzio, e già sono al
comizio. Mi dichiaro “straniero” e voglio fare le leggi. Mi capita. Più di quanto tu puoi
immaginare.
Questa lettera, lo so, è segnata di narcisismo. E, alla mia età, ciò è scandaloso. Mi ci ha
un po’ trascinato il tuo scritto, l’“amor sui”, e quel desiderio di trovare la parola, che è
rimasto così inappagato in questi lunghi anni di vita. Tu sai che il solo, vero consiglio che
ho cercato di darti è stato: sforzati di essere libero. tuo Ingrao.
P.S. Non ricopio e rivedo, perché questa lettera (personale) ti arriverebbe tardi. Non ho
avuto ancora la copia del Paese.
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ESTERI
del 29/09/15, pag. 8
Catalogna, indipendenza senza quorum
Luca Tancredi Barone
BARCELLONA
Ci sono volute meno di 24 ore perché i nodi della presunta vittoria del presidente catalano
in carica Artur Mas e della sua lista “Insieme per il sì” venissero al pettine.
Nelle elezioni di domenica, Junts pel Sí ha ricevuto quasi il 40% dei voti: più di qualsiasi
altra forza, ma meno dei voti che avevano ricevuto separatamente le due principali forze
che lo compongono: Convergència Democràtica de Catalunya (Cdc), di cui Mas è
presidente, di centrodestra, e Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), centrosinistra. In
percentuale, 4,4% in meno – anche se in numeri assoluti, data la maggiore affluenza di
questa tornata elettorale (un record storico: più del 77% contro il 67% del 2012), hanno
ricevuto circa 4.000 voti in più. Briciole, considerando che nel listone pro indipendenza
entravano molti altri spezzoni di forze politiche e di ong indipendentiste.
Con i 62 seggi ottenuti, sono molto lontani dalla maggioranza assoluta, fissata in 68. Tanto
lontani, che neppure se la Cup — il movimento di estrema sinistra indipendentista che ha
triplicato i suoi seggi, da 3 a 10, passando da 126mila a 336mila voti — si astenesse,
Junts pel Sí riuscirebbe a imporre Artur Mas come presidente. Se tutti votassero contro,
con l’astensione della Cup, ci sarebbero 62 voti contro 63. E la Cup lo ha ribadito ieri:
faranno pesare moltissimo il loro voto, e Mas non sarà presidente. «Che Cdc trovi un
candidato che non faccia tagli e non sia corrotto», ha tuonato il capolista Antonio Baños. Il
quale ha aggiunto che, senza una maggioranza assoluta dei voti (gli indipendentisti hanno
raggiunto il 47% dei voti espressi), escludono la dichiarazione unilaterale di indipendenza,
che entrambe le forze indipendentiste proponevano in campagna elettorale.
Podemos si lecca le ferite
Da parte sua, uno degli altri grandi sconfitti, Catalunya sí que es pot — la coalizione di
rossoverdi, Podemos, e Izquierda Unida — ha rimandato al mittente le offerte di
collaborare per un governo favorevole all’indipendenza, anche se non dovesse essere
presieduto da Mas. Con i loro 11 seggi (rispetto ai 13 che avevano i rossoverdi di Icv da
soli nella scorsa legislatura) hanno deciso di mettersi definitivamente all’opposizione di
qualsiasi governo che veda la partecipazione di Cdc. In voti assoluti, hanno preso 366mila
voti, solo seimila più che Icv nel 2012: sfuma il sogno di essere il principale partito
dell’opposizione.
Il candidato Lluís Rabell ha iniziato le autocritiche, dando la colpa non solo alla
polarizzazione del discorso indipendentista, su cui loro — unica forza — hanno evitato di
prendere posizione, ma anche al ruolo di Podemos: «La marca ci ha complicato la vita».
La diffusa percezione in Catalogna è che Pablo Iglesias e i suoi, che non hanno
risparmiato energie in questa campagna, hanno peggiorato le cose. Podemos si è limitata
ad attaccare Mas come unico responsabile dell’indipendentismo, e a pontificare sul potere
salvifico di un eventuale governo di Podemos a Madrid per risolvere il puzzle catalano. Se
a questo si aggiunge lo scarso carisma dei candidati e la fretta nel mettere su la lista,
alcuni dei motivi della chiara sconfitta risultano evidenti.
Iglesias si è affrettato a dire che quando lui sarà presidente del governo «ci sarà un
referendum in Catalogna», e che nelle elezioni generali il logo e il nome di Podemos
saranno ben visibili. Intanto, il candidato nazionale di Izquierda Unida Alberto Garzón si è
tolto qualche sassolino dalle scarpe, dichiarando che è «un fatto obiettivo e
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incontestabile» che Podemos abbia avuto un’alta visibilità in campagna elettorale. Ma ha
voluto aspettare un dibattito più ampio per critiche e autocritiche più approfondite.
Vincitori e perdenti
Il Pp, che è passato da 18 a 11 seggi (da 472mila voti a 348mila), da parte sua rimane
arroccato sulle proprie posizioni di anacronistica chiusura. Non sarà la maggioranza
assoluta, ma è incontrovertibile che due milioni di catalani non vogliono essere spagnoli.
Nonostante questo, il Pp chiude la porta a qualsiasi soluzione politica. E anche se la
pressione per convocare quanto prima le elezioni generali si fa sempre più forte, Rajoy
sembra intenzionato a resistere fino all’ultimo giorno della legislatura. I socialisti, anche
loro ridimensionati (da 20 a 16 seggi, con 521mila voti, solo 3000 in meno che nel 2012:
una sconfitta meno grave del previsto), intanto puntano a rompere il fronte indipendentista
allettando Mas con il potere. Chiedendo di non allearsi con gli “antisistema” della Cup, il
segretario nazionale Pedro Sánchez gli ha offerto di formare un «governo trasversale» a
patto di rinunciare all’indipendenza.
Chi gongola sono intanto i veri vincitori: Ciutadans, che diventa il primo partito
dell’opposizione nel Parlament catalano con i suoi 25 seggi (ne avevano 9 nel 2012: da
275mila voti a ben 735mila). L’ex leader catalano e ormai leader nazionale Albert Rivera a
capo del movimento arancione ha annunciato che la «vecchia politica è morta». Le loro
posizioni fortemente anti-indipendentiste e molto vicine a quelle del Pp in campo
economico e sociale li rendono molto appetibili agli elettori di destra.
A meno di improbabili voltafaccia dell’ultimo minuto, a conti fatti Mas ha perso la
scommessa su molti fronti. Primo, non sarà presidente: nascondersi al numero 4 della
lista, e nascondere la consumata marca di Cdc, non gli è stato sufficiente.
Secondo, gli indipendentisti duri e puri si confermano un forte blocco di due milioni di
persone: più o meno quelli che avevano votato nel famoso referendum reso illegale dal
governo di Madrid il 9 novembre scorso. Molti, ma troppo pochi. E ultimo, perché con
questo scenario politico, difficilmente potrà mantenere le grandi aspettative, che lui stesso
ha contribuito a fomentare, su una rapida e indolore indipendenza catalana. Certamente
però su un aspetto ha vinto: è riuscito a trasformare queste elezioni in un plebiscito. I
catalani, che sono accorsi in massa alle urne, e tutti gli osservatori, a Madrid e a
Barcellona, davano per buona la lettura indipendentista: oggi, il 47% dei catalani vuole
l’indipendenza, e il 42% chiaramente no. Sono numeri da cui non si potrà più nascondersi.
del 29/09/15, pag. 8
Juan Luis Cebrián.
Il fondatore de “El País”: “Si è rotto il patto democratico per lo scontro
tra i nazionalismi”
È entrato in crisi il sistema politico ora Rajoy
cerchi un compromesso
JUAN LUIS CEBRIÁN
SE SOLO DUE ANNI FA , a un qualunque analista, avessero detto che l’elettorato
catalano avrebbe eletto nel Parlamento regionale una maggioranza indipendentista
disposta a rivendicare la secessione immediata dallo Stato centrale, probabilmente
avrebbe reagito con lo scetticismo e la svogliatezza ostentate, ancora fino a pochi mesi fa,
dal capo del Governo spagnolo. Ora la notizia di domenica è di un’importanza ineludibile:
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è la rottura del consenso costituzionale in una regione che rappresenta il 20 per cento del
prodotto interno lordo della Spagna e il 16 per cento della sua popolazione. Per
conseguire questa rottura, i suoi promotori non hanno esitato a violare tutte le regole del
decoro democratico, con un uso settario dei mezzi pubblici a loro disposizione e la
rinuncia da parte dei governanti a esercitare il loro mandato a beneficio di tutti i cittadini
per essere fedeli solo al proprio schieramento specifico. Ma tutto questo non invalida il
risultato né rischiara il futuro, non da ultimo perché questo risultato è anche la
conseguenza dello scontro appena dissimulato fra due nazionalismi, uno più temibile
dell’altro: quello catalano e quello spagnolo.
È proprio questa differenza tra gli altri e noi, la dichiarazione di questo limite invisibile
ancorato nei sentimenti, o in presunti valori e forme d’essere che definiscono l’identità di
un gruppo, che stabilisce i confini, come già si sta facendo, fra catalani buoni e cattivi e fra
spagnoli buoni e cattivi. Ed è precisamente quello che è successo nelle elezioni di
domenica: una rottura per nulla sottile e meno pacifica di quello che sembra fra i cittadini
di una regione ora spaccata in due e uno Stato sovrano i cui governanti si sono dati da
fare per ravvivare la fiamma dello scontro, in nome della loro visione specifica della
Spagna e a caccia di un ritorno elettorale.
Troppo poco abbiamo insistito sul fatto che la Transizione spagnola era basata, fra le altre
cose, sul recupero dei valori illuministici inerenti alla costruzione democratica. Di fronte a
un’esasperazione dell’Identità come icona e soggetto dei diritti e doveri politici,
l’Illuminismo innalza la bandiera dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge,
indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla religione professata o dalla nazione (luogo
di nascita) di appartenenza. Questa contesa si ingaggia anche fra modernità e tradizione,
conservazione e progresso, sentimenti e ragione. Di fronte a chi reclama e sospira per i
desideri del popolo e le tribolazioni della gente, il politico illuminista lotta per i diritti dei
cittadini. Ma questa maniera di vedere le cose, attualmente, e a molte latitudini, gode di
sempre minor prestigio. Stando così le cose, molti ora si chiedono cosa ci aspetta dopo la
giornata di ieri, e si rispondono per lo più che non si prospetta nulla di buono. Dipende,
naturalmente, da quali sono gli obiettivi e i metodi che i vincitori indiscutibili delle elezioni
catalane, al di là della percentuale di voti ottenuta, si apprestano a perseguire. Ma dipende
anche, e molto, dall’atteggiamento del governo di Madrid.
Se non verranno prese misure che rafforzino il compromesso democratico degli spagnoli, i
risultati di queste elezioni potrebbero essere il preannuncio di una crisi a tutto campo del
nostro sistema politico, vittima di una disaffezione sempre più estesa a causa della
corruzione e della mancanza di un progetto per il futuro. Che non potrà essere costruito a
suon di arringhe e promesse, ma sulla base di obiettivi chiaramente definiti riguardo a
cosa vogliamo fare del Paese, quale modello di welfare desideriamo e che tipo di
convergenza aspiriamo a costruire tra le diverse nazionalità della Spagna riconosciute
nella stessa Costituzione del 1978.
In una simile situazione, sembra assolutamente irresponsabile che il capo del Governo
voglia stiracchiare la legislatura fino alla vigilia di Natale, approvare una finanziaria che
difficilmente, se i sondaggi non si sbagliano, potrà applicare, e prolungare ancora per due
mesi un interregno inutile. Irresponsabile quanto il silenzio inaudito che ha osservato
stanotte di fronte all’opinione pubblica. Persistendo su questa strada riuscirà solo a
promuovere ancora più instabilità e ancora più incertezza nei confronti del futuro: se è il
bene della Spagna che gli sta a cuore, e non solo il godimento del potere, dovrebbe
convocare le elezioni. I catalani sono già andati alle urne. Tutti gli spagnoli devono poterlo
fare quanto prima. Con la speranza di poter assistere alla vittoria dell’Illuminismo.
Domenica non è stato così.
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del 29/09/15, pag. 1/38
Gli euroscettici nel Mediterraneo
ILVO DIAMANTI
IL RISULTATO delle elezioni in Catalogna conferma l’ampiezza del sentimento separatista
che anima la Comunidad autónoma .
Il fronte a favore dell’indipendenza ( Junts pel Sì + Cup) ha ottenuto il 47,8% dei voti. Ha,
così, conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti. Si fosse trattato di
un referendum, questo esito non sarebbe sufficiente a sancire la secessione da Madrid.
Ma oggi appare adeguato ad amplificare lo spirito indipendentista che spira, forte, in altre
aree della Spagna.
ANZITUTTO nei Paesi Baschi. Questo voto, inoltre, rischia di produrre «una rivoluzione
geopolitica su scala europea», come ha osservato Lucio Caracciolo, ieri, su Repubblica .
Una Catalogna indipendente, infatti, non troverebbe posto nella Ue. Tuttavia, il voto
catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene,
da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea.
Dove si allarga il contagio dell’Ues: l’Unione Euro- Scettica. Trasmesso da una catena di
attori politici, impolitici e anti-politici. Uniti da un comune bersaglio. L’Europa dell’euro.
Dunque, l’Europa,
tout court . Visto che l’Unione è stata prevalentemente costruita, appunto, sul terreno
economico e monetario. Mentre i soggetti politici di maggiore successo, negli ultimi anni,
sono quelli che hanno esercitato una critica aperta all’Euro-zona. E, spesso, alla stessa
Unione Europea, in quanto tale.
In Italia: la Lega di Salvini. Esplicitamente contraria all’Euro, ma anche alla Ue. Appunto.
Inoltre: il M5s. Anch’esso esplicitamente ostile all’Euro-zona. Tanto che, nei mesi scorsi,
Alessandro Di Battista, deputato del M5s, fra i più autorevoli, ha proposto un «cartello tra i
Paesi del Sud Europa» per «uscire dall’euro» e «sconfiggere la Troika che ha distrutto
l’Ue». Un aperto invito, dunque, a costruire la Ues. Rivolto, anzitutto, alla Grecia,
governata da Alexis Tsipras e dal suo partito, Syriza. Che, come ha confermato Yanis
Varoufakis, ex ministro delle Finanze, aveva pianificato un programma per trasformare
l’euro in dracma. E per liberarsi del controllo della Troika. Prima, ovviamente, della recente
crisi. Che ha condotto la Grecia a scontrarsi con la Germania della Merkel. E con il
“governo” della Ue. Anche se ora, ovviamente, questo progetto è divenuto impraticabile.
Dopo il prestito- ponte erogato dalla Ue, per fare fronte all’enorme debito che opprime la
Grecia. Mentre Tsipras ha estromesso dal governo Varoufakis e gli altri esponenti del
partito, reticenti e indisponibili ad accogliere le pesanti condizioni poste dalla Ue.
Nonostante tutto, pochi giorni fa, Tsipras ha ri-vinto le elezioni. Si è confermato alla guida
del governo e del Paese. E la Grecia è rimasta nella Ue e nell’euro. Non certo per
passione, ma per necessità. E per costrizione.
Ma l’Ues ha messo radici anche in Francia. A sua volta, Paese mediterraneo. Soggetto
protagonista della scena europea, insieme alla Germania. Ebbene, com’è noto, in Francia,
negli ultimi anni, si è assistito all’ascesa di Marine Le Pen, che ha spinto il Front National
ben oltre il 25%. Al di là delle zone di forza tradizionali, nelle regioni “mediterranee”. Per
affermarsi, Marine Le Pen ha moderato i toni — più che i contenuti — del messaggio
politico tradizionale. E ha preso le distanze dal padre, Jean-Marie. Fondatore e “padrone”
del Fn. Fino alla rottura. Sancita dall’espulsione del padre, avvenuta a fine agosto, per
decisione del comitato esecutivo del partito.
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Il Fn di Marine e Bleu Marine, la coalizione costruita intorno al partito, hanno, tuttavia,
mantenuto i due orientamenti tradizionali forse più importanti. La xeno-fobia.
Letteralmente: paura dello straniero. E l’opposizione all’Europa dell’euro. Così, i confini
mediterranei della Ue oggi sono occupati dalla Ues. Che tende ad allargarsi rapidamente
altrove. Nei Paesi della Nuova Europa. A Est: in Polonia, Ungheria. E a Nord. In Belgio,
Olanda, Danimarca, Scandinavia. Per non parlare della Gran Bretagna. Dove
l’euroscetticismo è radicato da tempo. La Germania, il centro dell’Europa dell’euro, intanto,
si è indebolita. Messa a dura prova, da ultimo, dallo scandalo che ha coinvolto e travolto la
Volkswagen. Un grande gruppo automobilistico. Ma, soprattutto, un marchio dell’identità
(non solo) economica tedesca nel mondo. Intanto, la xeno-fobia si è propagata ovunque.
Alimentata dall’esodo dei profughi degli ultimi mesi. Dall’Africa e dal Medio Oriente,
attraverso l’Italia, la Grecia, i Balcani.
Così, 26 anni dopo la caduta del muro di Berlino, in Europa sorgono nuovi muri. Non solo
simbolici. Marcano il difficile cammino di una costruzione che si è sviluppata senza un
disegno. Politico. Culturale. Perché l’Europa “immaginata”, fra gli altri, da Adenauer, De
Gasperi, Churchill, Schuman, l’Europa di Jean Monnet e Altiero Spinelli: è rimasta,
appunto, “un’immagine”. Un orizzonte. Lontano.
D’altra parte, (come dimostra l’Osservatorio europeo curato da Demos-Oss. di PaviaFond. Unipolis, gennaio 2015), l’Europa dell’euro non suscita passione. Tanto meno
entusiasmo. La maggioranza dei cittadini — in Italia e negli altri Paesi europei — la
accetta, per prudenza. Teme che, al di fuori, potrebbe andare peggio. Così, il progetto
europeo non cammina. Perché ha gambe molli e non ha un destino. Mentre il sentimento
scettico si fa strada. In Spagna. In Italia. In Francia. In Europa. A Destra (e al Centro), ma
anche a Sinistra. E alla Ue si sovrappone la Ues. L’Unione Euro-Scettica. Più che un
soggetto e un progetto organizzato: una sindrome. Densa e grigia. Diffusa nell’area
mediterranea. Oggi si sta propagando rapidamente altrove. Conviene prenderla sul serio,
prima che sia troppo tardi. Prima che contagi anche noi.
del 29/09/15, pag. 9
E ora i baschi rivendicano: Euskadi come
stato
Jacopo Rosatelli
Se l’indipendentismo di massa in Catalogna è cosa relativamente nuova, nei Paesi Baschi
la separazione dal resto della Spagna è da sempre un’opzione che gode di notevole
sostegno. Motivo per il quale in Euskadi le elezioni di domenica sono state seguite con
particolare attenzione, e lo stesso è accaduto in Navarra, l’altra Comunità autonoma
spagnola che, per i nazionalisti, appartiene a Euskal Herria, la «patria basca», composta
anche dai territori francesi.
La principale forza politica basca, lo storico Pnv, non è apertamente indipendentista.
Semplificando, ha posizioni analoghe a quelle che difendeva il partito del governatore
catalano Artur Mas prima della «svolta» indipendentista: un autonomismo «dialogante»,
pronto a conquistare nuovi spazi di autogoverno per la propria Comunidad in ogni
congiuntura politica favorevole. Ciò che sta accadendo a Barcellona, però, non è senza
conseguenze: pur continuando a presentarsi come forza più moderata, il Pnv ora chiede
con forza «un nuovo quadro giuridico-politico che riconosca che Catalogna ed Euskadi
sono nazioni e che hanno diritto a decidere il proprio futuro, come in passato è accaduto al
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Québec e alla Scozia». Lo ha ribadito ieri il segretario Andoni Ortuzar nella conferenza
stampa sul voto catalano, che per il Pnv ha «un chiaro vincitore: Junts pel Sí».
Nel mirino del principale partito nazionalista basco — che governa la Comunità autonoma
e i capoluoghi Bilbao, San Sebastián e Vitoria — c’è l’immobilismo del governo di Mariano
Rajoy, a cui Ortuzar ha chiesto «un cambiamento di 180 gradi nel modo di affrontare —
anzi di non affrontare — il problema territoriale, incarnato nel fatto che né Euskadi né la
Catalogna si identificano nell’attuale stato spagnolo, perché esso non riconosce la
specificità nazionale basca e catalana». Il «nuovo status politico» che il Pnv immagina per
i Paesi Baschi non è quello che deriva da una dichiarazione unilaterale di indipendenza,
ma da un percorso che, senza rotture di legalità, porti a «un rapporto bilaterale con lo stato
centrale».
Di cammino verso la «creazione di uno stato basco indipendente» parla invece Eh Bildu,
coalizione che rappresenta l’altra «famiglia» del nazionalismo basco, quella collocata a
sinistra, riconducibile a quella izquierda abertzale («patriottica») affine, in passato,
all’organizzazione armata Eta. Il portavoce Hasier Arraiz ha sottolineato ieri che «la
maggioranza dei catalani è favorevole al diritto a decidere», lo stesso diritto che la sua
organizzazione chiede che venga riconosciuto ai baschi. Per il futuro immediato Eh Bildu
pensa a una consultazione legale fra i cittadini: «Proporremo nel parlamento di Euskadi
una legge che renda possibile il referendum», ha dichiarato Arraiz. Una strada simile a
quella seguita da Mas, ma che si è finora scontrata con il niet della Corte costituzionale:
ammesse consultazioni referendarie solo se convocate dal governo centrale.
Per Eh Bildu la secessione è un obiettivo perché «solo l’indipendenza garantisce la
giustizia sociale». Parole molto diverse da quelle del Pnv, forza di centro-destra che ha
sempre difeso gli interessi della borghesia basca.
Quando a prevalere sono le questioni sociali su quelle nazionali nascono esperimenti
interessanti, come quello dell’attuale governo della Navarra: una coalizione che
comprende Eh Bildu e Podemos. Per la presidente navarra, Uxue Barkos, «i risultati
catalani rafforzano la necessità di dialogo».
del 29/09/15, pag. 9
Alta Austria, gli xenofobi raddoppiano i voti
Angela Mayr
Un terremoto di dighe infrante, oltre le previsioni: è il temuto raddoppio dei voti per la
destra razzista della Fpoe di Hans Christian Strache nell’Alta Austria, terza regione
austriaca con un milione e mezzo di abitanti, chiamati alle urne domenica.
È la prima volta che il partito diretto dal successore di Joerg Haider arriva a vette finora
raggiunte solo in Carinzia, al 30,4%. (In Carinzia però, dove ha governato, è stato
spazzato via alle regionali del 2013). Il partito popolare (Oevp) del presidente della regione
uscente Josef Puehringer in carica da 20 anni — il 99% lo ha indicato come motivo del
proprio voto — nella sua roccaforte è sceso per la prima volta sotto il 40% , perdendo un
10%. È rimasto tuttavia il primo partito col 36,4% dei consensi. Non sufficiente per
proseguire l’esperimento di coalizione con i Verdi in corso da 10 anni, non basta quel 1,1
% che gli ecologisti hanno guadagnato, attestandosi al 10,3. Debacle per i
socialdemocratici che per la prima volta scendono sotto il 20%, col 18,4%, un 6,6% in
meno.
Particolarmente debole e poco credibile il candidato Reinhold Entholzer, segretario
regionale Spoe mandato in corsa : in luglio è stato in prima linea a protestare contro la
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creazione di un centro di accoglienza per rifugiati in Alta Austria , «un grave errore», ha
ammesso in settembre partecipando al corteo fiaccolata pro rifugiati che ha sfilato per Linz
alla vigilia del voto annullando persino la propria manifestazione conclusiva prevista in
contemporanea. Ora sarà difficile formare una nuova coalizione di governo, Puehringer
non si è sbilanciato in nessuna direzione.
Nelle urne ha vinto la paura sulla solidarietà? «Abbiamo pagato lo scotto del problema
profughi, che non c’entra con la politica regionale, è nazionale e europea, e ha vinto
proprio il partito che non ha nessuna soluzione da proporre», ha dichiarato Puehringer.
Simile, la dichiarazione di Entholzer candidato Spoe.
Ha pagato avere una linea precisa, come la Fpoe, soziale Heimatpartei, partito patriottico
sociale schierata con Orbàn: frontiere chiuse, col filo spinato, esercito alle frontiere,
presunta solidarietà solo per i profughi “veri”, che non sono mai quelli in arrivo. «Per i
rifugiati si cucina, si trovano alloggi, vestiti, qualunque cosa, si fanno concerti … e ai nostri
disoccupati e senzatetto chi ci pensa?», è il ritornello che riesce a fare presa. Secondo
molti commentatori la questione rifugiati ha influenzato e rafforzato l’esito del voto, ma non
ne sarebbe la vera causa: pesano lo scontento generalizzato per il peggioramento delle
condizioni di vita e la paura del futuro. In più la scarsa credibilità della politica e
l’insofferenza verso il governo di coalizione tra la Spoe del cancelliere Werner Faymann e
il partito popolare. Un governo diviso senza una linea chiara, considerato incapace di agire
e risolvere problemi dalla maggioranza degli austriaci.
Il non posizionamento crea insicurezza negli elettori, che hanno punito quei partiti,
secondo l’istituto Market. Solo un 3% sarebbe veramente contento del governo. Che
conseguenze avrà il voto di domenica sulla partita cruciale del 11 ottobre dei comunali di
Vienna, la più forte e ultima trincea rossa del paese? Si prospetta un duello ancora più
duro tra Strache, anche a Vienna in forte ascesa e il sindaco uscente Michael Hauepl. La
situazione politica è diversa da quella dell’Alta Austria. Il comune di Vienna ha una
posizione netta e chiara a favore dell’accoglienza dei rifugiati. E rilancia: «Non cambiamo
certo posizione, mostreremo che Vienna è diversa».
del 29/09/15, pag. 10
Dopo la vittoria alle regionali in Catalogna dei partiti indipendentisti
riprendono forza i movimenti autonomisti o separatisti. Mettendo in
imbarazzo la Ue
Dalla Corsica alla Baviera l’Europa si spacca
nelle piccole patrie
ANDREA BONANNI
BRUXELLES
Tante sono le “piccole patrie” di cui l’Europa si scopre casa comune, quante sono le
sfumature dei movimenti indipendentisti, separatisti, federalisti e autonomisti che
percorrono il Vecchio continente. Si va da chi, in passato, non ha esitato a imbracciare il
fucile, come gli irlandesi del Nord, i baschi, i corsi, i sudtirolesi, a chi rivendica il diritto al
recupero di una identità culturale perduta, come gli occitani in Provenza e nel Sud della
Francia. Fuori dalla casa comune europea, l’indipendentismo è ancora bagnato di sangue,
come dimostrano la guerra in Ucraina, l’occupazione della Crimea o i massacri dell’ex
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Jugoslavia. Sotto il cielo a dodici stelle dell’Unione, le rivendicazioni indipendentiste
tendono invece a incanalarsi in processi democratici.
L’Europa ha avuto un ruolo nel favorire il dialogo, dall’Ulster all’Alto Adige,
all’indipendentismo basco, o agevolando processi di federalizzazione, come in Belgio. Ma
il crescente potere di Bruxelles a danno degli stati-nazione ha favorito il proliferare di
rivendicazioni autonomiste. Non è un caso che, dalla Catalogna alla Scozia alle Fiandre, le
regioni che ambiscono a lasciare lo stato nazionale in cui sono inserite vogliano comunque
restare in Europa.
L’idea di una «Europa delle regioni » che progressivamente soppiantasse l’ «Europa delle
nazioni » era uno dei cardini del pensiero federalista dei padri fondatori. Questi si sono poi
adattati a far legittimare il progetto europeo dagli stati nazionali, ma sempre nella speranza
che l’integrazione portasse al loro disfacimento e all’affermarsi di una comunità di popoli e
di autonomie.
Non è un caso che questa volta il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, di
fronte alle elezioni catalane abbia evitato di ripetere la dura presa di posizione del suo
predecessore. Barroso, in occasione del referendum scozzese, minacciò gli elettori di
tenere fuori una Scozia indipendente dall’Unione europea. Juncker, in questa occasione,
ha assunto un atteggiamento molto più prudente. Tra gli esperti di affari europei c’è infatti
anche chi sostiene che i Trattati hanno conferito a tutti i popoli dell’Unione lo status di
cittadini europei. E che questa condizione, a meno di una esplicita rinuncia, sopravvive
anche alla scelta di una nuova appartenenza nazionale.
Ma quali e quante sono le «piccole patrie» che cercano di affermarsi sotto l’ombrello
europeo? Ecco un elenco, Paese per Paese, peraltro probabilmente incompleto.
GRAN BRETAGNA
SCOZIA.
Gli indipendentisti scozzesi dello Scottish National Party sono i più agguerriti e dispongono
di una maggioranza nel parlamento nazionale. Dopo la sconfitta di misura al referendum,
la loro leader Nicola Sturgeon non ha rinunciato al progetto secessionista. Un distacco
della Catalogna dalla Spagna, o un voto britannico per uscire dall’Ue, riaprirebbero la
questione.
GALLES.
Gli indipendentisti si riconoscono nel partito Plaid. Sono meno numerosi e meno radicali
che in Scozia. Ma se Edimburgo dovesse lasciare il Regno Unito, anche Cardiff potrebbe
essere tentata.
CORNOVAGLIA.
Il partito indipendentista, Mebyon Kernow, si rifà alle radici celtiche della regione. Ma il
fenomeno ha più il carattere di una rivendicazione culturale che politica.
SPAGNA
I catalani sono la regione più avanzata sulla via dell’indipendenza. Ma altrettanto
determinati sono i baschi, le cui rivendicazioni sono danneggiate dai crimini compiuti in
passato dai terroristi dell’Eta. Movimenti indipendentisti sono attivi anche in Galizia e in
Aragona.
FRANCIA
La nazione che ha inventato lo stato unitario e lo ha imposto nel corso dei secoli è
percorsa da numerose rivendicazioni indipendentiste. I più determinati sono i corsi, che
però hanno perso un referendum nel 2003. Indipendentisti sono presenti in Bretagna,
Alsazia e nella Francia del sud dove rivendicano l’autonomia dell’antica Occitania.
BELGIO
Gli indipendentisti fiamminghi dell’ N-VA sono il partito di maggioranza nel Nord del Paese.
A differenza dell’estrema destra del Vlaams Blok, sono convinti filo- europei. Sotto la
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spinta dell’autonomismo fiammingo, il Belgio si è trasformato da Stato unitario in
monarchia confederale e, infine, in Stato federale.
GERMANIA
La Germania è uno stato federale, con larghissimi margini di autonomia dei vari Lander.
Questo ha mitigato le spinte indipendentiste. Tuttavia in Baviera c’è una piccolo partito, il
Bayern Partei, che dal ‘46 chiede l’indipendenza, che ha una maggioranza cattolica e
un’antica tradizione di sovranità.
POLONIA
Anche in Slesia esiste un partito, autonomista più che indipendentista, che ha raccolto
quasi il nove per cento dei consensi nella regione. La Slesia, annessa alla Polonia dopo la
guerra, faceva parte della Germania e l’influenza tedesca è ancora fortemente sentita,
nonostante la pulizia etnica che ha costretto milioni di tedeschi a lasciare le loro terre
nell’immediato dopoguerra.
FINLANDIA
Le isole Aaland, sotto sovranità finlandese, sono abitate da una popolazione di lingua
svedese. Hanno ottenuto uno statuto di speciale autonomia nel 1991. Ma da sempre gli
abitanti coltivano il sogno di una piena indipendenza, sia pure sotto l’ombrello europeo.
del 29/09/15, pag. 42
Canta Bandiera Rossa e legge Marx? Sì, ma non solo. Perché per
rendere credibile la sua prossima candidatura a guidare la Gran
Bretagna, il neo leader laburista Jeremy Corbyn ha reclutato una
squadra di influenti professori e intellettuali. Obiettivo: dimostrare che
si può dare battaglia, da sinistra, all’austerity alle banche e al dominio
del liberismo Redistribuendo la ricchezza
Compagno economista
DAL NOSTRO INVIATO
ENRICO FRANCESCHINI
BRIGHTON
FINORA i conservatori lo ridicolizzavano perché legge Marx, canta Bandiera Rossa e non
mette mai la cravatta: “Affidereste l’economia della Gran Bretagna a uno così?”, tuona il
Sun , organo ufficioso della destra anglosassone. Ma adesso Jeremy Corbyn ha colto
l’occasione del congresso annuale del partito per annunciare l’arruolamento di un “all star
team” di economisti di sinistra, anzi molto di sinistra, e di colpo l’establishment sembra
prendere più seriamente il nuovo leader laburista. È una squadra che comprende un
premio Nobel americano, Joseph Stiglitz, un intellettuale francese della rive (decisamente)
gauche , Thomas Piketty, un’italiana che ha fatto gli studi negli Usa e insegna nel Regno
Unito, Mariana Mazzucato, una russa trapiantata a Londra, un inglese docente a Oxford e
un ex-analista della Banca d’Inghilterra. Si riuniranno quattro volte l’anno per dare consigli
e vere e proprie “lezioni” a Corbyn, al ministro del Tesoro del suo governo ombra John
McDonnell e a qualunque parlamentare laburista affetto da scetticismo sulla possibilità di
adottare una formula anti-austerità, se non anti-capitalismo. «Aiuteranno il Labour a
scrivere un programma di sinistra», afferma il Financial Times . E la bibbia della City,
davanti a mezza dozzina di “compagni economisti” di questo peso, non ironizza.
La notizia piomba sul congresso laburista riunito a Brighton, allietato da un sole non
necessariamente “dell’avvenire” ma insolito a fine settembre a queste latitudini, come la
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prima autentica sorpresa tirata fuori dal cappello dallo “Tsipras inglese”, come qualcuno ha
ribattezzato Corbyn: eterna primula rossa, eletto leader contro tutti i pronostici nelle
primarie di due settimane fa grazie al sostegno di giovani, donne e sindacati, determinato
a spazzare via il riformismo blairista e a fare una politica «per il 99 per cento della gente,
non per l’1 per cento di privilegiati ». Ma mentre i vignettisti lo dipingono come un barbudo
alla Fidel Castro, il 68enne neo-capo del Labour rivela di non essere una macchietta o uno
sprovveduto, scegliendo come consiglieri alcuni degli accademici e pensatori più
autorevoli sulla scena internazionale. «Come dare lustro alla sinistra», riassume
rispettosamente il concetto il pur filo-conservatore Sunday Times .
La celebrità del gruppo è attualmente Piketty, docente alla Ecole de Economie di Parigi,
autore del best-seller dell’anno, “Il capitale nel ventunesimo secolo”, un j’accuse della
crescente diseguaglianza che ha fatto di lui una stella citata praticamente ovunque, perfino
alla Casa Bianca e da chi non è d’accordo. «Oggi la ricchezza è così concentrata nelle
mani di pochi che una larga parte della società è praticamente ignara della sua
esistenza», scrive nel libro. La sua ricetta base: ridistribuirla attraverso una tassa
progressiva globale sul reddito. Non meno conosciuto è tuttavia Stiglitz, docente alla
Columbia University di New York, vincitore del Nobel nel 2001, ex-capo economista della
Banca Mondiale, dunque con un curriculum che non ne farebbe propriamente un
rivoluzionario, ma diventato un accanito critico dell’ortodossia economica neoliberale e di
istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale dopo il collasso finanziario mondiale del
2008. La sua filosofia è centrata sul fatto che i mercati «non si auto-correggono da soli » e
che serve una maggiore regulation del settore finanziario per mettere fine a speculazioni,
rischi e corruzione. Nata in Italia ma cresciuta e laureata negli Stati Uniti, dove ha preso
anche la cittadinanza americana, ora docente alla University of Sussex, Mariana
Mazzucato è uno dei maggior esperti mondiali sull’intervento dello Stato nell’economia: il
suo libro “Lo stato innovatore” (pubblicato nel nostro paese da Laterza) demolisce il mito
che solo l’impresa privata sia una forza innovativa per la società, mettendo in rilievo, dati
alla mano, il ruolo dinamico dell’economia pubblica in molti settori, dall’ambiente alle
telecomunicazioni, dalle nanotecnologie alla farmaceutica. Sta ai governi fare investimenti
ad alto potenziale in nuove industrie come la green technology, afferma, difendendo il
diritto-dovere dello stato ad avere non solo una missione ma anche «a sognare ». La
professoressa Nesvetailova, direttore del centro ricerche della City University di Londra,
viene dalla Russia ma nei suoi studi analizza proprio il contraddittorio rapporto con Mosca
dell’Occidente, pronto a varare sanzioni contro il Cremlino e ad avere relazioni con
paradisi fiscali usati dagli oligarchi dell’Est. Per questa economista “venuta dal freddo”,
una più forte regulation finanziaria non sarà comunque sufficiente a evitare una nuova crisi
bancaria. E la squadra è completata da Simon Wren- Lewis, docente di politica economica
alla Oxford University, che accusa il governo Cameron di avere «ritardato la ripresa di due
anni» insistendo sui tagli alla spesa pubblica, e David Blanchflower, ex-membro del
comitato che decide la politica monetaria per la banca centrale inglese, secondo il quale i
piani dei conservatori per altra austerità sono «lunatici».
I primi sondaggi su Corbyn sono stati disastrosi: nessun leader laburista aveva mai
ottenuto un tale livello di sfiducia, provocata in larga misura dall’impressione che sia solo
un socialista vecchia maniera, ancorato a un’ideologia sorpassata. L’“all star team” di
economisti mira a smentire un simile giudizio, dimostrando che è stata una politica
economica di destra a causare i problemi, le proteste, i disagi dell’ultimo decennio e che
anche una politica di sinistra può avere una base teorica rispettabile. «Il partito laburista
ha una fantastica opportunità di costruire una politica economica nuova e originale, che
svelerà quanto l’austerità sia stata un fallimento in Gran Bretagna e in tutta Europa»,
proclama Piketty. L’obiettivo non sarà rovesciare il capitalismo, rassicura McDonnell, il
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braccio destro di Corbyn e il suo “ministro del Tesoro” nel governo ombra: «Ma il modello
economico che abbiamo usato in questi anni non ha funzionato, per cui bisogna
trasformarlo». A Brighton il Labour ha cominciato a spiegare come: McDonnell parla di una
“Robin Hood tax”, una tassa sulle operazioni finanziarie delle banche, Corbyn riconosce
che è giusto pareggiare il bilancio ma ingiusto farne pagare il prezzo ai poveri e alla classe
media. Magari il nuovo leader del Labour non riuscirà a fare la rivoluzione che ha in
mente, scrive Martin Wolf, principe degli editorialisti del Financial Times , «ma è presto per
scommettere che non può vincere le prossime elezioni». Come minimo, con l’aiuto dei
“compagni economisti”, cercherà di dare dignità a un pensiero diverso dal modello unico
liberista che sembra avere accomunato destra e sinistra.
del 29/09/15, pag. 8
Per ora lo «Scacchiere» di Corbyn rassicura
City e blairiani
Congresso Labour. Molto atteso dalla platea di Brighton e non solo, il
discorso del potente ministro-ombra dell'Economia John McDonnell si è
rivelato molto moderato rispetto alle promesse del neo-segretario alle
primarie
Leonardo Clausi
LONDRA
Dipinto com’era — nel migliore dei casi come gelido Apparatchik esperto di doppiezza e
nel peggiore come un bombarolo filo-insurrezionalista -, la scelta di Jeremy Corbyn di
affidare il dicastero ombra delle finanze (Cancelliere dello Scacchiere) a uno come John
McDonnell è stata unanimemente considerata dai commentatori come un segno di
debolezza del segretario nei confronti del cieco demone radicale impossessatosi del
Labour.
Questo è stato vero almeno fino a lunedì mattina, quando l’acuminato McDonnell, la cui
asciuttezza e puntualità dialettiche surclassano ampiamente quelle del leader, ha preso la
parola nel primo intervento davvero importante di questo congresso laburista, il primo
dell’anno zero del partito.
E ha subito scontentato chi, per motivi diametralmente opposti, sperava dal suo discorso
emergesse una visione capace di trascendere il buon vecchio keynesismo perfetto che
prescrive ragionevolmente di curare l’economia prima e pensare al deficit poi: quello che
vanno ripetendo da anni legioni di economisti dal volto umano, insomma, alcuni dei più
importanti dei quali, come Piketty e Stiglitz, non risulta abbiano gettato pneumatici
incendiati contro la polizia, almeno ultimamente (per la cronaca i due, insieme a Mariana
Mazzuccato, fanno ora parte del pool di consulenti del partito sull’economia).
Tanto che, a volerla dire tutta, la sua visione economica del Labour di governo non risulta
granché dissimile da quella del suo tapino predecessore, quell’Ed Balls un tempo
browniano traumaticamente sputato fuori da Westminster dall’uninominale secco alle
ultime politiche.
Così, in quello che aveva anticipato sarebbe stato un discorso «mortalmente noioso»,
McDonnell ha sfoggiato competenza, riflessività e moderazione. Ha parlato da ministro di
un partito di governo, teso perlomeno ad attenuare la grande peur del mondo dell’impresa
e a sfatare il tabù della propria ineleggibilità.
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Con sobrietà, senza le battute e i lazzi che da anni dominano l’oratoria in un congresso il
cui tasso di democraticità e partecipazione fattiva era in triste declino, ha respinto le
accuse spesso rivolte alla sinistra Labour di essere «negazionisti del deficit». Ha
riaffermato l’impegno del partito verso una «crescita dinamica», da ottenersi attraverso la
fine degli sgravi fiscali per i ricchi e un maggiore monitoraggio dell’evasione ed elusione
fiscale, soprattutto dei giganti digitali.
Ha annunciato una revisione del mandato della Banca d’Inghilterra pur senza
minimamente minacciarne l’autonomia, un mandato discusso dal parlamento ormai 18
anni fa. E ha nuovamente teso la mano ai transfughi moderati del partito, scomparsi nelle
retrovie dopo essersi ritrovati improvvisamente sotto la guida del «dinosauro» Corbyn.
Assai graditi dalla platea sono stati quei passaggi in cui si è ripromesso di esercitare un
controllo più stringente su evasione ed elusione fiscale (anche questo attraverso una
ridiscussione del ruolo del ministero dell’economia e delle finanze); quello in cui ha
annunciato l’introduzione di un reddito minimo legato all’economia reale e la fine degli
sgravi fiscali agli immobiliaristi che lucrano sugli affitti fuori controllo, soprattutto qui a
Londra; e quello in cui ha risuggellato l’affinità di spirito e vedute del partito con la sua
costola fondativa, il sindacato.
Ha poi invocato un’azione reale per colmare il gap tra le retribuzione maschili e femminili
nel mondo del lavoro, in Uk attualmente al 19% e — dulcis in fundo per i moderati — ha
commissionato a un funzionario pubblico di rilievo, Lord Kerslake, un rapporto su come
migliorare la funzione del Tesoro.
Prudenza invece sul «quantitative easing del popolo» al quale anche il leader aveva
ripetutamente fatto riferimento in campagna elettorale: è ancora presto per delinearne i
difficili contorni.
Ha poi chiuso con questa frase, tra gli applausi: «Siamo idealisti, sì, ma il nostro è un
idealismo pragmatico per fare le cose, per trasformare la nostra società. Rimaniamo
ispirati al credo e alla speranza che un altro mondo è possibile. Questa è la nostra
opportunità per dimostrarlo. Cogliamola».
Del 29/09/2015, pag. 2
Italiano freddato in strada a Dacca
L’Isis: «È soltanto la prima goccia»
Sviluppo Cesare Tavella, 51 anni: dal 1993 lavorava come cooperante
Ucciso, perché «occidentale». Il cooperante italiano Cesare Tavella, 51 anni, ha trovato la
morte così, ieri (19 ora locale) a Dacca, capitale del Bangladesh. E’ stato freddato nel
quartiere diplomatico di Gulshan da tre uomini armati che lo hanno affiancato in moto e
crivellato di colpi. L’Isis ha subito «firmato» l’assassinio e poco dopo il capo della
Farnesina, Paolo Gentiloni, ha confermato l’omicidio: «Stiamo lavorando per verificare
l’attendibilità della rivendicazione», ha detto il ministro degli Esteri.
Il motivo dell’agguato, secondo Rita Katz, direttore del sito di intelligence Site, su cui è
apparsa la rivendicazione, sarebbe banale e feroce insieme. Tavella era «occidentale»:
«In un’operazione speciale dei soldati del Califfato in Bangladesh, una pattuglia di
sicurezza ha preso di mira lo spregevole crociato Cesare Tavella dopo averlo seguito in
una strada di Dacca, dove gli è stato sparato a morte con armi silenziate, sia lode a Dio —
è scritto nella rivendicazione —. Ai membri della coalizione crociata diciamo: non sarete
sicuri nelle terre dei musulmani. È solo la prima goccia di pioggia».
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Proprio ieri, il Foreign Office britannico aveva messo in guardia i propri connazionali da
possibili attacchi di matrice terroristica, riferendo di «informazioni affidabili». Un’allerta ben
nota ai diplomatici sul posto, che, ad esempio, avevano consigliato alla squadra
australiana di cricket, attesa domenica per un tour nel Paese, di rinviare la partenza.
Tavella, secondo le prime ricostruzioni, stava facendo jogging quando è stato raggiunto da
almeno tre colpi d’arma da fuoco, che lo hanno raggiunto all’addome, alla mano destra e
al gomito sinistro. Soccorso da alcuni passanti, è arrivato già senza vita allo United
Hospital di Dacca. Non lo ha salvato dalla furia omicida il suo curriculum di cooperante di
lungo corso, o forse è stato ucciso proprio per questo. Lavorava nel campo degli aiuti allo
sviluppo rurale e della sicurezza alimentare dal 1993, e attualmente era project manager
di una Ong olandese «interreligiosa», Icco Cooperation.
Un attacco premeditato, secondo il portavoce della polizia locale, Muntasirul Islam, che
però non ha voluto per ora collegare l’aggressione ad alcun gruppo estremista autoctono.
In Bangladesh, Stato a maggioranza musulmana ma istituzionalmente laico, c’è una forte
presenza di islamisti radicali. Tra febbraio e agosto quattro blogger, sono stati uccisi per
mano di integralisti islamici, attacchi attribuiti dalla polizia al gruppo Ansarullah Bangla
Team, che nel 2013 aveva diffuso una lista con i nomi di 84 blogger da «punire con la
morte» (9 già assassinati).
Gli osservatori sul posto da tempo denunciano lo strapotere economico dell’Islam radicale.
Secondo Abul Barkat, professore di economia all’ Università di Dacca, il partito Jamaat-eIslami, fuorilegge dal 2013, ha creato «uno stato dentro lo stato» e «un’economia dentro
l’economia», in tutti i settori del Paese, dalle grandi istituzioni finanziarie alle agenzie di
micro-credito, dalle madrasse ai mass media. Un impero da 278 milioni di dollari l’anno.
Sara Gandolfi
Del 29/09/2015, pag. 3
Il retroscena
Colpito perché cristiano E sale la
preoccupazione per il Giubileo a Roma
Nei giorni scorsi era stata diramata un’allerta attentati Per i servizi
segreti un segnale inquietante: azione mirata
ROMA È la rivendicazione che spaventa. Perché mai fino ad ora un italiano era diventato
obiettivo dei terroristi dell’Isis. Numerosi connazionali erano rimasti vittime di attentati,
primo fra tutti quello al museo del Bardo di Tunisi nel marzo scorso. Ma non c’era stata
alcuna azione mirata, come invece era accaduto per altri occidentali. E dunque l’uccisione
di Cesare Tavella, il cooperante cinquantenne di Ravenna freddato a Dacca, in
Bangladesh, con alcuni colpi di pistola da tre persone che lo hanno seguito e poi preso
alle spalle, fa temere il salto di qualità. E inevitabilmente fa salire il livello di allerta, alla
vigilia di un appuntamento chiave per il nostro Paese come quello del Giubileo.
L’analisi delle prime ore effettuata dall’intelligence è improntata alla cautela, senza però
nascondere come la scelta dei terroristi di attribuirsi l’assassinio rappresenti comunque un
segnale inquietante. Anche tenendo conto che solo qualche giorno fa le autorità locali
avevano lanciato l’allarme per gli occidentali. Un messaggio tanto preciso da convincere la
nazionale australiana di cricket a rinunciare a una trasferta programmata da tempo. E
prima i servizi segreti di Londra, poi quelli di Madrid avevano diramato un’allerta destinata
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agli europei residenti a Dacca chiedendo di essere «prudenti soprattutto nella
frequentazione di luoghi pubblici».
La dinamica dell’agguato è ancora poco chiara. I testimoni riferiscono di aver sentito tre
spari mentre nella rivendicazione si parla esplicitamente di un silenziatore. Ma a
preoccupare gli analisti è soprattutto la definizione di «crociato» attribuito a Tavella.
Perché viene messa in relazione con l’attività che il cooperante doveva svolgere in
Bangladesh e soprattutto con la Ong per la quale aveva deciso di lavorare. Si tratta infatti
della «Icco Cooperation», organizzazione non governativa olandese che crea opportunità
per gli imprenditori del proprio Paese che vogliono avviare progetti negli Stati in via di
sviluppo. E nella homepage del proprio sito internet si definisce «organizzazione
interreligiosa di cooperazione».
Ecco perché con il trascorrere delle ore prende corpo l’ipotesi che l’uomo sia stato scelto
come bersaglio in quanto collaboratore di un organismo «cristiano» e come tale in cima
alla lista degli obiettivi da colpire stilata dai leader del Califfato. Ed ecco perché tutto
questo spaventa in vista del Giubileo. Accade spesso che di fronte ad azioni
fondamentaliste compiute all’estero, gli 007 abbiano difficoltà — in particolar modo nelle
prime ore — ad ottenere una ricostruzione precisa di quanto accaduto, dunque a poter
effettuare riscontri oggettivi. Ieri la polizia locale ha subito parlato di rapina e soltanto dopo
la notizia della rivendicazione ha corretto il tiro spiegando di non poter escludere altre
piste. In attesa di poter ottenere informazioni precise sulle fasi cruciali dell’agguato, ci si
concentra quindi sul testo diramato attraverso alcuni account Twitter già utilizzati dall’Isis e
ritenuti attendibili. E si cerca di individuare gli avvertimenti che vengono lanciati con quelle
frasi. In un clima di massima tensione come quelle degli ultimi mesi, anche il solo fatto di
attribuirsi l’assassinio rappresenta infatti un segnale da non sottovalutare proprio perché
l’Italia è certamente nell’elenco degli Stati nemici, nonostante il presidente del Consiglio
Matteo Renzi abbia più volte ribadito nelle ultime ore la contrarietà agli attacchi in Siria e
confermato che il nostro Paese non parteciperà ai raid. E perché il Giubileo ci metterà al
centro della scena internazionale con un evento che può diventare vetrina privilegiata per i
terroristi islamici.
«Roma non sarà militarizzata», ribadiscono i responsabili degli apparati di sicurezza e lo
stesso ministro dell’Interno Angelino Alfano. Lo spiegamento di forze sarà comunque
imponente, i controlli serrati, molte aree saranno chiuse alla circolazione dei veicoli e
accessibili soltanto dopo aver superato i controlli di metal detector e antiesplosivi. Tutto
questo nella consapevolezza che uno dei pericoli è quello dell’azione solitaria, il gesto
estemporaneo capace di mettere in scacco l’intero dispositivo.
[email protected]
Del 29/09/2015, pag. 26
Il vertice di New York Sull’Isis il leader russo ha proposto una
«coalizione simile a quella contro Hitler». Sul siriano Assad si è
mostrato rigidamente fedele al vecchio alleato. Eppure da due parole
del presidente Usa potrebbe ripartire un dialogo vero
La «transizione gestita» avvicina Putin e
Obama
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Dalla tribuna del Palazzo di Vetro, senza pronunciare neanche una sola volta il nome degli
Stati Uniti o del suo presidente Barack Obama, Vladimir Putin ha tenuto fede alla mistica
del personaggio. Il leader del Cremlino ha espresso l’insoddisfazione della Russia per
l’attuale stato del mondo.
Ha criticato «coloro che pensano di essere così forti e di sapere meglio di chiunque altro
cosa fare, da non aver bisogno di prestare alcuna attenzione alle Nazioni Unite». E ha
perfino suggerito, con una sorta di maliziosa autocritica, che Washington stia ripetendo gli
stessi errori commessi dall’Unione Sovietica, cercando di imporre il proprio modello di
sviluppo ad altri Paesi, senza tener conto delle loro specificità e tradizioni. Putin ha in
sostanza attribuito la principale responsabilità per la nascita dell’Isis agli Usa, descritti
come una nefasta combinazione tra burattinai e apprendisti stregoni.
Fin qui nulla di nuovo, inclusa l’ennesima riproposizione della narrativa putiniana sulla crisi
in Ucraina, vista come «un colpo di Stato imposto dall’esterno, che ha condotto alla guerra
civile», con buona pace dell’annessione manu militari della Crimea e dell’intervento
mascherato russo nei territori del Donbass.
Eppure, tenuto conto degli standard ai quali Putin ci aveva abituati dal celebre discorso di
Monaco nel 2007 in poi, quello di ieri alle Nazioni Unite è stato un intervento moderato.
Dove, confermando le attese, il messaggio principale lanciato dal presidente russo è stato
sulla Siria e sulla lotta al terrorismo islamico.
Contro l’Isis, Putin ha invocato una «coalizione internazionale simile a quella contro
Hitler». Sulla Siria, il suo tono si è fatto duro, in apparenza per nulla incline al
compromesso. Ma su questo ha probabilmente pesato sia l’essere intervenuto dopo
Barack Obama, sia la preoccupazione di non voler apparire disposto a concessioni, poco
prima di incontrare ieri nel tardo pomeriggio il presidente americano: nessun accenno
infatti a un’eventuale transizione a Damasco, anzi l’ammonimento che sarebbe un «grave
errore» rifiutarsi di cooperare con Assad, le cui forze «sono le uniche insieme alle milizie
curde a combattere valorosamente l’Isis». Putin ha certo avuto gioco facile, quando ha
rimproverato l’Occidente di aver armato i cosiddetti ribelli moderati in Siria, solo per vederli
poi consegnarsi armi e bagagli ai terroristi del Califfato. Il punto è ora di vedere se dietro la
retorica per quanto controllata di Vladimir Vladimirovich ci sia spazio per trovare un terreno
comune con Washington. E questo ha caricato di attese il vertice con Obama.
Il presidente americano nel suo discorso ha detto chiaramente che una «transizione
gestita» in Siria può darsi soltanto con l’uscita di scena di Assad, rifiutando la logica
secondo cui bisogna appoggiare i tiranni, poiché l’alternativa è sicuramente peggiore.
Putin ha detto l’opposto: Bashar non è il problema, ma la soluzione.
Nelle parole «transizione gestita» sta forse la soluzione dell’arcano: la frase di Obama è
l’ultimo segnale che, ferma restando l’ostilità di fondo verso Assad, Washington potrebbe
essere disposta ad accettare che rimanga al suo posto ancora per qualche tempo. Almeno
fin quando l’azione concertata della costruenda coalizione internazionale avrà rovesciato
la situazione sul campo a sfavore dell’Isis. È un’ipotesi che Putin può prendere in
considerazione. Per il leader del Cremlino è tanto una questione psicologica quanto
politica: c’è il senso di lealtà verso un alleato storico. Ma c’è soprattutto la paura del vuoto
di potere, l’orrore del caos, lo scenario libico che un’uscita affrettata di Assad rischierebbe
di precipitare. Una instabilità totale, che Vladimir Putin teme di ritrovarsi all’improvviso
dentro i confini della sua Santa Russia.
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del 29/09/15, pag. 2
Stati Uniti-Russia,prova generale di
compromesso
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK .
Novantacinque minuti di dialogo testa a testa tra Barack Obama e Vladimir Putin: un
incontro denso e teso. Al termine il presidente russo dice: «Potremmo partecipare a una
coalizione militare in Siria sotto l’egida Onu». «Prevenire incidenti tra forze russe e
occidentali in Siria». «Governare insieme una transizione politica verso il dopo-Assad ».
Le grandi manovre diplomatiche per coinvolgere la Russia nella lotta allo Stato Islamico
sono ormai avviate. Le ha lanciate Putin, e Obama non si è tirato indietro. Il primo vertice
bilaterale che ha riunito i due leader all’Onu, dopo due anni di gelo e di sanzioni sulla crisi
ucraina, è la prova generale per un compromesso.
La Siria è in cima all’agenda. Obama è preoccupato per più ragioni. La crisi siriana
minaccia di destabilizzare gli alleati dell’America in Europa occidentale, dove il Pentagono
prevede che l’esodo dei profughi «è un’emergenza destinata a durare 20 anni». Il flusso
dei “combattenti stranieri” che affluiscono dal resto del mondo per rinforzare i ranghi dei
jihadisti — trentamila in quattro anni — può trasformarsi in un flusso di ritorno, cioè
terroristi che preparano attentati in Occidente. Non bastano i raid aerei che gli Stati Uniti
conducono da un anno con Canada e Australia (e a cui di recente si è aggiunta la
Francia). Resta escluso un intervento terrestre degli americani: a 14 mesi dalla fine del
suo secondo mandato, Obama vuole passare alla storia come il presidente che ha
concluso due guerre senza iniziarne altre. Allora Obama apre il gioco a Putin sulla crisi
siriana: «Sono pronto a lavorare con la Russia e l’Iran».
Il primo obiettivo del vertice di ieri sera tra i due era minimalista: concordare regole
d’ingaggio sul terreno siriano che servano al “de-conflict”. Cioè a prevenire incidenti, una
volta che le forze russe affluite nelle ultime settimane in Siria (cacciabombardieri, blindati,
reparti di marines) inizino ad operare e quindi possano trovarsi in rotta di collisione coi raid
della coalizione occidentale. Su tutto il resto, le posizioni di partenza erano distanti. A
cominciare dal destino di Bashar Al Assad. «Ha massacrato decine di migliaia di civili.
Dopo quattro anni e mezzo di guerra civile la Siria non può tornare alla situazione di
partenza», insiste Obama. «E’ un valido combattente contro il terrorismo, l’unico governo
legittimo a Damasco», ribatte Putin. Ma la posizione americana diventa più sfumata di ora
in ora. Assad dovrà andarsene, ma non subito. “ Managed transition ”, la transizione
governata verso un governo di rappacificazione e di unità nazionale, può avere tempi
lunghi. Del resto gli americani sanno di avere di fatto aiutato Assad, da quando
bombardano i suoi nemici.
Le prove generali per un compromesso richiedono un po’ di retorica, e Putin rispolvera
l’alleanza antifascista tra le due nazioni: «Dobbiamo unirci contro il pericolo, come ai tempi
di Hitler». A sua volta il presidente america- no lo rassicura: «Non voglio isolare la
Russia». Anche sull’Ucraina, dove il segretario generale della Nato parla di un armistizio
che regge abbastanza, Obama alterna fermezza e offerte. «Inammissibili le violazioni della
sovranità e della legalità internazionale. Ma la Russia può lavorare insieme a noi per
rafforzare un’Ucraina democratica e indipendente ».
All’incontro del disgelo i due arrivano dopo che alcune novità recenti hanno rimesso in
moto il quadro geostrategico. Obama si sente rafforzato dagli accordi con Iran e Cuba,
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due pietre miliari della sua eredità in politica estera. Putin con l’escalation militare in Siria
si è candidato a tornare in Medio Oriente come un attore che conta. Dopo avere aiutato gli
americani sul dossier nucleare di Teheran, ha incassato un accordo con Iran e Iraq per
cooperare nell’intelligence contro lo Stato Islamico.
Senza troppe illusioni di una riconciliazione generale con la Russia, Obama torna alla
casella che aveva lasciato due anni fa. Fu nella tarda estate del 2013 che Putin gli diede
una mano sulla Siria, un do ut des di reciproca convenienza. Obama aveva tracciato la
“linea rossa” delle armi chimiche da non oltrepassare. Assad l’aveva ignorata compiendo
stragi di civili. Ma né l’opinione pubblica americana né il Congresso volevano l’intervento
militare in Siria. Putin al G20 di San Pietroburgo tirò fuori la sua soluzione: disarmo
chimico di Assad, controllato e regolato dalla comunità internazionale. Ora si presenta una
nuova occasione per fare un pezzo di strada insieme.
Restano le divergenze di fondo tra le due “dottrine”. Nella dottrina Putin i moderati nel
mondo arabo sono una farsa, un’illusione ingenua dell’Occidente; il fondamentalismo
islamico va combattuto con chi sa farlo, l’alternativa all’autoritarismo non è la
liberaldemocrazia ma il caos. La dottrina Obama ammonisce: «Nessuna nostalgia per un
mondo regolato da violenze e coercizioni. Indietro non si torna».
del 29/09/15, pag. 11
I due nemici di Hollande
Assemblea generale Onu. Hollande apre alla Russia, ma per la Francia
Assad deve andarsene. Domenica primi bombardamenti aerei francesi
nell'est siriano, giustificati dall'articolo 51 della Carta dell'Onu (legittima
difesa). La battaglia diplomatica in vista della coalizione anti Isis. Fabius
potrebbe abbandonare al previsto rimpasto a Parigi (dopo la più che
probabile sconfitta socialista alle regionali di dicembre).
Anna Maria Merlo
PARIGI
François Hollande di fronte all’Assemblea generale dell’Onu, dopo aver evocato a lungo il
disordine climatico in vista della Cop 21 di Parigi, ha aperto alla Russia per trovare una
soluzione alla crisi siriana. Ma il presidente francese pone la lotta contro Assad e il suo
regime come punto centrale: “il dramma è iniziato con la messa in causa della dittatura”,
responsabile della morte di 250mila persone e del flusso di rifugiati. “Mi parlano di
coalizione, possibile, auspicabile”, ha detto, “la base è stata data a Ginevra”, e parlava di
membri del governo attuale con l’opposizione, ma senza Assad. “Non si puo’ far lavorare
assieme il boia e le vittime”.
Alla vigilia dell’apertura dell’Assemblea generale dell’Onu, la Francia ha realizzato il suo
primo attacco aereo in Siria. Sette aerei, tra cui 5 Rafale, hanno preso di mira un campo di
addestramento dell’Isis, nell’est della Siria. Con un comunicato, l’Eliseo ha spiegato
domenica che si tratta di “proteggere il nostro territorio” e che il raid ha “raggiunto
l’obiettivo”. Altre frappes potranno aver luogo nelle prossime settimane. Parigi invoca la
legittima difesa e fa appello all’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite, che legittima
come “diritto naturale” una reazione in caso di “aggressione armata”. Per Hollande, che ha
deciso l’attacco aereo in un comitato ristretto con Laurent Fabius (Esteri) e Yves Le Drian
(Difesa), la Francia è aggredita perché nei campi dell’Isis si addestrano terroristi (di origine
francese) che hanno colpito o sono pronti a colpire in Francia (qualche migliaio di francesi
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combattono, hanno combattuto o sono pronti a farlo in Siria). L’avvocato Patrick Badouin,
presidente d’onore della Federazione internazionale dei diritti dell’uomo, in un’intervista a
Le Monde parla di “precedente inquietante”, “al limite della distorsione della procedura”,
che puo’ aprire la strada a un’escalation al di fuori delle regole dell’Onu. L’attacco aereo di
domenica non è pero’ servito a Parigi per tornare al centro del gioco diplomatico. La
Francia non è stata invitata a partecipare alla riunione del gruppo di contatto tra Usa,
Russia, Arabia Saudita, Iran, Turchia e Egitto. Hollande ha comunque incontrato a New
York il presidente iraniano, Hassan Rohani (la Francia è stata il paese più intransigente
nel negoziato sul nucleare iraniano).
L’operazione aerea in Siria era stata annunciata dalla Francia il 7 settembre scorso. Fino
ad allora, la Francia operava soltanto nei cieli dell’Iraq e aveva sempre rifiutato di
impegnarsi in Siria, sostenendo la tesi che questo avrebbe favorito il regime di Assad. Dal
2012 prevale la tesi dei “due nemici”, l’Isis e Assad, ma Parigi, che nel 2013 avrebbe
voluto attaccare il regime di Assad, ha subito un rifiuto da parte degli Usa. Sullo sfondo c’è
la scelta della Francia a favore dei sunniti nello scenario mediorientale, Qatar e Arabia
saudita in testa (con ricadute economiche importanti: investimenti consistenti in Francia e
acquisto massiccio di armi, in ultimo anche il pagamento delle due navi Mistral costruite
per la Russia, ma che andranno all’Egitto grazie al finanziamento saudita). Ma qualche
giorno fa Hollande ha cominciare a delineare un cambio di strategia: Assad non fa parte
dell’ “avvenire” della Siria si limita ora a dire Parigi (come Londra). Laurent Fabius ha
ribadito a New York che “se diciamo ai siriani che l’avvenire passa per Assad andiamo
verso il fallimento”. Per Fabius, Assad “è il primo responsabile del caos attuale”. Ma già si
intensificano le voci su un possibile abbandono della carica di ministro degli Esteri da
parte di Fabius, che al prossimo rimpasto (già previsto dopo l’annunciata sconfitta dei
socialisti alle regionali di dicembre) potrebbe uscire dal governo e venire nominato al
Consiglio Costituzionale. Tra i nomi che circolano per la successione, c’è anche quello di
Hubert Védrine, che è già stato agli Esteri. Védrine ha un’altra posizione: bisogna
“prendere atto del fallimento della strategia occidentale – ha affermato ieri alla radio
France Inter – abbiamo messo sullo stesso piano la lotta contro Daech (Isis) e la lotta
contro Assad. Moralmente, è assolutamente difendibile, una posizione piena di buoni
sentimenti, ma non ha funzionato e Putin ne ha approfittato. Non avremo mai dovuto
scartare la Russia da eventuale processo”. Ieri, si sono recati a Damasco tre deputati
francesi, tra cui un socialista. Il regime di Assad ha “condannato” l’attacco aereo francese,
perché “non è stato concordato” con il governo siriano, che di conseguenza “lo considera
un’aggressione”. Ma nel futuro il “coordinamento” con le forze in campo dovrà aver luogo,
non solo con Usa, Canada, Australia, Gran Bretagna e Giordania (come sta già
avvenendo), ma anche con Russia e regime di Assad.
Del 29/09/2015, pag. 5
Ora Renzi si aspetta che Obama esca
dall’isolazionismo sulla Libia
Il presidente Usa fa autocritica: “Dovevamo fare di più” E il premier:
“Molto interessante” il nuovo approccio Usa
Fabio Martini
Da qualche ora la Assembly Hall dell’Onu è tornata ad essere l’ombelico del mondo, in un
silenzio ansioso i governanti di tutto il pianeta stanno ascoltando Obama e Putin mentre
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duellano con i loro migliori argomenti e, da parte sua, Matteo Renzi (da alleato storico
degli Usa e amico della Russia di Putin) cerca di capire cosa possa venire di buono per
l’Italia se la quasi-guerra fredda dei mesi scorsi si trasformasse in una mini-distensione.
Completo blu scuro, sguardo assorto, Renzi ascolta Obama e annuisce quando il
Presidente dice che gli Stati Uniti «avrebbero potuto e dovuto fare di più» per assicurare la
stabilità in Libia. Dentro un discorso ricco di spunti concreti e ideali, quel passaggio sulla
Libia somiglia ad una autocritica, non tanto sull’intervento che portò alla soppressione di
Gheddafi, quanto invece sulla gestione del dopoguerra. Un passaggio autocritico e che in
parte chiama in causa anche i Paesi più interessati a quell’area, la Francia certo, ma in
parte anche l’Italia.
Paese strategico
E così, durante una pausa dei lavori dell’Assemblea generale, se uno chiede al presidente
del Consiglio cosa pensi di quella riflessione di Obama, Renzi risponde: «L’intervento del
presidente degli Stati Uniti è stato bellissimo e il passaggio sulla Libia è molto
interessante». Un modo per dire: se le fazioni libiche finalmente dovessero trovar pace, è
decisivo che gli Usa siano pronti a rivedere il loro «isolazionismo», dando una mano in
Paesi come la Libia. Paese chiave sullo scacchiere geopolitico mediorientale, ma
letteralmente strategico per l’Italia. Il più strategico di tutti. Per almeno tre motivi: perché
da lì partono i flussi più consistenti di migrazione, per la vicinanza storico-geografica, per i
fortissimi interessi economici raccolti attorno ai pozzi dell’Eni. Oltretutto, proprio ieri,
l’amministratore delegato dell’Eni Claudio De Scalzi ha spiegato: «Abbiamo fatto molte
scoperte in Libia e abbiamo la possibilità di più che raddoppiare la produzione gas. Questa
sarebbe una notizia positiva per tutta l’Europa».
E infatti nei mesi scorsi, grazie alla significativa triangolazione intessuta da Renzi con
Israele ed Egitto (ieri nuovo incontro con al Sisi), grazie allo sguardo benevolo del
presidente Putin e anche grazie all’azione diplomatica del ministro degli Esteri Gentiloni, il
premier sta lavorando per un dopo-guerra nel quale l’Italia abbia un ruolo dirigente. Ma
anche negli incontri più recenti, Renzi ha tenuto il punto su una questione decisiva, che
ogni tanto riemerge in modo distorto sui mass media: l’Italia non manderà neanche un
soldato in Libia - sia pure per una azione di peacekeeping - senza una apposita richiesta
di un (futuro) governo unitario libico e senza un formale mandato dell’Onu. Di
peacekeeping si è occupato un apposito summit Onu, introdotto da Obama, nel quale è
intervenuto anche Renzi. Preceduto da Cameron e seguito da Hollande, il presidente del
Consiglio ha sottolineato in particolare l’interesse internazionale per rafforzare la presenza
dei «caschi blu» della cultura, a protezione dei luoghi con interesse artistico (i carabinieri
lo svolgono già) e quanto alla Libia ha ribadito, ma è importante il luogo nel quale è stato
detto, la disponibilità italiana ad assumere un ruolo di leadership.
Del 29/09/2015, pag. 5
Con droni, navi e intelligence l’America è
pronta ad aiutare l’Italia
Il Pentagono esclude l’invio di truppe di terra a Tripoli ma sostiene la
sfida di Roma affinché la Nato si concentri sul Mediterraneo
Paolo Mastrolilli
Gli Stati Uniti sono pronti a valutare le richieste italiane di «asset» americani da impiegare
in Libia, truppe di terra a parte, o di intercedere presso altri Paesi se non li avessero a
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disposizione. In più, sostengono la richiesta che Roma ha avanzato affinché la Nato si
concentri maggiormente sul fronte Sud, dove Washington prevede «una situazione di
instabilità decennale nel Mediterraneo».
Sono gli impegni che l’assistente segretario alla Difesa per la sicurezza internazionale
Elissa Sloatkin ha preso con i diplomatici italiani, nel corso di incontri preparatori per
l’Assemblea Generale dell’Onu, e soprattutto per la visita che il capo del Pentagono Carter
farà a Roma e Sigonella il 5 e 6 ottobre. Durante questi contatti recenti, la direttrice per il
Nord Africa del National Security Council della Casa Bianca, Megan Doherty, ha
manifestato la «nervosa attesa» dell’amministrazione per i risultati della mediazione
dell’inviato Onu Bernardino Leon, che sta spingendo per un accordo anche parziale fra le
parti libiche in lotta, prima della scadenza del suo mandato. Una preoccupazione che si
salda con quella manifestata ieri dal presidente Obama al Palazzo di Vetro, dove ha fatto
mea culpa per la mancata ricostruzione del Paese dopo la caduta di Gheddafi.
Ruolo guida
Slotkin ha ribadito il riconoscimento di Washington per il ruolo guida che l’Italia sta
svolgendo nella nostra ex colonia, chiarendo che la visita di Carter avrà proprio l’obiettivo
di rimarcare l’attenzione del Pentagono per il fronte Sud e l’apprezzamento per la politica
di Roma. In questo quadro, pur se gli Usa continuano ad escludere di mettere «boots on
the ground» (le truppe di terra), c’è piena disponibilità ad aiutare il nostro Paese nel
condurre le proprie operazioni, che riguardano tanto le migrazioni, quanto la
stabilizzazione. Gli «asset» che gli americani potrebbero fornire non sono specificati, ma è
noto che i loro droni già partono dalla Sicilia per condurre missioni quotidiane di
sorveglianza, la loro intelligence elettronica è senza pari, le unità della Navy incrociano nel
Mediterraneo e la base di Sigonella è attrezzata per qualunque emergenza. La Gran
Bretagna sperava di far approvare dal Consiglio di Sicurezza la risoluzione contro il traffico
di esseri umani prima dell’Assemblea Generale, ma la Russia si è messa ancora di
traverso. L’Italia ritiene che le iniziative approvate in sede europea per fermare nelle acque
internazionali i trafficanti possano procedere anche senza il via libera dell’Onu, ma non
tutti nell’Unione condividono questa posizione. La questione quindi torna a collegarsi al
negoziato di Leon, che in caso di successo farebbe nascere l’interlocutore istituzionale
libico con cui discutere le iniziative sulle migrazioni. Il diplomatico spagnolo ha accelerato il
ritmo nelle ultime settimane, presentando una proposta per un governo nazionale da
prendere o lasciare, perché il suo mandato sta scadendo. L’idea è concludere un accordo
con chi ci sta, lasciandolo poi aperto ad adesioni successive. Il problema però sono le
resistenze del Gnc, che controlla Tripoli e quindi l’area da cui partono i trafficanti di esseri
umani.
Il «fronte» economico
In vista di una possibile intesa, nei giorni scorsi è andato a Washington anche Hassan
Bouhadi, presidente della Libyan Investment Authority, cioè il fondo sovrano e la holding
che controlla gli investimenti libici e circa 500 società. Bouhadi è espressione del governo
di Tobruk, ma ritiene legittima la sua posizione perché è stato nominato da un board
formato prima della crisi del luglio 2014. Quindi sta lavorando per usare gli asset del
vecchio governo allo scopo di sostenere quello che potrebbe nascere dalla mediazione di
Leon. Ha persino chiesto alla Deloitte di suggerire una riforma della Lia, che dovrebbe
separare il fondo sovrano dalla holding, creando poi tre filiere: un Future Generation Fund,
per preservare le ricchezze libiche per le generazioni future; uno Stabilization Fund, per
aiutare il governo nazionale; e un Local Development Fund, per favorire ripresa, sviluppo e
diversificazione. Bouhadi vuole lavorare con l’Italia perché il nostro Paese è presente non
solo con l’Eni nel settore dell’energia, ma anche con la Finmeccanica che ha investito
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nella Libyan Italian Advanced Technology Company. Il nostro sistema di piccole e medie
imprese, poi, viene considerato un modello da seguire per il futuro del Paese.
Queste discussioni sono avvenute anche nel quadro delle richieste di Roma per il
riorientamento della Nato verso il fronte Sud, messe nero su bianco in un documento
«food for thought» presentato a luglio, legato anche alla rapida trasformazione di Active
Endeavour in missione «non article 5» e all’avvio della fase due di Euromarformed. La
Slotkin ha detto che Washington condivide l’approccio italiano, e sta già facendo pressioni
su alleati orientali tipo la Polonia, per riequilibrare lo sbilanciamento della Nato verso Est.
Del 29/09/2015, pag. 8
L’anno zero in Medio Oriente
Medio Oriente anno zero. Nessuno dei leader mondiali che si incontrano
all’Onu forse passeggerà mai più per una strada del Medio Oriente, o
salirà in cima alla cittadella di Aleppo
Alberto Negri
Medio Oriente anno zero. Nessuno dei leader mondiali che si incontrano all’Onu forse
passeggerà mai più per una strada del Medio Oriente, o salirà in cima alla cittadella di
Aleppo.
Nessuno attraverserà piazza Firdous a Baghdad, dove nel 2003 venne abbattuta la statua
di Saddam, o alzerà gli occhi al cielo per osservare i grattacieli medioevali di Sanaa in
Yemen. L’orizzonte da cui sono nate millenarie civiltà è un cumulo di rovine. E neanche il
più ottimista dei rifugiati giunto in Europa dalla Siria può pensare di tornarci perché la
distruzione materiale ed economica della guerra è stata accompagnata da quella morale,
dalla scomparsa di ogni residuo di tolleranza e convivenza civile.
Per questo se mai ci sarà un giorno la ricostruzione della Siria, dell’Iraq, dello Yemen o
della Libia, e anche del lontano Afghanistan, tutto ci apparirà soltanto una replica
dell’originale, come avvertiva l’archeologo italiano Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla.
Ma se si può rifare un capitello di Palmira, è impossibile replicare una società sradicata
dalle fondamenta. Fondamenta assai fragili perché l’80% del Medio Oriente è l’eredità
della disgregazione dell’Impero Ottomano e delle successive sistemazioni coloniali anglofrancesi, cui sono seguiti i tragici fallimenti degli Stati laici e autocratici.
Quel Medio Oriente non esiste più neppure sulla carta geografica. Mentre Putin e Obama
ieri stavano discutendo a New York, un altro pezzo della regione più nevralgica del
mondo, custode di riserve di petrolio e di gas, scompariva, inghiottita da una battaglia del
Califfato, da un raid di Assad, da un bombardamento saudita o della coalizione
internazionale. La guerra ha travolto Stati e frontiere ma anche l’Islam: l’Isis ha reso
ancora più aspra la separazione tra sciiti e sunniti, tra laici e religiosi, tra una maggioranza
musulmana e minoranze che si sono dissolte. I cristiani sono scomparsi dal cuore dell’Iraq
per rifugiarsi in Kurdistan, così come gli yezidi o i mandei, di cui nessuno ha mai parlato
ma che vivevano lungo il Tigri da migliaia di anni. Sono diventate laceranti anche le
divisioni etniche, come quella che oppone i curdi a ad Ankara e rischia di diventare una
questione insanabile per la Turchia, storico membro della Nato.
Le costruzioni post-coloniali sono pericolanti perché si è liquefatto l’unico collante che le
teneva insieme, il nazionalismo, anche nelle sue forme più esasperate come quella di
Saddam Hussein in Iraq o di Gheddafi in Libia. Caduti i raìs sono crollati gli Stati che
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rappresentavano e sono in crisi di legittimità anche le monarchie del Golfo che dopo avere
esportato problemi finanziando l’Islam radicale ora vedono i guai tornare a casa propria.
È sintomatico che i soli a reclamare ancora una nazione (e un territorio), oltre ai separatisti
curdi, siano i palestinesi che ieri hanno innalzato la loro bandiera all’Onu. Per Washington,
che ha votato contro, è intervenuta l’ambasciatrice Samantha Power: «Alzare la bandiera
palestinese non è un’alternativa ai negoziati e non porterà più vicini alla pace». Una
dichiarazione surreale: nessuno parla più di negoziati. Gli israeliani hanno evitato
commenti inutili. Dalle alture del Golan vedono ben altri stendardi sventolare all’orizzonte.
L’unica bandiera che garrisce al vento è quella nera del Califfato che di fatto ha abbattuto i
confini coloniali. Forse non è un caso che il video di maggiore successo dell’Isis sia quello
in cui un bulldozer disintegra in pieno deserto un cartello con la scritta Sykes-Picot, il
nome dei due diplomatici di Gran Bretagna e Francia che nel 1916 disegnarono la
spartizione del Levante arabo.
Negli ultimi decenni gli islamisti hanno cercato in ogni modo di creare uno Stato islamico
governato dalla sharia: in Sudan, in Afghanistan, in Yemen, nel Sahel africano. L’idea era
quella di impossessarsi di uno Stato preesistente e farlo proprio, mentre al-Qaeda e
Osama bin Laden puntavano a spargere il terrore mirando al nemico lontano, Stati Uniti e
Occidente. Ma l’11 settembre non ha avuto gli effetti sperati lasciando immutati gli equilibri
geopolitici del Medio Oriente. Al-Qaeda seminava paura ma non cambiava il mondo.
Il Califfato nasce in Iraq proprio da questa intuizione. È inutile combattere il centro del
potere, è molto più efficace prendersi le periferie concentrandosi sui territori dove il
governo è più debole e più forte lo scontento. Così nasce lo Stato Islamico: un pezzo di
Iraq cui aggiungere un pezzo di Siria facendo saltare le frontiere tracciate sulle ceneri
dell’Impero Ottomano. L’Isis è nei fatti la dimostrazione che il mondo può cambiare: è con
questo che ha calamitato i consensi locali dei sunniti e mobilitato l’afflusso dei foreign
fighters. Si è parlato molto dei jihadisti occidentali, dei convertiti. Ma la realtà è che i
combattenti stranieri di prima linea sono ceceni, uzbeki, jihadisti di tutte le nazionalità
addestrati in Afghanistan, Yemen, Sudan, Maghreb e Sahel.
Quello dell’Isis è un esercito motivato e professionale. Altrimenti non avrebbe sbaragliato
quello iracheno, messo spalle al muro Assad e dato filo da torcere a milizie sciite
sperimentate come quelle dei libanesi Hezbollah e dei Pasdaran iraniani. Chi ha viaggiato
con Hezbollah sa perfettamente che nel Qalamoun siriano hanno combattuto contro
ceceni che adottavano le stesse tattiche di guerriglia usate a Grozny contro i russi.
Ecco perché la guerra al Califfato non si vince soltanto con i raid aerei. Questo lo sa
certamente Putin e anche Obama che non vuole impegnare truppe nel Levante. Ma
soprattutto entrambi sanno, come pure gli Stati della regione convolti - Turchia, Iran,
Arabia Saudita - che il Medio Oriente è all’anno zero e la soluzione militare non basta a
ricostruire un mondo che non c’è più.
del 29/09/15, pag. 4
La jihad allarga i confini blogger e stranieri
nel mirino “No al contagio occidentale”
RENZO GUOLO
L’ASSASSINIO di Cesare Tavella avviene in un Paese, il Bangladesh, che sia pure in
maniera molto diversa dal Pakistan, dal quale si è separato nel 1971, non può ritenersi
indenne dal fenomeno jihadista.
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Agli occhi degli islamisti radicali, il Bangladesh ha il doppio torto di avere un regime
parlamentare e di aver garantito un certo pluralismo religioso alle altre confessioni.
L’estremismo politico e religioso si è sviluppato anche qui, a dimostrazione che l’ideologia
che ne è alla base non conosce confini. Come dimostrano gli arresti, a partire dal 2014, di
elementi radicali nel nordest del paese e la significativa presenza di immigrati di seconda
generazione o residenti bengalesi in Gran Bretagna, tra i foreign fighters dell’Is. Oltre che
le esecuzioni compiute nell’ultimo anno e mezzo dal gruppo Ansarullah Bangla Team di
alcuni blogger laici e l’adesione di formazioni come Jamaatul Mujahidin Bangladesh (Jmb)
alla causa del rifondato Califfato.
La rivendicazione dell’omicidio di Tavella rivela, se ne sarà confermata l’autenticità, il
perché della sua tragica morte. L’italiano viene colpito in quanto occidentale,
appartenenza definita dall’uso sprezzante del termine “crociato”; in quanto cittadino di un
Paese che aderisce alla coalizione anti-Is; in quanto cooperante. Anche la cooperazione,
infatti, sia essa legata al mondo delle imprese o alla solidarietà, è ritenuta una forma
mediante cui l’Occidente continua a penetrare nei territori della Mezzaluna: veicolando
valori ostili a quella che viene ritenuta “l’autentica fede”. Il comunicato attribuito all’Is
sottolinea chiaramente questo punto, quando afferma che «i cittadini dell’alleanza crociata
non avranno nessuna sicurezza nella casa dell’Islam» e che l’esecuzione di Tavella,
inseguito e braccato nelle via di Dacca, «è solo l’inizio».
Un messaggio che, anche in quest’ultima parte, preoccupa non poco il governo
bengalese, deciso a proseguire una politica mirata a favorire la presenza di investimenti
stranieri e di personale occidentale con precisi saperi tecnici. Politica che ha contribuito a
far crescere economicamente un Paese segnato da ricorrenti catastrofi climatiche e
caratterizzato da una crescita demografica che ne fa la nazione con la più alta densità di
popolazione al mondo. Colpendo un occidentale, inoltre, gli jihadisti bengalesi ottengono
una visibilità mediatica che ne rafforza il prestigio nei confronti della leadership dell’Is e al
contempo consente di ampliare il bacino di reclutamento tra quanti condividono
quell’ideologia ma non sono ancora parte organica del gruppo di Al Baghdadi.
Che possibili attentati fossero imminenti in Bangladesh lo segnalavano alcuni allerta
provenienti dalla Gran Bretagna, i cui servizi d’informazione hanno storicamente reti
efficienti nell’area, e dell’Australia, anch’essa partner di Londra in una collaudata alleanza
informativa. Il Foreign Office aveva messo in guardia i propri connazionali dalla minac- cia
terroristica nel Paese asiatico proprio nella giornata in cui Tavella è stato assassinato.
Quanto all’Australia, aveva rinviato la partenza della nazionale di cricket nel timore di
attentati. Particolare che testimonia il rischio sicurezza in un Paese, sino a poco tempo fa,
ritenuto “sicuro”.
Ma non esistono luoghi sicuri nel tempo dello jihadismo. Semmai, luoghi in cui quel rischio
è meno elevato. La diffusione del radicalismo islamista e dell’ideologia jihadista fa sì che,
gruppi organizzati, lupi solitari o cellule miniaturizzate, possano colpire ovunque.
Tanto più nelle strade di città popolose come Dacca. Una metropoli di oltre quattordici
milioni di abitanti nella quale è facile nascondersi e trovare sostegno logistico tra i seguaci
di un ideologia che mette programmaticamente nel mirino gli occidentali.
Del 29/09/2015, pag. 21
Dopo l’intesa con gli Usa. La crisi del Venezuela pregiudica le forniture
di petrolio e mette a rischio il sistema
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Cuba, la svolta in cerca di partner
L’isola intensifica la ricerca di accordi economici internazionali
Il Kolossal è già stato girato, in Hd. La stretta di mano di due grandi vecchi latinoamericani,
il Papa e Fidel Castro trionfa sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. Una foto che è
una pagina di storia: Francesco a L’Avana, a casa del lider maximo.
L’ultimo atto di una diplomazia segreta che disegna nuovi equilibri geopolitici. Una svolta
preparata nel tempo: i primi semi gettati quasi vent’anni fa, poi la visita a L’Avana di
Giovanni Paolo II, nel 1998 e quella di Benedetto XVI nel 2011. «Che Cuba si apra al
mondo e il mondo si apra a Cuba». Fu questo lo stilema del 1998. È successo. «Mision
cumplida». Obiettivo raggiunto. L’incontro tra il Papa e il Lider maximo, ha sancito
l’efficacia della mediazione papale.
La riapertura delle ambasciate, quella cubana a Washington e quella americana a L’Avana
si traduce in una grandissima vittoria politica prima che pastorale. Raul Castro, alcune
settimane fa, ha dichiarato: «Gli Stati Uniti non sono più i nostri nemici, sono i nostri
vicini». Al di là del Muro d’acqua che separa Cuba da Miami, il presidente Obama sta
disegnando nuove regole mirate ad allentare le restrizioni alle imprese americane che
vogliano fare affari con Cuba.
È una bozza di accordo che agevolerà le imprese americane interessata a lavorare a
Cuba e quelle cubane: per esempio le compagnie aeree potranno importare pezzi di
ricambio e tecnologie dagli Stati Uniti per migliorare la sicurezza dei turisti a Cuba; al
tempo stesso verranno allentate le restrizioni per le esportazioni, dagli Stati Uniti a Cuba,
di software. Sarà inoltre consentito ad alcune imprese statunitensi di aprire succursali a
Cuba, possibilmente attraverso la costituzione di società a capitale misto.
Obama ha scelto quindi di accelerare il disgelo adottando misure che flessibilizzino da
subito l’operatività delle imprese americane e la cooperazione bilaterale tra i due Paesi.
L’embargo infatti per ora resta in vigore. Nonostante il favore dei deputati democratici e di
alcuni repubblicani verso l’apertura verso Cuba, non va dimenticato che alcuni leader del
Congresso sono contrari all’abolizione del bloqueo. Tra questi persino alcuni candidati alle
prossime elezioni presidenziali americani, per esempio Jeb Bush.
Obama utilizza quindi i suoi super poteri per accelerare le procedure: per esempio
aumentando il numero delle categorie di operatori autorizzati ad avere relazioni
commerciali con Cuba. Un escamotage per ovviare agli intralci dei congressisti ancora
ostili alla abolizione dell’embargo.
Al di là delle relazioni con gli Stati Uniti, il governo di Cuba cerca di intensificare gli accordi
economici internazionali. La grave crisi economica del Venezuela pregiudica infatti le
forniture di petrolio da Caracas a L’Avana e pone seri problemi energetici all’isola
caraibica.
Entro breve la società cinese Beijing Enterprises holdings, in joint venture con il gruppo
cubano Palmares, ha creato una mega agenzia immobiliare che avvierà i lavori per la
costruzione di alberghi e campi da golf nella zona di Bellomonte, a Est de L’Avana. I due
ministri del Turismo, il cubano Manuel Marrero e il cinese Li Jinzao, hanno già siglato
accordi di cooperazione.
Raul Castro cerca di rafforzare, da tempo, i rapporti con la Cina. Il turismo è la seconda
fonte di ingresso per le casse cubane; nel primo semestre 2015, secondo i dati ufficiali, ha
incassato 1,7 miliardi di dollari. Sono stati siglati anche accordi per lo sviluppo del settore.
Msc Crociere è la più grande compagnia al mondo a capitale privato leader nel
Mediterraneo e in Sud America; poche settimane fa ha annunciato che la nave “Opera”
avrà come homeport L’Avana per la stagione invernale 2015-2016. Msc Opera può
ospitare 2120 passeggeri e si accinge a effettuare 16 crociere nel Mar dei Caraibi. La nave
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è stata riammodernata nello stabilimento Fincantieri di Palermo, rinnovata e allungata di 2
4 metri grazie ai lavori del Programma Rinascimento.
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INTERNI
del 29/09/15, pag. 16
Renzi: l’ostruzionismo non fermerà la riforma
Oggi la legge in aula
Il Pd punta a far decadere milioni di emendamenti Pressing su Grasso.E
Bersani attacca Verdini
SILVIO BUZZANCA
ROMA .
Si parte. Oggi il Senato comincia a discutere nel merito delle riforme costituzionali e
saranno illustrate le proposte di modifica. Domani invece si inizierà a votare. Matteo Renzi
da New York suona la carica: « Nessun tentativo di ostruzionismo sugli emendamenti ci
fermerà, l’Italia che vuole cambiare e quella che ha voglia di fiducia e futuro è molto più
forte di chi sa solo dire di no», dice il premier dal Palazzo di Vetro dell’Onu. Il presidente
del Consiglio continua a pensare positivo e non considera i 75 milioni di emendamenti
presentati da Roberto Calderoli un problema. «Non vedo alcun impasse, questa legge
verrà votata dai parlamentari, dai senatori e poi i cittadini decideranno con il referendum».
spiega Renzi. «Se uno presenta uno, due o dieci emendamenti vuole cambiare il testo, se
ne presenta 80 milioni con modalità tecniche non conformi al regolamento credo che il
problema non si ponga nemmeno». E questo spiega la linea di attacco della maggioranza
alla montagna di emendamenti: non possono essere considerati ammissibili.
Perché sono troppi, nascono da un algoritmo e non esprimono la volontà del legislatore,
non portano la firma in calce. Ma qui il ragionamento renziano si scontra con il fattore
Grasso. Il presidente del Senato non ha ancora sciolto il nodo di cosa è ammissibile e
cosa no, di come procedere nelle votazioni, se saranno consentiti o meno dei voti segreti.
Questa sarà la prima battaglia procedurale e il Pd proverà a fare votare per primo l’articolo
10 che farebbe decadere in blocco milioni di emendamenti e metterebbe il governo al
riparo dal segreto dell’urna. Comunque il verdetto di Grasso sull’articolo 2 non arriverà
prima di venerdì. Ma la minoranza del Pd chiede altre modifiche sull’elezione del capo
dello Stato e le norme transitorie certe sull’elezione dei senatori. Pierluigi Bersani poi
attacca l’apporto di Verdini e i suoi alle riforme: «Verdini e compagnia dice - cercano di
entrare nel giardino di casa nostra. Questo è un delirio trasformista e mi aspetto parole
chiare dal Nazareno».
Ncd, invece torna a chiedere la “verifica”. Questa volta subito dopo il sì alle riforme.
del 29/09/15, pag. 19
DI STEFANO FOLLI
La Catalogna e i silenzi della Lega
nazionalista
Primi scricchiolii per il Carroccio proprio quando il leader si prepara a
fagocitare Forza Italia
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C’È QUALCOSA che non convince nel percorso di Matteo Salvini da leader della Lega
Nord a personaggio simbolo della destra nazionalista. Qualcosa che comincia a riflettersi
nei sondaggi, ancora ottimi per lui ma meno scintillanti di qualche mese fa. Le percentuali
scivolano dal 15 o addirittura 16 per cento a un 14 senza dubbio rilevante, se non fosse
che indica un’inversione di tendenza. Fino a un certo punto Salvini è cresciuto in modo
costante, adesso ristagna o addirittura retrocede. Il paradosso è che l’inciampo si verifica
proprio quando le circostanze sembrerebbero favorevoli come non mai. Forza Italia si sta
sbriciolando, Berlusconi non seduce più nemmeno i giovani di Giorgia Meloni, pezzi di
ceto politico e parlamentare guardano altrove o son tentati dal prendere il taxi di Verdini.
Eppure quel 9-10 per cento di fedelissimi alla sigla berlusconiana non è poco. Se seguirà
la corrente, potrebbe finire in buona misura tra le braccia di Salvini. Non tutto, ma una fetta
cospicua, forse i due terzi. Lo stesso vecchio leader si sta preparando a negoziare con il
leghista, sia pure senza il minimo entusiasmo.
Del resto, la strada pare obbligata e Salvini si allena a vestire i panni dell’erede designato.
Anche se il candidato premier difficilmente sarà lui. È singolare dunque che proprio
adesso si comincino ad avvertire degli scricchiolii. Molto dipende dal fatto che quel 20-22
per cento complessivo (Lega più il grosso di Forza Italia) non dà l’impressione di un
movimento in ascesa bensì di un’alleanza vetusta, con i berlusconiani in crisi drammatica.
Se si tratta di essere credibili come ariete anti-sistema, i Cinquestelle continuano a essere
avanti nei sondaggi (24-25 per cento) e, nonostante i loro limiti, trasmettono un’immagine
meno compromessa con manovre di palazzo lunghe vent’anni.
Tuttavia non basta. Il partito di Salvini è pur sempre figlio del partito separatista di Umberto
Bossi. Oggi di Padania non si parla più, ma il nome è rimasto quello: Lega Nord. Ed è un
po’ curioso che il giovane leader abbia cambiato strada fino al punto di ignorare la vittoria
degli indipendentisti in Catalogna. Non una parola, un commento, un “tweet”. Nonostante
la sua non comune capacità di esposizione mediatica, Salvini non ha trovato niente da
dire. E sì che la Catalogna, insieme alla Scozia, era il simbolo stesso del leghismo prima
maniera. Come sa bene uno dei sopravvissuti della vecchia guardia, quel Calderoli tornato
agli onori delle cronache per via degli 80 milioni di emendamenti alla riforma Boschi.
È ben chiaro che la nuova Lega salviniana è tutt’altra cosa e si ispira al nazionalismo di
Marine Le Pen. Ma forse il salto è un po’ troppo brusco per l’opinione pubblica. Forse
andrebbe spiegato, invece di seppellirlo sotto una coltre di mutismo. Forse le posizioni
politiche hanno bisogno di radici, meglio se lunghe: non basta il battere e ribattere ogni
giorno sul tema dell’immigrazione. E persino il piccolo infortunio del visto negato dalla
Nigeria, che ha reso impossibile un viaggio di propaganda, sembra confermare
l’impressione generale: la “fase uno” di Salvini tende alla conclusione. Per tornare a far
notizia, il leader leghista deve rinnovare il suo spartito con un po’ di fantasia e, se
possibile, di cultura politica. I viaggi in Africa, giunti al punto in cui siamo, servono a poco.
SERVIREBBE cambiare nome alla Lega Nord, se si vuole incarnare un’idea di nazione
(ma quale, se prevale in ogni caso il populismo?). E poi sarebbe utile costruire un’alleanza
di centrodestra meno scontata, meno circoscritta al berlusconismo morente con l’aggiunta
di dosi massicce di “talk show” televisivi. Tutto lascia presumere che il prossimo scontro
elettorale sarà fra il sistema, sia pure riformato, cioè Renzi; e l’anti-sistema, al momento
Grillo. Dove si collocano Salvini e Berlusconi? Con il sistema o l’anti-sistema? Finora non
sembra chiaro nemmeno a loro. Ma non basta che Salvini taccia sulla Catalogna per
esorcizzare il terremoto europeo, davanti al quale la Lega nazionalista smarrisce se
stessa.
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del 29/09/15, pag. 19
Salvini: tra un mese il partito unico
Il segretario leghista prepara il suo “predellino” per l’8 novembre. Una
sola formazione del centrodestra Per Forza Italia sarà prendere o
lasciare. Caos sul candidato sindaco di Milano: Del Debbio dice ancora
no
CARMELO LOPAPA
ROMA.
Dovrà essere il “predellino” versione leghista. Il giorno del partito unico del centrodestra,
chi ci starà salirà a bordo, gli altri resteranno a terra. Berlusconi avvertito. Matteo Salvini
ha segnato la data in blu sul calendario: l’8 novembre non sarà solo il giorno in cui
concluderà dal palco di Bologna la tre giorni anti-Renzi con cui sogna di «fermare l’Italia».
Ma da quella stessa tribuna lancerà anche il listone della coalizione del futuro. La
decisione l’ha presa in queste ore.
Perché è con l’Italicum (e il premio alla lista) che bisognerà fare i conti. Per il momento
l’unica cosa certa è che il nome conterrà la parola Lega. Perché è il leader del Carroccio a
dettare regole di ingaggio e condizioni dell’eventuale alleanza. «Sono disponibilissimo a
ragionare con Berlusconi e Fi ma partendo dalle nostre proposte e senza marmellate »
avvertiva già ieri da Radio Padania il lumbard in versione falco. «Se pensano che siamo
un popolo di trogloditi li stupiremo», dice a muso duro al Cavaliere secondo il quale il
ragazzo sarebbe bravino ma «a parlare alla pancia» degli italiani.
Dell’8 novembre Salvini parlerà oggi in una conferenza stampa convocata alla Camera,
anche per lanciare l’appello all’adesione a tutte le forze che non si riconoscono nel
governo Renzi. Il partito unico — del quale parlerà direttamente quel giorno, senza
anticipazioni — consentirà di riprendere l’espansione a Sud, interrotta con le regionali. Poi,
nella primavera 2016, l’intero pacchetto dovrà essere sottoposto al voto del congresso
federale leghisa.
Ecco perché sul nome si è aperto un dibattito tra i big di via Bellerio. Si fa un gran parlare
di “Lega Italia” o “Lega degli italiani”, un brand costruito per sbarcare a Sud di Firenze e
fino in Sicilia e soprattutto per catturare dirigenti ed elettori forzisti, in una ipotetica fusione
Lega- Forza Italia. Ma sono già parecchi i mugugni leghisti. Nel mini sondaggi ai vertici del
Carroccio il nome «Lega dei popoli» sbaraglia le alternative. Dettagli, pur non secondari.
Quel che conta per Salvini è partire, e alla svelta. Al di là dell’appello che lancerà oggi da
Montecitorio — parlerà anche dell’«affronto» del mancato riconoscimento del visto
dall’ambasciata nigeriana — del progetto listone unico parlerà a quattr’occhi con Silvio
Berlusconi. Tra i due finora solo un’escalation di scintille, il faccia a faccia rinviato nelle
ultime quattro settimane (se ne parla dai primi di settembre) sembra adesso probabile per
giovedì a Roma, «ma non è ancora fissato » spiegano da entrambe le scuderie.
Sarà anche perché non c’è lo straccio di un accordo ancora sulla candidatura a sindaco di
Milano, mentre proprio da quell’intesa dovrebbe passare il rilancio della coalizione. Ma
l’unico nome che avrebbe potuto conciliare tutte le parti in gioco, il giornalista Paolo Del
Debbio, si è tirato fuori in maniera definitiva e categorica (il contratto Mediaset non può
competere con l’indennità da sindaco di una grande città, troppi zeri di differenza). Per
motivi diversi, anche la strada che porta al capogruppo al Senato Paolo Romani è
sbarrata. Allora la giostra ha cominciato a girare in maniera vorticosa: si fa il nome di
Simone Crolla, ex parlamentare, ma anche quello di Claudio De Albertis, nuovo presidente
dell’Associazione nazionale costruttori. Ma anche lì, la Lega che con Maroni amministra la
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Regione, vuole dire la sua, eccome. Berlusconi ieri sera ha riaperto la serie di cene di
autofinanziamento, dopo il flop di questo 2015. E ha iniziato da casa, invitando a Villa
Gernetto gli imprenditori brianzoli. Oggi resterà ad Arcore per festeggiare con la fidanzata
Francesca e i figli i 79 anni. A Roma dovrà tornare senza alcuna voglia mercoledì, per
cenare con deputati e senatori e provare a blindare una squadra in libera uscita.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 29/09/2015, pag. 9
Il pm Di Matteo resta solo: “Una brutta
sensazione”
Un altro pentito: “Il tritolo per lui è a Palermo”. Ma non si trova. Sfogo a
Taormina
di Giuseppe Lo Bianco
Il pm Nino Di Matteo ha una “brutta sensazione”, ma attorno a lui il silenzio è assoluto.
Della politica, delle istituzioni e dei media. A Palermo parla un nuovo pentito, Francesco
Chiarello, boss del Borgo Vecchio, interrogato da due pm della Direzione distrettuale
antimafia di Palermo che si occupano di mafia militare, Caterina Malagoli e Francesca
Mazzocco, e conferma uno dei segreti che Cosa Nostra custodisce meglio: “L’esplosivo
per l’attentato al pm Nino Di Matteo è stato trasferito in un altro nascondiglio sicuro”. Che
ancora non si trova: lo hanno cercato nelle borgate marinare e nelle campagne di
Monreale, sono state fatte irruzioni e perquisizioni, ma di quei duecento chili di tritolo
nascosti da qualche parte in città, o in periferia, non c’è traccia. Si sa solo che sono pronti
ad essere utilizzati non appena le “menti raffinatissime” decideranno che il momento è
arrivato. Di Matteo lo sa e le sue parole suonano come un’estrema denuncia di solitudine
di fronte a un rischio che aumenta ogni giorno nel disinteresse generale.
Per gli investigatori, infatti, le parole del pentito sono un riscontro importante alle
rivelazioni di Vito Galatolo, che l’anno scorso parlò del progetto di attentato al pm più
blindato d’Italia voluto dal superlatitante Matteo Messina Denaro: “Fu sollecitato attraverso
un pizzino che ci venne letto dal boss di San Lorenzo Girolamo Biondino in una riunione a
Ballarò il pomeriggio del 9 dicembre 2012”. Oggi Chiarello conferma l’esistenza
dell’esplosivo e i nomi dei protagonisti: a parlargliene, dice, è stato Camillo Graziano, suo
compagno di cella: “Mi disse che per fortuna suo padre era stato scarcerato, così aveva
potuto spostare il tritolo”.
E il padre di Camillo è Vincenzo Graziano, il vice di Vito Galatolo che lo ha indicato come il
custode dei 200 chili di tritolo comprati in Calabria fra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, da
utilizzare contro Di Matteo. Dichiarazioni raccolte in un verbale immediatamente inviato
alla Procura di Caltanissetta che ha riunito in un fascicolo le indagini e i riscontri fin qui
compiuti sul progetto di attentato: oltre a Galatolo e Chiarello a parlare dell’attentato è
stato anche Carmelo D’Amico ai pm della Dda di Messina, e tracce della volontà dei boss
sono venute a galla in una serie di intercettazioni per ora top secret.
L’unico a tenere la bocca chiusa è proprio Vincenzo Graziano, il custode del segreto: la
notte del suo arresto si lasciò sfuggire solo una battuta con i militari della Finanza che lo
stavano ammanettando: “L’esplosivo per Di Matteo dovete cercarlo nei piani alti”.
Un’allusione ad ambienti oltre Cosa Nostra, come aveva fatto lo stesso Galatolo, rivelando
che Matteo Messina Denaro avrebbe messo a disposizione un artificiere: “Avevamo
l’ordine che non dovevamo presentarci con questa persona e questo ci stupiva: capimmo
che era esterna a Cosa nostra e che poteva essere qualcuno dello Stato che era
interessato a fare questa strage. Serviva a far capire a tutti che la mafia era ancora viva”.
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Ieri mattina in Procura le facce degli agenti di scorta sono tornate tese nell’area blindata
della Procura dove Di Matteo era appena tornato da un’udienza ordinaria: maltrattamenti
in famiglia e abbandono non autorizzato di rifiuti. Ci sono anche questi reati nell’ordinaria
giornata di lavoro del pm che scava nei misteri della trattativa Stato-mafia in un clima di
crescente tensione. Ma dell’esplosivo Di Matteo non vuole parlare: a Taormina, alla
presentazione del suo libro, ha detto di avere “una brutta sensazione”, ma adesso non
vuole approfondire quell’espressione. Anzi, non vuole dire nulla. E attorno a lui il silenzio
istituzionale è totale.
Il clima non è cambiato da quando, nel dicembre del 2013, una delegazione del Csm
venne a Palermo per esprimere solidarietà ai magistrati antimafia minacciati: erano
appena state pubblicate dai giornali le parole di Riina (“questo Di Matteo non ce lo
dobbiamo dimenticare e Corleone non dimentica”) ma il Csm preferì incontrare Silvana
Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale, oggi indagata per
corruzione e abuso d’ufficio, proprio per la gestione dei beni confiscati a Cosa Nostra. Il
vice presidente Michele Vietti cercò di metterci una pezza: “Se avessi visto Di Matteo, lo
avrei abbracciato. Ma non l’ho visto”. Forse perchè nessuno lo aveva invitato: né lui, né i
suoi colleghi Teresi, Tartaglia e Del Bene, che restarono chiusi nelle proprie stanze. E
ancora oggi non si sa che fine abbia fatto il trasferimento d’ufficio proposto dal Csm “per
ragioni di sicurezza” e sospeso a richiesta del magistrato che voleva attendere l’esito della
sua domanda alla Direzione nazionale antimafia.
La domanda fu bocciata, sul trasferimento il silenzio è totale. Come quello della politica
sulle conferme del tritolo: in questi giorni dai politici Nino Di Matteo ha ricevuto una sola
telefonata di solidarietà, quella del deputato del M5S Alessandro Di Battista. Ieri si è
aggiunto un post di Beppe Grillo sul blog. Su Twitter cresce la campagna
#iostocondimatteo
Del 29/09/2015, pag. 18
La nuova ’ndrangheta tra fiori e cioccolatini
Non solo cocaina, controllavano i mercati in Olanda e Canada
Guido Ruotolo
Michele Prestipino, procuratore aggiunto di Roma, spiega il segreto del «successo» della
’ndrangheta: «Ha una grande flessibilità nell’adattarsi a ciò che il mercato offre e a
prevedere quali saranno i segmenti che un domani tireranno». Alla Procura nazionale
antimafia si parla del mercato dei fiori olandese e del cioccolato Lindt. Altro che solo
cocaina o armi. La ’ndrangheta sfrutta ogni occasione che si presenta per fare profitti.
Fermi importanti, i 54 di ieri, tra Calabria, Lazio e altre città italiane. Ma in questa inchiesta
congiunta delle procure di Roma e Reggio Calabria i protagonisti si muovono tra la
Locride, Amsterdam e il Canada confermando la presenza di ’ndrine e forse di locali (i
livelli organizzativi di base e intermedi della ’ndrangheta) anche in questi due Paesi.
Le cosche madri
Stiamo parlando delle cosche Commisso-Macrì di Siderno e Coluccio-Aquino di Marina di
Gioiosa Ionica. E non è un caso che ieri il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola
Gratteri, abbia esaltato l’importanza di questi fermi («È una delle tre inchieste più
importanti degli ultimi dieci anni»). I Commisso («che dispongono di 500 killer», dice
Gratteri) e gli Aquino hanno proiezioni internazionali molto diffuse e presto potrebbero
esserci altre novità. Gli studiosi della mafia calabrese impazziranno nel leggere le carte, le
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dichiarazioni dei pentiti, le intercettazioni ambientali che confermano appunto che la
Calabria continua ad essere l’ombelico di questo mondo criminale.
I fiori delle cosche
La proiezione olandese dei Commisso fa riferimento alla famiglia Crupi che è inserita nel
settore della floricultura. Dall’Olanda a Siderno e Latina, Vincenzo Crupi gestisce
un’importante società di import/export del settore. Scrivono gli investigatori del Ros dei
carabinieri e dello Sco della Polizia: «Hanno il controllo di vasti segmenti del mercato della
floricoltura locale olandese e una ramificata e solida rete logistica e di supporto a diverse
attività illecite del sodalizio».
Il cioccolato
La vicenda della ricettazione di 250 tonnellate di cioccolata Lindt (valore 7 milioni di euro)
è emblematica. Si tratta dei famosi Lindor Boules al latte, confezionati con la classica carta
rossa da rivendere sfusi.
«La Inge.Ma Trading di Lodi viene incaricata dalla Lindt allo stoccaggio e alla
preparazione dei loro prodotti per la successiva spedizione sui mercati nazionali e
internazionali della Polonia, dell’Austria e della Svezia. Una volta ricevute le quantità di
cioccolata al magazzino, servendosi di dipendenti di nazionalità indiana assunti
irregolarmente, sottraevano ai colli vari chilogrammi di cioccolata, riformandone altri con
scatolame con marchio Lindt e apponendovi all’esterno delle false etichette».
Dalle intercettazioni ambientali negli uffici olandesi della «Fresh», viene fuori che parte
della cioccolata rubata veniva custodita a Siderno per essere poi rivenduta.
In un capitolo dell’inchiesta si accenna anche a una possibile guerra di mafia in Canada,
tra diverse fazioni della ’ndrnagheta reggina radicate nell’Ontario, dopo l’omicidio del boss
a Carmine Verduci, assassinato nell’aprile del 2014 a Woodbrige. Ne parla in
un’ambienatale Vincenzo Crupi con il cognato Vincenzo Macrì: «Ad ucciderlo sono stati i
“briganti”, i fratelli Angelo e Cosimo Figliomeni».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 29/09/2015, pag. 7
Il dibattito a Palazzo di Vetro. Duro intervento del segretario generale
dell’Onu
Migranti, l’ira di Ban Ki-moon
NEW YORK
«Chiedo all’Europa di fare di più». Così, con un appello e una sferzata morale, il segretario
generale Ban Ki-moon ha aperto la 70esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
prendendo di petto il dramma dei migranti, dell’esercito di rifugiati che oggi parte alla volta
del Vecchio Continente in fuga disperata dalla Siria e dal Nordafrica, da guerre e miseria.
«Non dovremmo costruire mura o recinzioni, dobbiamo guardare alle radici del problema
nei Paesi di origine», ha affermato rivolgendosi alle 193 nazioni riunite da ieri al Palazzo di
Vetro di New York. E ha ricordato ai leader europei che in un passato non troppo lontano
sono stati i loro Paesi a ricevere aiuto umanitario: «Dopo la Seconda Guerra Mondiale è
stata l’Europa a cercare assistenza».
Europa e Unione Europea, all’Onu, sono in una posizione scomoda: obiettivo di critiche
per i ritardi, la sottovalutazione, la difficoltà nel coordinare le azioni in risposta alla crisi.
Tensioni che accompagneranno due riunioni ad alto livello sulle migrazioni convocate oggi
e domani a margine dell’Assemblea sotto gli auspici del segretario generale. Il clima
arroventato, soprattutto tra Paesi in via di sviluppo e potenze emergenti, è stato
sintetizzato da Dilma Rousseff, presidente del Brasile, che ha ricordato come il suo Paese
in recessione oggi ospiti rifugiati siriani e haitiani come aveva fatto un secolo fa con
migranti europei e asiatici: «In un mondo dove merci, capitali, dati e idee fluiscono
liberamente, è assurdo bloccare i flussi delle persone».
La Ue, però, dovrebbe rispondere sottolineando i passi avanti compiuti di recente. E
lanciando a sua volta un appello a tutti i Paesi avanzati e ricchi a intervenire a favore dei
rifugiati, dagli Stati Uniti alla Turchia e alle nazioni del Golfo Persico. L’obiettivo
dell’incontro al vertice di domani all’Onu, inoltre, è propositivo: forgiare una più
comprensiva e coordinata risposta internazionale all’intero dramma dei rifugiati, ora
esemplificato dall’esodo di quattro milioni di siriani.
All’urgenza e difficoltà incontrate finora nel gestire la crisi ha alluso il primo ministro Matteo
Renzi durante la sua partecipazione, domenica, alla Clinton Global Initiative: Renzi, che
oggi interverrà all’Assemblea Generale, ha ricordato che a lungo alcuni Paesi europei
hanno considerato i rifugiati un problema dell’Italia, in prima linea nell’accoglienza, e che
qualcosa è cambiato davanti alle immagini sempre più tragiche. Particolarmente atteso,
all’Onu, è inoltre giovedì il discorso del cancelliere tedesco Angela Merkel, che sta
aprendo le porte della Germania a un crescente numero di migranti tra le resistenze di
altre capitali e le polemiche domestiche. Ieri pomeriggio ha intanto preso la parola il
presidente francese François Hollande, la cui presenza all’Onu è stata tuttavia dedicata
anzitutto alla lotta al terrorismo in Siria e al cambiamento climatico in vista della
conferenza dell’Onu di Parigi a dicembre.
Il presidente statunitense Barack Obama, da parte sua, prima di parlare ieri al Palazzo di
Vetro aveva indicato durante incontri dedicati alla nuova agenda per lo sviluppo sostenibile
la necessità dei Paesi “facoltosi” di aumentare i contributi per i rifugiati e promesso che la
Casa Bianca rimarrà alla guida di campagne umanitarie. Ma Washington stessa è finita nel
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mirino di critiche: l’aumento da duemila a diecimila degli immigrati siriani ammessi nel
prossimo anno è stato attaccato come inadeguato.
L’Unione Europea può far leva sulla recente promessa di versare un miliardo di dollari per
finanziare gli sforzi dell’Onu nei Paesi limitrofi alla Siria e inondati di rifugiati. Un gesto che
sembra andare incontro alla richiesta di Ban Ki-moon di una maggior generosità: i soccorsi
dell’Onu, ha detto, sono efficaci ma a corto di risorse, non sono “broken”, fallimentari,
piuttosto “broke”, senza soldi.
«Non riceviamo abbastanza fondi per salvare abbastanza vite», ha denunciato con toni
insolitamente pugnaci Bank Ki-moon, al suo ultimo anno al vertice dell’organizzazione e in
passato accusato di scarso carisma nella sua leadership delle Nazioni Unite. Ha lamentato
anche la generale «crescente disuguaglianza e l’impazienza nei confronti dei leader». Ha
ricordato che cento milioni di persone hanno bisogno di soccorsi e che l’Onu ha stanziato
per loro 20 miliardi. Ma ha aggiunto che solo un terzo dei finanziamenti chiesti dall’Onu per
Siria e Iraq è stato finora promesso. Nè è un mistero la continua preoccupazione dell’Onu
per la dignità dei migranti: dure prese di posizioni sono scattate nei confronti dei
maltrattamenti subiti dai rifugiati in Paesi quali l’Ungheria.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 29/09/15, pag. 16
L’allarme del premier su temi etici e unioni
civili “I cattolici non capiscono”
GOFFREDO DE MARCHIS
I dubbi e le perplessità dei parrocchiani hanno reso più prudente il
premier Le associazioni chiedono di rimandare la possibilità di adottare
figli
ROMA.
Prudenza non vuol dire insabbiamento. Prudenza significa accettare di buon grado il
probabile rinvio della legge sulle unioni civili al 2016. Matteo Renzi non intende fare
dietrofront sui diritti per le coppie omosessuali, ma non trascura alcuni segnali che gli
vengono dal mondo cattolico. E qui non si parla delle gerarchie vaticane, della Cei o dei
conservatori alla Ruini che preparano i loro documenti alla vigilia del Sinodo sulla famiglia
che si inaugura il 4 ottobre, giorno di San Francesco. Semmai dei parrocchiani di San
Giovanni Gualberto, la chiesa della famiglia Renzi a Pontassieve, un edificio moderno a
pianta tonda in fondo al paese dopo la ferrovia. Sul sagrato, la domenica mattina, il
premier si ferma spesso a parlare con gli amici: chiacchiere in libertà sulla Fiorentina, sugli
impegni sportivi dei figli e sulle gare a cui ormai partecipa solo la moglie Agnese. Ma negli
ultimi tempi Renzi ha notato il crescere delle domande e delle perplessità sulle mosse del
governo intorno ai diritti dei gay e ai loro riflessi sulla famiglia tradizionale.
Raccontano che la stessa scena si sia ripetuta, a qualche decina di chilometri di distanza,
nella chiesa di Arezzo frequentata dal ministro Maria Elena Boschi, che nel governo ha la
posizione più avanzata, favorevole al matrimonio gay, equiparato in tutto e per tutto
all’unione eterosessuale. Sono piccole spie accese, che il premier-segretario vuole capire
meglio, attento come al solito al consenso dell’opinione pubblica, a far passare il
messaggio. Renzi è convinto che si sia prodotto un «cortocircuito » con la riforma della
scuola, usata da alcuni gruppi di ultrà cattolici per denunciare l’introduzione nelle aule
italiane della teoria gender , la formula che consente ai bambini di sentirsi maschi o
femmine secondo il loro orientamento e di essere rispettati in questa scelta. Non c’è niente
di tutto questo, nel provvedimento della buona scuola: c’è il rispetto della parità uomodonna e la condanna del bullismo contro ogni forma discriminatoria, compresa quella
omofoba. Ma il “cortocircuito” con le unioni civili ha comunque funzionato, pervadendo
l’intera materia dei diritti, agli occhi dei cattolici, di un sospetto di fondo. Ecco perché
allontanare nel tempo le due leggi, la riforma scolastica e il via libera definitivo alle coppie
gay, può non essere un danno, ma un’opportunità.
Il disegno di legge firmato da Monica Cirinnà è fermo in commissione al Senato. Il Partito
democratico vorrebbe incardinarlo, ovvero metterlo in calendario, prima dell’arrivo della
legge di stabilità, che sulla carta è fissato per il 15 ottobre. Luigi Zanda ha condotto una
battaglia per chiudere prima la partita della legge costituzionale in modo da portare in aula
le unioni civili entro metà ottobre. Battaglia persa e adesso rimangono appena due giorni
rispetto al 13 ottobre, data limite per la riforma di Palazzo Madama. Zanda dice sicuro:
«Ce la faremo». Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle riforme e protagonista di uno
sciopero della fame perché la norma non finisse nell’oblio, ha qualche certezza in meno:
«Può slittare al 2016, ma non sarà un problema perché ormai il traguardo è vicino. E
Matteo non si rimangerà la promessa ».
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Il piccolo drappello di parlamentari Pd cresciuti nell’associazionismo cattolico è felice per
la “pausa di riflessione”. Spera che porti a qualche nuova modifica. «I tempi più lunghi ci
aiuteranno a fare meglio», dice Ernesto Preziosi, ex vicepresidente dell’Azione cattolica,
deputato dem. Questo gruppo di pressione non chiede l’insabbiamento della legge e dei
diritti, ma ha già ottenuto il “successo” della coppia gay definita «formazione sociale
specifica». Come dire: ben distinta dal matrimonio. «È possibile precisare ancora la
differenza con le nozze — spiega Preziosi — . E rimandare a un’altra legge la parte che
riguarda l’adozione del figlio di uno dei partner della coppia, la stepchild adoption ».
Modifiche che i cattolici Pd chiedono subito perché Renzi è stato chiaro: la Camera dovrà
approvare la legge uscita dal Senato così com’è, per evitare di aprire nuovi fronti nella
navetta parlamentare. A questo lavora un comitato interno del Pd formato da 5 deputati e
5 senatori che studia gli emendamenti da portare a Palazzo Madama. Ne fanno parte
anche i cattolici Emma Fattorini, la senatrice che ha voluto il compromesso della
“formazione sociale specifica” e Alfredo Bazoli, deputato. «Con questa legge dobbiamo
cercare il meglio e farla accettare da tutti», chiarisce la presidente della commissione
Cultura della Camera Flavia Nardelli. E se il Sinodo farà delle aperture, allora i tempi più
lunghi diventaranno una “benedizione” per il Pd e per Renzi.
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INFORMAZIONE
Del 29/09/2015, pag. 13
Il cortocircuito tra il Pd e Rai3: «Basta, forse
non sanno chi ha vinto» Anzaldi: meglio Porta a Porta.
Berlinguer: la linea pro governo non è scontata
L’idea è questa: fare un piccolo viaggio dentro Rai3. C’è roba da raccontare.
La settimana scorsa è stata abbastanza memorabile. Prima hanno convocato il direttore di
rete Andrea Vianello in commissione di Vigilanza e lì l’hanno torchiato, interrogato,
chiedendogli come e perché a Ballarò si fossero permessi di intervistare due esponenti
grillini (Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista) in due puntate di seguito. Poi, quattro giorni
dopo, il presidente della Campania Vincenzo De Luca (Pd) denuncia «atti di camorrismo
giornalistico» messi a segno da «quella lobby radical chic».
Una cosa da fare subito: telefonare a un vecchio collega del Tg3 che sa sempre un
mucchio di retroscena, veleni, verità.
«Siamo sotto tiro, amico mio...».
Mai accaduto prima.
«A mia memoria, mai così. Nemmeno con il Cavaliere. Il silenzio del Pd davanti alle
volgari accuse di De Luca è terribile. Finora ha detto mezza frase di solidarietà solo il
capogruppo dem in commissione, Vinicio Peluffo... Al Nazareno e a Palazzo Chigi ci
detestano».
Quindi tu credi che... «No, aspetta. Sto in redazione, a Saxa Rubra, e non posso parlare.
Vediamoci stasera da Settembrini, ti dico tutto davanti a un gin-tonic».
D’accordo: con questa «fonte» parleremo dopo; andiamo avanti: spedire e-mail ed sms a
parlamentari e deputati del Pd. Messaggio: sto lavorando a un pezzo su Rai3 e ai rapporti
con il partito: avete qualcosa da dire? L’sms più interessante è di un senatore: «Io non le
ho detto niente. Non voglio comparire. Ma sappia che a Rai3, tra un po’, entreremo con il
lanciafiamme». E Michele Anzaldi, uno che di solito nome e cognome ce lo mette, che
dice? (Anzaldi è un deputato di stretto rito renziano e membro della commissione di
Vigilanza, un siciliano fintamente spigoloso, in realtà furbissimo e a lungo temuto
portavoce di Francesco Rutelli tra Campidoglio e campagne elettorali).
Sembra che voi del Pd abbiate un problema con Rai3, che è sempre stata la vostra rete di
riferimento: è così? «C’è un problema con Rai3 e con il Tg3, sì. Ed è un problema grande,
ufficiale. Purtroppo non hanno seguito il percorso del Partito democratico: non si sono
accorti che è stato eletto un nuovo segretario, Matteo Renzi, il quale poi è diventato anche
premier. Niente, non se ne sono proprio accorti! E così il Pd viene regolarmente
maltrattato e l’attività del governo criticata come nemmeno ai tempi di Berlusconi».
Sta dicendo cose gravi, onorevole.
«Sto dicendo la verità. Del resto, guardi: è Vianello che ha qualche difficoltà a percepire la
realtà dei fatti, ascolti e trasmissioni fallimentari comprese, non noi. Quando abbiamo
chiamato in commissione il direttore di Rai1 Giancarlo Leone dopo la vicenda dei
Casamonica, quello s’è presentato pacato, dispiaciuto, collaborativo... Mentre Vianello
arriva e...».
E cosa? «Tutto bene, tutto okay... Si fa così, vi spiego io... un’arroganza... Tutto bene?
Ballarò sforna a raffica editoriali contro il governo, intervista in pompa magna un grillino a
settimana e va tutto bene? Lo sa che i nostri ministri non vogliono più andarci a Rai3?».
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Lei, onorevole, rappresenta un partito: può un partito parlare così di una rete pubblica?
«Io mi aspetto che Rai3 faccia servizio pubblico: e, per ora, non lo fa. Si sono chiesti a
Rai3 perché Renzi è andato due volte da Nicola Porro a “Virus” su Rai2? Perché, se
dobbiamo spiegare una legge, preferiamo che i nostri parlamentari vadano da Bruno
Vespa? Comunque, guardi: adesso l’importante è che Vianello non faccia altri errori...».
I toni sono questi. Forse l’idea iniziale del viaggio dentro Rai3 — tra corridoi e umori —
non tiene più: qui siamo già alla scena finale. Il Pd, con i toni severi di un editore esigente,
spiana un’intera rete. Bianca Berlinguer, tu dirigi il Tg3: cosa dici?
«Dico che il Tg3 e Rai3 hanno sempre avuto un pubblico assai sensibile e critico, attento
ai movimenti sociali, tendenzialmente contestatore, non necessariamente solo di sinistra.
Quando però il centrosinistra è al governo, e questo non riguarda naturalmente solo
l’esecutivo attuale, può realizzarsi un corto circuito: il pubblico rimane in gran parte
contestatore, mentre il governo si aspetta un atteggiamento pregiudizialmente favorevole,
che invece non è un presupposto, né un dato scontato».
Il corto circuito. La metafora elegante di Bianca Berlinguer.
La voce di Andrea Vianello pacata, ferma.
«Punto primo: io penso che una rete che fa servizio pubblico non debba avere come
riferimento un partito, ma i cittadini. Punto secondo: davanti alla commissione di Vigilanza
non sono stato arrogante, proprio no. Piuttosto, con rispetto, e anche con stupore per
essere stato convocato lì, ho chiesto di poter essere giudicati nell’arco di una stagione, e
non dopo due puntate...».
Vi accusano di avere intervistato due grillini in due puntate di Ballarò.
«La presenza di Di Maio, vice-presidente della Camera, era ineccepibile. Ma poiché ha
scatenato anche qualche curiosità sulle nuove possibili leadership all’interno del M5s,
allora gli autori di Ballarò hanno ritenuto di intervistare anche Di Battista, un altro giovane
emergente. C’è un qualche errore giornalistico?».
L’ostilità del Pd nei vostri confronti è evidente. Dopo le pesanti parole di De Luca, solo rare
dichiarazioni di sdegno. «Io non sto qui ad aspettare d’essere difeso da un partito. Sono io
che difendo l’autonomia e l’equilibrio della rete che dirigo, il lavoro di chi ci lavora e trovo
grave e inaccettabile che Rai3 possa essere paragonata a un’organizzazione criminale,
come ha fatto De Luca». Non fanno sconti, Vianello: puntualmente, sui giornali, tirano fuori
la storia che vi siete fatti sfuggire Floris... «Allora: Giovanni aveva ricevuto un’offerta molto
ma molto vantaggiosa da un’altra azienda... Io sarei stato felicissimo di tenerlo,
figuriamoci, uno talmente bravo... invece sono stato costretto trovare un’alternativa e ho
portato Massimo Giannini, una delle firme del giornalismo su carta e...». In commissione le
hanno chiesto quanto guadagna Giannini... «Ma io, come ho spiegato, non posso dirlo: e
non perché chissà quanto guadagni, ma perché sono tenuto a una forma di riservatezza
aziendale... Detto questo, però, no, vorrei aggiungere: vero che un po’ di pubblico ha
seguito Floris, ma è anche vero che nei confronti diretti l’anno scorso su 42 serate, Floris è
stato negli ascolti sopra di noi soltanto due volte e quest’anno una volta su tre». Poi ci
sarebbe il problema degli ascolti e delle trasmissioni che non sono andate bene. «Oh, beh:
è anche dovere di chi dirige una rete sperimentare e trovare nuove strade. Specie se hai
una base di trasmissioni di grande successo come Report, Presa Diretta, Ulisse, Chi l’ha
visto?, Ballarò e Che tempo che fa». La buona notizia per Vianello —ascoltata poi da
Settembrini, davanti a due gin-tonic — è che Renzi adora «Che tempo che fa» di Fabio
Fazio. La cattiva: gli piacerebbe davvero un sacco mettere Andrea Salerno, autore e
dirigente Rai, al suo posto.
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Del 29/09/2015, pag. 13
Viale Mazzini dopo l’affondo di De Luca: frasi
da querela
Il governatore ha accusato la terza rete di fare «camorrismo
giornalistico»
ROMA Non è che potevano fare finta di niente. Quando qualcuno (il governatore della
Campania, il dem Vincenzo De Luca) accusa un’intera rete, Rai Tre, di fare «camorrismo
giornalistico», salvo poi precisare di aver usato l’espressione «metaforicamente», passano
24 ore e i vertici di Viale Mazzini si preparano a un’azione legale «a tutela della
rispettabilità» del canale. Ritenendo che lo sfogo dell’ex sindaco di Salerno (che ce l’aveva
con un’inchiesta di Report sul caso Crescent che lo vede coinvolto e con l’altro talk
Presadiretta che gli avrebbe «spezzettato» un’intervista) sia stato «un attacco offensivo e
ingiustificato» e che l’assimilazione del servizio pubblico alla camorra sia «intollerabile per
l’azienda e i professionisti che vi lavorano. Un conto è il diritto di critica, un conto
accostare il rigoroso lavoro giornalistico a realtà criminali».
La buriana politica che ne è seguita (M5S e Sel contro il Pd per l’«inquietante silenzio»,
nonostante il capogruppo in Vigilanza Vinicio Peluffo ribadisse di aver «già chiesto le
scuse a Rai Tre e al suo direttore Andrea Vianello») ha indotto il vicesegretario dem
Lorenzo Guerini a dichiararsi solidale con la rete: «Non condivido le parole di De Luca,
che reputo sbagliate. L’eventuale dialettica che può nascere tra informazione e politica
non deve scadere nell’offesa». Il segretario pd della Vigilanza Michele Anzaldi non fa
sconti: «Chi sbaglia paga, la legge è uguale per tutti». Per il presidente della commissione,
il grillino Roberto Fico, le parole del presidente della Campania «sono vergognose». Il
conduttore di Presadiretta , Riccardo Iacona, osserva che «la camorra è roba seria,
bisognerebbe avere l’intelligenza di non usare certi termini».
Intanto la procura di Roma ha chiesto 4 mesi di reclusione per abuso d’ufficio per l’ex
direttore del Tg1 Augusto Minzolini, ora senatore forzista, per aver tolto Tiziana Ferrario
dalla conduzione. Per gli avvocati di Minzolini fu «avvicendamento fisiologico» dunque il
fatto non sussiste. Sentenza il 17 novembre.
Giovanna Cavalli
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 29/09/2015, pag. 39
Caligari agli Oscar, battuto Moretti
La commissione si spacca sulla designazione italiana: 5 voti al film
postumo, 4 a Nanni
L’ha spuntata per un soffio. Non essere cattivo di Claudio Caligari rappresenta l’Italia agli
Oscar. Il film postumo ha avuto un voto in più di Mia madre di Nanni Moretti: 5 a 4. E’ stato
un testa a testa fino alla fine, e solo all’ultimo è passato Caligari.
La più lunga votazione da qui a molti anni, ce ne sono volute cinque. Quasi tre ore nella
sede dell’Anica, il voto è segreto e non ci si può esporre troppo, si può genericamente
esprimere le possibilità che ciascuno dei candidati potrebbe avere (prima la short list di
nove film, poi l’annuncio delle cinque nomination il 14 gennaio, e la cerimonia del 28
febbraio). Il criterio di giudizio è sempre quello: la riconoscibilità italiana e un tema che
possa coinvolgere la grande platea.
Valerio Mastandrea è tra i produttori di Caligari, ed è l’anima di un progetto nato tra molte
difficoltà produttive. Ora dice: «Non me l’aspettavo, questo film è un’onda emotiva che non
finisce mai. È una partita cominciata quasi tre anni fa, ci sono stati due tempi
supplementari, Venezia e gli Oscar». Al Lido non eravate in gara, la considera una
rivincita? «No, e non è diplomazia. Il film è stato apprezzato, va bene così. L’importante è
che resti in sala». I componenti della commissione: il direttore generale del ministero ai
Beni Culturali Nicola Borrelli; il regista Daniele Luchetti; il compositore Nicola Piovani; le
produttrici Tilde Corsi e Olivia Musini; il distributore Andrea Occhipinti; lo sceneggiatore
Stefano Rulli; i giornalisti Natalia Aspesi e Gianni Canova. Alla prima votazione si
potevano dare tre preferenze e passavano i primi cinque: hanno avuto più consensi
Moretti, Caligari, poi a pari merito Il Giovane Favoloso di Mario Martone, Sangue del mio
sangue di Marco Bellocchio e Vergine giurata di Laura Bispuri; fuori Latin Lover di Cristina
Comencini, L’attesa di Piero Messina, Nessuno si salva da solo di Sergio Castellitto e Per
amor vostro di Giuseppe Gaudino. Poi un voto a testa e passavano i primi tre: 4 Moretti, 3
Caligari, 1 per Martone e Bispuri. Nella terza votazione andava avanti chi prendeva sei
preferenze nessuno ce l’ha fatta. Alla fine bastava la maggioranza relativa, e per la prima
volta Caligari ha superato Moretti. C’è un’altra prima volta: l’Italia agli Oscar è
rappresentata da due registi, per due nazioni diverse: Giulio Ricciarelli (nato a Milano ma
cresciuto in Germania) è candidato dai tedeschi per Labyrinth of Lies , sull’Olocausto.
Valerio Cappelli
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