Due decenni dopo

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Due decenni dopo
Frederick W. Kagan
Ricercatore dell’American Enterprise Institute.
Due decenni dopo
(Articolo pubblicato su National Review il 16 giugno 2008)
A oltre cinque anni dall’inizio della guerra al terrore, si avvertono le conseguenze della
tensione cui è stato sottoposto l’esercito americano. Alcuni osservatori hanno notato crescenti
segnali di tensione fra il Pentagono e i nostri comandanti sul campo. Le rivalità hanno iniziato a
rifarsi sentire non appena i Marines hanno parlato di tornare sulle loro barche, la Marina di
ricapitalizzare parti della flotta e l’Aeronautica di puntare sul cacciabombardiere F 22 , il Joint
Strike Fighter, in vista di pericoli più o meno lontani.
Problemi che da un lato sembrano avere una stessa causa: la persistente convinzione che l’attuale
dispiegamento di forze su larga scala in Iraq e in Afghanistan avrà vita breve, e che quindi bisogna
essere pronti per i successivi scenari. In realtà non è questa l’origine prima delle tensioni, ma è
anzi il sintomo di problemi di lunga durata.
L’attuale establishment militare considera un’aberrazione l’attuale livello di impiego delle truppe.
E’ naturale: il sistema militare di cui fanno parte non è pensato per sostenere a lungo questa
situazione. Riconoscere questo stato di cose significa ammettere la sgradevole verità che i vecchi
metodi non funzionano nel XXI secolo. Il mondo è cambiato, e le minacce pure; questo significa
che è ora di riorganizzare alla base il nostro apparato di sicurezza nazionale.
Non sarebbe la prima volta che le forze armate affrontano un cambiamento radicale. L’attuale
organizzazione di sicurezza nazionale fu creata dagli US durante la guerra fredda per affrontare i
pericoli dell’epoca. Il National Security Act del 1947 istituì l’Aeronautica militare e quello che
divenne il Dipartimento della Difesa, e rimodellò le agenzie di intelligence.
La struttura fu oggetto di lievi modifiche qua e là,
finché il Goldwater-Nichols Act del 1986
apportò importanti cambiamenti (anche se per nulla paragonabili a quelli introdotti dal National
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Security Act).
Da allora le forze armate statunitensi hanno mantenuto virtualmente la stessa
struttura basilare e funzionale.
Negli anni ’80 del secolo scorso il nemico era l’Unione Sovietica. Anche se la Cina era una
minaccia potenziale, la guerra con la repubblica popolare di Mao sembrava improbabile, l’alleanza
con l’URSS ancora di più.
L’importanza della rivoluzione iraniana del 1979 fu sovrastata
dall’invasione sovietica dell’Afghanistan di pochi mesi dopo, così come dal successivo conflitto fra
Iraq e Iran. L’amministrazione Reagan, come molti suoi predecessori, considerò i problemi del
Terzo Mondo primariamente in funzione dell’espansionismo sovietico piuttosto che come
espressione di tensioni regionali.
Ogni aspetto delle nostre forze armate in tempo di pace – e la nostra struttura di sicurezza – fu
inteso proprio ad affrontare la sfida sovietica, e alla metà degli anni ’80 tale sfida sembrava
massiccia. Imponenti forze militari sovietiche e del Patto di Varsavia stazionavano in Europa
Centrale. Nel corso degli anni la flotta sovietica si era allargata ad in ogni teatro, incluso il
Pacifico.
I bombardieri e i sottomarini d’attacco sovietici potevano tagliare le linee di comunicazione
oceaniche della Nato; le forze armate sovietiche erano pronte a invadere il Medio Oriente, a
difendersi dalla Cina e a minacciare il Giappone. Inoltre c’era stata la drammatica espansione
dell’arsenale nucleare sovietico negli anni ‘70.
La minaccia sovietica era enorme e richiedeva la mobilitazione di tutte le risorse militari dei paesi
della Nato e dei loro alleati. Dovevamo affrontare la possibilità di una guerra distruttiva a tutti i
livelli contemporaneamente in ogni teatro. Ci aspettavamo che una guerra del genere sarebbe stata
breve e decisiva (“apocalittica” potrebbe essere il termine più appropriato). Questa constatazione
era suffragata da numerosi fattori.
Nel 1973 la guerra arabo-israeliana di Yom Kippur aveva distrutto in una settimana un numero di
carri armati pari a quelli che la NATO aveva in Europa. Osservando quel conflitto i leader delle
forze armate americane rimasero colpiti dalla rapidità e dalla capacità distruttiva delle moderne
operazioni belliche condotte con mezzi corazzati. I sovietici (per molte ragioni) erano già giunti alla
conclusione che se fosse scoppiata una guerra europea, la migliore chance di successo l’avrebbe
avuta la macchina bellica più rapida. E intendevano spingersi dal confine gra le due Germanie alla
Manica in 30 giorni. La NATO conosceva le loro intenzioni.
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Le considerazioni politiche richiedevano una difesa contro una minaccia di questa portata già sulla
frontiera.
Anche se è virtualmente impossibile bloccare l’avvio di un’invasione con mezzi
corazzati, i tedeschi erano comprensibilmente riluttanti a considerare sacrificabile il loro paese,
perciò insistettero affinché la Nato fosse capace di difenderlo, e gli Stati Uniti lavorarono
duramente per soddisfare tale richiesta. La dottrina militare e l’organizzazione statunitensi erano
attrezzate per un combattimento duro subito all’inizio, l’invio immediato di rinforzi e una vittoria
in tempi brevi. La considerazione di base era che, se non si fosse arrivati ad una rapida vittoria,
tutta la nazione americana si sarebbe mobilitata a sostegno delle forze armate volontarie e avrebbe
sopraffatto i sovietici, come era successo contro i nazisti e il Giappone imperiale.
Dal punto di vita militare, non c’era alcun bisogno di pensare all’esito della guerra o al dopoguerra.
Tutti pensavano che qualsiasi conflitto su larga scala avrebbe condotto a un aperto scambio nucleare
e questo scenario non sembrava esigere una pianificazione post-bellica. Se la guerra si fosse in
qualche modo fermata alle porte dell’apocalisse, sarebbe stato probabile un ritorno allo status quo
ante, con nessuna delle due parti in possesso del territorio altrui; non c’era quindi alcun bisogno di
progettare nemmeno un’occupazione.
Gioco, partita, risultato.
Qualsiasi altra cosa facessero le forze armate statunitensi durante la guerra fredda era subordinata al
requisito di tenersi pronte al grande scontro. Poiché, fortunatamente, non ha mai avuto luogo questo
scontro, tutte le “distrazioni” (Corea, Vietnam, Repubblica Dominicana, Nicaragua, Cuba, El
Salvador, Panama, ecc.) furono effettivamente i veri combattimenti. Ma non abbiamo mai pensato
che le nostre forze armate avrebbero intrapreso quel genere di guerre, perché erano meno
importanti, anche collettivamente, rispetto al bisogno di essere pronti a fermare i sovietici sul
“fronte centrale” (l’Europa), sul Pacifico e in Medio Oriente.
In soldoni, gli assunti basilari delle forze armate durante la guerra fredda erano che tutti i corpi
erano egualmente importanti, che tutti i teatri sarebbero stati fortemente sollecitati, che la rapidità di
risposta a qualsiasi livello sarebbe stata d’importanza critica e che la guerra sarebbe stata breve –
oppure, se fosse stata lunga, sarebbe stata simile alla seconda guerra mondiale. Di conseguenza
abbiamo creato forze armate che spartivano i fondi per difesa più o meno in parti uguali tra i
diversi corpi; che decentralizzavano il controllo dei teatri operativi ai loro comandanti, i quali
riferivano unicamente al Segretario alla Difesa (estromettendo nei fatti il Presidente del Comando
Congiunto dalla catena di comando); e che rendevano il Pentagono responsabile dell’invio più
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rapido possibile di qualsiasi forza disponibile nei teatri bellici e della mobilitazione nazionale a
sostegno delle truppe.
In sostanza, l’obiettivo di tutto l’establishment militare, specialmente dopo la riconfigurazione del
1986, non era quello di combattere, ma quello di essere pronti a farlo. Quando la rapidità di
reazione e la vittoria nella prima battaglia di ogni teatro diventano fondamentali, lo diventa la
prontezza quotidiana. Tutto ciò che distoglie da tale prontezza – come i conflitti localizzati che, in
realtà, venivano intrapresi regolarmente – è deleterio. La struttura modellata su quei principi era
eccellente per affrontare quelle sfide, ma si adatta in modo pessimo alla realtà di oggi.
Nessun singolo nemico o coalizione di nemici ha rimpiazzato la vasta e onnipresente minaccia
militare sovietica. Dopo un periodo di confusione negli anni ’90, le forze armate statunitensi hanno
gradualmente ammesso che bisognerà dedicare molto tempo alla conduzione di diverse operazioni
militari – dalle operazioni belliche meccanizzate più tecnologiche alle operazioni di peace-keeping
e di pronto intervento in caso di calamità. Che si parli di guerra globale al terrore o di “guerra
lunga” o di “conflitto prolungato”, il punto critico è che le forze armate ritengono che oggi la chiave
per la vittoria non siano le “operazioni rapide e decisive”, e che possiamo “vincere la prima
battaglia” – l’obiettivo principale delle forze armate negli anni ’80 – ma perdere la guerra.
La forza militare della guerra fredda si basava sul principio dell’equilibrio – fra corpi militari e
teatri operativi.
Il mondo di oggi non offre affatto questo scenario. Un unico comando di
combattimento (il CENTCOM) è oggi responsabile contemporaneamente delle due principali
operazioni anti-insurrezionali in corso (Iraq e Afghanistan), di un’importante operazione antiterroristica (Corno d’Africa),
di una delle principali sfide per la non - proliferazioni d’armi
atomiche (Iran) e di uno dei principali scenari di collasso regionale (Pakistan). Nessun altro
Comando ha una responsabilità di questa portata.
Per ragioni legate più alla politica NATO che al buon senso militare il Comando Europeo possiede
la responsabilità nominale della maggior parte della guerra combattuta in Afghanistan, ma il peso di
quel combattimento sul campo non grava sulle spalle del comandante supremo alleato.
Il
Comando del Pacifico fronteggia molte minacce potenziali – le Coree, la Cina, i terroristi in
Indonesia e nelle Filippine, oltre a operazioni di anti-pirateria – ma la sua preoccupazione maggiore
resta la tradizionale missione (dei tempi della Guerra Fredda) d’essere pronto per un possibile
grande conflitto, piuttosto che alla lotta quotidiana. Il Comando Meridionale è impegnato in una
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serie di missioni, come la direzione delle operazioni contro il narcotraffico in America Latina e il
confronto con l’arrogante leader venezuelano, Hugo Chávez. Ma ancora gli sforzi profusi non sono
della stessa dimensione di quelli affrontati dal Centcom. Resta da vedere come si destreggerà il
nuovo Comando d’Africa. Di certo, c’è abbastanza in quel continente da rappresentare una seria
sfida a qualsiasi nuovo comandante, ma, a meno che gli Stati Uniti non diventino più attivamente
coinvolti negli attuali conflitti africani, anche l’Africom sarà difficilmente sconfitto.
Chi comanda qui?
Ha veramente senso avere un comandante che soprintende quasi tutte le principali attività militari in
quasi tutti i teatri vitali, mentre gli altri restano relativamente disimpegnati? Forse sì, in base al
ruolo che si ritiene debba avere il Comando Operativo. Ma la struttura non era pensata per questa
eventualità, e le tensioni lo stanno già dimostrando. Per esempio, chi comanda effettivamente in
Iraq e in Afghanistan? In teoria il responsabile dovrebbe essere il comandante del Centcom (protempore il Tenente-Generale Martin Dempsey, anche se il Generale David Petraeus, attualmente
comandante della forza multinazionale irachena, è stato nominato al suo posto).
Dempsey non comanda in nessuno dei due teatri bellici.
In pratica,
Al Generale David Mc-Kiernan,
comandante della Forza Internazionale d’Assistenza e Sicurezza (ISAF), spetteranno le forze
alleate in Afghanistan quando sostituirà il Generale Dan McNeill; ma Mc-Kiernam riferisce al
comandante dell’Eucom in America, il Generale Bantz Craddock, attraverso un generale tedesco,
perché l’Afghanistan è una missione Nato. Il Generale Petraeus, d’altro canto, è ancora
nominalmente subordinato di Dempsey, ma in pratica
riferisce direttamente al Presidente
americano da quando ricopre quel posto. Perché? Perché Bush, come tutti i suoi predecessori, vuole
la diretta verità dall’uomo che combatte la guerra principale sul campo. Anche il predecessore di
Petraeus, il Generale Gorge Casey, riferiva direttamente al Presidente. Dunque qual è il ruolo del
Centcom? Difficile a dirsi. È chiaro, però, che l’attuale situazione del Centcom non ha nulla di
simile a ciò che immaginavano gli autori della riforma Goldwater-Nichols. La natura degli attuali
conflitti sta chiaramente stiracchiando la struttura di comando in direzioni impreviste.
Un’altra tensione inattesa è emersa fra coloro che combattono e coloro che li riforniscono. Negli
anni ’80 questa tensione era minima; entrambi i gruppi trascorrevano la maggior parte del loro
tempo a prepararsi alla guerra. In una guerra breve, i rifornimenti logistici non avrebbe avuto
molta importanza. L’esercito dispiegò una forza militare massiccia in Kuwait nel 1990, ma senza
alcuna seria tensione, perché la guerra fu breve e la forza fu rapidamente ritirata.
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Ma l’ampio e prolungato dispiegamento di forze militari statunitensi in stato di guerra nel teatro del
Centcom non era stato previsto dagli ideatori dell’esercito della guerra fredda.
Le guerre logorano rapidamente le persone e gli equipaggiamenti. Entrambi debbono essere
sostituiti. Ma rimpiazzarli costa denaro e sforzi organizzativi che distolgono l’attenzione dalla
preparazione dei futuri conflitti. La guerra scombussola anche le abitudini d’addestramento in
tempo di pace, a scapito della preparazione a ogni evenienza. I Marines temono che troppi loro
uomini non siano stati addestrati per la presunta missione principale nelle operazioni d’intervento
rapido. L’Esercito è preoccupato che molti dei suoi carristi non abbiano mai imparato a
classificare un carro armato e che molti dei suoi comandanti di brigata non si siano mai esercitati in
manovre al di fuori
del contesto anti-insurrezionale.
Le tensioni
fanno sorgere attriti,
specialmente tra gli ufficiali e gli alti comandi. Persone valide se ne vanno, e ci vuole tempo per
formare un comandante di brigata o un sergente maggiore – anche una ventina d’anni.
Molti di questi problemi potrebbero essere alleviati riducendo il numero dei militari sui teatri attivi,
ma i combattenti vogliono naturalmente più forze in guerra. Chi decide le priorità fra combattere le
guerre di oggi e prepararsi per la guerra di domani? Oggi decidono il Segretario alla Difesa e il
Presidente, due civili. In base alla legge Goldwater-Nichols, nessun ufficiale militare al Pentagono
è addetto al compito di vincere le guerre che stiamo combattendo.
Per statuto, la missione dei Comandi Congiunti è dare appoggio agli attuali conflitti (ma senza
responsabilità operativa) e prepararsi a quelli futuri. A capo dei Comandi Congiunti c’è il Primo
Consigliere Militare del Presidente. Nessuno di loro, però, ha la responsabilità statutaria di vincere
le guerre in corso. Quella mansione è riservata ai comandanti combattenti e ai loro subordinati.
Durante la guerra fredda questa divisione del lavoro non creava alcun problema – nessuno avrebbe
voluto preoccuparsi dei conflitti futuri se l’Armata Rossa avesse invaso l’Europa occidentale.
Oggi questo crea una costante tensione che richiede l’intervento diretto
dei vertici del potere
civile. A peggiorare le cose, soltanto i comandanti che forniscono le forze militari sono presenti
nel centro del comando, mentre i comandanti combattenti sono sparsi in giro per il mondo.
Giù le mani dalla mia torta
Lo scopo principale della legge Goldwater-Nichols era quello di migliorare la collaborazioneo fra i
corpi militari. Un esempio emblematico è il famoso incidente durante l’invasione di Grenada,
quando pare che un ufficiale dovette usare una carta telefonica e un telefono pubblico per
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richiedere il fuoco di copertura da parte di un altro comandante.
cooperazione fra i corpi sotto molti aspetti,
anche con
La legge ha migliorato la
la creazione di Comandi Operativi
responsabili di tutti i militari nell’area, anche se provenienti da corpi diversi.
La decisione di dividere uniformemente la torta del budget tra i corpi ha avuto preziosi benefici.
Gli investimenti in potenza aerea di precisione (nell’Aeronautica militare, nella Marina e nei
Marines) sono stati molto importanti per le nostre operazioni in Iraq e in Afghanistan, perché la
capacità di colpire con esattezza e con forza calibrata l’obiettivo designato con breve preavviso
ha trasformato la parte “cinetica” (di combattimento) delle operazioni anti-insurrezionali.
E lo stress di Aeronautica militare e Marina
nel provvedere questo tipo di sostegno in Iran e
Afghanistan è facilmente controllabile.
Ma lo stress su Esercito e Marines causato dal mantenere
oltre 180.000 fanti in Iraq e in
Afghanistan sono di ben altra dimensione. Gli F-15 e le portaerei di classe Nimitz pensati per
sconfiggere gli avanzati sistemi sovietici sono utili anche contro gli insorgenti in kefiah e scarpe da
ginnastica che sventolano gli AK-47 (anche se gli F-15 e altri aeroplani stanno invecchiano e si
stanno esaurendo, e avranno bisogno di essere rimpiazzati prima che sia troppo tardi). Ma gli
Humvee e gli autocarri non disegnati per zone di combattimento sono pericolosamente inadeguati
di fronte agli IED (congegni esplosivi improvvisati). I confitti di oggi stanno pesando in maniera
spropositata sulle forze di terra; situazione cui l’attuale struttura militare non era preparata.
Il risultato è un tira e molla fra i Corpi, pericoloso per tutti . Tanto l’amministrazione Bush quanto
il Congresso, sotto guida democratica come repubblicana, hanno rifiutato grandi aumenti di spesa
per la difesa. L’Aeronautica e la Marina si sono viste sottrarre risorse nei primi anni dell’attuale
conflitto, e l’hanno ampiamente accettato. Ora stanno iniziando a puntare i piedi. Quindi l’attuale
organizzazione delle forze armate non soltanto mette in competizione fra loro i diversi Corpi – una
realtà perenne della vita – ma mette in competizione i Corpi militari contro i combattenti che si
trovano ora al fronte.
Un’altra fonte imprevista tensione sorge dal conflitto fra il servizio attivo e le riserve (inclusa la
Guardia Nazionale) nelle forze di terra, specialmente nell’Esercito. Negli anni ’70 la pressione per
costruire una forza armata di soli volontari, unita al bisogno di ridurre le spese di difesa in seguito
al guerra del Vietnam e alla simultanea crescita della minaccia sovietica, indussero l’Esercito a un
importante compromesso. Molte funzioni essenziali, ma non da combattimento, furono trasferite
alle unità di riserva per conservare la maggiore potenza di combattimento possibile nella forza
attiva. Il limite di questo approccio è diventato evidente negli anni ’90, quando un piccolo ma
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prolungato dispiegamento di forze americane in Bosnia e nel Kosovo ha sovraccaricato le unità di
sostegno critico delle forze armate attive e ha richiesto la mobilitazione dei riservisti. Per essere
chiari: il dispiegamento di qualcosa come 30.000 uomini in un esercito di 495.000 ha richiesto la
mobilitazione delle riserve. Questo avrebbe dovuto svegliare qualcuno, ma nell’èra delle ‘risorse
vincolate per la difesa” come gli anni ’90, il risveglio non era contemplato. Naturalmente, lo
spiegamento di 180.000 soldati in Iraq e in Afghanistan ha fatto sembrare una piccolezza lo
“sforzo” fatto negli anni 90.
La decisione di trasferire funzioni alle unità di sostegno (logistico) della Guardia Nazionale non
soltanto ha coinvolto queste unità, ma con lo spiegamento su larga scala successivo al 2003 ha
richiesto l’intervento persino delle unità di combattimento della Guardia. L’attuale richiesta di
truppe ha reso necessario l’impiego delle unità della Guardia Nazionale in turni prolungati. La
Guardia Nazionale ha antiche e nobili origini, ma non è mai stata utilizzata in questo modo.
Lyndon Johnson ritenne più semplice il ricorso alla coscrizione piuttosto che inviare in Vietnam le
brigate di combattimento della Guardia. Durante l’operazione “Desert Storm” ci fu acrimonia fra i
Corpi quando i comandanti dell’Esercito rifiutarono di impiegare le unità della Guardia nel deserto
perché non pronte al combattimento, e alcuni comandanti della Guardia s e ne risentirono.
Dalla fine degli anni ’90 le unità della Guardia sono nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq, con
turni prolungati.
Il fatto è che la Guardia non era stata pensata per essere mobilitata e dispiegata all’estero per turni
ripetuti in guerre prolungate. Era pensata come riserva strategica della nazione – la forza utilizzata
in extremis quando una missione eccedeva la capacità della forza attiva e prima (o al posto) della
mobilitazione nazionale. Il pesante uso della Guardia e delle unità di riserva per turni prolungati ha
indotto alcuni a lamentarsi del fatto che la nazione ha rotto il suo patto con quelle unità – che sono
trattate alla stregua di unità attive anche se i suoi membri non sono mai stati arruolati. Questo è un
altro lascito della guerra fredda. Come abbiamo visto, i conflitti prolungati non erano parte
integrante della dottrina dell’epoca.
Infine vale la pena osservare che segni di attrito hanno iniziato a svilupparsi perfino tra l’Esercito e
i Marines. Dall’aprile 2007 le unità dell’Esercito sono dispiegate in Iraq con turni di 15 mesi,
mentre quelle dei Marines con turni di 7mesi. La ragione è che i Marines volevano conservare
l’allieamento fra dispiegamente di truppe e rotazione di navi, e le navi ruotano due volte l’anno.
Il risultato è stato che i soldati hanno trascorso un turno
doppio
sul campo di battaglia senza
interruzione. I recenti commenti del comandante dei Marines James Conway, secondo cui il suo
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Corpo avrebbe preferito andarsene dall’Iraq e oncentrarsi sull’Afghanistan ha creato ulteriori
tensioni.
Ufficiali contro ufficiali
Le tensioni più acute nelle forze armate sono quelle sorte tra gli ufficiali dei Corpi stessi.
Dall’esterno (e perfino a qualcuno dall’interno) queste appaiono l’esito di due gruppi rivali: il
gruppo Casey-Abizaid che difende l’approccio assunto da quei comandanti nella guerra irachena, e
quello Petraeus-Odierno che abbraccia la strategia del Surge del 2007. C’è qualcosa di vero in
questa interpretazione. I comandanti più anziani sono speso circondati di subordinati che sono
loro ammiratori o protetti, e da pari-grado invidiosi. A questo fenomeno, che non è di per sé
speciale, va aggiunta la controversia intorno al cambiamento di strategia del gennaio 2007.
Ma si tratta di qualcosa di più. Gli ufficiali che comandano le unità in combattimento si
preoccupano, come tutti, dei pericoli che affrontano, ma si preoccupano molto di più dei pericoli
che affrontano i loro subordinati. I comandanti si sentono tremendamente responsabili dei soldati
che guidano, e patiscono molto il ferimento e la morte dei loro soldati. Nessun esercito al mondo ha
mai tenuto tanto ai suoi soldati come questo, e con buone ragioni, perché nessun esercito ha mai
posseduto soldati di tale qualità, e tutti volontari.
Fra tutte le situazioni per cui un comandante
deve attendersi la sofferenza dei suoi soldati, nessuna è più spiacevole delle disgrazie evitali. I
comandanti sanno che i soldati vengono feriti e muoiono in guerra, anche quelli affidati a loro. Ma
trovano normalmente intollerabile l’idea che i loro soldati debbano morire a causa di errori interni.
Dal 2004 sino a tutto il 2006, ma specialmente alla fine di quell’anno, si è diffusa la generale
sensazione che non stessimo vincendo in Iraq. La colpa, se c’era, non era dei soldati, che
combattevano abilmente, professionalmente e coraggiosamente. Né era dei loro comandanti di
medio livello, che guidavano bene le loro unità, seguivano gli ordini impartiti, facevano il loro
numero normale e prevedibile di errori e imparavano piuttosto velocemente la lezione.
L’esperienza di perdere soldati in quella che sembrava essere una causa persa ha indotto alcuni a
sentirsi colpevoli, come se fossero loro a dover essere biasimati. Altri si sono semplicemente
amareggiati per il fatto che i loro superiori, civili o militari che fossero, avessero mandato i loro
soldati a morire inutilmente. Perfino i comandanti impegnati a ottenere successi locali o regionali
apparivano generalmente frustrati per il fatto che i quartier-generali non sembravano propensi o
capaci a sostenere e capitalizzare i loro profitti.
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Questo trend ha iniziato a cambiare nel 2007. L’inizio dell'offensiva su larga scala dei Marines in
giugno, insieme alla nascita di movimenti tribali contro al-Qaeda, ha sorpreso i terroristi e ha
permesso alle forze armate statunitensi di sovrintendere i drammatici e inattesi miglioramenti nel
settore della sicurezza. Molti comandanti hanno iniziato a capire non soltanto che stavano avendo
la meglio, ma che facevano anche parte di uno sforzo vittorioso su scala globale . I loro commilitoni
rientrati prima della svolta hanno risposto in modo vario, ma alcuni hanno chiaramente reagito con
amarezza, inizialmente negando la possibilità di successo e poi assumendo un atteggiamento di
silenziosa ostilità. Le prime unità che hanno vissuto questo senso di successo stanno tornando a
casa proprio ora. Resta da vedere come interagiranno con i loro compagni.
Oggi l’Iraq è sempre in prima pagina, ma i problemi delle forze armate statunitensi vanno oltre il
singolo conflitto. Se domani le truppe americane lasciassero l’Iraq, sarebbero comunque malamente
strutturate per un’eventuale guerra futura. Gli aspetti negativi della struttura genererebbero ancora
tensioni inappropriate e pericolose: il successo richiederebbe ancora sforzi sovrumani da parte di
singoli comandanti esperti per trascendere i ruoli loro assegnati formalmente e per pensare
soltanto al bene di tutta la nazione. Qualcuno ce la farebbe; la maggior parte no. Il sistema
continuerebbe a cigolare, a gemere e a lacerarsi sotto la pressione di pesi squilibrati che non è mai
stato pronto ad assumere.
L’Iraq è un sintomo di questo malessere, non la causa. Tensioni simili sono sorte per la Bosnia, il
Kosovo e l’Afghanistan, tutti teatri dotati di persone differenti nelle posizioni chiave. Non si tratta
di deficienze personali ma ideologiche, anche se entrambe hanno avuto un ruolo importante nei
recenti fallimenti. È un problema strutturale, organizzativo e, soprattutto, ideale: riguarda le
tipologie di guerra che potremmo dover combattere e i modi in cui combatterle.
Di tutti gli scenari di guerra allarmanti che gli Stati Uniti affronteranno nei decenni a venire, quello
per cui le nostre forze armate sono attualmente strutturate – attacchi simultanei su tutti i fronti, a
tutti i livelli, da parte di un unico nemico globale – è il meno probabile. È più probabile una lotta
lacerante, prolungata e basata sulle forze di terra all’interno di uno, o forse due comandi regionali.
Per troppo tempo il dibattito circa la convenienza delle guerra irachena e il nostro attuale approccio
ad essa ha oscurato questa realtà. Due decenni dopo il collasso dell'Unione Sovietica è tempo di
adattare le nostre forze armate al mondo post-guerra fredda.