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Macchinine telecomandate
verso la città morta
di Cristiano de Majo
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Angie e Bozz
di Marco Pellegrini
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Mister Babali
di Carola Susani
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Alma e lo strano omicidio
a Cesenatico
di Grazia Verasani
Illustrazioni di Sandro Fabbri
Angie e Bozz
di Marco Pellegrini
Tanto per cambiare, Angie Rossi, quindici anni, piercing luccicante
sul naso, aveva perso il tram.
Il numero 24 scivolava sui binari come un’inutile cometa, spariva all’orizzonte del cavalcavia, lasciandola sola alla fermata di via
Ripamonti, periferia di Milano sud. La città era particolarmente sfigata in quel punto: case troppo alte, giardini trascurati, un supermercato marrone-beige. Angie non ci viveva troppo male, questione d’abitudine; insomma, ci stava dentro, non era un motivo di stress. Certo
piazza Duomo faceva più figo, a parte i piccioni e il macello che c’era
il sabato pomeriggio. Tipi che andavano a cercare le tipe. E contrario.
Il sabato pomeriggio era uno sbatti totale. Comunque quello non era
la cosa di cui preoccuparsi.
Sette e venticinque.
Era già tardi.
Angie si mordeva le labbra. Tutto congiurava per aumentarle lo
sbattimento. E sì che quella mattina era partita da casa in perfetto orario, talmente perfetto che aveva dimenticato di mettere in cartella il
libro di Matematica con gli esercizi svolti. Dal numero 221 al 280.
Un’enormità, non poteva arrivare senza. All’idea di sentirsi le menate
della prof s’asciugava. Per una volta che aveva fatto i compiti se li era
scordati. Che babba. Era tornata indietro di corsa. Pioveva. Non che
venisse giù forte, ma abbastanza per rovinarle i capelli. Le veniva da
piangere. S’era svegliata all’alba per farsi lo shampoo e averceli perfetti col phon: aveva fregato il profumo di Chanel a sua madre, s’era
ripassata le ciglia, ravvivata le guance col fard. Quand’era uscita di
casa, alle sette in punto, era quasi da urlo, il passo da fotomodella, i
capelli che le svolazzavano sulle spalle, come le tipe della tivù. Ora l’u-
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midità glieli stava già arricciando. Miseriaccia nera. S’era tirata sulla
testa il cappuccio dell’impermeabile, sapendo che non sarebbe servito a
niente. I capelli erano flosci come stoppa. Quando pioveva doveva mettere il gel, quintali, farsi la piega all’indietro e ripassarli settecento volte.
Aveva cannato anche con le scarpe di Prada. Suo padre gliele aveva comprate sulla fiducia, bevendosi la promessa che avrebbe dato il massimo in
tutte le materie, ergo studiare di brutto. Comunque Italiano l’aveva recuperato, per il resto doveva solo starci dentro, bella concentrata di testa.
Angie s’era lasciata sfuggire un sospiro nervoso.
Le scarpe erano tutte inzuppate. Saranno state di Prada, ma per
camminarci con la pioggia facevano pena. S’era affacciata fuori dalla
pensilina per vedere se arrivava il tram. Un gocciolone assassino le aveva
bagnato la fronte, devastandole il trucco. Il fondotinta era out, come
diceva quella d’Inglese: la odiava, aveva un alito pestilenziale, l’accento di
Reggio Calabria, altro che quello di Oxford. Quando spiegava non si
capiva una mazza, stretta coi voti, uno zero totale. Il gocciolone di prima
le si era incuneato nella congiuntiva, facendo scempio della matita nera.
Angie si sentiva due occhi da famiglia Addams. Aveva cercato di darsi
una sistemata veloce in quel mezzo loculo plastificato che chiamavano
fermata del tram. Il pannello dietro i sedili era tappezzato di scritte oscene: i writer c’erano passati un milione di volte, milioni di firme irriconoscibili, una sopra l’altra. Qualche disegno del cazzo. Un pugno chiuso.
Un bel campionario di numeri di cellulare falsi. Parolacce. Menosi
“TVB”, “TVTB”, “6Figo” e via discorrendo. In quella poltiglia colorata
c’era anche la dichiarazione d’amore che le aveva fatto Andrea Brighi,
quello di II A, con cui l’anno scorso aveva stabilito il record di fidanzamento: due mesi; lui aveva scritto “ANGIE E ANDREA FOREVER”, il
tutto incorniciato in un cuore blu (si vede che lo spray rosso l’aveva finito). Erano stati insieme dal 21 febbraio al 21 aprile dell’anno scorso.
Poi lei l’aveva mollato.
Andrea Brighi era troppo pirla.
A parte che si faceva le canne, un mezzo babbo, ma non sapeva
neanche baciare bene. Per stare due minuti con lui le toccava andarlo a
vedere agli allenamenti di calcio, spararsi due ore di metrò, fino a
Cernusco sul Naviglio. Neve o ghiaccio, lui giocava sempre. Dall’altra
parte della città. Non ne valeva la pena. Brighi baciava male. Gliel’aveva
spiegato che doveva fare piano con la lingua, che baciarsi non era come
fare gol. Aveva pure l’apparecchio odontoiatrico. Ad Angie non dava
fastidio, cioè non che fosse il massimo, ma poteva passarci sopra. Solo
che Andrea Brighi era troppo imbranato. Fissato con la crema autoabbronzante: se ne metteva quintali in faccia, solo in faccia, quel babbo, e
poi gli restava il collo bianco come uno struzzo e la fronte arancione.
«Ma almeno dattela dappertutto ’sta cavolo di crema!», gli diceva lei; lui
s’offendeva, attaccava col muso. Gliela menava. Un giorno l’aveva becca-
to che faceva il figo con una della I C (se la tirava da uomo vissuto,
figuriamoci) e aveva sclerato. L’aveva lasciato in mezzo secondo, senza
manco guardarlo. Era stata lei a mollarlo, che fosse chiaro, non il contrario come qualcuno diceva a scuola. Andrea c’era stato male, gliel’aveva detto la sua amica Boffi. Aveva anche pianto. Comunque Angie
Rossi adesso era single. E voleva rimanere tale. Sola. Libera. Nessuno
che le facesse le menate. Nessuno da consolare tra i pulcini dell’Inter.
Voleva il nulla intorno, il deserto, come alla fermata del tram.
Intanto del 24 nemmeno l’ombra.
Tipico.
Mentre mandava il suo primo sms (cazzo le stava finendo il credito) era arrivato Tommy Bozzi, detto Bozz, il rocker della scuola.
«… Ciao Angie».
«Ciao Bozz».
Pure lui era in ritardo, ma non se la menava. Almeno non all’apparenza. Vantava il record di sospensioni, note sul registro, canne rollate. Collezionava cartine. Era capace che tirava fuori le Rizla azzurre
anche lì alla fermata. Angie sperava di no, non si sa mai che passasse
qualcuno che conosceva, che lo dicesse a sua madre, che l’avrebbe
detto a suo padre e poi apriti cielo. Bozz lo frequentava poco, si salutavano, ma tutto lì. Sì, in effetti lui le stava dietro, si capiva lontano un
miglio. Ma niente di più. Era stato suo compagno di classe in prima,
poi lui aveva cambiato sezione. Una storia d’incompatibilità con quella d’Inglese, la supermenosa professoressa Introppia, con l’accento
sdrucciolo (ci teneva), che si pronunciava Intròppia.
E guai a sbagliare.
Subito ti correggeva a male parole.
Intròppia.
Bozz l’aveva soprannominata Ingroppa. Quando entrava in classe faceva il verso del cavallo per farla sclerale. Faceva svenire dalle risate. Bozz aveva i capelli rasta, suonava la batteria in un gruppo trash
metal. Aveva un giubbotto Levi’s lercio da morire, un bracciale da
dobermann sul polso glabro. Non era brutto, ma gli piaceva fare la
faccia cattiva. In fondo al cuore amava la musica. Ma non solo. Aveva
un segreto. Ogni volta che incontrava Angie Rossi si sentiva svenire.
Perdeva sicurezza, straparlava. Voleva fare brutto, ma s’emozionava.
Attaccava discorso e non gli veniva mai niente d’interessante da dire.
A volte si preparava la lista di cose fighe, tipo il cellulare nuovo, l’iPod,
l’ultimo concerto su Mtv. Oppure la birra. Oppure “Tre Metri Sopra
al Cesso” (come si chiamava quel libro?) quello che leggevano le asciugone menose. Bozz si preparava tante cose da dire. Poi arrivava Angie
e al massimo gli usciva che aveva preso 3. Proprio misero. Parlare di
scuola faceva troppo babbo. Mai tirare in ballo i voti. Bisognava fingere disinteresse. Noia. Fastidio. Ilarità. Repulsione. Tutto, ma non
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piangersi addosso per un normalissimo 3 in Italiano. Il vero motivo per
cui Bozz s’impappinava quando incontrava Angie, con tanto di microbalbuzie da stress, era semplice come prendere “molto” in Religione.
Lui era cotto di lei.
Fatto come un melone.
Ora che erano loro due soli alla fermata del 24 non gli sembrava
vero. Giocherellava nervosamente col suo portachiavi, un teschio di
metallo ghignante, da tarro doc.
«Ma quando arriva ’sta minchia di tram?», aveva buttato lì.
Avrebbe voluto imprimere al concetto un timbro maschio e aggressivo, fare il duro, ma gli era uscito un urletto gay.
Colpa dell’ansia.
«Il tram è appena passato», aveva detto Angie.
«Sfiga nera».
«Com’è che non sei col motorino, Bozz?».
«Me l’hanno ritirato da un mese, gli sbirri m’hanno beccato senza
casco».
«Che palle».
«…Te la faresti una canna?».
«No grazie».
«Tanto il cioccolato non ce l’avevo».
«Perché me l’hai detto?».
Bozz non sapeva cosa risponderle. Non sapeva mai cosa dirle di
veramente giusto.
«… Così».
Non poteva certo spiegarle che era annichilito dai suoi occhi scuri,
che avrebbe voluto rapirla e portarla sulla stella più alta che c’era. Se ne
stava a testa bassa per nascondere il rossore.
«Suoni sempre la batteria?», aveva detto lei.
«Sì, un gruppo da paura».
Angie non aveva mostrato più di tanto interesse. Per lui era stata
una pugnalata alla schiena. Continuava a gingillarsi col portachiavi, il 24
non arrivava.
«Come si chiama il tuo gruppo?».
«Black Devil».
«Tipo Marilyn Manson?».
Lui ci aveva pensato, in effetti faceva brutto. «Un po’», aveva detto.
Ad Angie purtroppo non piaceva Marilyn Manson e quelli che
andavano vestiti da mezzi vampiri. Però Bozz non le sembrava il tipo,
aveva i capelli rasta.
«A me Marilyn Manson m’asciuga peggio della Intròppia», s’era
corretto lui, che poi manco lo conosceva, Marilyn Manson. «Noi facciamo roba diversa, mica siamo satanisti».
Avrebbe dato l’anima per uscirsene con qualcosa di figo.
«… A settembre facciamo un concerto all’oratorio di Opera»,
aveva detto.
Si sentiva un cretino.
L’oratorio.
Roba da babbi.
Per fortuna Angie non aveva sentito, perché le era arrivato un
messaggio sul cellulare.
«…. Chi è che suona a Opera?», gli aveva chiesto di nuovo.
«… Noi… cioè…i Black Devil».
Bozz s’era messo a ravanare nelle tasche del giubbotto. Aveva la
foto del gruppo nel portafogli, in pratica solo quella, perché a soldi era
rasato a zero. «… Ecco, questa è la band».
Erano tutti e quattro con gli occhiali da sole, gli anfibi, i jeans
strappati. Il cantante era un tamarro da dieci e lode, uno di Rozzano,
con la maglietta nera degli AC/DC. Bozz era il più alto, anche perché
aveva un anno in più, sedici, compiuti a gennaio.
«Vieni bene in foto», gli aveva detto Angie.
Bozz non s’aspettava quel complimento, era di nuovo arrossito.
Un peperone con dei brufoli al mento.
«… Hai per caso una sigaretta?», le aveva chiesto.
«Camel».
«Ok».
Troppo figo spararsi una zizza. Angie Rossi aveva tirato fuori il
pacchetto dalla cartella, un bel pacchetto di Camel filtro, mezzo
schiacciato nel libro di Storia. Il suo zaino era pieno come un uovo,
quello di Bozz pure. Troppo peso. I prof li caricavano in maniera allucinante.
«Ce l’hai da accendere?», aveva detto lui.
Con la Camel in mano, Angie si sentiva una diva. Come su un
palcoscenico. Un film. Soffiava il fumo con uno sguardo carico di
significati, intenso, da donna vissuta. Però aveva dovuto reprimere un
colpetto di tosse, sperando che Bozz non se ne fosse accorto. In effetti Angie aveva cominciato a fumare solo da un paio di settimane, ma
non per finta, come quella deficiente della Repossi: lei aspirava, la
Repossi invece non lo mandava giù. Bozz la guardava distrattamente.
Aveva la Camel che gli penzolava dalle labbra, stile James Dean.
Sembrava padrone di sé. In realtà era in preda all’ansia da prestazione. Fumare sapeva fumare, solo che con Angie le sue certezze vacillavano sempre. Per non sfigurare aveva fatto un tiro da guinness dei primati, una nuvola di fumo, che aveva appannato la fermata del tram.
Forse aveva anche esagerato, perché subito dopo s’era sentito le gambe
molli, un mezzo collasso.
Angie l’aveva visto sbiancare.
«… Tutto Ok?».
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«Sì, sì».
«Te la ricordi la Repossi?».
Bozz aveva un po’ rantolato. «… Sta con Brighi».
«Bella coppia di babbi».
«Già».
«Lei è uno zero».
«Si sa».
Lui si stava piano piano ripigliando, aveva sempre la sigaretta in
mano, ma l’idea di fare un altro tiro gli dava il vomito. Però non poteva
mica buttarla appena accesa, era da sfigato far vedere che stava male per
una Camel filtro.
L’aveva salvato il tram.
Il 24 stava arrivando con un ritardo di dieci minuti, perché un SUV
aveva parcheggiato sulle rotaie. Il mezzo era stipato all’inverosimile e
quelli che stavano sopra non volevano farli salire. Bozz aveva spintonato
di brutto, finché non ce l’avevano fatta a ritagliarsi un angolino in coda.
Un paio di vecchiette avevano alzato gli occhi furibonde, ma forse ce l’avevano con gli zingari che suonavano il violino. Bozz non aveva timbrato
il biglietto. Ci mancava che passassero i controllori. L’ultima volta gli
erano corsi dietro per mezzo chilometro. Per poco non gli partivano le
tonsille. Mai visto dei controllori così resistenti. Angie invece aveva l’abbonamento scaduto. Oggi. Minchia che stress. Mancavano ancora nove
fermate. Il vagone beccheggiava sulle rotaie tra gli schizzi di pioggia, le
scampanellate del guidatore. Bozz pregava di scampare agli ispettori
dell’Atm, perché di correre non aveva la forza. Pressione bassa. Come
l’altro giorno a Educazione Fisica. Quel pazzoide gli aveva fatto fare dieci
giri di pista alle otto di mattina, con mezza classe che aveva ancora cappuccio e brioche in gola.
Tutto era filato liscio, niente multa. Quand’erano scesi dal 24 erano
già le otto e mezzo. Calcolando il pezzetto fino a scuola sarebbero arrivati alle otto e trentacinque, giusto in tempo perché li sbattessero dal
vicepreside. Angie si vedeva già tutta la scena. Cazzo. Quello non aspettava altro che arrivasse in ritardo. Ti faceva due palle che t’ammazzava.
Angie però aveva già la scusa pronta: “le sue cose”, anche se non era vero.
Col mal di pancia i prof ci cascavano sempre, anche tre volte al mese. Se
la sarebbe cavata entrando alla seconda ora. A farsi le due palle con quella d’Inglese. Sempre meglio della diffida. Aveva dato un’occhiata all’orario: oggi avevano l’incontro con la psicologa, l’esperta d’educazione sessuale. C’era pure il tema d’Italiano. Il prof Conedaro metteva sempre il
tema alle ultime due ore del sabato, quand’erano lessi. Lui si leggeva “il
Manifesto” e loro a scrivere di tutto, minimo quattro facciate, sennò la
sufficienza non c’era. Conedaro era un uomo allampanato, i capelli neri,
tenuti insieme da una specie di coda equina. Sopra era pelato, ma la coda
era lunghissima. Aveva un look penoso, da sfiga del terzo mondo. Non si
lavava e pure se aveva ottant’anni portava l’orecchino. Voleva che gli
studenti gli dessero del “tu”. Si vociferava che anni prima si fosse fatto
una di quinta, ma a spargere la notizia erano stati quelli di
Comunione e Liberazione. L’unico otto in Italiano Angie l’aveva preso
con un tema sui punkabbestia. Cazzo li odiava, ma aveva scritto che
era colpa della società. Conedaro era rimasto colpito. In seguito l’aveva invitata a una riunione di anarchici, perché diceva che era una
ragazza intelligente. Angie c’era pure andata, una rottura di palle epocale. Conedaro aveva litigato con un altro prof, se n’erano dette di
tutti i colori per due ore e mezzo. Comunque con Italiano non aveva
problemi, alla fine il sei lo rimediava sempre. Con Matematica invece
non era mai andata oltre il 5+. Questione di feeling. L’Intròppia la
faceva sclerare, sempre a parlare di com’erano bravi i suoi figli e
quant’erano ignoranti loro. Ma rilassati! Pigliati una camomilla! Solo
all’idea di trovarsela davanti le ci voleva una flebo.
Comunque ormai era a scuola.
Dura realtà.
Angie Rossi era entrata in classe alle otto e cinquanta bagnata
come un pulcino. Lo sguardo severo della professoressa Intròppia trasudava disapprovazione. Proprio lei doveva esserci a beccarla in ritardo. Aveva scritto qualcosa di brutto sul registro, sottolineandolo in
rosso.
«Angie Rossi», le aveva detto. «Chi ti credi di essere, per arrivare
quando pare a te?».
Lei s’era seduta al suo banco con la testa bassa. «Avevo dimenticato i compiti a casa, prof».
«Sì, figuriamoci».
«È la verità».
Angie aveva un desiderio folle di uscire e sbattere la porta. Per
fortuna non l’aveva fatto, perché l’Intròppia certe cose se le legava al
dito. Aveva tirato fuori il quaderno come una brava cretina e s’era
messa a scrivere gli esercizi. Intanto pensava. A cosa esattamente è difficile dirlo. Forse all’ora d’Educazione Sessuale. L’altra volta avevano
spiegato l’uso corretto del preservativo. Quando l’aveva saputo, quella di Religione aveva dato fuori di matto. Era diventata rossa paonazza, sbraitava di brutto. Aveva scritto una lettera al preside, chiesto agli
studenti un minuto di silenzio in segno di protesta, promosso un
momento di preghiera. Nessuno se l’era cagata manco di striscio. Il
corso d’Educazione Sessuale era andato avanti, con Conedaro che ci
provava con la psicologa bionda. In effetti era una bella donna, molto
disinvolta. I suoi compagni sbavavano, tutti che se la volevano fare.
Figuriamoci. Dei bambini. Quella li inceneriva con un’occhiata. Aveva
un cognome straniero, si chiamava Esther, dottoressa Esther. Al primo
incontro avevano proprio Conedaro in classe, il quale c’era rimasto
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secco. Lei l’aveva pregato di lasciare l’aula, aveva insistito (lui voleva assistere più che volentieri).
«Senza di lei i ragazzi si sentono più liberi di parlare», gli aveva
detto.
Aveva super ragione, altro che palle. Angie l’aveva molto apprezzata. Cosa c’entrava Conedaro? Mica aveva voglia di fargli sapere i fatti
suoi. La dottoressa Esther s’era messa davanti alla cattedra. Sorrideva.
Aveva fatto l’appello, domandato se per caso qualcuno aveva già avuto
dei rapporti intimi. In classe era stato tutto un risolino isterico, con Angie
che dava le gomitate a quel poppante di Zagra per farlo smettere di squittire. Comunque all’inizio non aveva aperto bocca nessuno. Nessuno
osava. Solo la Repossi, la solita demente, se n’era uscita che i rapporti sessuali si devono avere solo dopo sposati. Che ipocrita. Tra il primo e il
secondo quadrimestre s’era già passata mezza scuola. Se l’era fatta anche
Bozz, ne era quasi sicura.
Angie aveva scacciato il pensiero.
Un po’ le dispiaceva. Forse era anche gelosa, ma non lo ammetteva.
Il fatto è che lei era vergine. Angie Rossi vergine. E allora? Ok, si spacciava per donna vissuta e per questo i ragazzi le piazzavano subito la mano
nelle parti basse. A furia di scaricare i porno sul cellulare i tipi non sapevano più mettere insieme tre parole d’amore in croce. Che palle il sesso.
Angie Rossi sapeva tutto sulla contraccezione, ma a un ragazzo l’aveva
toccato una volta soltanto. Da fuori. Quell’idiota di Andrea Brighi, prima di mollarlo. Le aveva fatto impressione, sembrava un pennarello compresso nei jeans. La sua compagna di banco, Silvana Boffi, invece l’aveva
già fatto, insomma non era più vergine. Il suo tipo era uno di quarta, che
era venuto subito. Nemmeno il tempo di scartare il preservativo. Era vergine pure lui e adesso rischiavano. Angie non sapeva dove avesse trovato
il coraggio di dirlo alla psicologa.
Raccontarlo davanti a tutti.
La dottoressa prendeva appunti. «Fai il test di gravidanza», le aveva
detto. «Lo trovi in farmacia».
Per fortuna alla Bossi era andata bene, anche se quello con cui stava
insieme l’aveva lasciata.
Rimanere incinta.
Solo a pensarci Angie Rossi rabbrividiva.
Non voleva pensarci. In fondo non lo riteneva possibile. Era la vita
a inquietarla. Non ci stava dentro. Certo, truccata sembrava più grande,
quasi una donna, ma aveva lo stesso paura. Era a metà strada con tutto.
Mancava un mese alla fine della scuola. Mentre meditava sul suo prossimo futuro le era arrivato un messaggio di Bozz: “sto sclerando con quella di Geografia”. Non ricordava di avergli dato il suo numero di cellulare. Comunque le faceva piacere. Le sembrava d’avercelo davanti. Le aveva
scritto qualcosa di poco impegnativo. Però significava che stava pensan-
do a lei. Angie aveva sorriso. Era quasi felice. Aveva risposto all’sms.
Doveva assolutamente darsi un po’ di matita nera sugli occhi, insomma sistemarsi prima dell’intervallo.
Bozz l’aspettava al bar.
«Posso andare ai servizi?», aveva chiesto alla prof. «… È molto
urgente».
Con quell’asciugona dell’Intròppia bisognava sempre esagerare,
metterle il dubbio che una stava per farsela addosso.
«Vai».
Angie era uscita dall’aula con dignità, senza simulare diarree
incontinenti come faceva la Repossi. In fondo aveva solo chiesto di
uscire, possibile che la mettesse sempre giù così dura? Il bagno delle
femmine aveva un grande specchio che s’allungava sui lavandini.
Angie era sola. Aveva tirato fuori i trucchi, facendo più veloce che
poteva. S’era guardata. Poi ancora. Aveva osato anche un piccolo
défilé. S’era alzata in punta di piedi. Peccato non avere i tacchi al posto
delle Prada, che poi s’erano tutte sporcate. In effetti era alta solo un
metro e sessantacinque, troppo pochi per una modella. Finita la scuola, Angie Rossi voleva fare la psicologa (la dottoressa Esther l’aveva
molto influenzata) oppure la mannequin. Non sapeva ancora bene.
Magari anche l’attrice. Era incerta. Forse non era abbastanza bella.
Aveva fatto un po’ d’espressioni menose allo specchio. C’era qualcosa
che le sfuggiva, un velo incerto, che le imporporava le guance. Guance
rosse, da brava cretina. Doveva ancora darsi il rossetto quand’era suonato l’intervallo.
Bozz l’aspettava appoggiato al muro del bar.
C’era una coda pazzesca, inutile pensare di raccattare un panino.
Lui le aveva sorriso, l’aveva guardata rapito per mezzo secondo, un
tempo davvero troppo breve, ma Bozz era timido.
«Ciao Angie…».
Bozz aveva subito abbassato gli occhi, ma aveva trovato il coraggio di prenderle la mano.
Dio che storia.
Se Angie gliel’avesse lasciata sarebbe stata la fine. Sarebbe
morto. Lei invece gliel’aveva stretta ancora più forte. Com’è strana la
vita, pensava.
S’era sentita catapultare lontano, forse si vergognava, un po’ le
veniva da ridere. Poi erano tornati in classe, lui le aveva detto «Ti
amo».
S’erano dati appuntamento all’uscita, per tornare a casa insieme.
Per tutta la strada non avevano parlato.
Avevano aspettato che non ci fosse nessuno. Poi il bacio.
La fermata del 24 era deserta, come la mattina. Il cielo però era
pieno di sole, qualche nuvola lontana, rosa, sempre più piccina.
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Gli autori
CRISTIANO DE MAJO è l’autore di “Macchinine telecomandate
verso la città morta” (pag. 5). Nato nel 1975, ha esordito con
il racconto “Sistema Elefante” (Punctum). Poi ha scritto “Italia 2 Viaggio nel paese che abbiamo inventato” con Fabio Viola
(minimum fax) e “Vita di Isaia Carter, avatar” con Francesco
Longo (Laterza). Ha inoltre pubblicato racconti, saggi e reportage
su “Diario”, “Internazionale”, “Il Verri” e Velvet di Repubblica.
«Vivo a Napoli», dice, «in una strada lunga 4,3 chilometri.
Il turismo è una delle mie ossessioni».
MARCO PELLEGRINI è l’autore di “Angie e Bozz” (pag. 17).
Milanese, classe ’63. Per lui scrivere è come sognare.
L’unica differenza è che i sogni non se li ricorda. Freud direbbe
che li rimuove. Quello che scrive invece rimane. Ha pubblicato
recentemente il suo primo romanzo, “Il Veleno di Capri”
(edizionidilatta). Quando si mette davanti al computer cerca
di non pensare a niente, si concentra sulle parole, una dietro
l’altra, come se stesse accarezzando una chitarra jazz.
Quando rialza la testa non sa se sarà musica, libertinaggio
o poesia. «Magari non sarà niente», dice. «Non che abbia
importanza. La mia parte di sogno se n’è già andata via».
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CAROLA SUSANI è l’autrice di “Mister Babali” (pag. 27).
Nata nel ’65 a Marostica, vicino a Vicenza, abita a Roma.
Dai quattro agli otto anni ha vissuto nella Valle del Belice,
in Sicilia. Di quel periodo parla il suo “L’infanzia è un terremoto”,
uscito quest’anno con Laterza. Ha scritto romanzi e libri
di racconti, per grandi e per ragazzi. È redattrice di “Nuovi
argomenti” e collabora con la cronaca romana di “la Repubblica”.
Ha due bambine: Clara che ha sette anni e Nina che ha sette mesi.
«Quest’estate», dice, «torneremo insieme nella Valle del Belice».
GRAZIA VERASANI è l’autrice di “Alma e lo strano omicidio
a Cesenatico” (pag. 37). È nata a Bologna, nel ’64. Nota per i suoi
romanzi noir con l’investigatrice privata Giorgia Cantini:
“Velocemente da nessuna parte” e “Quo vadis, baby?” (da cui
Gabriele Salvatores ha tratto un film e a cui si è ispirata una serie
televisiva su Sky). Dopo che il Teatro Stabile di Bologna ha messo
in scena la sua pièce “From Medea”, sta scrivendo altri testi
teatrali. Passerà l’estate a presentare il suo ultimo libro: “Tutto
il freddo che ho preso” (Feltrinelli). Dice: «Non amo andare in
vacanza. E poi quando Bologna si svuota, in agosto, è bellissima».
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Ogni mese Velvet pubblica un racconto inedito. È estate, e allora
ve ne proponiamo quattro, da leggere come in un libro, in vacanza.
C’è la storia d’amore di Carola Susani. Il giallo balneare di Grazia
Verasani. Il racconto “turistico” di Cristiano de Majo. E lo spaccato
di vita generazionale di Marco Pellegrini. Tutti e quattro un po’
surreali. E molto italiani.
P. S.: Avete anche voi un racconto nel cassetto ? Mandatecelo.
Di questi quattro ce n’è uno che vi è piaciuto in modo particolare?
Votate il vostro racconto preferito. Classifica e buoni inediti
verranno pubblicati. Andate su www.seidimoda.com. Coraggio!
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