Michele Corradino (Consigliere di Stato) “Lobbies e gruppi di

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Michele Corradino (Consigliere di Stato) “Lobbies e gruppi di
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Michele Corradino
(Consigliere di Stato)
“Lobbies e gruppi di pressione nell’ordinamento italiano”1
Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia, grande è stato lo sforzo delle
Istituzioni e degli intellettuali per l’abbattimento di ogni monopolio artificiale o
interesse privato, ingenerato o favorito dalla legge, considerati quali temibili ostacoli
alla libera gestione della cosa pubblica.
Così - come ben ricorda il Prof. Guido Melis nella sua opera dedicata alla storia
dell’amministrazione italiana2 - nel 1863, a Torino, l’allora Sottosegretario all’Interno
Silvio Spaventa, temendo che le agenzie di affari del tempo (con buona probabilità, i
primi lobbisti nella storia del Paese) potessero esercitare un’indebita pressione sulla
macchina amministrativa, dapprima emanò una circolare con cui si ritenevano
inammissibili i progetti e le iniziative che provenivano da siffatte agenzie e,
successivamente, fece decretare il divieto di accesso ad ogni Ministero e
Amministrazione pubblica e privata per tutti i dipendenti delle stesse. Ancora, il
regolamento degli impiegati civili dello Stato, adottato nel medesimo periodo storico,
disciplinò in maniera rigida l’accesso ai Ministeri giungendo finanche a vietare agli
impiegati di ricevere persone estranee alla propria struttura. Nella fattispecie, l’articolo
88 del citato regolamento richiedeva che l’attività degli impiegati fosse improntata al
massimo riserbo, negando espressamente di “propalare” i provvedimenti emanati dal
Ministero senza specifica autorizzazione.
Tali scelte normative erano coerenti con l’assetto strutturale della Pubblica
Amministrazione dell’epoca, di tipo gerarchico piramidale, che troverà più avanti la
sua consacrazione nelle leggi cavouriane. Un assetto gerarchico che mirava alla
trasmissione meccanica dell’interesse politico e della decisione politica nell’attività
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Intervento al convegno “L’attività di Lobbing tra trasparenza e partecipazione” tenutosi il 17 febbraio 2011
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, organizzato dal Ministero per la pubblica amministrazione e
l’innovazione e dal Formez
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GUIDO MELIS, Storia dell’Amministrazione Italiana, Bologna, Il Mulino
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amministrativa, attraverso quelli che nel dibattito parlamentare venivano icasticamente
definiti “ruotismi amministrativi”. L’amministrazione doveva soltanto produrre
decisioni burocratiche immediatamente attuative dell’indirizzo politico.
Scelte coerenti, altresì, con la costruzione normativa e con il concreto atteggiarsi del
potere nel periodo immediatamente successivo all’unificazione, atteso che – come ben
evidenziato negli studi di Romano, di Zanobini e dello stesso Giannini - nel passaggio
dall’Ancien régime al nuovo Stato, dallo Stato assoluto allo Stato liberale, si erano
rafforzate alcune garanzie procedimentali e processuali del cittadino, ma era rimasto
sostanzialmente immutato il rapporto tra Autorità e Libertà, tra Stato e cittadini. Un
rapporto biunivocamente imprigionato dal principio di legalità.
Un fondamentale principio, quello di legalità, che da una parte limitava l’attività della
Pubblica Amministrazione in tutte le forme di esercizio del potere e, dall’altra, faceva
della Pubblica Amministrazione l’unica custode dell’interesse generale, che si
pretendeva discendere direttamente dalla legge.
In tale quadro, fondato sui principi di supremazia e gerarchia, in cui la Pubblica
Amministrazione aveva il monopolio nella individuazione e nella gestione
dell’interesse generale, non c’era alcuno spazio per le comunità intermedie tra Stato e
cittadino.
Un’impostazione che, tra l’altro, possiamo riscontrare anche nel pensiero marxista,
ove le uniche comunità intermedie riconosciute erano quelle del partito o del
sindacato.
Siffatta costruzione dell’ordinamento giuridico, che attribuiva alla Pubblica
Amministrazione una posizione di supremazia, ostava alla partecipazione dei singoli,
come si desume in via emblematica dall’articolo 3 della legge sull’abolizione del
contenzioso amministrativo del 1865, che ammetteva solamente una tutela
partecipativa minimale.
Tale assetto ordinamentale è soggetto ad un importante evoluzione con l’avvento della
Costituzione repubblicana, in quanto in essa viene consacrato, sia pure a livello
embrionale, il principio di sussidiarietà (artt. 2 e 5), destinato a diventare la vera e
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propria pietra angolare di un edificio normativo in cui il potere della Pubblica
Amministrazione presenta caratteri profondamente differenti.
Prende, infatti, forma un sistema improntato, non più alla gerarchia degli interessi,
imposta dalla razionalità del principio di legalità, bensì ad una tendenziale pariordinazione degli interessi in gioco, in un’ottica di riequilibrio delle istanze pubbliche
con quelle private.
La proliferazione dei soggetti pubblici nello scenario politico comporta, altresì, una
frammentazione del potere con la conseguente nascita di conflitti all’interno della
stessa Pubblica Amministrazione.
Ne segue un processo di demitizzazione dell’interesse pubblico, ormai frammentato in
una serie di posizioni confliggenti, meglio comprensibile se definito processo di
secolarizzazione, che porta ad un vero e proprio politeismo di valori che domina la
prassi amministrativa prima ancora delle norme.
La Pubblica Amministrazione finisce con l’assumere un duplice ruolo: quello di
promotrice del consenso, come nelle conferenze dei servizi, allorché ricorre a tecniche
di negoziazione di interesse basate sulle reciproche concessioni tra Amministrazioni e
comunità intermedie al fine di giungere ad un testo condiviso, e quello di arbitro, quale
soggetto che cura la composizione degli interessi in gioco.
In tale quadro le comunità intermedie tra Stato e cittadino, comunità portatrici di
interessi, non si collocano più in una posizione di estraneità nel processo di formazione
della volontà della Pubblica Amministrazione, ma assumono un ruolo attivo nel
processo di individuazione dell’interesse generale, in una trasposizione pubblicistica di
quello che, sulla scia del pensiero di Zagrebelski, era stato definito il “diritto mite” che
domina tutto il sistema.
Tale nuova geografia nei rapporti tra Stato e cittadino ha dato luogo a quello che
Benvenuti ha definito, quasi in un ossimoro provocatorio, il “diritto amministrativo
paritario”.
Questo idillio, che non riflette i conflitti interni alla Conferenza dei Servizi, peraltro,
ha posto l’accento su una serie di problemi e rischi.
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Un primo problema riguarda la ricostruzione del sistema, questione non solo teorica
ma dai profili pratici significativi, in particolare di ordine processuale, essendo il
nostro sistema amministrativo di tipo provvedimentale, in cui l’in sè del potere
amministrativo è dato dall’imperium e dalla capacità di incidere unilateralmente sulla
sfera giuridica altrui.
A tale imperium, che qualifica il potere e giustifica un regime derogatorio, si riferisce
la Corte Costituzionale nelle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, individuando
in esso anche l’in sè del giudice amministrativo, ossia la ratio dell’esistenza dello
stesso giudice amministrativo.
Occorre, dunque, giustificare tale potere pubblico. E, allo stato attuale, una risposta a
tale quesito può essere data probabilmente, non sotto il profilo soggettivo, imperando
nell’ordinamento comunitario il principio della neutralità della forma giuridica, bensì
sotto il profilo della nuova funzione della Pubblica Amministrazione.
In quest’ottica, rilevanti spunti di riflessione sono forniti dal parere del Consiglio di
Stato nr. 1943/093 dato sul decreto Brunetta, che prende atto della profonda
trasformazione dell’Amministrazione, volta alla costruzione di una Amministrazione
di risultato in cui domina il principio del buon andamento: “per dirla in termini
metaforici un tempo l’agire legittimamente significava agire bene, oggi si può pensare
che agire bene significhi agire legittimamente. In questo quadro (…) l’attività della
Pubblica Amministrazione, sia essa destinata all’erogazione di atti come di servizi,
assume la configurazione di un «servizio» reso alla comunità nazionale”.
Un secondo problema riguarda la razionalità del sistema, ossia la sua tenuta razionale,
in quanto il mutamento profondo, appena evidenziato, è, in realtà, avvenuto in assenza
di norma.
Nel nostro ordinamento, salvo ipotesi particolari che riguardano essenzialmente alcune
Autorità indipendenti, non c’è una normativa che indichi le modalità di selezione degli
atti o fissi regole di composizione dei conflitti. L’articolo 13 della Legge n. 241 del
1990 esclude proprio dalla partecipazione tutti i provvedimenti di carattere generale,
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Parere Cons. di Stato, Sez. Consultiva per gli Atti Normativi, Adunanza del 9 giugno 2009, nr. 1943/09 Schema di decreto legislativo di attuazione dell’art. 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ricorso per
l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari pubblici.
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cioè i provvedimenti che incidono maggiormente nella individuazione e nella
regolamentazione degli interessi. In questo senso la proposta di modifica dell’art. 98
della Costituzione, che ribadisce la posizione della pubblica amministrazione al
servizio dei cittadini, potrebbe essere un giusto viatico per un’affermazione normativa
volta ad una ricostruzione.
Per quanto riguarda i rischi, in primo luogo vi è certamente quello della cattura del
regolatore da parte del regolato, in quanto spesso il regolato ha una conoscenza più
approfondita del regolatore.
Peraltro, si tratta di un rischio limitato, dal momento che vi è a salvaguardia una
regolamentazione penale di carattere generale, che impedisce la degenerazione del
sistema o comunque la colloca al di fuori del sistema, almeno da un punto di vista
teorico.
D’altra parte in un momento di crisi, quale quello che viviamo, in cui è forte la
necessità del settore pubblico di far leva sulle risorse non solo finanziarie ma anche
umane e di esperienza del settore privato appare tanto più vero il pensiero di Cassese:
“non c’è dualismo Stato - interessi ma c’è soltanto un mosaico di relazione. I gruppi
di pressione mentre strumentalizzano i poteri pubblici sono a loro volta
strumentalizzati dai poteri pubblici.” E in tempo di crisi in cui il regolato sa più del
regolatore e può ben più del regolatore, tutto questo è una realtà effettiva che può
atteggiarsi a risorsa.
Un secondo rischio è quello della perpetuazione dei rapporti di forza economica, nel
senso che in assenza di una regolamentazione, è inevitabile che i gruppi di pressione
più forti abbiano una capacità di accesso alla stanza dei bottoni, ai luoghi del potere, ai
luoghi fisici del potere, in maniera molto più significativa di chi questa potenza
economica non ha.
Tutto ciò pone problemi di ricambio sociale nell’assetto economico e di tutela dello
sviluppo di tutte le forze che sono nella nostra economia, che comportano una
violazione del principio di imparzialità a cui i pubblici uffici devono essere improntati
ex articolo 97 della Costituzione.
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Si impone, dunque, l’esigenza di una regolamentazione che garantisca una massima
trasparenza e apertura nei confronti di tutti gli interessi, ma soprattutto di
un’amministrazione forte, capace di effettuare un’analisi propria e di elaborare
strategie di azione.
Un ultimo rischio è quello legale. L’accettazione di un diritto di partecipazione alla
fase di individuazione degli interessi, ovvero alla fase di regolazione degli interessi,
pone non solo un problema dei tempi del procedimento amministrativo che
inevitabilmente si estendono, ma anche un rischio processuale, poiché il policentrismo
dei poteri – caratteristica precipua della nostra epoca, in cui il potere viene
frammentato tra tutta una serie di soggetti, che non lo detengono in via esclusiva ma lo
condividono in un groviglio di competenze attraverso lo Stato, le Regioni, i Comuni, le
Province, i Consigli di quartiere - aumenta la possibilità del contenzioso, alimentando
quella litigiosità che è spesso fonte di rallentamento della valutazione delle opere
pubbliche e che genere un sistema alterato, causando quella sorta di antipatia nei
confronti del giudice spesso veicolata dai media.
Qui, naturalmente, il problema è quello di comprendere entro quali limiti sia possibile
circoscrivere la tutela fiduciaria. Profili di analisi interessanti sovvengono, al riguardo,
dal débat public in Francia, in cui le decisioni fondamentali sono assunte all’esito di
una valutazione congiunta che coinvolge tutti i soggetti interessati e che - come
recentemente riaffermato nel Conseil d’Etat - non sono oggetto di impugnazione
giudiziaria se non entro limiti molto ristretti.
La presenza dei gruppi di pressione, o meglio dei gruppi portatori di interessi
nell’ambito delle Pubblica Amministrazione, è una realtà. Una realtà di cui si occupa,
seppur in maniera embrionale, finanche l’Enciclica Caritas in Veritate. Ci dice il
Sommo Pontefice che “è realistica una rinnovata valutazione del ruolo dei pubblici
poteri. E’ prevedibile che si rafforzino quelle nuove forme di partecipazione politica
che si realizzano attraverso l’azione delle organizzazioni operanti nella società civile.
In questa direzione è auspicabile che cresca un’attenzione e una partecipazione più
sentite della res publica da parte dei cittadini”.
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Il processo di secolarizzazione dell’interesse pubblico ha fatto venir meno quello che
era stato definito la “tirannia del valore”. Peraltro, questo passaggio importante dal
valore ai valori, dall’interesse generale agli interessi particolari che compongono
l’interesse comune, impone di compiere un ulteriore passo, probabilmente di carattere
etico.
Ricordava Max Weber nella celeberrima conferenza sul tema “Politica come
Professione” tenuta nel 1919 - lo stesso anno dell’editoriale del Corriere della Sera di
Luigi Einaudi4 citato nella relazione introduttiva di questo convegno dal prof. Guzzetta
- come si dovesse passare dall’etica dei principi, in cui sono propenderanti i valori
perseguiti in maniera assoluta indipendentemente dalle conseguenze, all’etica della
responsabilità, che guarda alle conseguenze delle scelte e dei comportamenti
individuali e collettivi: “il raggiungimento dei fini buoni è accompagnato il più delle
volte dall’uso di mezzi sospetti”, ma fondamentale è che il decisore pubblico resti in
un sentiero che attraverso l’interesse dei gruppi porti poi al singolo, al cittadino, ma
soprattutto all’uomo, l’unico vero destinatario delle politiche.
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Luigi Einaudi, Editoriale de “il Corriere della Sera”, 29 novembre 1919
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