la memoria al di là della morte
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la memoria al di là della morte
Mirko Bologna LA MEMORIA AL DI LÀ DELLA MORTE TRE OMAGGI A PASOLINI NEL CINEMA E NELLA CANZONE ITALIANI Ormai se ti dico buongiorno ho paura dell‟eco, tu, disperato teatro, sontuosa rovina. Eppure t‟aveva lasciata, il mio verso, una spina. Ma va‟, senza ritorno, perfetto e cieco. (Franco Fortini, L’ospite ingrato) L‟influenza del pensiero e delle idee di Pier Paolo Pasolini sulla cultura italiana degli ultimi cinquant‟anni è enorme e difficilmente quantificabile. Dalla prima raccolta di versi in lingua friulana, Poesie a Casarsa (1942) ai romanzi romani (Ragazzi di vita, 1955, e Una vita violenta, 1959), fino all‟originalissima produzione cinematografica, la sua voce è stata al centro della scena culturale del secondo dopoguerra e degli anni della contestazione. La sua attività di narratore, poeta, scrittore di teatro, saggista e cineasta ha contribuito, oltre che a renderlo uno fra gli intellettuali più prolifici ed eclettici del secolo scorso, a suscitare dispute e discussioni che continuano tuttora; persino la sua morte, sulla quale ancora non è stata fatta piena luce, non cessa di dividere, né di provocare polemiche. Come ha scritto Carla Benedetti in apertura del suo libro Pasolini contro Calvino, dopo tanti anni si dibatte sul suo statuto di „classico‟, chiedendosi che cosa, della sua produzione letteraria e della sua vita, sia «da salvare o da buttare». 1 Di Pasolini, oggi è rimasta soprattutto l‟impressione di un uomo „contro‟, di un personaggio scandaloso che ha avuto il coraggio di annunciare e denunciare verità scottanti sulla rivoluzione antropologica e sui costumi sessuali degli italiani;2 quello che oggi manca di più è proprio il suo ruolo di intellettuale, la sua capacità di interrogarsi – spesso in modo ambiguo, ma mai banale – sul presente e di condurre analisi lucide e impietose sulla società e la politica del suo tempo. Per quanto contraddittoria e talvolta offuscata da polemiche sterili e strumentali, la fortuna di Pasolini è sempre stata vivissima. Dagli anni ‟80 in poi le sue opere, le sue contrastate vicende biografiche, la sua tragica scomparsa hanno ispirato libri, film e canzoni. Nelle pagine che seguono vorremmo soffermare la nostra attenzione su alcuni episodi di questa fortuna, in cui l‟omaggio alla memoria di Pasolini, ben lontano dall‟essere fine a se stesso, vale invece come tributo reso alla grandezza del suo pensiero e alla sua altezza intellettuale, ma soprattutto – come vedremo – alla „eroica normalità‟ della sua fine. Si tratta, nello specifico, di due film, Caro diario di Nanni Moretti (1993) e I cento passi di Marco Tullio Giordana (2000),3 e della canzone «A Pa‟», di Francesco De Gregori. 1 C. BENEDETTI, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 9; «Da salvare. Da buttare» è appunto «il titolo di una pagellina critica assai ingenerosa» firmata da Renzo Paris e comparsa su «L‟Espresso» del 22 ottobre 1995 (pp. 26-7) in occasione del ventennale della morte di Pasolini. 2 Si leggano su questo le parole scritte da Pasolini il 13 marzo 1975, pochi mesi prima della morte, a un interlocutore fittizio di un trattato pedagogico destinato alle nuove generazioni: «Sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non c‟è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci» (Nota introduttiva a Album Pasolini, a c. di Graziella Chiarcossi, Mondadori, Milano 2005, p. V). Tra i numerosi studi sull‟opera e il pensiero pasoliniani ci limitiamo a ricordare la recente sintesi di R. CARNERO, Morire per le idee. Vita letteraria di Pier Paolo Pasolini, Bompiani, Milano 2010. 3 Oltre agli omaggi di Moretti e Giordana, tra i film e documentari dedicati o ispirati a Pasolini si dovranno ricordare almeno Amore tossico (1983), di Claudio Caligari; Uno a me, uno a te e uno a Raffaele (1995), di Jon Jost, dove uno dei protagonisti si lancia in una feroce invettiva contro lo scrittore; Magi randagi (1996), di Sergio Citti, in cui una donna partorisce proprio nel luogo dove Pasolini è stato ucciso; Nerolio (1996) e Un mondo d’amore (2002), di Aurelio Grimaldi; il mediometraggio Arruso (2000), di Daniele Ciprì e Franco Maresco; Pasolini prossimo nostro 1 1. Caro diario. Il tributo alla morte Il settimo lungometraggio di Nanni Moretti è un film costituito da tre episodi. Il primo, «In vespa», è la presa diretta di un vagabondaggio che il protagonista – il regista stesso – compie, sulla vespa appunto, per le strade di una Roma estiva e semideserta; il secondo, «Isole», è il resoconto di un breve viaggio alle isole Eolie (nell‟ordine: Lipari, Salina, Stromboli, Panarea e Alicudi), dove Moretti si reca a trovare l‟amico Gerardo, che vi si è ritirato per studiare l‟Ulisse di Joyce, e con l‟intento di scrivere il copione del prossimo film; «Medici», infine, prende spunto da un fatto reale, 4 la malattia di cui il regista soffrì (un tumore del sistema linfatico, noto come „morbo di Hodgkin‟), e che gli fu diagnosticata soltanto dopo un‟interminabile odissea di pareri discordanti, consulti imprecisi, cure inutili e dispendiose. Il film, che segnò il ritorno di Moretti dopo anni di silenzio, ottenne un grande successo di pubblico e di critica, e vinse la Palma d‟oro per la miglior regia al Festival di Cannes del 1994. Concentriamoci sull‟episodio iniziale. La macchina da presa segue le peregrinazioni del protagonista/regista che gira per le strade della sua città godendone ciò che negli altri periodi dell‟anno è impossibile apprezzare appieno: la pace e il silenzio, l‟assenza di traffico (la vespa cammina spesso al centro della carreggiata, talvolta zigzagando), la particolarissima programmazione nelle sale cinematografiche (dove si vedono solo film pornografici, produzioni italiane di second‟ordine, e Henry pioggia di sangue).5 Moretti visita alcuni dei quartieri che più lo affascinano: i lotti popolari della Garbatella, la periferia di Spinaceto, l‟area residenziale di Casalpalocco; ammira le peculiarità di ciascuno e si ferma per scambiare qualche parola con passanti incontrati casualmente (tra cui spiccano l‟attrice di Flashdance, Jennifer Beals, e il marito, il regista Alexandre Rockwell), mentre la sua voce fuori campo esprime sogni e desideri rimasti fino a quel momento inespressi: «saper ballare bene», acquistare un appartamento e ristrutturarlo, suonare alla porta, fingere un sopralluogo per le riprese di un film fatto di panoramiche sulle case. Fin qui, «In vespa» è una forma di confessione, un saggio di cinediario, quasi un esperimento di „pedinamento‟ del reale secondo i dettami neorealistici di Cesare Zavattini. Improvvisamente, però, la scena cambia. Moretti è seduto al bar e sfoglia vecchi giornali, con i titoli di testa che piangono la fine di Pasolini. «Non so perché, ma non ero mai stato nel posto dove hanno ammazzato Pasolini», pensa il protagonista, e immediatamente lo spettatore ha di fronte la sua vespa che percorre le strade di Ostia fino all‟idroscalo e al campo da calcio dove venne ritrovato il corpo senza vita dello scrittore. La camera-car, che fino a qui è sempre rimasta dietro alla vespa, da un momento all‟altro accelera fino a raggiungerla e superarla; dietro a una rete metallica, che in parte ne impedisce la vista, si scorge il monumento in memoria di Pasolini, circondato dalle erbacce selvatiche e inquadrato dai pali di una porta. Come ha ben sintetizzato Flavio De Bernardinis, esso «non spicca nel paesaggio, anzi, sembra buttato lì come tutto il resto. La Vespa si arresta, fine di questo vagabondaggio».6 Caro diario – insieme al successivo Aprile (1998) – rappresenta indubbiamente una svolta all‟interno del cinema morettiano. Se nei film precedenti il regista aveva riscritto fatti e vicende che lo riguardavano personalmente, trasferendoli però agli alter ego Michele Apicella (Io sono un autarchico, Ecce bombo, Sogni d’oro, Bianca e Palombella rossa) e don Giulio (La messa è finita), qui il meccanismo autobiografico viene scoperto e messo a nudo: in scena c‟è Nanni – anzi, (2006), di Giuseppe Bertolucci; La notte quando è morto Pasolini (2009), di Roberta Torre. Nel 2010, infine, il regista Massimiliano Perrotta ha realizzato il documentario Sicilia di sabbia, viaggio nei luoghi visitati da Pasolini per il reportage giornalistico La lunga strada di sabbia. 4 Moretti avverte subito, all‟inizio dell‟episodio, che «niente di questo capitolo è inventato»; si vedono le ricette mediche inutilmente accumulate nel corso di un anno, quindi il regista sdraiato su un lettino, in un‟immagine un po‟ sporca, quasi da „cinema-verità‟: «Ho deciso di filmare la mia ultima seduta di chemioterapia, la cura che si fa quando si ha un tumore». 5 Henry, film horror di John McNaughton, uscito negli Stati Uniti nel 1986 e in Italia nel 1992 per la distribuzione di PentaFilm. 6 F. DE BERNARDINIS, Nanni Moretti, Il Castoro, Milano 2001, p. 128. 2 Giovanni – Moretti, il cui corpo si identifica con quello del personaggio consegnandosi al linguaggio della cronaca, del memoriale. Esaurito il bisogno di costruirsi un‟identità per poi metterla in crisi, Moretti distrugge ogni barriera tra il sé regista e il sé attore (o, se vogliamo, tra il sé scrittore/soggettista/sceneggiatore e il sé personaggio) per porsi davanti alla cinepresa, senza difese; nel primo episodio il personaggio è ancora più inerme, essendo ripreso sempre di spalle, solo con i propri desideri. Scrive Federica Villa: Se, dunque, la prima produzione [da Io sono un autarchico a Palombella rossa] è stata sotto il segno della contraffazione del sé fino ad arrivare alla deriva, alla perdita di compattezza di un‟identità strutturata su una compagine di idiosincrasie molto forti, molto evidenti, il dittico di Caro diario e Aprile inaugura la fase della vittoria e al contempo della resa del sé in quanto tale, del mostrarsi «splendido quarantenne» e padre di famiglia. […] Caro diario appare, dunque, come un film spartiacque, che segna una cesura tra un prima e un dopo.7 L‟importanza del film è anche nel fatto che esso recupera una precisa idea di cinema, viva in Italia ancora negli anni Sessanta e legata al fare cinematografico pasoliniano. Si pensi a ciò che proprio Pasolini affermava a proposito del cinema: «il cinema altro non è dunque che la lingua scritta della realtà […] e rappresenta la realtà attraverso la realtà. […]. Esprimendomi attraverso la lingua del cinema […] io resto sempre nell‟ambito della realtà: non interrompo la sua continuità attraverso l‟adozione di quel sistema simbolico e arbitrario che è il sistema di linsegni». 8 Di fronte all‟intellettualizzazione del cinema, e all‟identificazione tra cinema e pensiero, proposta dalla Nouvelle vague francese, Moretti, come prima di lui Pasolini, ci propone un film che è soprattutto un insieme di dati visivi e sonori che fanno problema a sé e che testimoniano l‟amore per la realtà, per la sua consistenza oggettiva; non serve rappresentare il mondo ricorrendo a un sistema di simboli, è il mondo che rappresenta se stesso, subito, per come viene inquadrato e filmato dalla macchina da presa. Il primo episodio, in particolare, è tutto incentrato sul cinema e sull‟operazione cinematografica, anzi è una vera e propria dichiarazione d‟amore di Moretti nei suoi confronti. Lo dicono i numerosi riferimenti che costellano l‟intero capitolo: a. La prima occorrenza della voce over del regista descrive la situazione dei cinema romani d‟estate; subito dopo un‟altra voce introduce lo spettatore in uno dei film italiani cosiddetti „generazionali‟, i cui protagonisti discutono dei loro problemi, mentre Moretti, seduto in sala, disapprova a voce alta; b. Percorrendo le strade della Garbatella, Moretti si ferma davanti a una casa e dice di volerla esaminare per girarci un musical su un pasticciere trotzkista; c. Confessando la propria passione per il ballo, il regista rivela che Flashdance è «quel film che mi ha cambiato definitivamente la vita»; d. Moretti sogna la possibilità di un film fatto solo di case; e. Dopo aver visto alcune sequenze di Henry, Moretti esce sconvolto dal cinema, ripensando a un articolo positivo che aveva letto su quel film: si siede al tavolino di un bar e trascrive la recensione sul proprio diario; f. A casa di un giovane critico cinematografico (interpretato da Carlo Mazzacurati), Nanni gli legge con violenza i suoi articoli – in cui si esaltano film di Cronemberg, Demme e Lynch – fino a farlo scoppiare in lacrime. Varrà la pena ricordare che all‟inizio del secondo capitolo, «Isole», Moretti, appena giunto a Lipari, entra in un bar e comincia a ballare, rapito da un televisore che trasmette Anna, film del 1951 girato da Alberto Lattuada e interpretato da Silvana Mangano e Raf Vallone. All‟interno di «In vespa», un posto essenziale è occupato dalla sequenza del tragitto verso Ostia, non soltanto per la sua posizione in rilievo, a chiudere l‟episodio, ma soprattutto per la sua durata: con i suoi 5‟08” è infatti la più lunga di questa prima parte e la terza dell‟intero film. Gli splendidi 7 F. VILLA, Nanni Moretti. Caro diario, Lindau, Torino 2007, pp. 38-9. La cesura è «anche a partire da quella locandina che diventa simbolo della casa di produzione Sacher, il disegno, cioè, di Moretti che va in vespa visto di spalle e che in Aprile vedrà anche la presenza del piccolo Pietro abbarbicato dietro; la segna anche perché con Caro diario Moretti vince a Cannes e il suo nome si internazionalizza definitivamente» (ibid.). 8 P. P. PASOLINI, Appendice. Battute sul cinema, in ID., Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II, a c. di Walter Siti e Silvia De Laude, con un saggio di Cesare Segre. Cronologia di Nico Naldini, Mondadori, Milano 1999 (I Meridiani), pp. 1542-3. 3 minuti finali sono sì un tributo a Pasolini, ma anche una riflessione sul rapporto tra oralità e scrittura e sulla resistenza posta da queste ultime di fronte alla morte. Abbiamo visto che Pasolini parlava del cinema come trascrizione diretta della realtà, come forma di scrittura che blocca il reale in immagini, scegliendo determinate convenzioni per esprimerlo. La corrispondenza è chiara: se la realtà appartiene all‟ambito dell‟orale, in virtù della sua „corporeità‟ e del suo alto grado di transitorietà, il cinema, – così come la narrativa o la poesia – è lingua scritta, fissazione dell‟esistenza, autenticità che si precisa in una scelta. È inevitabile che questo passaggio dall‟orale allo scritto, dalla realtà al cinema, comporti sempre «una perdita di vitalità, un lutto rispetto alla purezza primordiale dell‟esistente, una cosificazione che sottrae linfa, […] una forma di mummificazione»;9 tuttavia, il primo episodio di Caro diario, e più precisamente la sua sequenza finale, dimostrano che tale dialettica è inevitabile, che la scrittura – nella fattispecie, la scrittura cinematografica – è allo stesso tempo luttuosa ma necessaria. Il lutto riguarda ovviamente anche il ricordo della morte di Pasolini. Abbandonando le suggestioni neoformaliste ancora forti nel contesto culturale in cui operava Pasolini, Moretti filma il monumento all‟idroscalo di Fiumicino (sorretto dalle note di pianoforte del Köln Concert di Keith Jarrett) come il segno di un‟eroica presenza, o sopravvivenza, da parte dell‟uomo. Il luogo in cui Pasolini fu ucciso, e ora la piccola statua che lo ricorda, sono per Moretti semplici dati di fatto, nel senso che ci vengono trasmessi e consegnati dal passato. Quel luogo, che dovrebbe essere vivo nella coscienza culturale degli italiani, è invece ormai dimenticato, confuso tra il fogliame e fatto a pezzi: l‟occhio del personaggio/regista e dello spettatore lo (intra)vedono dalle maglie di una rete metallica, quasi fosse ridotto a un puzzle. L‟uomo sulla vespa ne testimonia però la realtà attraverso la macchina da presa: «se prima si trattava solo di un luogo muto con una sua verità silenziosa, adesso, sotto l‟obiettivo del cinediario, può diventare forse un dato oggettivo, non privo di una sua sensata loquacità».10 Lo scopo dell‟ultimo giro in vespa viene annunciato prima, creando una forte aspettativa in chi guarda e ascolta il film e si prefigura il luogo che verrà inquadrato. Confessando di voler visitare il posto dove hanno ammazzato Pasolini, Moretti denuncia che quel luogo è sconosciuto a lui come alla grande maggioranza degli spettatori, che hanno „dimenticato‟, o non hanno mai voluto sapere, cosa sia accaduto veramente allo scrittore. La suspence continua quando il regista scende e si avvicina alla rete, scorgendo il monumento, fino alla sorpresa conclusiva: nell‟ultimissima inquadratura la camera scarta la sua prospettiva abituale e si posiziona da tutt‟altra parte; il punto di vista di Moretti viene scavalcato, e rimane quello dello spettatore, lasciato solo di fronte allo squallore della morte e del ricordo mancato. Nell‟intera sequenza non si dice una sola parola, perché quella morte e quel ricordo hanno bisogno di essere celebrati in un silenzio quasi religioso. Inoltre, la riflessione sul rapporto tra cinema e realtà è giunta a un livello ulteriore, e rispecchia ancora, con eccezionale fedeltà, il pensiero pasoliniano: «È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso […]. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti più significativi […] e li mette in successione […]. Il montaggio opera dunque sul materiale del film […] quello che la morte opera sulla vita».11 La pietra, oggetto morto da osservare sotto vetro, prende vita grazie al cinema, pagando il giusto tributo alla scomparsa di Pasolini. Non è un caso che tra i desideri di Moretti, oltre a saper bene ballare e a fare un film sulle case, ci sia anche rendere visita a quel campaccio degradato: solo tramite il cinema i desideri si avverano e si consumano, restando fissati per sempre. 2. I cento passi. La vita nonostante la morte 9 VILLA, Nanni Moretti. Caro Diario, cit., p. 48. 10 DE BERNARDINIS, Nanni Moretti, cit., p. 132. 11 PASOLINI, Osservazioni sul piano-sequenza, in ID., Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II, cit., pp. 1560-1 (corsivo nel testo). 4 Il film di Marco Tullio Giordana racconta la vita di Peppino (Giuseppe) Impastato, il giovane attivista del Partito Comunista ucciso dalla mafia a Cinisi, nel Palermitano, nel 1978. Nato e cresciuto in una famiglia mafiosa, della quale è costretto sin dall‟infanzia a subire i riti e le tradizioni, Peppino comincia ad affrancarsene attraverso la frequentazione del pittore Stefano Venuti, che lo introduce negli ambienti del P.C.I. siciliano e lo avvia alle prime esperienze politiche: i comizi, gli scioperi (contro la costruzione dell‟autostrada Palermo-Mazzara del Vallo o i lavori per l‟ampliamento dell‟aeroporto di Punta Raisi) e la fondazione di Radio Aut, libera emittente di Terrasini ai cui microfoni Peppino – insieme a uno sparuto gruppo di amici – affida la protesta nei confronti dello strapotere del boss Gaetano Badalamenti; proprio dalla distanza che separa la casa della sua famiglia da quella dello „zu Tano‟, cento passi appunto, il film prende il titolo. Diventato ormai un personaggio troppo scomodo, Peppino viene sequestrato e assassinato il 9 maggio 1978, nello stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Come Moretti, anche Giordana – da sempre impegnato in un cinema civile e di denuncia12 – ha scelto di rendere omaggio a una figura dimenticata, la cui vicenda, messa in secondo piano proprio dalla concomitanza con la tragedia del rapimento e dell‟uccisione di Moro, è passata sotto silenzio per più di vent‟anni. E lo ha fatto con un film non di propaganda, o indirizzato a una sola parte politica, ma di impegno civile, che mostra come la mafia sia un problema di tutti, legato ai comportamenti quotidiani di ciascuno di noi, e quindi possibile da affrontare. Si leggano in proposito le parole dello stesso Giordana: Questo non è un film sulla mafia, non appartiene al genere. È piuttosto un film sull‟energia, sulla voglia di costruire, sull‟immaginazione e la felicità di un gruppo di ragazzi che hanno osato guardare il cielo e sfidare il mondo nell‟illusione di cambiarlo. È un film sul conflitto famigliare, sull‟amore e la disillusione, sulla vergogna di appartenere allo stesso sangue. È un film su ciò che di buono i ragazzi del ‟68 sono riusciti a fare, sulle loro utopie, sul loro coraggio. Se oggi la Sicilia è cambiata e nessuno può fingere che la mafia non esista (ma questo non riguarda solo i siciliani), molto si deve all‟esempio di persone come Peppino, alla loro fantasia, al loro dolore, alla loro allegra disobbedienza.13 È significativo che il regista abbia insistito proprio sulla dimensione privata della vicenda di Peppino, sul rapporto contrastato con il padre e quello, non privo di problemi, con la madre Felicia e il fratello Giovanni. A partire proprio dall‟ambiguità di questi legami familiari, I cento passi riflette sulla crescita di Peppino, sviluppando un‟evidente dicotomia tra l‟ideale educazione mafiosa, che prima lo zio, poi il padre, vorrebbero impartirgli, e l‟effettiva educazione „esteticoartistica‟, che il ragazzo in parte si dà da sé, attraverso le proprie letture ed esperienze personali, e in parte gli giunge tramite l‟apprendistato di Venuti. Lo spettatore è insomma messo di fronte a un film di formazione, un Bildungsroman per immagini, che accompagna il protagonista dal rifiuto dell‟ideologia mafiosa alla scoperta della libertà di coscienza – compiuta attraverso precise scelte politiche ed estetiche – fino alla morte, che rappresenta il tragico suggello (e insieme la più ovvia conseguenza) della sua catarsi. La prima tappa di questo percorso di formazione è costituita, come già accennato, dalla frequentazione dello studio di Stefano Venuti. L‟incontro del piccolo Peppino con il pittore avviene all‟indomani della morte dello zio, ucciso in un agguato mafioso, quando il bambino viene mandato 12 Oltre alla mafia, fin dai suoi inizi il cinema di Giordana ha affrontato i grandi temi della storia politica e civile italiana, dalle vicende dell‟età fascista e repubblichina (Notti e nebbie, 1984; Sangue pazzo, 2007) al terrorismo degli anni Sessanta e Settanta (La caduta degli angeli ribelli, 1981; La meglio gioventù, 2003; Romanzo di una strage, 2011), fino alla morte dello stesso Pasolini (Pasolini, un delitto italiano, 1995) e alla tragica notte dell‟Heysel, lo stadio di Bruxelles nel quale, il 29 maggio 1985, alla vigilia della finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool, una carica degli hooligans inglesi causò la morte di 32 tifosi italiani (Appuntamento a Liverpool, 1987). Vale come accorata dichiarazione d‟amore nei confronti del cinema di denuncia anche la sequenza dei Cento passi in cui Peppino e gli amici proiettano al circolo «Musica e cultura» Le mani sulla città, il film di Francesco Rosi (1963) dedicato alla selvaggia speculazione edilizia dell‟Italia degli anni Sessanta. 13 Così il regista Giordana in un‟intervista rilasciata a «Cinematografo» nel maggio 2007. 5 dalla famiglia a commissionare un ritratto del defunto. Metterà conto riportare per intero la conversazione tra i due: Peppino. Stefano Venuti… u‟ pitturi? Venuti. Sì. E allora? P. Quanto costa fare un ritratto? V. Sarebbe questo il ritratto? […] Mi spiace. Non lo posso fare. P. E perché? L‟hai ammazzato tu lo zio? V. Ma che dici, ti sei impazzito? P. Tu non sei comunista? I comunisti ci odiano. V. Ma chi te le mette in testa tutte „ste fesserie? P. E allora chi è stato a scannarlo? V. Quelli come lui l‟hanno scannato. Quelli che vogliono prendere il suo posto. P. È vero che eravate amici? Che eravate in prigione insieme? V. Tanti anni fa. Mussolini ci mandò al confino. Tuo zio perché era mafioso, io perché ero comunista. Ma amici no. Non potevamo essere amici. P. È per questo che non ci vuoi fare il ritratto? V. Lo sai cos‟è una faccia? È come un paesaggio. La nostra faccia può essere un giardino, oppure un bosco, oppure una terra desolata dove non ci cresce niente… Io dipingo solo i paesaggi che mi piacciono. P. (indicando un ritratto ancora in bozza) E che paesaggio sarebbe quello lì sul cavalletto? V. Un fiume. Un grande fiume in piena. Quello è il compagno Majakovskij. P. E chi è? V. È una storia lunga… P. Raccontala.14 È nel corso di questa conversazione che il giovane Peppino ha il suo primo contatto con l‟arte, e con la bellezza artistica in particolare. Alla richiesta di spiegazioni del bambino, che domanda per quale motivo Venuti non voglia eseguire il ritratto dello zio mafioso, il pittore risponde stabilendo una duplice associazione di idee tra i volti umani e i diversi tipi di paesaggio (un giardino, un bosco, una terra desolata), e tra questi ultimi e il piacere di dipingere, quindi di produrre arte e bellezza. Il gesto estetico viene in questo modo – quasi per una sorta di proprietà transitiva – direttamente collegato alla capacità dell‟artista di osservare e comprendere gli uomini, scoprendo quanto c‟è di „bello‟ – artisticamente ed esteticamente bello – dietro il loro viso, dietro la loro semplice apparenza. Se Venuti dipinge soltanto i volti che gli ricordano determinati paesaggi, è perché sa che volto e anima, espressione del viso e sentimento coincidono necessariamente: nello stesso modo in cui la sfacciata curiosità di Peppino preannuncia la sua futura ribellione contro l‟appartenenza a una famiglia mafiosa, e lo sguardo „tumultuoso‟ di Majakovskij testimonia la potenza delle sue idee. Né è un caso – pensando alla sorte che attende Peppino – che egli dimostri subito vivo interesse per la storia del grande poeta russo prematuramente morto suicida (chiede perentoriamente al pittore di raccontargliela), confermando così che le poche parole di Venuti non sono state vane, ma si sono fatte strada in lui. Assistiamo quindi a un salto temporale di alcuni anni, e vediamo Venuti e Peppino, insieme ad altri militanti muniti di bandiere, striscioni e cartelli, che protestano contro l‟esproprio di terreni per la costruzione della terza pista dell‟aeroporto di Punta Raisi. Peppino è ormai ventenne, e con l‟età è maturata anche la sua coscienza civile e politica. Il primo incontro con Stefano Venuti non è il solo momento del film in cui si parla di arte e di bellezza. In un‟altra sequenza tra le più significative, Peppino è salito con l‟amico Salvo sulla montagna che sovrasta Cinisi; alla loro sinistra il golfo di Terrasini, a destra l‟isola delle Femmine e Palermo avvolta nei fumi, e di fronte un aereo che atterra lentamente. I due cominciano a parlare: Peppino. Sai cosa penso? 14 Citiamo la sceneggiatura del film da M. T. GIORDANA, C. FAVA, M. ZAPPELLI, I cento passi, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 36-9 (corsivo nel testo). 6 Salvo. Cosa? P. Che questa pista in fondo non è brutta. Anzi… S. [ridendo] Ma che dici?! P. Vista così, dall‟alto… uno sale qua e potrebbe anche pensare che la natura vince sempre… che è ancora più forte dell‟uomo. Invece non è così…in fondo le cose, anche le peggiori, una volta fatte… poi trovano una logica, una giustificazione per il solo fatto di esistere! Fanno „ste case schifose, con le finestre in alluminio, i balconcini… mi segui? S. Ti sto seguendo! P. Senza intonaco, i muri di mattoni vivi… la gente ci va ad abitare, ci mette le tendine, i gerani, la biancheria appesa, la televisione… e dopo un po‟ tutto fa parte del paesaggio, c‟è, esiste… nessuno si ricorda più di com‟era prima. Non ci vuole niente a distruggerla la bellezza […] E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte „ste fesserie… bisognerebbe ricordare alla gente cos‟è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci? S. [perplesso] La bellezza… P. Sì, la bellezza. È importante la bellezza. Da quella discende tutto il resto.15 L‟itinerario estetico percorso da Peppino trova una tappa fondamentale in questa riflessione sulla bellezza artistica della natura. Di fronte all‟opera selvaggia e incontrollata dell‟uomo, che ha sconvolto il paesaggio impiantandovi case «schifose» tutte uguali, con le finestre in alluminio e i balconcini, la natura, che dovrebbe vincere sempre, essere più forte, non ha potuto fare altro che soccombere; le tendine, le piante di gerani, la televisione, tutti i segni della civilizzazione, sono ormai un dato di fatto, fanno parte di quel paesaggio, al punto tale che si è perduto il ricordo di ciò che c‟era prima, come se non fosse mai esistito. Ma ad essere messo in causa – suggerisce Giordana attraverso le parole del protagonista – non è solo il rispetto dell‟uomo per la natura e per il mondo in cui vive, ma il suo amore per la bellezza, la sua capacità di riconoscerla e, di conseguenza, di difenderla; tale capacità è essenziale, in quanto da essa «discende tutto il resto», dall‟impegno politico alla coscienza dei diritti civili. Sulla base di queste riflessioni, crediamo si possa stabilire una connessione diretta tra la sequenza dei Cento passi appena esaminata e la scena finale di «In vespa». Peppino e Salvo, di fronte alla campagna palermitana deturpata, sono come la macchina da presa di Moretti di fronte alle sterpaglie dell‟Idroscalo ostiense: in entrambi i casi la bellezza che c‟era – sia quella dell‟arte di Pasolini, sia quella della lussureggiante natura mediterranea – non esiste più, cancellata dalla noncuranza e dall‟oblio, dal tempo che passa senza risparmiare niente e nessuno (su questo concetto torneremo a proposito di De Gregori). Le parole pronunciate da Impastato, che condannano la trasformazione della natura operata dalla mano dell‟uomo, sono inoltre un evidente richiamo alle numerose riflessioni pasoliniane sui mutamenti prodotti dal boom negli anni del cosiddetto „miracolo italiano‟ – e in primo luogo dalla televisione e dagli altri mezzi di comunicazione di massa – non solo nel paesaggio, ma anche e soprattutto nella vita sociale e culturale degli italiani. 16 Il percorso intrapreso da Peppino, che si è cercato finora di delineare nei suoi momenti essenziali, si compie proprio nel segno di Pasolini. Dopo un violento litigio con il padre, Peppino è costretto a vivere in un garage dove solo la madre Felicia gli fa visita per portargli cibo e letture. In occasione di una di queste visite il ragazzo apre un libro di Pasolini, legge alcuni versi di una sua poesia 15 GIORDANA, FAVA, ZAPPELLI, I cento passi, cit., pp. 62-3. Si pensi per esempio alle numerose scene descritte nella cosiddetta „Visione del Merda‟ di Petrolio, dove Pasolini cerca di descrivere il modo in cui il progresso economico e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa hanno tragicamente mutato il paesaggio umano e culturale italiano. Si leggano, in particolare, le parole dell‟appunto 72f, che concludono la visione: «Siamo verso la fine della Visione. Quanta fatica e angoscia mi sia costato descriverla, non voglio dirlo al lettore: mi basterà ricordargli che è atroce vivere e conoscere un mondo dove gli occhi non sanno più dare uno sguardo non dico di amore, ma neppure di curiosità o simpatia. […] Chi non ama non se ne accorge neppure. Ai politici non gliene importa niente dei poveri; agli intellettuali non gliene importa niente dei giovani. E quindi non solo non soffrono a causa del loro cambiamento, ma, appunto, non se ne accorgono nemmeno. E non si tratta poi neanche di un semplice cambiamento, seppure doloroso, in quanto degradante: ma si tratta, come ho detto, di un vero e proprio genocidio» (PASOLINI, Petrolio, Einaudi, Torino 1992, p. 378). 16 7 dopodiché invita la madre a proseguire. Il testo in questione è quello di «Supplica a mia madre», inserita nella raccolta Poesia in forma di rosa: È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d‟ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò che è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un‟infinita fame d‟amore, dell‟amore di corpi senz‟anima. Perché l‟anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l‟infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso. Era l‟unico modo per sentire la vita, l‟unica tinta, l‟unica forma: ora è finita. Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione. Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…17 La scena instaura un legame diretto tra la vicenda di Impastato e quella di Pasolini. Tale legame si situa innanzitutto sul piano pubblico, civile. Entrambi sono personaggi „contro‟, che hanno avuto il coraggio di denunciare verità scomode sulla società e la politica italiane del loro tempo, e di morire per le loro idee (se non si accetta, ovviamente, la tesi che vorrebbe Pasolini ucciso dal solo Pino Pelosi, in seguito a un abboccamento sessuale finito male); personaggi in un certo senso „dimenticati‟ e sulla cui morte non è stata fatta ancora piena chiarezza: non è certo un caso che Giordana, prima dei Cento passi, abbia dedicato un film-documentario (Pasolini, un delitto italiano, 1995) alla ricostruzione dei fatti dell‟Idroscalo. A livello strettamente privato, invece, il confronto tra le due figure gioca sui loro sentimenti più nascosti e inconfessabili, che solo attraverso una „preghiera‟ alla madre si possono confidare. Pasolini – e, attraverso le sue parole, anche Peppino – confessa alla madre le angosce del proprio cuore («ciò che è orrendo conoscere»), della propria vita «dannata / alla solitudine», l‟«infinita fame / […] dell‟amore di corpi senz‟anima»; siamo di fronte, insomma, a una disperata, e insieme liberatoria, quasi catartica, confessione del sentimento viscerale nei confronti della madre, oltre che della propria omosessualità. Come ha scritto Roberto Carnero, «Pasolini enuclea in alcuni densi e lucidissimi versi il rapporto edipico con la figura materna, ma anche tutto il suo affetto e il suo amore, fonte dell‟impossibilità di una vita sentimentale appagante».18 È grazie al tramite fondamentale di Pasolini, dunque, che il protagonista trova la forza di confessarsi e di prendere definitivamente coscienza di sé. La lettura pasoliniana, infine, risulta ancora più significativa se confrontata con la recitazione dell‟«Infinito» leopardiano, che un Peppino Impastato ancora bambino esegue alla presenza di tutta la famiglia, in occasione della festa di compleanno dello zio, in una delle prime scene del film. Il confronto tra i due momenti non lascia dubbi allo spettatore. L‟itinerario estetico-artistico di Peppino, iniziato nel segno della bellezza dei dipinti di Venuti, è giunto ormai a compimento con la bellezza della poesia: i versi leopardiani – 17 PASOLINI, «Supplica a mia madre», in ID., Tutte le poesie, vol. I, a c. e con uno scritto di Walter Siti. Saggio introduttivo di Fernando Bandini. Cronologia a c. di Nico Naldini, Mondadori, Milano 2003 (I Meridiani), p. 1102. 18 CARNERO, Morire per le idee, cit., p. 133. 8 versi della tradizione, mandati a memoria e perciò assunti passivamente – hanno fatto posto a quelli di Pasolini, espressione di una libera e precisa scelta civile. 3. A Pa’. La vita dopo la morte Quello di Francesco De Gregori non è l‟unico tributo in musica alla memoria di Pasolini. Esistono, fra le altre,19 due canzoni (sulle quali non ci soffermeremo qui) di cui vale la pena almeno riportare il testo per mostrare come la figura di Pasolini – e, soprattutto, la „mitologia‟ della sua tragica fine – abbia sensibilmente influenzato anche la produzione musicale italiana, spesso a livello cólto. La prima è il «Lamento per la morte di Pasolini», scritto da Giovanna Marini nel dicembre 1975, quindi soltanto un mese dopo la scomparsa dell‟autore, in cui l‟ultima sera di Pasolini viene ricostruita secondo il modello per orario tipico della narrazione popolare (in particolare, la cantautrice si è ispirata all‟abruzzese «Orazione di San Donato»). La seconda canzone è invece «Una storia sbagliata», scritta da Fabrizio De André e Massimo Bubola nel 1980 (su commissione, come sigla per un documentario televisivo sulle morti di Pasolini e di Wilma Montesi) ma apparsa per la prima volta nel 1990 nella raccolta La luna di giorno – Le canzoni di Pier Paolo Pasolini; qui l‟accento è posto sulla sorte che ha subìto la vicenda della morte di Pasolini, che ha lasciato ben presto le aule dei tribunali per diventare appunto una storia «sbagliata», «da una botta e via», destinata nel migliore dei casi alle riviste che si sfogliano nelle sale d‟attesa dei parrucchieri. Lamento per la morte di Pasolini Una storia sbagliata Persi le forze mie persi l‟ingegno Che la morte m‟è venuta a visitare E leva le gambe tue da questo regno! Persi le forze mie persi l‟ingegno. Le undici le volte che l‟ho visto Gli vidi in faccia la mia gioventù Oh Cristo mel‟hai fatto un bel disgusto Le undici le volte che l‟ho visto. Le undici e un quarto io mi sento ferito Davanti agli occhi ho le mani spezzate E la lingua mi diceva “è andata è andata” Le undici e un quarto mi sento ferito. L‟undici e mezza mi sento morire La lingua mi cercava le parole E tutto mi diceva che non giova Le undici e mezza mi sento morire. Mezzanotte m‟ho da confessare Cerco il perdono da la madre mia E questo è un dovere che ho da fare Io a mezzanotte m‟ho da confessare. Ma quella notte volevo parlare La pioggia il fango e l‟auto per scappare Solo a morire lì vicino al mare Ma quella notte volevo parlare. E non può non può Può più parlare può più parlare Non può non può È una storia da dimenticare è una storia da non raccontare è una storia un po' complicata è una storia sbagliata. Cominciò con la luna sul posto e finì con un fiume d'inchiostro è una storia un poco scontata è una storia sbagliata. storia diversa per gente normale storia comune per gente speciale cos‟altro vi serve da queste vite ora che il cielo al centro le ha colpite ora che il cielo ai bordi le ha scolpite. È una storia di periferia è una storia da una botta e via è una storia sconclusionata è una storia sbagliata. Una spiaggia ai piedi del letto stazione Termini ai piedi del cuore una notte un po‟ concitata una notte sbagliata. […] È una storia vestita di nero è una storia da basso impero è una storia mica male insabbiata è una storia sbagliata. È una storia da carabinieri 19 Ecco un elenco dei titoli più significativi: «P…come» (Fabio Concato, 1978); «Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini» (Roberto De Simone, 1985); «Ostia. The Death of Pasolini» (Coil, 1986); «Casal de‟ Pazzi» (Renato Zero, 1993); «Farmer in the city» (Scott Walker, 1995); «Pier Paolo» (Blonde Redhead, 1997); «You have killed me» (Morrissey, 2006); «Baudelaire» (Baustelle, 2008); «Piazza Dei Cinquecento» (quest‟ultimo brano, pubblicato dal gruppo genovese IANVA nel 2009, ricostruisce l‟ultima notte di Pasolini attraverso i pensieri dello scrittore, sul modello del «Lamento» di Giovanna Marini). 9 Può più parlare può più parlare. Persi le forze mie persi l‟ingegno Che la morte m‟è venuta a visitare E leva le gambe tue da questo regno! Persi le forze mie persi l‟ingegno.20 è una storia per parrucchieri è una storia un po' sputtanata o è una storia sbagliata. Per il segno che c‟è rimasto non ripeterci quanto ti spiace non ci chiedere più come è andata tanto lo sai che è una storia sbagliata.21 Fra le tante suggestioni letterarie disseminate nella produzione di De Gregori (di cui la più celebre è probabilmente l‟evocazione di Pavese nel verso «e Cesare, perduto nella pioggia, aspetta da sei ore il suo amore ballerina», in «Alice»), alcune sono dedicate a Pasolini e alla sua poesia. Ricalca il titolo di un componimento pasoliniano, pubblicato nel 1964 nella raccolta Poesia in forma di rosa, il sintagma «belle bandiere», ripetuto due volte nella canzone «L‟ultima nave», nell‟album Viva l’Italia (1979). L‟espressione «cari e care», contenuta ne «L‟aggettivo „mitico‟», traccia d‟apertura di Amore nel pomeriggio (2001), fa pensare evidentemente all‟apostrofe de «Il PCI ai giovani!», il famosissimo pamphlet in versi con cui Pasolini attaccò gli scontri di Valle Giulia e il movimento studentesco, giudicato di estrazione borghese e perciò destinato a fallire, prendendo le difese dei poliziotti, figli di gente del popolo. Sulla falsariga di Pasolini, De Gregori giungerà a demistificare l‟esperienza sessantottina, condannando il „falso mito‟ della protesta studentesca in «Celebrazione» (nell‟album Per brevità chiamato artista del 2008).22 È però nell‟album Scacchi e tarocchi – uscito nel 1985, nel decennale dei fatti dell‟Idroscalo – che si trovano più numerosi i riferimenti a Pasolini. L‟album ospita per esempio «Ciao ciao», pezzo parzialmente dedicato al ricordo di Luigi Tenco («Ciao ciao / andarsene è un peccato però ciao ciao / bella donna alla porta che mi saluti […] Ciao ciao / guarda che belli i fiori in quella città / che mai mi ha visto e mai nemmeno mi vedrà»),23 altra figura di artista maudit e sfortunato, forse assassinato come Pasolini e ugualmente dimenticato, sacrificato al comandamento dello show must go on.24 Subito prima di «A Pa‟» si trova «Poeti per l‟estate», canzone contro la cattiva poesia e contro le «vecchie puttane» che scrivono poesie per il semplice piacere di apparire. Nella desolazione accade però di trovare anche qualche voce pura, ed ecco allora che l‟ultima strofa prepara l‟imminente omaggio a Pasolini: « passano poeti brutti e poeti buoni / ma quando fra i buoni poeti ne trovi uno vero / è come partire lontano, come viaggiare davvero». 25 Ad «A Pa‟», infine, segue «Sotto le stelle del Messico a trapanar», pezzo le cui rime, tutte costituite da infiniti verbali tronchi, ricordano da vicino il titolo dell‟ultimo libro di poesie pasoliniano, Trasumanar e organizzar (1971; anche il termine trasumanar, di ben nota origine dantesca, è utilizzato 20 Si cita dal libretto dell'album di F. DE GREGORI, G. MARINI, Il fischio del vapore, Sony-Caravan, Roma 2002. 21 F. DE ANDRÉ, Tutte le canzoni, Mondadori, Milano 2006, p. 225-6. Si vedano soprattutto le battute finali della canzone: «Ci sono posti dove sono stato, / mi ci volevano inchiodare / ai loro anni ciechi e sordi, / ai loro amori raccontati male, / a una canzone di quattro accordi, / ad una stupida cantilena; / ma tu davvero non te lo ricordi / quando cantavi e sbadigliavi in scena?» 23 DE GREGORI, Battere e levare. Tutte le canzoni, Einaudi, Torino 2004, p. 111. 24 Per Luigi Tenco De Gregori aveva già scritto «Festival», contenuta nell‟album Bufalo Bill (1976), in cui la spensieratezza e l‟incoscienza del cantautore genovese («È la città dei fiori / disse chi lo vide passare / che forse aveva bevuto troppo / ma per lui era normale […] Chi ha ucciso quel giovane angelo / che girava senza spada?») vengono contrapposte all‟ipocrisia dell‟ambiente sanremese, disposto a dimenticarsi della vicenda «purché lo spettacolo non finisca» («Lo portarono via in duecento / peccato fosse solo quando se ne andò […] la notte che presero le sue mani / e le usarono per un applauso più forte / chi ha ucciso il piccolo principe / che non credeva nella morte? […] Alcuni lo ricordano ancora mentre accende una sigaretta / altri ne hanno fatto un monumento / per dimenticare un po‟ più in fretta»: DE GREGORI, Battere e levare, cit., pp. 64-5.). Dedicata al cantautore genovese è anche «Preghiera in gennaio», del concittadino De André (nell‟album Volume I, del 1967) feroce atto d‟accusa contro la dominante morale cattolica che negava dignità ai suicidi (Tenco è raffigurato nella schiera dei «morti per oltraggio / che al cielo e alla terra mostrarono il coraggio»). 25 DE GREGORI, Battere e levare, cit., p. 112. 22 10 direttamente da De Gregori). Al termine di questo „trittico‟ di canzoni, il cantautore rende quindi omaggio al Pasolini veemente e polemico degli anni ‟70: l‟ultima raccolta è infatti il suo addio alla poesia, quasi l‟anticipazione, nei temi e nei toni, della fase „corsara‟ e „luterana‟, prodotto di un‟epoca immediatamente successiva a quella contestazione che, insieme con altri fattori socioeconomici di rilievo, aveva contribuito a mutare radicalmente usi e costumi degli italiani. E veniamo finalmente ad «A Pa‟»: Non mi ricordo se c‟era la luna e né che occhi aveva il ragazzo ma mi ricordo quel sapore in gola e l‟odore del mare come uno schiaffo. E c‟era Roma così lontana e c‟era Roma così vicina e c‟era quella luce che ti chiama come una stella mattutina. A Pa‟, a Pa‟, tutto passa e il resto va. E voglio vivere come i gigli nei campi e come gli uccelli nel cielo campare e voglio vivere come i gigli nei campi e sopra i gigli dei campi volare.26 Il titolo della canzone ha a nostro avviso un duplice significato. Esso rievoca in primo luogo uno dei nomi di Pasolini, Paolo, instaurando con la memoria del poeta un rapporto che va ben oltre la sterile ammirazione, e si colloca piuttosto sul piano di una calorosa confidenza (e confidenziale era anche il rapporto con i ragazzi di borgata, che così lo invitavano a tirare qualche calcio al pallone insieme a loro). Ma “a pa‟” è anche il modo in cui Ninetto Davoli si rivolge a Totò, che interpreta appunto suo padre, nel film Uccellacci e uccellini (1966), e in cui lo stesso Davoli chiama proprio Pasolini, nella poesia «Uno dei tanti epiloghi»27 (i due erano legati da una profonda amicizia, oltre che da un lungo sodalizio professionale). De Gregori sceglie dunque di rappresentare Pasolini come un padre, un padre per sé28 e per la propria generazione, ma anche per tutta la nazione, che è mancato agli italiani per la sua passione e lucidità fuori dal comune, per la capacità unica di riflettere sui problemi del suo tempo, per la sua «anima bella». Si leggano in proposito le parole del cantautore in un articolo scritto nel ventennale della scomparsa di Pasolini (e si noti come anche De Gregori tenga a sottolineare la bellezza del pensiero pasoliniano, e il timore che essa si sia ormai perduta): Pasolini era un‟anima bella. Conosceva razionalità e passione, impegno e saggezza. Conosceva l‟intelligenza, il sesso, l‟amore. Conosceva Ninetto Davoli e Moravia, i giovani della Fgci e quelli della stazione Termini, Maria Callas e Totò. Ha fatto film e romanzi, articoli e poesie. È difficile districare il Pasolini regista dal narratore, dal poeta, dall‟opinionista. Mi mancano oggi nella stessa misura i suoi film, i suoi romanzi, i suoi articoli, le sue poesie. Mi manca soprattutto la sua opinione su ciò che è avvenuto dopo la sua morte, in questi vent‟anni. Pasolini e l‟Aids, Pasolini e le lettere di Moro, Pasolini e Berlusconi, Pasolini e Internet. […] Ma non si deve parlare di Pasolini solo in termini di assenza, perché Pasolini è caparbiamente presente [...] nel suo cinema intenso e disadorno, come nella sua letteratura bella e discontinua che rimarrà comunque una sponda non marginale nella letteratura del Novecento.29 26 DE GREGORI, Battere e levare, cit., p. 113. PASOLINI, Tutte le poesie, vol. I, cit., p. 101. 28 La familiarità „culturale‟ di De Gregori con Pasolini ha anche una precisa ragione biografica. Lo zio del cantautore, anch‟egli di nome Francesco, partigiano vicecomandante della brigata Osoppo (con il nome di battaglia „Bolla‟), venne trucidato a Porzus (Udine) il 7 febbraio 1945 insieme ad altri compagni, fra cui il fratello di Pasolini, Guido, da una formazione partigiana di ispirazione comunista. 29 DE GREGORI, Mi manca la sua lucidità, «L‟Unità», 28 ottobre 1995. 27 11 E quanto sia grande l‟affetto di De Gregori nei confronti di questa figura paterna, lo prova anche la „devozione‟ dimostrata nel corso degli anni verso il testo della canzone. Diversamente da altri testi, spesso stravolti nelle parole e nell‟arrangiamento musicale (caratteristica che rende l‟autore di «Rimmel» e «Generale» pressoché unico nel panorama musicale italiano), «A Pa‟» è sempre rimasta così com‟era quando è stata scritta, come se possedesse una sacralità da rispettare ad ogni costo; del resto, il titolo stesso induce a leggerla e ad ascoltarla quasi come una preghiera. Proviamo ad analizzarla brevemente. Dopo l‟attacco con l‟armonica (che, al pari dell‟inquadratura muta di «In vespa», serve a narrare «sul piano musicale, senza dover dire delle parole»), 30 l‟incipit fornisce una prima indicazione del contesto temporale in cui è avvenuta la morte di Pasolini: la presenza della luna definisce un momento ben preciso, tra la sera e la notte, ma l‟incertezza della voce cantante («non mi ricordo»), che riproduce evidentemente quella dello scrittore, insinua un‟ombra di dubbio in quanto ci viene detto; la voce tenta di ricostruire un passato («c‟era», «aveva») che sfugge alla memoria perché la morte, da poco sopraggiunta, lo sta cancellando. L‟oblio coinvolge anche il volto di Pelosi e i suoi tratti fisici («che occhi aveva il ragazzo»), nel verso successivo; di quella sera restano soltanto un acre «sapore in gola» – altro segno funesto di quanto è appena accaduto – e l‟odore del mare, così forte da colpire «come uno schiaffo»: è la morte che si accanisce con tutta la sua violenza (che è anche la violenza del sesso per cui Pasolini ha cercato la compagnia del ragazzo), confondendo nel ricordo sensazioni gustative, olfattive e fisiche. Se la prima strofa si era aperta con una notazione di carattere temporale, la seconda inizia nel segno dello spazio: siamo a Ostia (a poche decine di chilometri da Roma), in un luogo pressoché abbandonato e mal frequentato rispetto al quale la città è allo stesso tempo «così lontana» e «così vicina»; tale distanza/prossimità va letta però non soltanto in senso fisico, geografico, ma anche in senso più strettamente culturale: lontano da Pasolini c‟è la Roma degli affari, la sede di quel potere politico che l‟autore aveva attaccato a più riprese nei suoi scritti; vicino a lui c‟è però la Roma delle borgate e del sottoproletariato, raffigurata in Ragazzi di vita o in Accattone. Se si provasse a leggere l‟io della prima strofa come riferito allo stesso De Gregori, che ricorda i propri occhi di «ragazzo» di fronte alla luna e alla tragedia della morte di Pasolini, quella città lontana e insieme vicina potrebbe essere anche la Roma del cantautore, nato nella capitale ma ben presto trasferitosi a Pescara (città lontana, appunto, ma non così tanto), dove sarebbe rimasto fino alla fine degli anni Cinquanta. A questo punto i due versi successivi introducono una notazione visiva, quella che mancava («c‟era quella luce che ti chiama / come una stella mattutina»); di fronte alla violenza della morte, al suo «sapore» pungente, la stella vale come simbolo di una nuova vita, di un nuovo inizio che seguono la morte, nello stesso modo in cui la luce del mattino prende il posto di quella lunare. A separare le prime due strofe dalla terza ecco il breve refrain: «A Pa‟, a Pa‟ / tutto passa e il resto va». De Gregori si rivolge direttamente al suo poeta/padre, lo chiama per nome, per affermare quanto tutto sia vano e destinato a finire: la luna, il ragazzo con i suoi occhi, Roma lontana e vicina, sono ricordi ormai sbiaditi, trascorsi velocemente e andati via. A “passare” e “andare”, ci avverte il cantautore, è anche però la morte, e precisamente la morte di Pasolini, caduta nell‟oblio dopo dieci anni di indagini mal condotte e sentenze sempre rimandate (o, peggio ancora, mitizzata, trasformata in una «vocazione esistenziale», come si legge nell‟articolo sopra citato). Cantando questo refrain, De Gregori sembra quasi voler creare un senso di attesa nell‟ascoltatore, ma quell‟attesa si risolve in realtà in una conferma di quanto è appena stato detto, o cantato, senza aggiungere niente di nuovo: «tutto passa, il resto…va», cioè passa nello stesso modo, anzi scivola via ancora più rapidamente. Gli ultimi quattro versi riprendono, estendendolo e rielaborandolo, il finale di un‟altra poesia pasoliniana, «Preghiera su commissione» (contenuta in Trasumanar e organizzar). Lì Pasolini, rappresentandosi come «un figlio che frequenta / la millesima classe delle Elementari», si rivolge più volte a Dio supplicandolo infine di far vivere gli uomini «come gli uccelli del cielo e i gigli dei 30 G. MONTI, Francesco De Gregori. 1972-2004. Dell’amore e di altre canzoni, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 127. 12 campi».31 Rispetto al ricordo della notte della morte, rievocata nelle prime due strofe, in quella conclusiva si dispiega un‟atmosfera vitalistica; i gigli dei campi e gli uccelli del cielo sono infatti immagini di libertà e assenza di costrizioni, chiari simboli della pienezza e del rigoglio della natura (e perciò, ancora, della sua bellezza).32 Il giglio, infine, suggerisce inevitabilmente l‟idea della purezza, quella purezza – nel senso di ingenuità, di capacità di parlare delle cose senza pregiudizi – che ha sempre contraddistinto la voce pasoliniana. Rispetto alla ricostruzione cronachistica operata da Giovanna Marini, «A Pa‟» prende spunto da un dato storico, ma lo trascende per trasferirlo fuori dalla storia e dai suoi dibattiti, in una dimensione tutta interiore in cui la memoria di Pasolini, nonostante la morte e l‟oblio, sopravvive al tempo che passa e va. 31 PASOLINI, Tutte le poesie, vol. I, cit., pp. 55-6. «Preghiera su commissione» riprende un altro testo di Trasumanar e organizzar, Mirmicolalia, dove i gigli dei campi e gli uccelli del cielo sono i „coatti‟, i carcerati con le «belle facce arse dal dormire sul muro […] / da una scomodità eterna». 32 È pressoché superfluo ricordare quanto la simbologia degli uccelli sia centrale – sin dal titolo, evidentemente – in Uccellacci e uccellini, dove fra‟ Ciccillo (Totò) e fra‟ Ninetto (Ninetto Davoli) ricevono da San Francesco la missione di evangelizzare i falchi e i passeri (e dove Pasolini affida a un corvo il compito di esporre l‟ideologia marxista). 13