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Good Morning Italia 2016 L'anno che verrà Copyright © 2015 Good Morning Italia srl [email protected] www.goodmorningitalia.it Prima edizione: dicembre 2015 Copertina: Tassinari/Vetta Produzione ebook: Alberto Forni INDICE • INTRODUZIONE Beniamino Pagliaro • ORIZZONTE Redazione Good Morning Italia ○ Orizzonte Crescita ○ Dis-ordine mondiale ○ Il cambiamento prima della legge ○ Agenda Petrolio ○ Lo Spazio più vicino • MONDO ○ L’America dallo psicanalista Mattia Ferraresi ○ La strategia del terrore Maurizio Molinari ○ Il paradosso di Putin Anna Zafesova ○ Il futuro passa da Damasco Rolla Scolari ○ La nuova normalità della Cina Simone Pieranni ○ L’Africa senza metodo Massimo A. Alberizzi • EUROPA ○ L’Europa al confine David Carretta ○ Il rischio di Angela Michael Braun ○ Uk, dentro o fuori? Chiara Albanese ○ L’Est cerca un equilibrio Pierluigi Franco • ITALIA ○ Ripresa, ma con coraggio Francesco Giavazzi ○ Le guerre di Renzi Claudio Cerasa ○ Lo schema Berlusconi Tommaso Labate ○ Convervatorismi italiani Marco Alfieri ○ Dove va la Chiesa Paolo Rodari • MEDIA&TECH Sergio Maistrello ○ Ve-lo-ce ○ La riscoperta della buona notizia Federico Sarica • IDEE ○ La differenza tra populismo e demagogia Beppe Severgnini ○ Sempre più Inequality Alberto Mingardi ○ Un po’ meno romanzo Vincenzo Latronico ○ La ricerca dell’etica, nello sport Lia Capizzi • GOOD MORNING ITALIA • GRAZIE INTRODUZIONE L’anno ibrido Beniamino Pagliaro Ibrido è un individuo generato dall'incrocio di due organismi che differiscono per più caratteri, dice Wikipedia. Il 2016 sarà un anno ibrido, in cui le decisioni politiche ed economiche saranno figlie di compromessi e conflitti. Il mondo è diviso, spaventato, a volte sembra illeggibile. Ritornano i confini, dalle frontiere alle disuguaglianze. La soluzione non è mai netta: l’indecisione degli Stati Uniti aumenta i rischi. La crisi siriana non può aspettare il prossimo presidente, anche se una soluzione positiva, per la Siria, non sembra raggiungibile in ogni caso. Vince il compromesso, si spera nella tregua. Sono ibridi anche i potenti del mondo: forti eppure deboli. Obama, bloccato dalle promesse e ora dalla campagna elettorale. Putin, apparentemente invincibile e comunque isolato. Il potente d’Europa, Angela Merkel, è l’emblema di un mondo complicato. Ha fatto la cosa giusta, accogliendo i profughi siriani, e rischia la punizione da parte degli elettori. La demagogia, trasversale nel mappamondo, inquina una comprensione della realtà già difficile e mette in discussione le scelte democratiche. Così i cittadini del Regno Unito decideranno se fare ancora parte dell’Unione Europea, disegnando il futuro della stessa. Gli americani sceglieranno il prossimo presidente. Gli italiani voteranno senza troppo entusiasmo sindaci e referendum costituzionale. Oltre al consenso, il 2016 riproporrà i nodi non risolti. Il flusso dei migranti, puntuale. Il terrorismo islamista. Per rispondere è forse necessario riscoprire la realpolitik, la necessità di una decisione, una linea comune e sostenibile. Gli Stati sono di nuovo importanti: decidono per i confini, per la nostra sicurezza, proprio quando sembravano finiti, in una società relativamente libera dalla geografia, potenziata dal digitale, che decide per se stessa. A partire dai diritti, di scegliere il compagno di una vita, di cambiare in meglio. Ci vuole la legge, ma si fa anche senza, non serve il permesso. Questo ebook nasce dal lavoro quotidiano di Good Morning Italia, come regalo alla nostra comunità, a noi stessi. Chi ha scritto per noi ci conosce, conosce il lavoro che facciamo ogni mattina: guidare la giornata. Oggi proviamo a guidare l’anno che verrà. Non c’è tutto, lo sappiamo: la selezione è necessaria. Sarà un anno ibrido e decisivo anche per Good Morning Italia. Lo sappiamo e lo speriamo al tempo stesso. Non è sempre facile portare avanti una creatura come un’azienda che fa informazione, ma la sfida di costruire qualcosa di nuovo merita di essere vissuta. Beniamino Pagliaro, giornalista, ha fondato Good Morning Italia. ORIZZONTE Orizzonte Crescita Sarà un anno di crescita a cui non siamo quasi più abituati, e per certi versi di ritorno al passato, a una centralità delle economie mature. Ma sarà un 2016 di crescita globale non organica, frammentata. I protagonisti sono ancora i banchieri centrali: gli Stati Uniti alzano il tasso, il Regno Unito seguirà, la Bce continua ad acquistare titoli pubblici per dare forza a una sana inflazione, mentre i tassi rimangono a zero. L’Euro rimarrà moneta debole, per la gioia dei Paesi esportatori. I prezzi scendono con il petrolio: il valore del barile potrebbe calare ancora, forzato non soltanto dall’aumento dell’offerta, ma da una domanda che rallenta, come rallenta la Cina. La seconda economia mondiale (la terza se considerassimo l’Unione europea un solo Stato) continua una lenta diminuzione della crescita. Il governo vuole imporre una nuova fase, con l’economia dei consumi e non solo degli investimenti esteri, ma uno dei problemi cruciali - la bolla del debito cinese - sembra dimenticato, irrisolto. Non è un problema soltanto di Pechino. La crescita del Pil mondiale sarà garantita soprattutto dalle economie sviluppate, con alcuni dei vecchi Brics in stagnazione se non in difficoltà e l’India che invece crescerà più della Cina. Le multinazionali potrebbero scoprire con sollievo di avere ancora il quartier generale in Europa o nel Nord America. In un 2016 in cui si userà ancora molto la parola guerra, c’è l’incognita (e incubo) terrorismo. Ma alcuni analisti stimano che le spese aggiuntive per la sicurezza e per gestire la crisi dei migranti potrebbero incidere positivamente sul Pil. Per l’Europa il 2016 sarà un anno di crescita, con alcuni compiti fondamentali rinviati e ancora da risolvere, problemi che nemmeno le iniezioni di denaro della Bce possono risolvere. Anche l’economia italiana dovrebbe crescere almeno di un punto percentuale, ma è ormai chiaro che la rincorsa non basta a distribuire il benessere sulla popolazione in difficoltà. La disoccupazione dovrebbe rimanere sopra l’11%. La trasformazione arriverà sempre dal digitale, portando efficienza e anche nuove alleanze: il 2015 è stato l’anno record per fusioni e acquisizioni. Anche così, nel silenzio della politica, le grandi leadership arriveranno di nuovo dalle aziende. Dis-ordine mondiale Nel 2016 saranno cinque anni. Il 15 marzo 2011, a Damasco, ci furono le prime manifestazioni in piazza, poi la primavera anti-Assad è diventata un conflitto civile sanguinario, per bande. L’avevamo chiamata una “guerra dimenticata”. A farcela ricordare non è bastata la tragedia umanitaria: oltre 240 mila morti, più di 4 milioni di rifugiati e quasi 8 di sfollati. Non è servita nemmeno la foto di Aylan, bimbo siriano annegato tentando di raggiungere la Fortezza europea. La Siria è tornata al centro del mondo dopo gli attentati di Parigi. La Francia ha dichiarato guerra all’Isis, dall’Africa al Medio Oriente. Il presidente Hollande sta tentando di rilanciare una coalizione internazionale contro i fondamentalisti insidiati in due Stati ormai disgregati, Siria e Iraq. La Germania manderà i caccia. Lo farà anche Cameron. Renzi e l’Italia attenderanno. L’Europa si stringerà in confini sempre più chiusi, mentre Putin, riabilitato dalla comunità internazionale, sta diventando uno degli interlocutori e dei protagonisti della guerra siriana. Nella regione si dovrà considerare il ruolo delle potenze locali - Israele, Turchia, Arabia Saudita e Iran -, e l’emergere de facto di uno Stato curdo. Senza dimenticare il possibile tentativo dell’Isis di destabilizzare Libano, Giordania ed Egitto. Ma c’è anche il rischio che l’alleanza anti-Califfo si frantumi per gli interessi divergenti degli “alleati”: l’abbattimento del jet russo da parte di Ankara è un precedente pericoloso. Da gennaio a Vienna si tornerà a discutere della transizione siriana e del ruolo di Assad. Ma la vera incognita restano gli Stati Uniti. Obama, nonostante lo scenario da post-11 settembre europeo, non sembra volere dare ascolto all’opinione pubblica che arriva a chiedere i boots on the ground. Preferisce guardare all’egemonia economica: e lì il nemico è la Cina che rallenta ma cresce. Il quadro potrebbe cambiare con le presidenziali: non solo con l’arrivo di un repubblicano alla Casa Bianca, ma anche con la democratica Clinton l’interventismo americano sembra destinato ad aumentare. Il cambiamento prima della legge Uno scandalo costringe alle dimissioni il consiglio d’amministrazione di una multinazionale. Una nuova app viene dichiarata illegale, ma milioni di persone continuano a utilizzarla. Le aziende concedono diritti non previsti dalla legge. Previsioni facili? Certo: ricordano vicende esemplari dell’anno che si chiude. La prova di come il cambiamento, nel 2016, arriverà dentro la società e nel lavoro: non per legge, ma per forza propria. Primo caso, Volkswagen. Lo scandalo sulle emissioni truccate ha minato la fiducia dei consumatori, ha indebolito il marchio, ha visto ridursi del 40% il valore delle azioni. La società di Wolfsburg ha perso un amministratore delegato. Previsione 2016: l’inizio di un declino inarrestabile per i motori diesel. Secondo caso: Uber. L’app di trasporto privato ha 8 milioni di utenti, oltre un milione di conducenti registrati, un valore di 50 miliardi di dollari. La prova che il cambiamento non chiede il permesso: s’annuncia, e qualcuno raccoglie la sfida. Mentre i tribunali discutono e i taxisti protestano, le iscrizioni in Italia aumentano del 30%: se un servizio risponde ai nostri bisogni, non c’è legge che possa fermarlo. L’Antitrust oggi chiede al Parlamento di regolamentare queste nuove forme di trasporto, perché utili al cittadino. Uber cresce dove i trasporti sono deboli. A Roma la società ha lanciato una “linea di metro alternativa”. Si chiama “U”: otto fermate decise con il voto online, collegate da auto condivise, tariffa 5 euro. Nel 2016, complici il Giubileo e le elezioni per il Campidoglio, ne sentiremo parlare. Terzo caso: mentre la politica litiga, la maggioranza assoluta degli italiani chiede una legge sulle unione civili, e tre italiani su quattro vogliono il riconoscimento delle coppie gay. Facebook lo ha capito: ha esteso a quattro mesi il congedo parentale retribuito per tutti i nuovi genitori “a prescindere dal sesso o dalla residenza”. Welfare aziendale più rapido di quello statale. Un altro cambiamento, un’altra novità per l’anno nuovo. Agenda Petrolio Il 2015 si chiude con il tentativo del summit delle Nazioni Unite a Parigi di cambiare le abitudini energetiche di tutto il mondo con l’obiettivo di modificare il clima del pianeta. Vasto programma, difficilmente realizzabile in tempi brevi, ma che costringerà chiunque voglia parlare di energia nel 2016 a rifarsi a quanto deciso nella capitale francese. La cosa positiva, in mezzo alla retorica e alle promesse belle e impossibili, è stata la volontà diffusa di non volere imporre un unico accordo vincolante dall’alto per combattere i cambiamenti climatici, ma di lasciare margini di manovra più ampi ai singoli Paesi. Questo non può che favorire l’innovazione, la concorrenza e il mercato, che finora hanno portato più benefici alla sostenibilità ambientale di tante leggi o costrizioni burocratiche. La Cina promette di ridurre l’inquinamento con l’installazione di nuove centrali a carbone più “pulite”, molti assicurano di puntare sulle energie rinnovabili e abbandonare petrolio e carbone nel futuro prossimo: al momento però le aziende che producono energia pulita non se la passano benissimo (il colosso spagnolo Albengoa, da cui lo stesso Obama si è ispirato per alcune politiche energetiche in America, è sull’orlo della bancarotta, schiacciato dai debiti). Il petrolio giocherà ancora un ruolo decisivo nel 2016 energetico, in attesa di capire come si svilupperanno le tensioni geopolitiche aggravatesi a fine 2015 in Medio Oriente. Dopo l’abbattimento del jet russo da parte di Ankara, Mosca ha deciso di sospendere le trattative con per Turkish Stream, il gasdotto che avrebbe dovuto portare il gas russo in Europa attraverso la Turchia. Per motivi non “bellici” pochi mesi fa l’Amministrazione Obama ha bocciato il progetto di un alto gasdotto, che avrebbe attraversato gli Stati Uniti dal Canada, Keystone XL. Ambientalismo e geopolitica saranno le due direttive lungo le quali si muoverà il mercato dell’energia nel 2016, là dove la seconda, al momento, sembra avere un peso specifico molto più significativo della prima. Lo Spazio più vicino Non gireremo tutti con l’hoverboard di Marty McFly, ma nell’anno in cui il Ritorno al futuro è diventato il nostro presente, anzi ormai il passato, voliamo sempre più alto. Oltre l’atmosfera, nello spazio più oscuro, che quest’anno ci ha permesso di dare uno sguardo ai suoi segreti come non accadeva dagli anni Sessanta della corsa alla Luna. E che è tornato a stimolare l’immaginario collettivo, vedi il successo agli Oscar di Interstellar, con cui Christopher Nolan a un secolo esatto dall’einsteniana teoria della Relatività torna a farci scervellare con buchi neri e cunicoli spaziotemporali. Le ultime scoperte della Nasa hanno ridotto le distanze tra la Terra e i pianeti, identificando l’oggetto più distante del nostro sistema solare, il pianeta nano V774104, tre volte più lontano di Plutone, e aprendo con sempre maggiori certezze alla possibilità di vita extraterrestre. Le scoperte hanno raggiunto Keplero, uno dei 4175 possibili nostri pianeti “gemelli”, distante 1.400 anni luce, e persino Marte, dove sono stati identificati segni di antichi laghi che fanno pensare all’esistenza di acqua liquida (e addirittura un oceano è stato scoperto su Enceladus, la luna ghiacciata di Saturno). Nel 2016 è in programma la prossima missione dell’Esa su Marte, la prima missione indiana nello Spazio, e l’apertura del primo hotel nello Spazio. Sul Pianeta Rosso c’è già chi pensa di esportare la democrazia in vista del 2024, quando con la missione Mars One vi giungerà la prima colonia di uomini “comuni”. Inizia così una nuova era del sogno spaziale, quella che vedrà protagonista non più l’astronauta metà scienziato e metà eroe, ma il turista cosmico. Dai droni all’universo, la voglia di scoprire qualcosa di nuovo conquista anche l’impresa. L’economia si riprende lo Spazio, con Jeff Bezos che svela finalmente il progetto Blue Origin ed Elon Musk che pensa a razzi low-cost riciclabili: porterebbero il costo di un viaggio fuori dall’atmosfera da sessanta a sei milioni di dollari. Non ancora alla portata di tutti, certo, ma sempre più vicino. MONDO L’america dallo psicanalista Mattia Ferraresi Il 2016 è un anno breve per l’America. Il calendario elettorale, che scandisce l’annata, inizia il primo febbraio con le primarie dell’Iowa e si conclude l’8 novembre, con le convention dei partiti nel mezzo di luglio, cosa che non si vedeva da svariati decenni. In questo anno breve si conclude la lunga stagione di Barack Obama, e sarà inevitabilmente periodo di bilanci e valutazioni di uno dei più travolgenti fenomeni politici dell’evo contemporaneo. Negli otto anni alla Casa Bianca ha mantenuto la promessa di “hope” e “change”? A giudicare dalla leadership americana in Medio Oriente l’orizzonte di speranza s’annebbia un po’, e la Siria e il Califfato non scompariranno dalle prime pagine allo scoccare del Capodanno né alla chiusura delle urne. L’economia, il teatro del “nation building at home”, orgoglio del presidente della ricostruzione, cresce senza sussulti né ambizioni stellari. Gli amministratori delegati delle grandi aziende americane guardano al 2016 come a un anno di investimenti al rallentatore, appesantiti dalla zavorra del dollaro forte e gravati dalla fine delle politiche straordinarie della Fed per sostenere la crescita. Ritornare a tassi normali è obbligatorio, ma pure faticoso. Il 2016 è anche l’anno in cui gli americani dovranno decidere fra il passato e il futuro, che in un certo senso è il dilemma di tutte le tornate elettorali. La freschezza giovane e latina di un Marco Rubio, il socialismo pikettyano o populista di Bernie Sanders, oppure l’ancestrale confronto fra i rampolli un po’ incartapecoriti di famiglie politiche bolse e blasonate? In mezzo c’è l’incognita Donald Trump, che sarà infine spazzata via dallo spirito di ragionevolezza che tradizionalmente prevale nell’elettore americano, ma la sua presenza persistente sul palcoscenico non può non essere parte della diagnosi psicanalitica della nazione. Gli storici l’hanno chiamato “stile paranoico” oppure “antiintellettualismo”. O forse sono soltanto reazioni alla lunga stagione di un presidente fin troppo cool. Mattia Ferraresi, nato per errore in Lombardia, è di Modena. Prima di diventare il corrispondente del Foglio da New York è stato corrispondente da Washington, stagista, collaboratore, studente a vario titolo in quel di Milano, bevitore di Lambrusco, coautore di un libercolo su Obama. Si è innamorato fisso di Monica e a un certo punto l'ha sposata. La strategia del terrore Maurizio Molinari Il 2016 è l’anno in cui il Califfo dello Stato Islamico (Isis) si propone di far crescere la propria Jihad, per entità di territori controllati e per aumento delle risorse disponibili, aggredendo i nemici che ritiene più deboli. In Medio Oriente si tratta di tre Stati: Libano, Giordania ed Egitto, accomunati dalla presenza di gruppi jihadisti sunniti in grado di mettere in difficoltà il potere centrale. In Nordafrica la priorità è la Libia ovvero accelerare attorno alle località controllate - soprattutto lungo la costa - l’accorpamento di enclaves jihadiste dell’entroterra, per collegarle con la Tunisia meridionale, il Sud dell’Algeria e quindi il Mali. Al fine di gestire i traffici illeciti di armi, droga ed essermi umani con il Mediterraneo. E poi c’è l’Europa: il massacro di Parigi è l’inizio della "tempesta" che Abu Bark al-Baghdadi ha ordinato alle proprie cellule, puntando ad innescare una guerra civile, fra musulmani e non, nel Vecchio Continente. Le minacce di attacchi terroristici a Washington, Mosca e Bruxelles tendono a moltiplicare le adesioni al Califfato, pur in presenza di serie difficoltà militari nei territori di ex Siria ed ex Iraq. Sullo sfondo resta la possibilità di una coalizione jihadista, fra Isis ed Al Qaeda, per tentare di impossessarsi di Damasco al fine di spostarvi la sede del Califfo. Maurizio Molinari, corrispondente de La Stampa da Gerusalemme, è autore di Jihad Guerra all’Occidente (Rizzoli). Il paradosso di Putin Anna Zafesova Vladimir Putin ha concluso il 2015 come il personaggio più discusso del mondo, invocato come l'eroe del nuovo ordine mondiale oppure presentato come il suo cattivo numero uno. Ma il 2016 non si prevede un anno più facile. Il leader russo dovrà inventarsi la maniera di uscire da tre guerre: quella con l'Ucraina, non dichiarata, quasi finita ma non archiviata, quella in Siria, la prima guerra “calda” apertamente lanciata dalla Russia post-comunista fuori dai suoi confini, e quella “fredda” con l'Occidente. Con una crisi economica che non mostra alcuna luce alla fine del tunnel. Un anno elettorale, e se apparentemente il voto per rinnovare la Duma appare poco più che un rituale di facciata, il Cremlino è preoccupato: più il consenso entusiasta per il leader diventa unanime, più scendere sotto l'abituale 90% potrebbe apparire come una sconfitta. Anche perché in un sistema così consolidato una campagna elettorale è comunque una delle poche occasioni sia di rimpasto delle élite che di dibattito pubblico, e le risorse per comprare consenso (la rielezione del 2012 è costata, secondo alcune stime, fino al 4% del Pil russo) nell'epoca del barile a 50 dollari non si possono reperire facilmente. L'obiettivo strategico della Russia sarà non tanto quello formalmente annunciato da Putin dalla tribuna dell'Onu - tornare a spartirsi il mondo in sfere d'influenza in una nuova Yalta da negoziare con gli Usa - quanto quello di uscire dall'isolamento economico e politico iniziato con l'annessione della Crimea. Barattare l'asimmetrica alleanza tattica con componenti eterogenei e dispersi come l'Iran, Marine Le Pen e i seguaci di Chavez (con qualche nemico nuovo, come la Turchia, e qualche amico rivelatosi meno promettente del previsto, come la Cina) con una “coesistenza pacifica” con Usa e Europa, che permetta di archiviare le sanzioni. Prima che lo scontento economico interno si trasformi in disagio sociale e politico. Con la carta della lotta al terrorismo che può rivelarsi vincente, ma - con un'Europa alle prese con le proprie crisi e gli Stati Uniti immersi nella campagna elettorale - rischia anche di venire sprecata. Anna Zafesova è giornalista e Russia watcher (una volta il mestiere si chiamava sovietologo) de La Stampa. Il futuro passa da Damasco Rolla Scolari Avenue Mohamed V è un viale di Tunisi lungo il quale si susseguono le sedi di banche, ministeri, istituzioni. Termina in una piazza, rinominata 14 febbraio 2011, dal giorno che ha dato inizio alle rivolte arabe. Durante quei giorni, le ragazze venivano qui a portare fiori ai soldati armati. Il 24 novembre, su Avenue Mohamed V, è saltato in aria un autobus della guardia presidenziale. Sono morte dodici persone quella sera. Nel 2016, sarà la strategia che una divisa comunità internazionale seguirà in Siria a dare forma al Medio Oriente. Saranno le sorti della lotta contro lo Stato Islamico a cementificare la tenuta del rais egiziano Abdel Fattah al Sisi, nonostante le falle del suo esercito nel limitare le spinte estremiste in Sinai. Israele, scossa da violenze interne con i palestinesi già definite dalla stampa una Terza Intifada, tenterà di non farsi trascinare in un ulteriore conflitto lungo il confine con la Siria. Sarà soppesando l’antica faida con Teheran declinata sul territorio siriano che l’Arabia Saudita continuerà a bombardare in Yemen. Sarà scrutando Damasco che il Libano tenterà di risolvere l’impasse istituzionale, impedito nell’elezione di un presidente da quella stessa frattura tra sunniti e sciiti. È però altrove che si dovrebbe forse guardare per arginare il contagio siriano, come ha suggerito Foreign Policy. L’eccezione tunisina è fragile, ora deve essere protetta. La Tunisia è l’incubatore del più alto numero di combattenti stranieri sul fronte siriano - 3000 -; il suo esercito combatte gruppi legati ad al Qaeda nelle montagne al confine con l’Algeria. Eppure è chiaro che, con i tragici attacchi a marzo al museo Bardo, 22 vittime, a giugno sulla spiaggia dei turisti di Sousse, 38 morti, e a novembre su Avenue Mohamed V, l’estremismo che dà oggi forma a molta parte della regione vuole colpire l’unica valida alternativa ideologica al regime del terrore: una transizione politica nata dal compromesso tra Islam politico moderato e gruppi laici, che zoppica ma non molla. Rolla Scolari, madre egiziana e padre italiano, è giornalista. Ha scritto per anni dal Medio Oriente prima per Il Foglio, poi per Il Giornale e SkyTG24, con cui collabora ancora. Scrive anche per IL - Il Sole 24Ore, Grazia e Panorama. Da ottobre è alla direzione di rivista Oasis. La nuova normalità della Cina Simone Pieranni Sono tre le grandi novità del 2015 in Cina: l'abolizione della legge del figlio unico, il concetto di “nuova normalità” e il fatto che la valuta cinese, lo yuan, sia stato inserito nel paniere del Fondo Monetario Internazionale delle monete che compongono i “diritti speciali di prelievo”. Per quanto riguarda la legge che imponeva a tutte le coppie di avere solo un figlio, si tratta di un provvedimento in vigore dal 1979. Secondo gli uffici di pianificazione, la legge avrebbe evitato un incremento di 400 milioni di abitanti. Negli anni però la popolazione è invecchiata, si è creato un grave squilibrio tra uomini e donne e le fabbriche hanno lamentato la mancanza di forza lavoro. Da quest'anno dunque sarà possibile avere due figli, la regola varrà per ogni coppia (di qualsiasi origine ed etnia) nella speranza di avere una popolazione più giovane a disposizione. Secondo gli esperti il cambio di rotta non sarà sufficiente ad invertire - nell'immediato - il trend di invecchiamento del Paese e la mancanza di manodopera nei polmoni produttivi della Cina. In secondo luogo il governo di Pechino ha dato vita al concetto di “nuova normalità”, termine utilizzato dalla leadership per segnalare l'atteggiamento che dovrà avere la Cina in futuro. I cinesi dovranno abituarsi a una crescita ormai sotto o pari al 7% e uno sviluppo economico capace di dare più rilevanza alla qualità, rispetto alla quantità. Il grande obiettivo del 2016 è mettere le basi per questo passaggio: da un'economia degli investimenti e delle esportazioni, a una basata sul mercato interno. Tra gli obiettivi, inoltre, quello legato all'inquinamento. Pechino ha sancito la nascita del Green Development Fund, per “promuovere la produzione pulita e lo sviluppo sostenibile”. Il Fondo è previsto nel nuovo piano quinquennale che prevede anche, a partire dal 2016, l'inizio della fase che dovrà sancire il raddoppio del Pil e del reddito medio pro capite del 2010; risultato che dovrà essere raggiunto completamente nel 2020. Simone Pieranni è il fondatore di China Files, agenzia editoriale con sede a Pechino che dal 2009 fornisce ai media italiani e internazionali reportage e notizie sulla Cina. Ha scritto Brand Tibet (Derive Approdi, 2010) e Il nuovo sogno cinese (manifestolibri, 2013). L’Africa senza metodo Massimo A. Alberizzi Le visite in Africa del presidente americano Barack Obama e di papa Francesco a fine 2015 hanno entusiasmato il continente. Ma quanto è durato l’effetto (che avrebbe dovuto essere devastante) dei loro discorsi contro la corruzione e contro i sistemi dittatoriali? Poche ore. Le speranze, anche per il prossimo anno, restano scarse e il futuro sembra invece costellato da illusioni. Della devastazione dell’Africa sembrano responsabili gli africani. Invece in parte lo sono, ma non del tutto. Finché non si cambiano le politiche economiche del nostro approccio all’Africa, non si potrà pensare di migliorare la vita degli africani. Si parla tanto di investimenti nel continente; ma come si fa a investire in Paesi dove non esiste un sistema certo di governance, dove le regole dello stato di diritto sono calpestate in continuazione e dove la corruzione è il modo normale di amministrare? Quindi prima occorre cambiare le metodologie di governo, poi si può sperare in uno sviluppo. Effettivamente in alcuni casi abbiamo assistito a miglioramenti, anche notevoli, per esempio in Kenya, compensati purtroppo da peggioramenti catastrofici. Il Mali, che era stato presentato come uno dei Paesi emergenti, destinato a un grande sviluppo, è piombato in una devastante guerra civile, costata migliaia di morti. Un conflitto che continuerà l’anno prossimo. In Nigeria è cambiato il presidente. Quello nuovo, Muhammadu Buhari, ha promesso di lottare senza quartiere contro la corruzione. Andremo a vedere nel 2016. L’anno prossimo l’Eritrea potrebbe migliorare, se il dittatore Isaias Afeworki, che dicono molto ammalato, scomparirà dalla scena. In caso contrario ondate di migranti in fuga dalla repressione continueranno a fuggire. Liberia e Sierra Leone lentamente stanno migliorando la loro situazione e il loro lungo e difficile cammino non dovrebbe interrompersi, mentre non accennano a risolversi i conflitti in Sud Sudan e in Congo-K. In Zimbabwe si attende la morte del dittatore Robert Mugabe, che a 91 anni non intende mollare il potere. Massimo A. Alberizzi è direttore di africa-express.info. EUROPA L’Europa al confine David Carretta Il 2016 rischia di essere il 1989 al contrario per l'Europa. L'Unione Europea della caduta del Muro e della riunificazione pacifica tra Stati bellicosi lascerà il posto alle frontiere e alla disintegrazione? Il filo spinato tra Ungheria e Croazia, la “barriera tecnica” tra Austria e Slovenia, i controlli temporanei ai confini tra Germania e Austria, la chiusura delle frontiere della Francia: già nel 2015, schiacciati dal peso di oltre un milione di migranti e degli attacchi contro Parigi, gli Stati membri dell'Ue hanno preferito il ripiegamento nazionalista alla collaborazione. La guerra in Siria non finirà, anche a causa di un'Europa imbelle. Così, secondo la Commissione, altri due milioni e mezzo di rifugiati sono attesi entro la fine del 2017. A meno di non voler buttare la Grecia fuori da Schengen, dopo averla salvata minacciando la cacciata dall'Euro, non c'è modo di riprendere il controllo della frontiera esterna dell'Ue. E agli Stati non rimangono che le frontiere interne. “Niente allarmismi”, rispondono eurocrati e europeisti: “L'Ue ha superato altre crisi e ne è uscita più forte”. Ma un programma di ricollocazione di 160.000 richiedenti asilo, qualche hotspots e un aiuto dalla Turchia non basteranno. Salvare l’Euro è stato facile rispetto alla crisi dei rifugiati. Alcune centinaia di miliardi e una Bce che si è trasformata in Fed hanno permesso di tornare al business as usual, almeno fino alla prossima tempesta sui mercati, provocata da Alexis Tsipras o dai suoi emuli in Portogallo e altrove. Migranti e terroristi toccano la pancia, non il volgare portafoglio, con somma gioia di populisti di destra e di sinistra in agguato per il 2017. Alla fine il 2016 sarà un tranquillo anno di transizione rispetto alla grande paura elettorale del prossimo. Marine Le Pen in testa alle presidenziali in Francia? La fine di Angela Merkel nelle legislative in Germania? La Brexit nel referendum di David Cameron nel Regno Unito? Godetevi l'Europa, anche con qualche frontiera in più, finché c'è. David Carretta è corrispondente dalle istituzioni europee di Radio Radicale. Scrive anche per Il Foglio e Il Messaggero. Il rischio di Angela Michael Braun Per Angela Merkel il 2016 potrebbe rivelarsi l'anno più insidioso della sua carriera, finora così lineare. Capo del suo partito - la CDU - dal 2000, Cancelliera della Germania dal 2005, Angela Merkel è entrata in politica nel lontano 1989, subito dopo il crollo del muro di Berlino. Da quel giorno il suo percorso ha conosciuto una sola direzione: quella verso l’alto. L'ex ragazza dell'Est unisce almeno tre doti. Dispone di una solida autostima, dimostrata sin dall'inizio della sua avventura politica quando, a DDR crollata, si prefigge il traguardo di entrare al Bundestag. Viene eletta nel 1990 e subito dopo nominata ministro. Sua seconda dote è la proverbiale cautela: mai una mossa azzardata o affrettata. Terza virtù, apparentemente opposta: la capacità di saper cogliere le occasioni al volo, dimostrando se necessario un decisionismo di cui nel quotidiano fa volentieri a meno. Un esempio dal passato: quando la CDU nel 1999 entra in crisi perché Helmut Kohl, suo mentore politico ed ex Cancelliere, è invischiato in un grave scandalo di finanziamenti illeciti al partito, Angela Merkel non esita un secondo e “ammazza il padre”. Dal quel giorno prende lei le redini del partito. Nessuno nel 1989 le avrebbe predetto quella carriera. Nessuno avrebbe immaginato che Angela Merkel sarebbe diventata la Cancelliera più popolare della storia tedesca: persona stimata a destra e a sinistra, anche grazie alla strenua difesa degli interessi dei contribuenti tedeschi durante la crisi dell’Eurozona. Oggi Angela rischia davvero. La sua decisione, presa nell'agosto 2015, di aprire le frontiere tedesche a centinaia di migliaia di profughi viene vissuta da molti elettori come un azzardo incomprensibile. E anche da buona parte del suo partito, finora completamente allineato sulle posizioni della leader. La Cancelliera invece ripete come un mantra: “Noi ce la facciamo”. Ma una cosa è certa: se non dovesse vincere le elezioni regionali nel 2016, l'anno a venire potrebbe davvero essere l'inizio della sua fine. Michael Braun è corrispondente del Die Tageszeitung, giornale berlinese, e della radio pubblica tedesca. Collabora con Internazionale. Uk, dentro o fuori? Chiara Albanese Sarà il 2016 l’anno in cui l’Unione Europea inizierà a frammentarsi invece di crescere? La risposta a questa domanda potrebbe essere sì, in particolare dopo gli attacchi terroristici di Parigi. Il Regno Unito, guidato da David Cameron, si prepara nei prossimi mesi a rimettere al voto popolare l’appartenenza all’Unione Europea. Entro il 2017, ha promesso il primo ministro durante la campagna elettorale, i cittadini britannici dovranno rispondere a una semplicissima domanda: “Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union?”. La traduzione è semplice: “Dentro, o fuori?” Sarà la prima volta dal 1975 in cui i cittadini inglesi saranno interrogati sui rapporti tra Regno Unito e Unione Europea, quando Londra ratificò l’ingresso nell’allora Comunità Economica Europea. Anche se c’è tempo fino alla fine del 2017, da quanto ha fatto intendere Cameron il referendum potrebbe essere tenuto in contemporanea alle elezioni domestiche a maggio 2016. E a pochi mesi dalla possibile chiamata ai seggi, per la prima volta i sondaggi condotti dai media locali mostrano che la maggioranza dei cittadini è pronta a votare in favore di una spaccatura tra Londra e Bruxelles. Ci si prepara a una conta dei voti al fotofinish. Secondo gli ultimi sondaggi, il 52% voterebbe a favore dell’uscita dall’Unione Europea. Il 48% contro. Solo qualche mese fa, il 55% era a favore di restare. A spostare l’equilibrio a favore dell’uscita sarebbero stati gli attentati di Parigi, ma anche l’emergenza dei rifugiati che ha colpito tutta l’Europa. Ma il cuore della questione è economico e riguarda in particolare due punti sui quali Cameron sta negoziando con i leader europei: la libertà di movimento dei cittadini dei 28 Paesi dell’Unione, e il pesante contributo inglese al budget annuale che finanzia i sussidi in particolare per il settore agricolo. Il parallelo corre alla Scozia, che nel 2014 ha votato attraverso un referendum popolare contro l’indipendenza dalla sovranità di Londra. Fino alla sera prima, il risultato del voto era tutt’altro che scontato. Come la risposta alla domanda inglese: dentro, o fuori? Chiara Albanese scrive di mercati per il Wall Street Journal. L'anno nuovo le riserva una nuova avventura a Bloomberg. Quando non scrive, nuota e mangia gelato. L’Est cerca un equilibrio Pierluigi Franco Nella grande confusione del panorama politico mondiale, caratterizzato ormai da troppi focolai di conflitti e dalla ferocia terroristica, si riaffaccia il ruolo chiave dell’Est. Non è più quello di Yalta, ma qualcosa sembra essere decisamente cambiato nell’ultimo anno tanto da far presagire un ritorno agli equilibri di un tempo, o almeno quasi. Se infatti la Russia di Putin torna a farsi sentire, dimostrando sul campo di aver riconquistato un peso internazionale che era pericolosamente venuto meno con Gorbaciov e Eltsin, diverso è il variegato panorama dei Paesi che facevano parte del “blocco” e di quelli che compongono il delicato contesto balcanico che deve fare i conti anche con sacche di integralismo islamico più o meno nascoste nei meandri bosniaci e kosovari. Gli accordi di Dayton, che di fatto aprirono 20 anni fa quell’area all’Europa, rischiano di vacillare anche di fronte agli incontrollati flussi migratori lungo la “rotta balcanica” che hanno portato una valanga di persone, quasi tutte prive di identità, fino al cuore dell’Ue. Sui confini è così tornato il filo spinato. Legittimo per Paesi che sentono in pericolo il dovere di difendere i propri cittadini, ma pericoloso per le derive di carattere nazionalistico di cui già si avvertono segnali. Qualcuno ha ventilato un attacco programmato all’integrità europea attraverso questa migrazione incontrollata. Un evento in grado di mettere in ginocchio in prospettiva gli assetti sociali e assistenziali interni, ma anche l’economia e la sicurezza. Un affare criminale di dimensioni miliardarie di cui nessuno sembra tener conto, limitandosi sbrigativamente all’aspetto umanitario. In questo risiede il pericolo maggiore: la reazione di stampo nazionalista che ha portato in passato problemi e conflitti europei. E dal vento dell’Est non sembrano venire sempre motivi di tranquillità. Così dall’Ucraina delle cause sposate in fretta da una Ue confusa e pasticciona, ai Balcani dei problemi irrisolti, il 2016 si preannuncia pieno di incognite. Pierluigi Franco, giornalista dell'Agenzia ANSA, è responsabile del portale ANSA Nuova Europa e della sede del Friuli Venezia Giulia dell’agenzia. In precedenza è stato capo servizio di ANSA Mediterraneo. ITALIA Ripresa, ma con coraggio Francesco Giavazzi Due condizioni sono necessarie perché un'economia possa crescere creando ricchezza e lavoro: domanda e offerta. Le condizioni per prendere la via della crescita non sono mai state tanto favorevoli, almeno non da molto tempo. La domanda innanzitutto. I tassi di interesse nominali rimarranno vicini allo zero per almeno altri due anni. Le banche hanno ricominciato a erogare prestiti. Oggi non investire significa proprio non avere idee. Il tasso di cambio con il dollaro è sceso in un anno del 25% e scenderà ancora un po' non appena la Federal Reserve alzerà il tasso. Ma soprattutto la pressione fiscale, seppur in modo marginale, dal prossimo anno comincerà a scendere. Certo, è ancora straordinariamente elevata, e la discesa è davvero marginale, uno o due decimali, ma chi ricorda una legge di stabilità che abbia ridotto la pressione fiscale? Purtroppo, e questo è il primo punto negativo, la pressione fiscale può diminuire perché sono stati allentati i vincoli europei, non per effetto di una riduzione della spesa pubblica. Il che significa che la discesa del debito è quasi impercettibile. La modalità della riduzione delle tasse è discutibile: fra tutte le imposte, quelle sulla casa sono le meno distorsive, cioè quelle che meno interferiscono con gli incentivi a lavorare e a investire. Anche sul lato dell'offerta le condizioni sono oggi particolarmente favorevoli. Innanzitutto il prezzo di tutte le materie prime non è mai stato tanto basso: questo aumenta il nostro reddito disponibile, e quindi i nostri consumi. Con le nuove norme sui contratti i nuovi lavoratori costano anche la metà. Ma sugli altri fattori i progressi sono stati minimi, se non nulli. Nulla sulla concorrenza e l'apertura dei mercati. Un disegno di legge già troppo timido è stato abbandonato. Ma soprattutto ritorna l'illusione che l'economia per crescere abbia bisogno di una "politica industriale". Forse colpa involontaria di una classe politica improvvisamente ringiovanita, che non ha conosciuto i danni che venti, trent’anni fa le imprese pubbliche hanno arrecato a questo Paese. Parole e quasi nessun fatto anche nelle pubbliche amministrazioni. Il problema sono i burocrati: se non si avrà il coraggio di pensionare chiunque abbia più di 50 anni le leggi serviranno a poco. Quanto costerebbe pensionarli tutti anticipatamente, a cominciare dai giudici? Un punto di Pil l'anno? Sarebbe ben speso. Nonostante luci e ombre sarebbe un errore grave ritenere che esse si compensino e che nulla sia sostanzialmente cambiato. Chiedetevi quale probabilità avreste assegnato solo un anno fa alla cancellazione definitiva dell'articolo 18, o all'eliminazione del voto capitario nelle banche popolari. Le condizioni affinché la timida ripresa del 2015 si consolidi non sono mai state tanto favorevoli. Certo, dipende dal governo, ma questa volta dipende anche da noi e in primo luogo dagli imprenditori. È il momento di avere un po’ più coraggio del solito. E per quelli che non se la sentono, di accettare che forse è il momento di passare la mano. Sarebbe un peccato se, dopo lo straordinario cambiamento generazionale che è avvenuto nella politica, fossero proprio gli imprenditori, soprattutto i maggiori, a frapporsi. Francesco Giavazzi, insegna economia politica all’Università Bocconi di Milano ed è editorialista del Corriere della Sera. Le guerre di Renzi Claudio Cerasa Poteva essere l’anno della pacificazione, dopo anni di rottamazione, e invece il 2016 sarà l’anno delle guerre, per Matteo Renzi, e sarà, per le ragioni che vedremo, l’anno in cui il presidente del Consiglio dovrà chiarire una volta per tutte se il suo profilo da leader nazionale vale per tutte le stagioni, anche per quelle straordinarie, come quelle che vivremo, oppure è tarato solo sull’ordinario, ovvero sull’amministrazione tosta ma non rivoluzionaria dell’esistente. Sarà l’anno delle due elezioni, il 2016. L’anno in cui Renzi dovrà districarsi tra partito della fazione e partito della nazione. Prima con le amministrative, che conteranno per quello che sono, ovvero come semplici elezioni comunali, e poi con il referendum sulle riforme costituzionali, che conterà per quello che è, invece, ovvero per essere il vero spartiacque della vita politica del Rottamatore, o dentro o fuori, o si vince o si perde, o si trionfa o si va a casa. Sarà l’anno dell’economia, della ripresa, della necessaria dimostrazione, con l’aiuto di Draghi e della Bce prolungato fino al marzo 2017, che il governo Renzi non vive solo di stimoli esterni, di petrolio al ribasso, di dollaro che favorisce le esportazioni, di Giubileo che aiuterà il turismo, di QE che aiuterà a tenere a bada i tassi di interesse, ma vive anche di stimoli interni, e il presidente del Consiglio dovrà dimostrare che le tasse si possono tagliare riducendo la spesa, che le liberalizzazioni si possono fare anche se fanno uscire fuori di testa i tassisti e che le riforme economiche vanno fatte senza cadere nella tentazione di trasformare la leadership in una followship, nell’ossessione cioè di farsi guidare dai propri followers piuttosto che guidarli con serietà. Sarà tutto questo il 2016 ma sarà soprattutto altro, purtroppo, e sarà anche l’anno dell’Italia impegnata nella lotta al terrorismo e sarà anche l’anno in cui gli stivali dei nostri militari si avvicineranno alla costa libica e sarà l’anno in cui il nostro presidente del Consiglio dovrà imparare qui sì a essere un leader non ordinario e a guidare l’Italia in quella che difficilmente si potrà chiamare con una parola diversa da quella che Renzi nel 2015 ha provato a rottamare a tutti i costi: si chiama guerra, e per fare la guerra Renzi dovrà dimostrare di essere non solo un bravo premier ma anche un ottimo commander in chief. Claudio Cerasa nasce a Palermo nel 1982. Da dieci anni al Foglio, è direttore dal gennaio 2015. Il suo ultimo libro è: Io non posso tacere. Un magistrato contro la gogna giudiziaria (Einaudi). Due figli. Lo schema Berlusconi Tommaso Labate “Questo sì che avrebbe tutte le carte in regola per guidare il centrodestra dopo di me”. È il 2 dicembre 2012. A leggere i sondaggi l’Italia sembra marciare verso una vittoria del centrosinistra. E un Silvio Berlusconi non ancora condannato in via definitiva, mentre studia come recuperare il distacco da Bersani nelle settimane che mancano alle Politiche, rimane incantato davanti alla tv sintonizzata su “In mezz’ora” di Lucia Annunziata. Il “questo” che incorona virtualmente guardandolo sul teleschermo si chiama Alfio Marchini. E ha appena annunciato la sua candidatura a sindaco di Roma. Tre anni dopo Marchini è ancora candidato a Roma. E Berlusconi continua a ritenerlo il migliore dei suoi possibili eredi. Ma qualcosa è cambiato. La Lega, da partitino che rischiava l’estinzione, non solo ha superato Forza Italia. Ma il suo segretario, Matteo Salvini, è considerato ad oggi il leader del centrodestra più popolare. Peccato per quel dettaglio, che troppo dettaglio non è, che Salvini sia sondaggi alla mano - l’unico sfidante che uscirebbe sicuro sconfitto da un testa a testa con Renzi. Come arrivare a un ballottaggio contro il Pd alle Politiche con speranze di giocarsela? Come scongiurare “l’incubo” (copyright Berlusconi) che “il Cinquestelle vinca”? Lo schema berlusconiano, sulla carta, è semplice: un ticket composto da un “nuovo Berlusconi moderato” e da “un Salvini” schierato come numero due. Ma realizzarlo sarà complicato. Le amministrative arriveranno troppo presto perché l’esperimento possa essere pronto. E Berlusconi ha già sincronizzato la sua ora X con il referendum sulla riforma della Costituzione del prossimo autunno. Il piano inconfessabile è nel cassetto. Se centrodestra e M5S avranno la meglio, Berlusconi si rimetterà a fare il federatore della nuova coalizione. Se vince Renzi, l’ex premier potrebbe ascoltare le sirene che si sentono dalla sue aziende, trovare una nuova formula di collaborazione col governo e smobilitare tutto l’asset politico. Stavolta per sempre. Forse. Tommaso Labate, 36 anni, lavora al Corriere della Sera, dove si occupa di politica interna e dove conduce il programma di informazione Corrierelive, trasmesso in streaming sul sito del quotidiano di via Solferino. Ha condotto, in prima serata su La7, la trasmissione In Onda. Convervatorismi italiani Marco Alfieri La spending review che cambia commissari a ripetizione ma non arriva mai. Le liberalizzazioni che aspettano come un Godot dai tempi di Pierluigi Bersani (ministro dell'industria). I dipendenti pubblici e delle grandi imprese comunque illicenziabili. Il blocco rumoroso di Uber, il giustiziere del corporativismo dei taxi. Le proteste dei comitati Nimby sparsi per la Penisola (ieri No Tav, oggi No Triv) e le troppe caste intoccabili, magistrati-notai-avvocati-giornalisti-sindacati-associazioni di categoria, divise su tutto ma unite da un immarcescibile motto trasversale: le riforme? Fate pure, basta che tocchino il mio vicino... L’elenco dei "conservatorismi" italiani è affollato come ogni anno che Dio manda in terra solo che l’immobilismo fa più scalpore nella stagione della rottamazione renziana al potere (così ci è stato raccontato) e della distruzione tecnologica che non aspetta certo il via libera di parlamenti, assemblee polverose e consigli di amministrazione. Perché il guaio è proprio questo: i conservatorismi italici sono diffusi e trasversali, non riguardano mica solo la politica. Giusto un’istantanea del nostro collettivo anacronismo: nelle settimane in cui tra #blackfriday e shopping natalizio l’abbinata e-commerce e smartphone rivoluziona le regole degli acquisti globali, in Italia si lanciano battaglie di retroguardia sugli orari di apertura dei negozi (sic!). Inutile prima ancora che stupido. Ci fermiamo al nostro orticello litigioso mentre il mondo corre a mille all’ora e dalla mobilità alle vacanze, dallo shopping alla musica, dalla politica al sindacato, dalla televisione alle news, la tecnologia, la Rete, la disintermediazione e la condivisione aggrediscono i settori tradizionali, per smontarli e rimontarli con regole proprie. Previsioni? Secondo molti analisti il 2016 italiano potrebbe essere ancora più "disruptive" grazie alle piattaforme di "social lending" che hanno messo nel mirino il vecchio settore del credito. Non andremo più in banca? Chissà. Meglio discutere di piccolo cabotaggio, salvataggi e fusioni tra amici. Per i nostri conservatorismi il dito è sempre meglio della luna… Marco Alfieri è nato a Varese nel 1973 e fa il giornalista. Attualmente scrive e cura una newsletter quotidiana per Il Foglio e fa storytelling per Eni, ma in precedenza è stato direttore de Linkiesta, inviato de La Stampa e ha lavorato per Il Riformista, Il Sole 24Ore e la Prealpina. Dove va la Chiesa Paolo Rodari È l’anno del Giubileo della misericordia, dodici mesi in cui il vescovo di Roma Francesco apre le porte della Chiesa a tutti, peccatori e lontani in primis. Indire un anno santo dedicato alla misericordia significa comunicare a tutti cosa sia la Chiesa: non, come disse il cardinale Walter Kasper durante un convegno ad Assisi un anno fa, un castello in cui chi è dentro decide per chi e quando abbassare i ponti levatoi, ma una famiglia aperta cui tutti hanno diritto di entrare, anche e soprattutto coloro che a motivo del loro peccato, o della loro condizione di vita, non si sentono degni. Più che tappe da segnalare l’anno che inizia porta con sé mesi dedicati al perdono, all’accoglienza, alle porte delle chiese che vanno tenute aperte per tutti senza selezioni previe. Da arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio volle aprire diverse parrocchie all’interno delle villas miserias, una serie di grandi baraccopoli ai margini della città. Lì vivono poveri e diseredati. Lì, insieme a persone semplici e autentiche, albergano anche violenze e soprusi. La Chiesa è lì che deve anzitutto andare, non tanto per portare qualcosa ma per imparare: Dio vive nei semplici e sono loro a trascinare tutti gli altri. Ha raccontato recentemente padre Gustavo Cararra, parroco nella villa del Bajo Flores: “Bergoglio parlava sempre della necessità di stare dietro al gregge, non davanti. Ho capito cosa significa ciò quando, qualche mese fa, mi hanno chiamato in una baracca perché a una coppia di villeros era appena morto il figlio di cinque anni. Mentre andavo ero preoccupato. Pensavo ‘e adesso che cosa dico loro?’. Arrivato nella baracca ho capito che non sono io a dover dire, a dover insegnare. Sono loro, i poveri, che insegnano a me. Il bimbo era adagiato su un piccolo tavolo. I genitori l'avevano vestito di bianco e gli avevano attaccato alle braccia due ali di cartone. Mi hanno detto: ‘Adesso nostro figlio è un angelo. Vive in cielo’. Nella disperazione più grande mi hanno insegnato cosa significa avere fede”. Paolo Rodari è un giornalista, dal 2013 vaticanista di Repubblica. Ha lavorato anche al Riformista e al Foglio. MEDIA&TECH Ve-lo-ce Sergio Maistrello L’avverti l’accelerazione? Sei il passeggero di un aereo al decollo. Parte la rincorsa, le ruote cominciano a girare. Poi accelera. Accelera. Accelera. Te l’aspetti, la progressione, sei preparato alla spinta. Sai che il velivolo deve raggiungere una velocità considerevole per staccarsi dal suolo. Tutto bene. Fino a quel momento lì. C’è un istante in cui la velocità supera il moltiplicatore ideale che mente e corpo si erano prefigurati. Non hai alcun controllo sulla situazione. Nemmeno il pilota può più arrestare la manovra. Per alcuni secondi sei sospeso al limite della tua soglia di comfort e insegui equilibri precari. Per alcuni è ebbrezza, per altri disagio. Ecco: nell’innovazione tecnologica siamo giunti all’equivalente di quel momento lì. Per decenni la nostra idea di progresso è stata lineare: una crescita regolare, la somma di sforzi e intuizioni, anno dopo anno. Conoscevamo fenomeni evolutivi soggetti a progressioni esponenziali, ma li consideravamo governabili, perché il loro impatto era molto meno veloce e significativo delle nostre pianificazioni. Poi, com’è nella natura dei fenomeni evolutivi, la tecnologia ha cominciato a spingere. A colpi di raddoppi ravvicinati, la capacità di elaborazione dei processori elettronici ha raggiunto quella dei piccoli mammiferi e si avvia a eguagliare quella del cervello umano. Intravediamo la soglia della singolarità tecnologica, il punto ideale dove l’intelligenza artificiale potrebbe potenziare le capacità degli esseri umani. Dove sta il problema? Nella velocità: l’ebbrezza, o il disagio, ostacola la visione strategica del futuro. Nella miopia: le gerarchie della società contemporanea, sfidate sempre più spesso da iniziative di rottura (Uber e i taxi, Airbnb e gli alberghi, Facebook e l’informazione), tentano di preservarsi abbarbicandosi ai modelli di crescita lineare. Il 2016 è l’anno in cui si diffonderà la consapevolezza dell’accelerazione e sarà sempre più difficile procrastinare una discussione aggiornata e lungimirante sul futuro. Sergio Maistrello scrive, sperimenta e insegna all'intersezione tra rete e società. È autore di "Giornalismo e nuovi media" (Apogeo) e "La parte abitata della Rete" (Tecniche Nuove). La riscoperta della buona notizia Federico Sarica La buona notizia arrivata in questo 2015 è che le notizie interessano ancora a molti, eccome. E interessano in particolare ai colossi del digitale, categoria con la quale, dopo anni di battaglie, editori e giornalisti sembrano aver deciso di voler collaborare. In questi mesi sono fiorite una serie di iniziative ancora tutte da verificare dal punto di vista dall'efficacia, ma che rappresentano probabilmente un salto di qualità nei rapporti fra giornali e tecnologia dal quale difficilmente si potrà tornare indietro. Alcuni esempi: il 2015 è stato l'anno degli Instant Articles di Facebook, la piattaforma messa in atto da Zuckerberg per permettere ad alcuni editori, previ accordi, di pubblicare direttamente nelle timeline del social network. A ottobre Google ha lanciato Accelerated Mobile Pages, il quale dovrebbe permettere alle testate di vedere le proprie pagine caricate più velocemente su smartphone e tablet, e poco prima aveva stanziato 150 milioni di euro per finanziare progetti innovativi editoriali in Europa attraverso la Digital News Initiative. Il dato rilevante è che nessuno di questi progetti prescinde dalle partnership con editori e testate, considerati in qualche modo di nuovo essenziali. Il 2016 dovrà sciogliere gli ultimi dubbi in questo senso e dare conferma di questo avvenuto salto di qualità nell'approccio dei media verso il nuovo panorama tecnologico; la presa di coscienza che "letto su" (Facebook, Google, etc.) non può prescindere da "pubblicato da" (Washington Post, Buzzfeed, etc.), e che lavorare sul primo non significa trascurare il secondo, anzi. Uno scenario in cui i brand editoriali ritrovano la loro dimensione originale di autorevolezza, rilevanza e capacità di selezione. Anche in Italia: qui l'anno parte con le "rivoluzioni" annunciate a Repubblica, dove cambia il direttore dopo vent'anni, e in Rai, dove dovrebbero iniziare a vedersi i primi risultati della gestione di Antonio Campo dall'Orto, il quale ha annunciato di voler portare la tv di stato nella contemporaneità. Auspicando un effetto a cascata. Federico Sarica è direttore di Studio, rivista che ha fondato con Alessandro De Felice. Con Giuseppe De Bellis hanno inoltre fondato Undici, trimestrale di calcio. Collabora con Il Foglio. IDEE La differenza tra populismo e demagogia Beppe Severgnini Usiamo “populismo” e “demagogia” come sinonimi. In effetti, sono concetti diversi. Il populista ascolta le richieste che salgono dall’elettorato, e cerca di esaudirle: sono il suo metro di giudizio. Il demagogo sfrutta le paure, i pregiudizi e l’ignoranza diffusa, e li piega ai propri fini: sono la sua strategia. Ogni demagogo è anche populista. Un populista può non essere un demagogo. Il 2016 sarà l’anno in cui i demagoghi all’opposizione si batteranno con i populisti al governo: una lotta in famiglia. Adattamenti e concessioni saranno all’ordine del giorno, travestiti da scelte lungimiranti (sulla sicurezza e sul welfare, sull’economia e sulla libertà di movimento). Il 2015 ha infatti prodotto una situazione instabile. La crisi greca ha mostrato l’avversione crescente verso la governance monetaria europea: essendo complessa, non viene capita dalla popolazione; essendo incompresa, genera ansia e avversione. Gli attentati di Parigi hanno aumentato la diffidenza verso l’immigrazione e la religione islamica, entrambe collegate apertamente al terrorismo nel dibattito pubblico e privato. In ogni Paese esistono formazioni, spesso diverse tra loro, decise a sfruttare queste ansie e questi malumori. Tra i più noti: in Italia, la Lega e il Movimento 5 Stelle; in Francia, il Front National; in Olanda, il Partito della Libertà; Perussuomalaiset in Finlandia; Fideszt in Ungheria. Nel 2016 un elemento populistico sarà presente in ogni partito, di governo o di opposizione. Ben pochi leader sembrano infatti disposti a pagare il costo politico di scelte di lungo periodo. Una citazione va al referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea, che si terrà quasi certamente nel 2016. Le quattro, blande richieste di David Cameron alla UE verranno accettate e consentiranno al governo conservatore d’opporsi ai populisti antieuropei di UKIP (United Kingdom Independence Party). Il successo non è garantito, però. La demagogia è un vento improvviso, la meteorologia politica una scienza inesatta. Beppe Severgnini è editorialista del "Corriere della Sera" e contributing opinion writer per "The New York Times”. Ha scritto 16 libri, e quest’anno ha condotto su Rai3 il programma europeo “L’Erba dei vicini”. Sempre più Inequality Alberto Mingardi Il nero va su tutto, le diseguaglianze pure. Le nostre società sono sempre più divaricate, il ceto medio si sta assottigliando, l’1% va in vacanza a St Barth e il resto di noi si vede pignorare l’appartamento a Bordighera. La questione è seria, ma la mia impressione è che nel 2016 le persone con un minimo di senno non riusciranno più a prenderla seriamente. Per Papa Bergoglio, il terrorismo è figlio della povertà: e lo dice dopo una vita passata a spasso per le favelas dell’America Latina, che com’è noto brulicano di aspiranti kamikaze. Per Thomas Piketty, le diseguaglianze sono la polveriera del terrorismo in Medio Oriente, e "noi abbiamo largamente contribuito a crearle". C’è più che qualcosa di vero, il sostegno offerto dall’Occidente a plutocrati e dittatori è certamente imbarazzante, ma Piketty spinge tutto giù per il solito tritarifiuti. Le diseguaglianze come Grande Spiegazione Universale. Se nei dieci comandamenti c’è “non desiderare la roba d’altri” è perché, come ha notato Richard Pipes, il desiderio di possedere è innato ma il rispetto per la proprietà altrui dev’essere appreso. È altamente probabile che l’invidia sociale possa innescare avvenimenti terribili. Nella notte dei cristalli, l’odio razziale si nutriva dell’istinto di saccheggiare. Ma una società più eguale, nella quale tutti ci assicuriamo contro il rischio d’essere invidiati, ha dei costi. La compressione della possibilità d’innovare, la drastica riduzione degli incentivi a lavorare di più, contribuendo maggiormente al prodotto sociale. È relativamente facile ripartire equamente la miseria: l'umanità ha conosciuto delle società fortemente egualitarie. Non abbiamo mai conosciuto, però, società egualitarie e progredite, eccezion fatta per i film di Star Trek. Forse, nell’anno nuovo, comincerà ad apparire più chiaro che tutto il discorso sulle diseguaglianze è in realtà funzionale a uno scopo. Rattoppare, come si può, la formula politica dello Stato sociale. Da sessant’anni, nel nostro spicchio di mondo, le istituzioni pubbliche non fanno che “redistribuire”. A leggere i giornali parrebbe che lo Stato sociale sia stato ucciso e sepolto da un paio di decenni di “neo-liberismo”. Sarà anche morto, ma da morto continua a intermediare grosso modo la metà del prodotto interno lordo. Le diseguaglianze sono la Grande Spiegazione Universale, più redistribuzione è la Grande Soluzione Universale, l’una cosa e l’altra servono a poco se si vuole comprendere la realtà, e di tentativi di comprendere la realtà, nel 2016, ci sarà un gran bisogno. Alberto Mingardi è direttore generale dell'Istituto Bruno Leoni (www.brunoleoni.it). Collabora con La Stampa e il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Un po’ meno romanzo Vincenzo Latronico Il Nobel per la letteratura nel 2015 è stato vinto da Svetlana Alexeievich, un’autrice di nonfiction. Vorrei vederci un segnale: il segnale che da qualche anno i romanzi più significativi dell’Occidente - i più letti, i più innovativi, i più rilevanti per qualche misura del termine - con difficoltà si qualificano come romanzi. Il 2015 si è aperto con Soumission di Michel Houellebecq, libro universalmente ritenuto il suo più sciatto e dogmatico, il meno letterario. Era anche un libro che problematizzava il rapporto della Francia con l’Islam pochi giorni prima degli attentati alla redazione di Charlie Hebdo, quasi un anno prima di quelli di novembre. Da poco era uscito Le Royaume, di Emmanuel Carrère, che mescola autobiografia, esegesi biblica e fanta-storia per parlare, anch’egli, di religione e trascendenza. Sul capo opposto dello spettro, intere generazioni di adolescenti si appassionano alla fantascienza distopica di Hunger Games e Divergent: saghe tradizionalmente snobbate come non-letterarie, ma più complesse e ricche e politicamente sofisticate di qualunque cosa siano andati a rimpiazzare (e cioè, per la mia generazione, cose come Dragonball). Nel mezzo, la letteratura tradizionale sembra sempre meno capace di fare presa sul presente. Purity di Jonathan Franzen, forse l’uscita più attesa del 2015, è un romanzo classico, scritto benissimo, che tocca magistralmente temi di grande attualità (l’importanza politica e personale dei segreti): eppure stranamente impotente, vacuo. Lo si divora affascinati dalla maestria di Franzen e lo si chiude ricordandosene poco, sentendosi meno segnati che dai dialoghi esagerati e dalle coreografie fumettose di Mockingjay. Se dovessi estrapolare da questi appunti sul 2015 (da cui mancano perlomeno i nomi di Annie Ernaux e Ben Lerner), direi che il romanzo nel 2016 si avvia ad essere più ibridato, più alto o più basso, più corto o invece lunghissimo, più vicino alle serie TV e ai fumetti o invece al giornalismo e alla saggistica: insomma, meno romanzo. Vincenzo Latronico (Roma 1984) ha pubblicato tre romanzi con Bompiani e un libro di viaggi con Quodlibet Humboldt. Collabora regolarmente con frieze e con IL. La ricerca dell’etica, nello sport Lia Capizzi Anno olimpico il 2016, saranno cinque cerchi di gioie o di dolori? I Giochi Olimpici, in Brasile ad agosto, si svolgeranno subito dopo gli Europei di calcio in Francia. Due appuntamenti all'apparenza tanto lontani ma che invece, mai come quest'anno, sono uniti da un cordone ombelicale che si chiama etica. Il terremoto nella FIFA, la fine della "dittatura" di Sepp Blatter, le mazzette e le manette fanno il paio con la lava incandescente del doping che ha investito l'atletica della Russia scoperchiando bugie, analisi farlocche, dirigenti corrotti e atleti sporchi. E citiamo solo l'atletica di Putin in quanto colpevole conclamata, ma tutti gli sport della Russia facevano riferimento a quella sorta di bisca clandestina che si è rivelato esser il laboratorio antidoping di Mosca. Mettiamoci pure l'atletica di casa nostra che è già in crisi di risultati in più ha la sindrome di Tafazzi, si fa male da sola. Il riferimento è alla richiesta di squalifica per quegli atleti colpevoli di mancata reperibilità e di aver eluso i controlli anti-doping. Era una falla del sistema informatico e c'era un baco nelle notifiche delle mail? D'accordo, ma è stato un danno di immagine al limite dell'autolesionismo. La verità è che nessuna nazione può recitare la parte della verginella, ognuna ha qualcosa da nascondere. In primis quella Spagna che ha partorito la sentenza simil farsa dell'Operacion Puerto con la Guardia Civil che ha fatto distruggere 211 sacche di sangue, rimaste anonime, di 35 atleti (e non sarebbero stati ciclisti...). Da anni assistiamo all'Olimpiade della frode, di chi riesce a nasconder meglio il doping, tanto vale allora dare credito a chi propone di legalizzarlo. È una provocazione, sia chiaro, ma basta decidersi e essere onesti: il doping lo vogliamo combattere o no? Dal calcio all’atletica il 2015 ci lascia in eredità uno sport infangato e sputtanato. Il 2016 l’obiettivo di rendere credibile quella pulizia che ora in tanti sbandierano e promettono. La medaglia d'oro la vincerà l'etica? Lia Capizzi, giornalista di SkySport. Sognava di fare l'ingegnere e di vivere su un vulcano. Ha scelto invece di raccontare cose di sport. Prima in radio (Radio 105, Radio RAI) e poi in televisione (Mediaset, Sky). GOOD MORNING ITALIA Good Morning Italia è nata il 28 gennaio 2013. È un concentrato di informazione di qualità per affrontare la giornata. È realizzato ogni mattina all’alba per dare agli abbonati una sintesi essenziale e panoramica delle notizie di politica ed economia, dell’agenda del giorno, della rassegna stampa e delle analisi più interessanti. È una nuova impresa editoriale. È nuova e contemporanea: risponde a una domanda di informazione, investe sulla qualità dei contenuti e sul rapporto con gli abbonati. Cresce con loro. È pensata per orientare la giornata in un’epoca di abbondanza dell’informazione, in cui essere informati è un elemento chiave di competizione, e in cui il tempo è la risorsa più scarsa e preziosa. È iniziato tutto con una email: la nostra storia. Good Morning Italia è disponibile online, via email, su app iOS e app Android. Per contatti: [email protected] Ogni mattina Good Morning Italia è il frutto del lavoro di: Beniamino Pagliaro Piero Vietti Stefania Chiale Valentina Ravizza Davide Lessi Nicola Imberti Clara Attene Lidia Baratta Filippo Santelli GRAZIE Gli autori del nostro ebook sono giornalisti eccellenti, tra i migliori nei rispettivi ambiti di competenza. Il meglio selezionato per voi. Siamo grati per il loro sforzo di sintesi e analisi sull’anno che verrà. Il nostro ebook è ormai un appuntamento tradizionale. Due delle più importanti aziende d’Italia hanno scelto di accompagnare il nostro percorso: grazie a Telecom Italia e Eni. Ringraziamo tutti gli autori (in ordine alfabetico): Chiara Albanese, Massimo Alberizzi, Marco Alfieri, Michael Braun, Lia Capizzi, David Carretta, Claudio Cerasa, Mattia Ferraresi, Pierluigi Franco, Francesco Giavazzi, Tommaso Labate, Vincenzo Latronico, Sergio Maistrello, Alberto Mingardi, Maurizio Molinari, Simone Pieranni, Paolo Rodari, Federico Sarica, Rolla Scolari, Beppe Severgnini, Anna Zafesova. Buon 2016! Il mattino ha l’oro in bocca.