Approaches to Teaching Collodi`s «Pinocchio» and

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Approaches to Teaching Collodi`s «Pinocchio» and
«Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/>
Federica Colleoni
Rappresentazioni di lavoratori precari
nel cinema europeo.
Comencini, Cantet, Loach
Sommario
I. Cinema europeo e lavoro
II. Risorse (dis)umane...
III. (Non) Mi piace lavorare (se c'è) Mobbing
IV. È un mondo... "gratis"!
V. Conclusione
VI Bibliografia
On peut appartenir à un univers prestigieux,
mais n'y occuper qu'une position obscure.
Pierre Bourdieu, intervista, 1993
I. Cinema europeo e lavoro
Il tema del lavoro, per un lungo periodo grande escluso, tranne rare
eccezioni, dal cinema e dalla letteratura italiani e non solo, è ritornato di
recente al centro dell'attenzione in particolare nella sua dimensione
postfordista di lavoro precario, insicuro, flessibile. Il fenomeno è da
collegarsi a una tendenza europea, che fa riflettere su quegli elementi
problematici che accomunano la condizione socio-economica attuale dei
vari paesi del continente. In questo breve articolo si prendono in esame tre
film realizzati da registi "impegnati" e "di sinistra", che godono di una
considerazione autoriale e che affrontano il tema con la consapevolezza
che raccontare il lavoro (o l'incertezza di esso) significa, oggi più che mai,
raccontare la contemporaneità.
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Il film di Francesca Comencini Mi piace lavorare-Mobbing (2003),
realizzato nel corso del secondo governo Berlusconi e nato da un
documentario prodotto con il sostegno del sindacato CGIL, ha messo in
luce la connessione tra precarietà e condizione femminile nonché il ruolo
fondamentale del sindacato nel ricreare un tessuto di solidarietà fra
lavoratrici per fronteggiare il potere smisurato delle multinazionali. Anche il
film francese Ressources humaines (1999) di Laurent Cantet, come quello
di Comencini, fa uso di attori non professionisti e si articola attorno al
problema del rapporto tra individuo e società di capitali, in un momento
storico nel quale la Francia, dopo anni di ascesa dell'ideologia neoliberista, era scossa dalla proposta della riduzione a 35 ore settimanali di
lavoro da parte di una coalizione di sinistra. Il film britannico It's a free
world (2007) di Ken Loach è il più recente dei tre. Esso si concentra sulla
critica al concetto di libero mercato e si apre alla rappresentazione del
fenomeno del reclutamento di manodopera straniera a basso costo,
spesso assunta in modo illegale, come elemento costitutivo dell'economia
europea attuale. Il film di Loach è quello fra i tre che mostra in modo più
attento come il tema del lavoro, pur radicato nella dimensione locale,
finisca per superare i confini dello stato-nazione, della sua storia e della
sua cultura specifiche.1
In tal modo, alla luce dell'interdipendenza tra l'economia europea
occidentale (globalizzata e delocalizzata) e quella dell'Europa orientale e
di altri continenti, viene messo in discussione l'assunto nazionale in
quanto corpo economico-sociale autonomo, veicolo di identificazione e di
riconoscimento
in
contrapposizione
all'alterità,
rappresentata
dallo
straniero. Sfidando una rigida divisione storica in confini nazionali, la
rappresentazione del lavoro postfordista, colto nei suoi risvolti traumatici,
si rivolge ad un pubblico europeo, anzi mondiale. Il film di Loach, infatti,
pur mostrando una specificità geografica, cessa anche di appartenere a
una rigida categoria di film "nazionale" che rivendica una definita "identità
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nazionale".2 Si apre piuttosto verso una dimensione nuova, di cinema
"globale", che non ha nulla a che fare con l'internazionalismo o
cosmopolitismo atto a imporre modelli di consumo, ma che riesce a
entrare in dialogo con un pubblico transnazionale. Se nei film di Cantet e
Comencini si respira ancora la convinzione che basti il coraggio del
singolo, sorretto dal sindacato, a ritrovare la forza di agire ed esercitare un
proprio potere sul mondo del lavoro, nel film di Loach, invece, si assiste
allo sgretolarsi delle certezze di risolvere conflitti e problemi del lavoro
attraverso tradizionali forme di lotta e di associazionismo.
II. Risorse (dis)umane...
Il film di Cantet racconta quella che oggi è l'anticamera, il limbo, del lavoro
vero e proprio, ossia l'esperienza di stage, il sempre più diffuso
apprendistato imposto ai giovani che hanno conseguito un titolo di studio
ma non hanno ancora maturato una vera esperienza professionale. Il
protagonista, Franck, che ha avuto "la fortuna" di lasciare la provincia e
laurearsi nella metropoli parigina, ha deciso di svolgere il proprio stage
nella sua città natale, precisamente nella fabbrica in cui il padre lavora da
sempre come operaio. Qui affianca il responsabile delle risorse umane
con l'intento di elaborare una strategia per l'introduzione delle 35 ore
settimanali. Alla domanda postagli dal direttore del personale sul perché
abbia scelto proprio quella fabbrica, Franck risponde che essa è
«simbolicamente significativa» per lui. È sulla presenza di simboli
significativi nell'esperienza del protagonista che mi concentrerò nella mia
breve analisi.
Franck rappresenta un tipo di lavoratore particolare non essendo
veramente assunto ma che occupa uno spazio di confine tra l'inclusione e
l'esclusione dal corpo dell'azienda. Egli lavora precisamente alla riduzione
dell'orario settimanale, una pratica che, ideata con l'intento di ridurre le ore
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di lavoro agli operai, in realtà finisce per giustificare dei tagli del personale
che mettono in discussione un diritto al lavoro che sembrava,
erroneamente, definitivamente acquisito. Il film mostra le difficoltà di
dialogo tra la classe operaia, rappresentata sia dal padre del protagonista,
sia dagli operai iscritti al sindacato, e la nuova classe dirigente, colta,
cittadina, a cui Franck sembra ormai appartenere. La famiglia stessa di
Franck è una metafora della società francese divisa e incapace di
comunicare, in cui esistono divisioni e frizioni non solo tra città e provincia,
ma pure tra classi. Cantet opta tuttavia per un finale positivo, non tanto per
la risoluzione dei problemi lavorativi, quanto per la maturazione interiore
del protagonista: Franck si ribellerà al modo in cui il suo progetto (ossia un
sondaggio da lui ideato e proposto agli operai) è stato manipolato e
strumentalizzato dai capi per giustificare il lincenziamento di alcuni
lavoratori, tra cui suo padre, e reagirà partecipando alla lotta messa in atto
dal sindacato e sostenuta dai lavoratori. Il film mostra l'evoluzione del
personaggio di Franck dal ruolo di tecnocrate del lavoro che non osa
prendere parte alla lotta preferendo osservarla, all'attivista che, invece,
rischia ogni cosa per esprimere il suo appoggio agli operai.
Se è vero che per Franck, "stagista" ergo "precario", il ritorno alla fabbrica
del padre (che rappresenta il lavoro fordista) è simbolicamente
significativo in quanto incontro/scontro fra due identità lavorative
radicalmente diverse, è proprio attraverso la visualizzazione dei simboli
della fabbrica prima e dei simboli della lotta sindacale poi che si evidenzia
il passaggio dalla passività iniziale alla agency del finale. All'inizio Franck
percorre l'interno della fabbrica subendo passivamente i segni di un ordine
superiore, prestabilito (visivamente manifesto nei poster affissi sui muri
che ordinano paternalisticamente agli operai come essere e come
pensare). Alla fine, invece, egli uscirà all'esterno della fabbrica e ci verrà
mostrato mentre produce nuovi segni, nuove frasi, scrivendo sugli
striscioni slogan e rivendicazioni. Nelle scene iniziali il giovane si aggira
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silenzioso per la fabbrica rumorosa in compagnia dei suoi nuovi superiori.
Essi intendono presentarlo agli operai, ma quel voler stringere loro la
mano si rivela un gesto che, tentando di illuderli dell'assenza di distinzioni
gerarchiche, in realtà le ribadisce attraverso il paternalismo che comunica.
Vediamo vari cartelli colorati appesi ai muri che portano immagini esplicite
e didascaliche, come un topolino con del formaggio, e scritte
all'imperativo: «Méfiez vous d'un mécanisme inconnu» (ossia «diffidate di
un meccanismo sconosciuto») o «Toujours réflechir avant d'agir» (ossia
«riflettere sempre prima di agire»). Si tratta di consigli che ironicamente
preannunciano l'evolversi della vicenda nel resto del film, ossia la trappola
in cui Franck cade elaborando il suo sondaggio e involontariamente
fornendo alla direzione gli strumenti e la scusa per ridurre il personale.
Al contrario, alla fine del film, Franck ci viene mostrato al di fuori della
fabbrica mentre dipinge slogan insieme agli altri operai (per esempio si
legge in grande: «no aux licenciements» ossia «no ai licenziamenti»). Non
è più solo, ma fa ora parte di una comunità attiva e solidale.
Paradossalmente, uscendo dalla fabbrica, Franck sperimenta finalmente
l'inclusione, mentre nelle scene in cui lo si mostrava all'interno della
fabbrica, la sua estraneità era continuamente ribadita (era stato persino
allontanato da una riunione come intruso). Il film tuttavia non indaga i
motivi profondi della crisi del lavoro che ne è oggetto, nel senso che essa
è intesa come un fenomeno locale, non come il risultato di politiche che
scavalcano i confini e gli interessi nazionali. Restano evase domande
quali: perché la produzione è diminuita nel corso del tempo al punto da
spingere il padrone a ritenere necessari i licenziamenti? In che modo la
tendenza alla delocalizzazione produttiva ha stravolto l'economia francese
al punto da rendere necessarie le 35 ore? Quali apparentemente astratti
processi economici hanno concretamente mutato l'assetto sociale? Forse
chiediamo troppo al film di Cantet, ma come si può ancora raccontare il
problema del lavoro senza tenere conto di ciò che accade "fuori" dalla
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fabbrica, altrove, lontano dalla provincia? Cantet non si spinge oltre,
malgrado il suo film parli una lingua comprensibile ai lavoratori di mezza
Europa.3 All'interno di un filone cinematografico nato nella metà degli anni
Novanta in cui persistono elementi tipicamente francesi, soprannominato
«cinéma de banlieue»,4 che si avvale spesso di attori non professionisti e
che tende a proporre tematiche sociali, il film di Cantet da un lato reclama
una specificità nazionale contro la tendenza post-nazionale di grandi
produzioni internazionali rivolte a un consumo mondiale, dall'altro evita la
dimensione globale dei temi che affronta.5
III. (Non) Mi piace lavorare (se c'è) Mobbing
Tra gli elementi che accomunano il film di Cantet a quello di Comencini, vi
è il fatto che entrambi raccontano le tematiche del lavoro inserendole in un
contesto famigliare e "mélo", distanziandosi da un cinema prettamente di
propaganda, per cogliere invece la dimensione politica di ogni scelta
individuale. In particolare mostrano come il sindacato cerchi di mantenere
viva nei lavoratori la consapevolezza di essere parte di un organismo più
vasto, di avere un linguaggio comune attraverso il quale articolare le
proprie rivendicazioni, i propri diritti. Realizzato con un budget ridotto, il
film Mi piace lavorare-Mobbing è nato dall'incontro della regista con gli
operatori dello sportello "anti-mobbing" del sindacato nazionale CGIL di
Roma. Lo stile documentaristico e l'uso di attori non professionisti, come
nel film di Cantet (ad eccezione del protagonista, interpretata qui da
Nicoletta Braschi, là da Jalil Lespert), rendono questo film particolare nel
panorama cinematografico italiano contemporaneo. Il film tratta del
problema del mobbing, una forma di discriminazione operata su luoghi di
lavoro precarizzati e dunque resi inutilmente competitivi non solo dai
superiori ma anche dagli stessi colleghi. In Italia non esiste ancora una
legge speciale del codice penale relativa al mobbing, a differenza di altri
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paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna...),6 quindi il film assume
un valore di condanna di una situazione sociale che richiederebbe
maggiore consapevolezza da parte dei legislatori. Nel film Anna, madre
single e impiegata in una società, assiste inerme alla ristrutturazione delle
risorse umane in seguito a una fusione. Tale processo di "ottimizzazione"
delle risorse si manifesta cinicamente nell'esclusione di alcuni individui
dall'organismo dell'azienda. In questi casi, attraverso tecniche subdole e
sottili di umiliazione, il lavoratore viene spinto ad abbandonare
volontariamente il proprio posto di lavoro. Anna infatti è progressivamente
e pretestuosamente allontanata dalle sue funzioni e invitata a svolgerne
altre di livello inferiore, inutili o umilianti; è mortificata e trattata
diversamente da capi e colleghi al punto da essere spinta in un gorgo di
disistima e di depressione. In altre parole, Anna è vittima di quella che,
seguendo Pierre Bourdieu, potremmo chiamare "violenza simbolica", ossia
una violenza subita dal soggetto che inconsciamente accetta le sofferenze
imposte da un potere gerarchico arbitrario come se esso scaturisse da
un'oggettiva autorevolezza. Grazie all'appoggio di altre donne impegnate
nel sindacato e con il sostegno della figlia Morgana, Anna ritroverà la forza
di reagire al sopruso comprendendo che una condizione lavorativa
dignitosa non è una concessione, bensì un diritto. Il film predilige la
descrizione delle ripercussioni personali e traumatiche del mobbing
mostrando soprattutto le difficoltà della protagonista nei suoi rapporti
familiari. L'intervento del sindacato, tuttavia, riuscirà a scuotere la
protagonista e a spingerla a reagire. Anna "guarisce" nel momento in cui a
una narrazione in termini puramente personali se ne sostituisce un'altra
che invece stabilisce la dimensione collettiva del fenomeno. Questo è
particolarmente evidente nella scena che mostra un'assemblea sindacale
seguita alla notizia repentina del trasferimento di parte dei lavoratori in
altra sede. La sindacalista che prende la parola descrive la durezza delle
condizioni di vita che si prospettano per le lavoratrici. In un contesto di
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"flessibilità totale" sono minacciate innanzitutto le relazioni interpersonali e
famigliari di cui le donne storicamente si prendono cura. In altre parole, si
fa leva sulla fragilità delle persone riducendo la dignità del loro lavoro,
della loro esistenza. Nella quasi totale assenza di solidarietà fra lavoratori
e lavoratrici, la presenza del sindacato attraverso le sue rappresentanti
riesce a ristabilire un dialogo tra le donne e a far riemergere una
consapevolezza dei propri diritti che sembrava perduta all'interno di un
mondo in cui precarietà, flessibilità forzata sono diventate la cifra
distintiva. È difficile non condividere l'affermazione di Francesca
Comencini per cui «il mobbing ha una preferenza per [le donne]. Ho
ascoltato la rabbia di donne costrette a lasciare i loro figli giornate intere
per andare in uffici dove venivano insultate e prese in giro. Il paese più
flessibile del mondo odia le madri».7 Nel film l'intervento del sindacato
riesce a riattivare il senso di essere parte di una comunità più estesa, così
che il "problema del lavoro" cessa di essere sentito unicamente come
individuale, ma diventa plurale, cioè si inserisce in un discorso comune.
Tale discorso fornisce alla vittima di mobbing un linguaggio condiviso
attraverso il quale esprimere il proprio trauma, consentendo il passaggio
da una forma di sottomissione e passività al dispiegamento di una propria
agency, ossia consapevolezza. Il film si conclude mostrando Anna serena
insieme alla figlia che le dice «smettila di avere paura!». È la paura, infatti,
l'arma principale per destabilizzare l'individuo che lavora in condizioni di
precarietà.8 Da questo punto di vista, Comencini ha colto molto bene come
il mobbing sia precisamente la negazione della solidarietà, il ribaltamento
dei valori promossi dal sindacato. Il mobbing, insomma, è una versione
perversa dell'aggregazione.
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IV. È un mondo... "gratis"!
Anche nel film di Ken Loach la protagonista è una donna sola, vittima della
precarietà lavorativa, ma in una realtà piuttosto diversa e con un carattere
più cinico. Angie è una donna alla ricerca del riscatto economico e sociale,
in lotta con le istituzioni per l'affidamento del figlio, dopo aver perso il
lavoro per aver reagito agli atteggiamenti apertamente sessisti del suo
datore di lavoro. Paradossalmente per ottenere i mezzi economici
necessari ad assicurarsi il diritto di stare con il figlio, ricorre a mezzi illeciti,
ossia il reclutamento di manodopera illegale proveniente dall'Europa
orientale. Il fatto che il film abbia adottato il punto di vista di Angie è stato
disapprovato da alcuni critici che hanno lamentato l'assenza di una vera
assunzione della prospettiva dell'immigrato. In realtà, a mio avviso, il
punto di vista del film rispecchia, criticamente, quello delle società
occidentali. Lo sguardo del film (e di Angie) subisce una continua
oscillazione tra una nozione degli immigrati da un lato in quanto concetto
astratto, costrutto politico, e dall'altro in quanto identità individuali. Nel film
assistiamo a un dialogo tra Angie e il padre in cui l'uomo critica
aspramente l'attività della figlia. Il linguaggio a cui il padre fa ricorso (che
riflette le ideologie sindacali e socialiste di una generazione precedente a
quella della figlia) non trova riscontro nelle parole della ragazza. Alla
domanda insistente se i suoi lavoratori percepiscano la minimum wage,
cavallo di battaglia delle lotte sindacali, lei risponde spostando il perno
della questione dall'antagonismo tra lavoratori/padroni alla dialettica
consumatori/mercato,
a
mostrare
come
sia
linguisticamente
sia
ideologicamente padre e figlia appartengano a due mondi diversi: Angie
giustifica il proprio cinismo facendo notare che una riduzione delle spese
produttive (ossia un contenimento dei salari) si traduce in una riduzione
dei costi delle merci, dunque è un fattore socialmente positivo, come a
dire democratizzante.
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Angie è consapevole del fatto che i lavoratori stranieri che assume sono
ricattabili a causa della loro condizione di illegalità. Essi non possono
trovare nel sindacato un linguaggio, una ideologia o, in altre parole, una
narrazione a cui riferirsi per esprimersi, e dunque un'arma, come avveniva
nei film di Cantet e Comencini. Per ristabilire la "giustizia" si ribellano
utilizzando metodi illegali. Per esempio, quando l'industriale che ha
ingaggiato Angie non la paga e dunque lei non è in grado di retribuirli (in
realtà potrebbe anticipare i loro stipendi, considerando i forti guadagni che
si è assicurata in precedenza), le rapiscono il figlio e lanciano sassi alla
sua finestra ferendola. La violenza, sembra implicare il messaggio del film,
per quanto difficile da accettare, è l'ultima risorsa di chi non ha mezzi
legali per difendersi.
Mentre nei film di Comencini e di Cantet la conclusione mostra possibilità
di soluzione nonché il riavvicinarsi tra le generazioni, in It's a free world
non c'è una soluzione ottimistica. Il film si conclude ironicamente e
amaramente con una scena che mostra Angie in trasferta impegnata ad
"arruolare" lavoratori stranieri. La macchina da presa indugia sul viso di
una speranzosa e ingenua signora ucraina, Ludmilla, che rivela a Angie di
essere intenzionata a lasciare i propri figli per lavorare in Inghilterra. Si
tratta della scena più potente del film, soprattutto laddove si alternano le
inquadrature dei volti di Ludmilla e di Angie. Sul viso di Angie appare
un'espressione di simpatia e di compassione mentre ascolta l'interprete
tradurre le parole di Ludmilla, ma questo sentimento è subito bloccato
dalla visione dei soldi. La presenza del denaro, ossia dell'equivalente
monetario della vita di Ludmilla, la fa ritornare alla realtà, al suo cinismo,
alla sua scelta di realizzarsi economicamente attraverso lo sfruttamento
della condizione delle persone, che sono infatti valutate solo in base al
corrispondente guadagno economico che possono assicurare. Questo
alternarsi di primi piani riassume visivamente in modo esemplare
l'attitudine che il personaggio di Angie ha mostrato in tutto il film, ossia
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l'oscillare costante tra queste due posizioni, la pietà e il cinismo,
l'immedesimazione con l'altro, lo straniero e la sua "oggettificazione".
Angie aveva provato compassione per una famiglia di immigrati e aveva
avuto una breve storia sentimentale con un ragazzo polacco, Karol. Questi
due episodi avevano mostrato il suo coinvolgimento personale con gli
stranieri, la sua capacità di percepirli singolarmente, come individui. In altri
momenti invece, Angie riesce a mantenere un distacco, una freddezza
totali, come quando denuncia alla polizia l'insediamento di famiglie di
immigrati illegali sorto ai confini della città, un gesto che risulta odioso
anche agli occhi della sua socia, Rose. In realtà queste oscillazioni
rispecchiano la falsa illusione della nostra società globalizzata e
postfordista di passare costantemente dal concreto all'astratto, dalla
compassione alla freddezza delle statistiche, senza riuscire a valutare le
conseguenze sugli individui che si celano dietro ai dati, ai numeri.
V. Conclusione
In Violence, Six Sideways reflections (2008), Slavoj Žižek nell'affrontare il
rapporto tra violenza e potere9 analizza la violenza insita nella società
contemporanea. Il filosofo propone una distinzione tra forme di violenza
soggettiva, perpetrata da un soggetto ben preciso, e forme di violenza
oggettiva, o sistemica, prive invece di un soggetto immediatamente
riconoscibile, bensì inerenti al sistema stesso. La violenza sistemica,
necessaria a che il sistema funzioni apparentemente fluidamente e
pacificamente, si presenta sotto forma di una sorta di sfondo invisibile alle
nostre esistenze. La violenza oggettiva o sistemica si basa esattamente
su questo ridurre a un'astrazione ideologica la realtà sociale su cui la
logica capitalista produce invece effetti molto concreti:
«The notion of objective violence [...] took a new shape with
capitalism. It is far too simplistic to claim that the spectre of this
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self-engendering monster that pursues its path disregarding any
human or environmental concern is an ideological abstraction
and that behind this abstraction there are real people [...]. The
problem is that this "abstraction" is not only in our financial
speculators' misperception of social reality, but that it is "real" in
the precise sense of determining the structure of the material
social processes: the fate of whole strata of the population and
sometimes of whole countries can be decided by the
"solipsistic" speculative dance of capitals, which pursues its
goal of profitability in blessed indifference to how its movement
will affect social reality. [...] Therein resides the fundamental
systemic violence of capitalism, much more uncanny than any
direct precapitalist socio-ideological violence: this violence is no
longer attributable to concrete individuals and their "evil"
intentions, but is purely "objective", systemic, anonymous».10
Il film di Loach mostra esattamente questa scissione negli atteggiamenti di
Angie, la quale vive un'esistenza costantemente fluttuante fra due poli: da
una parte l'accettazione dei lavoratori immigrati in quanto "individui", il loro
riconoscimento in quanto entità "concrete", e dall'altra il loro sfruttamento
in quanto massa indifferenziata, nel momento in cui sono percepiti solo
alla stregua di un'astrazione linguistica. Un atteggiamento che trova
spiegazione nell'ideologia neocapitalista e neoliberista di cui Angie stessa
è portavoce nel film, ideologia di cui infatti essa si serve per giustificare i
propri comportamenti al padre, coscienza critica del film. Da questo punto
di vista il film di Loach è più amaro ma, forse, più vicino alla realtà
contemporanea di quanto non lo siano quelli di Comencini e di Cantet, che
scelgono di relegare al di fuori dello schermo, ossia lontano dalla nostra
visione, proprio quelle entità astratte, preferendo non parlarci di
delocalizzazione della produzione come causa dei licenziamenti o di
logiche globalistiche sottostanti alle fusioni aziendali. In ogni caso da tutti
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e tre i film emerge come la realtà lavorativa europea sia oggi
caratterizzata dal disorientamento, dall'incertezza e dalla instabilità
causate dalla precarietà e, in ultima istanza, dalla globalizzazione.11
VI. Bibliografia
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Note:
1
Il cinema di Loach, in questo senso, fa proprie questioni quali la mondializzazione e
deterritorializzazione che hanno messo in crisi simboli e riti di appartenenza del passato
nella nostra società. Vedi: A. Bonomi. Il trionfo della moltitudine. Forme e conflitti della
società che viene. Torino: Boringhieri, 1996. Citato in M. Henninger, Post-Fordist
Heterotopias: Regional, National, and Global Identities in Contemporary Italy , in «Annali
d’Italianistica», n. 24, 2006, p. 181.
2
Per la differenza tra i concetti di "nationalism" o "national identity" e quelli di "national
specificity" o "specific cultural formation", si veda: P. Willemen, The National Revisited, in
Theorising National Cinema, V. Vitali e P. Willemen (a cura di), London, BFI, 2006, pp.
29-43.
3
Un libro molto influente negli anni Novanta in Francia fu proprio La misère du monde
(1993) del sociologo Pierre Bourdieu che raccoglieva testimonianze di problemi sociali e
lavorativi. Il pensiero e l’impegno di Bourdieu avevano messo pure in luce i limiti del
neoliberismo e dei discorsi che legittimano la "globalizzazione". Per le connessioni tra il
cinema francese contemporaneo e il pensiero di Bourdieu si veda: M. Wayne, The
Politics of Contemporary European Cinema. Histories, Borders, Diasporas, Bristol,
Intellect, 2002, pp. 57 e segg.).
4
Come spiega Martine Danan, il cinema di banlieue, «with little-known or sometimes
non- professional actors has revived a form of realism and social consciousness often
neglected since the New Wave. Films [...] often aim at a harsh social commentary about
characters beset with problems of unemployment, violence and racism in provincial
settings or underprivileged environments, especially suburbs [...]». M. Danan, National
and Postnational French Cinema, in Theorising, cit, p.179.
5
Il pregio di Ressources Humaines è di riportare «class conflict back into the public
visibility» e «having underlined how corporeal struggle had become effectively detached
from voice of collective resistance, it then works to bring the two back together [...] the
struggle [...] takes on a collective, public and discursively mediated form». M.
O’Shaughnessy, The New face of Political Cinema. Commitment in French Film since
1995, New York, Berghahn, 2007, pp. 125-126.
6
«La legislazione italiana vigente in tema di mobbing è variopinta nel senso che non
esiste una lex specialis all’uopo stilata per combattere tale fenomeno, ma esistono delle
norme introdotte per contrastare taluni specifici comportamenti che sono utilizzate anche
per il Mobbing. Così si può trarre una fonte legislativa per stigmatizzare il Mobbing dalla
normativa relativa ai doveri del pubblico dipendente, oppure dallo Statuto dei Lavoratori
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ed in particolare quelle che sanzionano la discriminazione politica, religiosa, sessuale;
oppure quella che punisce l’abuso di potere o che riconosce il principio del Neminem
laedere (art. 2043 C.C.) o limita il Ius variandi del datore di lavoro (art. 2103 C.C.). Si
tratta comunque di applicazioni teoretiche che la giurisprudenza sfrutta per fondare le
proprie decisioni in contrasto al Mobbing. Da più parti si è levata, quindi, la protesta nei
confronti del legislatore, affinché si adoperi per promulgare una legge specifica che
definisca il Mobbing, le parti coinvolte nel fenomeno, le casistiche e soprattutto le
modalità di contrasto, incluse le opportune sanzioni pecuniarie e, perché no, penali»,
<http:// www. uniroma1. it/ organizzazione/ comitati/ mobbing/ normativa.php> (20 giugno
2009).
7
Da «Rassegna sindacale», n. 6, 12-18 febbraio 2004, <http:// www. rassegna. it/ 2004/
lavoro/ articoli/ mobbing.htm> (20 giugno 2009).
8
B. Luciano ha fornito una dettagliata analisi del film di Comencini in Mobbing: A
Cinematic Indictment of Psychological Violence Against Women in the Workplace , in S.
MacDonald e S. Scarparo (a cura di), Violent Depictions: Representing Violences Across
Cultures, Cambridge, Cambridge Scholars Press, 2006, pp. 90-104. Luciano considera il
mobbing alla stregua di una forma di violenza contro la donna: « Mobbing is a call to arms
to all women to find the strength to rise up and fight to liberate themselves from the
position of victims of violence and to regain their subjectivity» (p. 102).
9
Tale analisi ovviamente si inserisce nel solco di una ricca tradizione filosofica. Tra gli
altri si veda E. Balibar, La crainte des masses, Paris, Galilée, 1997.
10
«La nozione di violenza oggettiva assunse una nuova forma con il capitalismo. È
troppo semplicistico proclamare che lo spettro di questo mostro autogenerantesi e che
prosegue il suo cammino senza tenere in considerazione qualsivoglia preoccupazione
umana o ambientale sia un’astrazione ideologica e che dietro a questa astrazione vi
siano persone reali [...]. Il problema è che questa "astrazione" vige non solo nell’errata
percezione della realtà sociale da parte dei nostri speculatori finanziari, ma essa è "reale"
precisamente nel senso che determina la struttura dei processi sociali materiali: il destino
di interi strati di popolazione, e a volte di interi paesi, può essere deciso dalla danza
solipsistica delle speculazioni di capitali, la quale persegue il suo scopo di raggiungere il
profitto totalmente indifferente rispetto a quanto il suo movimento sia in grado di
influenzare la realtà sociale. [...] Qui risiede la fondamentale violenza sistemica del
capitalismo, molto più perturbante di ogni violenza diretta precapitalistica di tipo socioideologico: questa violenza non si può più attribuire a individui concreti e alle loro "cattive"
intenzioni, ma è puramente "oggettiva", sistemica, anonima». S. Žižek, Violence. Six
Sideways Reflections, New York, Picador, 2007, pp. 12-13.
«Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/>
11
Come scrive M.P. Wood, nell’Europa contemporanea «individuals’ conception of their
identity are rendered more complex through experience of other gender, ethnic and racial
identities either on their home territory or through the experience of deterritorialization
and constant exposure to global institutions, events and movements». M.P. Wood,
Contemporary European Cinema, London, Hodder Arnold, 2007, p. XVII. La
deterritorializzazione tipica del mondo contemporaneo produce instabilità in quanto essa
«brings laboring populations into lower-class sectors and spaces of relatively wealthy
societies». A. Appadurai, Disjuncture and difference in the global cultural economy , in M.
Featherstone (a cura di), Global Culture: Nationalism, Globalization and Modernity ,
London, Sage, 1999, pp. 295-310, citato da Wood, cit., p. XVII.
Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2009
<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/Colleoni.html>
Giugno-dicembre 2009, n. 1-2
Questo articolo può essere citato così:
F. Colleoni, Rappresentazioni di lavoratori precari del cinema europeo.
Comencini, Cantet, Loach, in «Bollettino '900», 2009, n. 1-2,
<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/Bouchard.html>.