Volume 38 - Società Italiana di Pediatria
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Volume 38 - Società Italiana di Pediatria
Direzione Generoso Andria, Napoli Gianni Bona, Novara Antonio Cao, Cagliari Liviana Da Dalt, Padova Alberto Martini, Genova Pierpaolo Mastroiacovo, Roma Luigi Daniele Notarangelo, Boston Fabio Sereni, Milano Luigi Titomanlio, Napoli Alberto Villani, Roma Redazione e Amministrazione Pacini Editore S.p.A. Via Gherardesca, 1 56121 Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 [email protected] Redattore Capo Marina Macchiaiolo, Roma Abbonamenti Comitato di Redazione Salvatore Auricchio, Napoli Stelvio Becchetti, Genova Sergio Bernasconi, Parma Enrico Bertini, Roma Andrea Biondi, Monza Sabrina P. Buonuomo, Roma Alessandro Calisti, Roma Mauro Calvani, Roma Virgilio Carnielli, Ancona Gaetano Chirico, Brescia Antonio Correra, Napoli Maurizio de Martino, Firenze Pasquale Di Pietro, Genova Alberto Edefonti, Milano Alberto Fois, Siena Renzo Galanello, Cagliari Carlo Gelmetti, Milano Achille Iolascon, Napoli Giuseppe Maggiore, Pisa Paola Marchisio, Milano Bruno Marino, Roma Eugenio Mercuri, Roma Paolo Paolucci, Modena Franca Rusconi, Firenze Michele Salata, Padova Fabian R. Schumacher, Brescia Alfred Tenore, Udine Stampa Industrie Grafiche Pacini, Pisa Invio gratuito per i Soci SIP. Prospettive in Pediatria è una rivista trimestrale. 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Ulteriori informazioni sui prodotti oggetto di pubblicità reperibili su: www.prospettiveinpediatria.it Volume 38 151 Luglio-Settembre 2008 INDICE numero 151 Luglio - Settembre 2008 Editoriale Gianni Bona ............................................................................................................................................................................................. 103 Ortopedia (a cura di Stelvio Becchetti) La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività: cosa deve sapere il pediatra Stelvio Becchetti, Flavio Becchetti........................................................................................................................................................... 104 Le rachialgie in età pediatrica Flavio Becchetti........................................................................................................................................................................................ 114 Pediatria dello sviluppo e del comportamento (a cura di Ennio Del Giudice) Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo Alfonso Romano, Marina Macca, Ennio Del Giudice................................................................................................................................. 121 Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale Giovanna Stefania Colafati, Rosamaria Siracusano, Claudia Mastroeni, Valentina Maglio, Antonella Gagliano, Saverio Malena, Francesco Di Salle.................................................................................................................................................................................... 133 Frontiere (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon) Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK come meccanismo unificante delle sindromi di Noonan, LEOPARD, Costello e cardiofaciocutanea: le sindromi neurocardiofaciocutanee Giuseppe Zampino, Marco Tartaglia.......................................................................................................................................................... 142 FOCUS SU: (a cura di Pierpaolo Mastroiacovo) Acido folico che cosa è, a che cosa serve Iris Scala, Renata Bortolus, Pierpaolo Mastroiacovo................................................................................................................................ 152 Linee guida / Consensus conference Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta. Linea Guida SIP-SIMEUP-SINP 2007................................. 162 I vaccini anti-papillomavirus. Consensus Conference dell’Area Pediatrica. Aggiornamento Giugno 2008................................ 175 Nel prossimo numero 152 Ottobre - Dicembre 2008 Adolescentologia (a cura di S. Bernasconi, S. Bertelloni) Novità in medicina dell’adolescenza S. Bertelloni, S. Chiavetta, C. Volta, P. Garofalo, M. Strambi, E. Dati, S. Bernasconi Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici G. Raiola, E. Dati, V. De Sanctis, M.C. Galati, S. Bertelloni Osteoporosi in età adolescenziale G.I. Baroncelli, F. Vierucci, S. Bertelloni La sindrome metabolica in età evolutiva L. Iughetti, P. Bruzzi, B. Predieri, G. Vellani, M. De Simone Malattie metaboliche (a cura di G. Andria) Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico: nuove patologie, nuovi geni/malattia e novità nel campo della diagnosi e della terapia D. Melis, F. Deodato, R. Parini, C. Dionisi-Vici Screening allargato neonatale per le malattie metaboliche. S. Tortorelli, P. Rinaldo Terapia genica nelle malattie metaboliche N. Brunetti-Pierri Frontiere (a cura di A. Cao, L.D. Notarangelo, A. Iolascon) Riprogrammazione nucleare e cellule staminali L.D. Notarangelo Focus su: (a cura di G. Andria) Il trattamento dell’emicrania G. Galli Gibertini, L. Morin, L. Teisseyre, C. Wood, L. Titomanlio Linee guida Malattia di Kawasaki: linee guida italiane La febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche le basi per la migliore gestione clinica. Linee guida della Società Italiana di Pediatria INFORMAZIONI SIP (a cura del Presidente) Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 103 Editoriale L’acquisizione da parte della Società Italiana di Pediatria (SIP) di Prospettive in Pediatria ha rappresentato un significativo arricchimento della nostra area editoriale che può contare, a questo punto, di un’ampia varietà di strumenti, ciascuno con finalità specifiche. In questo panorama complessivo si innesta anche il rinnovamento editoriale di Prospettive in Pediatria. Uno dei principali obiettivi dell’attuale Consiglio Direttivo SIP è stato quello di far recuperare in pieno, alla nostra Società, quel ruolo attivo nella ricerca e nell’elaborazione scientifica che deve essere proprio di una società scientifica moderna. Anche in qualità di Vice Presidente della SIP sono sinceramente soddisfatto dei risultati fin qui raggiunti in questo ambito, frutto di due anni di serrato impegno collettivo. Cito, a questo proposito, due esempi che reputo particolarmente significativi, sia per l’importanza dei risultati ottenuti, sia perché rappresentativi del prezioso lavoro corale che ha reso possibile il raggiungimento dei risultati attesi: la Linea Guida SIP-SIMEUP-SINP su “Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta” e la Consensus su “I vaccini anti-papillomavirus”. Lo stroke, sebbene costituisca una delle prime dieci cause di morte in età pediatrica e nonostante possa comportare, per i possibili esiti, un notevole impegno per il paziente in età evolutiva e la sua famiglia (sia per aspetti clinici, che per le ripercussioni emotive, sociali ed assistenziali), è stato per anni una patologia poco conosciuta e studiata, in questa fascia di età, con una gestione clinico-terapeutica ricavata essenzialmente dall’esperienza e dagli studi sull’adulto. Anche a livello europeo gli studi e le “linee guida” in materia erano risultate particolarmente carenti, specie per quanto riguarda la gestione del bambino in fase acuta. Da qui l’impegno della SIP e delle Società affiliate per produrre specifiche linee guida. Il lavoro è durato due anni e ha portato alla definizione di sei raccomandazioni che vanno dall’indicazione di sottoporre il bambino con stoke ischemico ad un completo work up diagnostico per evidenziare eventuali ulteriori cause e/o fattori di rischio (sempre possibili), all’indicazione che il bambino con stroke cerebrale in fase acuta sia ricoverato in reparti che assicurino un monitoraggio clinico e parametrico continuo. La Consensus sul vaccino anti-papillomavirus (lavoro che ha coinvolto i più autorevoli esperti in materia in ambito pediatrico e che costituisce l’aggiornamento di quanto realizzato dallo stesso gruppo di esperti nel 2007 e pubblicato sulle principali riviste pediatriche italiane) rappresenta l’indispensabile contributo della SIP al dibattito scientifico in corso su un argomento diventato cruciale a seguito della decisione del Ministero della Salute di proporre attivamente il vaccino a tutte le adolescenti. Ma il lavoro prodotto sarebbe in parte vanificato se non diventasse, nei tempi più rapidi possibile, patrimonio comune di tutti coloro che ne sono potenzialmente interessati. Ed è per questo che nel nuovo progetto editoriale di Prospettive in Pediatria sono state previste specifiche rubriche riguardanti la formazione e la gestione dell’assistenza pediatrica, in cui saranno riportate tutte le novità in materia. L’obiettivo del nuovo Comitato di Redazione di Prospettive in Pediatria è rendere questa Rivista, già prestigiosa, un vero e proprio strumento di lavoro per i pediatri. Ritengo che l’inserimento di queste nuove rubriche sia un passo importante in questa direzione, così come ritengo altrettanto importanti, per rendere la Rivista sempre più aderente alle necessità formative ed informative dei pediatri, i vostri suggerimenti e le vostre indicazioni. Gianni Bona Vice Presidente della Società Italiana di Pediatria 103 Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 104-113 ORTOPEDIA La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività: cosa deve sapere il pediatra Stelvio Becchetti, Flavio Becchetti U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia, Istituto “Giannina Gaslini”, Genova Riassunto Gli Autori rilevano la particolare disomogeneità che oggi, in ortopedia dell’età evolutiva, si sta verificando nell’approccio terapeutico ad alcune situazioni patologiche. Nell’articolo viene affermato che la rapidità, con cui le varie procedure chirurgiche si sono evolute, ha determinato una situazione di convivenza tra vecchie e nuove terapie, spesso entrambi efficaci; le prime generalmente conservative e, se chirurgiche, più invasive; le seconde, prevalentemente chirurgiche, più tecnologiche e meno invasive. In particolare, gli Autori propongono un razionale confronto tra il nuovo approccio terapeutico e quello tradizionale in tema di piede piatto, di differenza di lunghezza e di deformità assiali degli arti, di scoliosi, di paralisi ostetriche e di patologia tumorale e pseudotumorale. Le note di tecnica fornite sull’articolo appaiono dimensionate sulle esigenze conoscitive del pediatra, che spesso si trova a dover consigliare la famiglia di un proprio assistito sulle scelte tra proposte diverse, provenienti da diversi specialisti ortopedici. Summary The Authors highlight the lack of common therapeutic approaches to some orthopedic pathological conditions affecting childhood. The rapid evolution of the different surgical procedures has determined a coexistence of old and new therapies, that are often both effective. The first ones are generally conservative and, when surgical, more invasive, while the second ones are mainly surgical, more technological and less invasive. In particular, the authors propose a rational comparison between the new and old therapeutic approaches to flatfoot, limb length discrepancy and axial deformities, scolioses, obstetrical palsies and tumor/pseudotumor. The techniques proposed in this paper address the needs of pediatricians, who often has to advise the families of their patients on which orthopedic technique proposed by orthopedic specialists is most appropriate. Nell’ultimo decennio, al pari di quanto è accaduto per altri settori chirurgici, la chirurgia ortopedica ha subito una profonda trasformazione; per quanto riguarda l’area pediatrica, l’approccio “eroico” alla chirurgia ortopedica, contrassegnato dall’utilizzo di grandi e cruenti interventi a finalità prevalentemente riabilitative, ha negli anni lasciato spazio a quello “razionale” a finalità prevalentemente preventive, caratterizzato dalla ricerca di procedure chirurgiche estremamente mirate, altamente efficaci e meno invasive. Oggi, quindi, in ortopedia infantile, si opera forse di più, ma si sono abbandonati molti estenuanti trattamenti conservativi, spesso sostenuti da grandi, pesanti e reiterati gessi, talvolta scarsamente efficaci; si opera prima, ma sono divenuti via via meno frequenti i casi in cui occorre accedere alla chirurgia maggiore. La chirurgia ortopedica infantile è divenuta un efficace mezzo di prevenzione: prevenzione dell’evoluzione delle deformità e della comparsa di deformità secondarie. Oggi, il pediatra, al quale sempre compete il primo passo verso la diagnosi precoce, si trova anche di fronte alla grossa responsabilità di consigliare la famiglia del proprio assistito circa l’accettazione delle terapie proposte dallo specialista ortopedico o in merito alla scelta tra indirizzi terapeutici differenziati, proposti da diversi specialisti consultati; oggi, infatti, convivono ancora indicazioni relative a tecniche nuove e a tecniche ormai datate, a trattamenti incruenti e a trattamenti chirurgici, ad interventi invasivi e ad interventi mini-invasivi. Per questo, il pediatra deve possedere alcune nozioni relative non solo alla diagnosi, ma anche al trattamento, soprattutto a quello chirurgico. 104 L’oggetto del cambiamento Pur essendosi verificata una trasformazione delle strategie e delle tattiche di approccio terapeutico sia in ortopedia, sia in traumatologia infantili, è di maggior interesse per il pediatra conoscere quale sia stato il cambiamento tecnico-culturale in ortopedia infantile. In questo ambito, l’oggetto del più evidente cambiamento può essere individuato nel trattamento del piede piatto, in quello delle differenze in lunghezza e delle deviazioni assiali degli arti, della scoliosi, delle paralisi ostetriche, nonché in quello dei tumori e delle lesioni pseudotumorali. Il piede piatto Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale Il piede piatto è una delle più frequenti cause di consultazione dell’ortopedico infantile, al quale spesso la famiglia, sempre ansiosa nei confronti di questa deformità, si rivolge, incurante delle assicurazioni del pediatra che ha individuato nella deformità le caratteristiche di un paramorfismo dell’età. Il termine definisce una situazione clinica che accomuna diverse entità anatomo-patologiche. Occorre innanzi tutto distinguere il piede piatto posturale da quello strutturale. Il primo è un piede la cui volta plantare ha ridotto la sua evidenza o è scomparsa, per solo effetto di una disorganizzazione motoria del suo complesso apparato muscolare. Il piede piatto strutturale è invece rappresentato da un’altera- La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività zione statico-dinamica in pronazione, sostenuta dalla deformazione, di regola ingravescente, delle sue strutture osteo-legamentose e da un concomitante loro mal allineamento, essenzialmente sostenuto dallo scivolamento, in rotazione interna e verso il basso, dell’astragalo su un calcagno forzato in valgismo. Oggi appare più corretto parlare di “sindrome pronatoria”, in quanto tale termine riesce a evidenziare meglio l’essenza della deformità, che è la pronazione dell’articolazione sotto-astragalica (Malerba et al., 1993), e a riunire e definire due situazioni anatomo-patologiche, entrambi possibili: il piede “piatto valgo”, con grande scivolamento astragalico ed appiattimento della volta plantare, ed il piede “cavovalgo”, ove lo spiccato valgismo del calcagno, che in questo caso non è accompagnato da rilevante cedimento della volta, determina una spiccata rotazione in valgo-pronazione dell’intero piede, con sollevamento del suo bordo esterno e conseguente impronta plantare evocante quella di un piede cavo. La necessità di attenzione medica al piede piatto è giustificata dal fatto che la storia naturale della deformità, se strutturale, prevede un lento aggravamento; il mal-allineamento osteo-articolare coinvolge nel tempo altri segmenti del piede ed acquisisce rilevanza funzionale, arrivando ad alterare definitivamente le caratteristiche del passo e, anche nell’età adulta, ad esporre al rischio di comparsa di un piede doloroso. Il trattamento di ieri La grande fiducia nell’ortesi, tipica della cultura ortopedica tradizionale, aveva portato a schemi di cura del piede piatto fondati sull’utilizzo della scarpa ortopedica, completa di contrafforti rigidi e di plantari, alla quale veniva affidato ogni tentativo di correzione. Infrequentemente, a crescita inoltrata o al termine di questa, nei casi più gravi e sintomatici si procedeva a complessi interventi sulle parti molli e talvolta ad interventi di artrodesi e/o resezioni a livello delle articolazioni tarsali (Lelièvre et al.,1985). Il trattamento odierno Oggi, la fiducia degli specialisti ortopedici nel trattamento ortesico del piede piatto strutturale è sensibilmente diminuita. La scarpa ortopedica, in questa patologia, è caduta in disuso e alcuni specialisti non consigliano neppure il plantare, ritenendolo raramente efficace, e rinviano la soluzione del problema ad un eventuale futuro intervento (Seringe, 2002). Tale mutazione culturale ha fatto sicuramente seguito all’ideazione di interventi chirurgici a bassa invasività, molto efficaci; le tecniche in uso oggi sono tre, quella di Castaman (Castaman, 1985), che può essere considerata la meno invasiva, quella di Giannini e quella di Nogarin. La minima invasività della tecnica non deve tuttavia indurre a eccessi di indicazione e a comportamenti rinunciatari nei confronti del trattamento conservativo; l’utilizzo del plantare, infatti, conserva ancora oggi un suo significato per obiettivi di contenimento dell’evoluzione e di correzione di deformità di modesto grado. Indicazioni L’intervento chirurgico è indicato quando, alla morfologia di piede piatto si accompagnano una o più delle seguenti situazioni: sintomatologia dolorosa, generalmente al piede o alla gamba, tendenza al valgismo dell’alluce o presenza di extratorsione tibiale molto evidente (rotule strabiche), evidenza di frequenti tendinopatie inserzionali del tendine tibiale posteriore, facile affaticamento, debolezza nella fase propulsiva della corsa o del passo, verosimile alto rischio di comparsa di sintomatologia dolorosa nell’età adulta al piede o aggravamento della deformità nell’età adulta (Di Stadio et al., 1997). Box 1 - Artrorisi seno-tarsica con viti di Castaman L’intervento, che può essere eseguito in anestesia locale e in day surgery, consiste nella realizzazione di uno stop all’eccessiva articolarità in valgo-pronazione dell’articolazione sottoastragalica, ottenuto mediante l’infissione di una particolare vite metallica (vite conica astragalica); tale dispositivo, in acciaio, è dotato di una peculiare geometria ad andamento conico, comprendente una parte liscia e una parte filettata. Sotto controllo ampliscopico, la parte filettata del dispositivo viene avvitata, secondo una precisa direzione obliqua dal basso verso l’alto, nell’astragalo, in modo tale che l’estremità della parte liscia prenda appoggio sulla contrapposta superficie del calcagno (Fig. 1). L’età migliore per l’intervento di Castaman è individuabile tra i 10 e i 12 anni. Le differenze in lunghezza degli arti Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale L’uguaglianza in lunghezza degli arti è un importante assunto nell’immagine di normalità dell’individuo. Le moderate differenze di lunghezza degli arti superiori passano di regola inosservate, dato che solitamente non provocano ricadute estetiche né funzionali sull’individuo e sulla sua percezione di normalità; così non è per gli arti inferiori, ove la parità di lunghezza costituisce una condizione irrinunciabile per una corretta postura globale, una normale deambulazione ed una corretta cenestesi osteo-mio-articolare. La differenza in lunghezza degli arti inferiori ha origini molteplici: difetti congeniti di uno dei due arti, emi-ipertrofia, esiti di osteoartrite o di lesioni traumatiche e da altre situazioni lesive la funzionalità delle cartilagini di crescita. Il trattamento di ieri In passato, alla presenza di differenze di lunghezza degli arti inferiori veniva abitualmente posto rimedio mediante l’adozione di provvedimenti protesici. In alcuni casi, veniva attuato un trattamento chirur- Figura 1. Immagine radiografica di un piede operato secondo la tecnica di Castaman. Evidente la vite conica astragalica inserita con giusta obliquità. 105 S. Becchetti, F. Becchetti gico dell’arto più lungo, consistente nell’accorciamento o nel blocco della crescita ottenuto mediante interventi di epifisiodesi, ossia di blocco chirurgico della crescita per mezzo di cambre inserite a livello delle cartilagini d’accrescimento metafisarie. I vari tentativi di superamento di questi interventi sull’arto sano, concettualmente poco accettabili, portarono quindi all’allungamento dell’arto più corto, che molto spesso è quello patologico; questi interventi si dimostrarono però nella pratica poco proponibili, in quanto non supportati da dispositivi chirurgici sufficientemente adatti allo scopo e strettamente legati a grandi apparecchi gessati. Il trattamento odierno Solo con la diffusione del sistema di Ilizarov (Ilizarov et al., 1969) e di altre tecniche di fissazione esterna (Wagner, 1978), che hanno subito nel tempo miglioramenti ed affinamenti anche per fondamentale opera di numerosi autori italiani (De Bastiani et al., 1987; Mastragostino et al., 1989), il complesso problema delle eterometrie in lunghezza degli arti in età di crescita ha potuto essere in gran parte risolto. La tecnica, al di là di un’apparente semplicità, presenta complessità di vario tipo, legate alla patologia, al paziente, all’entità dell’allungamento previsto ed alla qualità dell’osso dei segmenti in allungamento. L’allungamento graduale, che di regola è di un millimetro al giorno, la rigenerazione del tratto allungato e l’acquisizione della necessaria resistenza meccanica del rigenerato osseo, richiedono lunghi tempi di trattamento, che talvolta si aggirano attorno all’anno; a fronte di una moderata invasività chirurgica, la metodica richiede grande collaborazione da parte del paziente e della famiglia ai quali, tra l’altro, sia pur sotto monitoraggio medico, viene di regola affidata la registrazione in allungamento del sistema, da effettuarsi più volte al giorno. La tecnica chirurgica, che sempre richiede particolari competenze, è evoluta nel tempo parallelamente al sistema; oggi sono possibili montaggi molto elaborati a sviluppo tridimensionale particolarmente adatti ai casi in cui, all’ipometria, sono associate complesse deviazioni assiali. La metodica non è esente da complicanze, che possono essere settiche o, nei grandi allungamenti, legate al processo stesso di allungamento (complicanze vascolari, nervose, tendinee, cutanee ecc.) (Boero et al., 1994). Indicazioni L’allungamento chirurgico dell’arto ipometrico è indicato nelle differenze di lunghezza superiori ai tre centimetri, in soggetti quanto più vicini al termine dell’accrescimento, anche se attualmente alcuni propongono una notevole riduzione dell’età alla quale effettuare l’intervento. Nei casi in cui l’anomalia sia individuabile nell’arto più lungo, ancora oggi appare indicata l’epifisiodesi a livello di quest’ultimo (Surdam et al., 2003). L’efficacia delle tecniche, che permettono allungamenti degli arti inferiori di notevole entità (oltre ai 20 cm), ha permesso l’estensione delle indicazioni alle ipometrie bilaterali ed a settori in precedenza esclusi da qualsiasi trattamento al riguardo, come quello delle osteocondrodisplasie; la sua applicazione si è infatti dimostrata estremamente valida anche nei soggetti affetti da bassa statura per penalizzazione degli arti inferiori, come nell’acondroplasia (Boero et al., 1995). 106 Box 2 - Il sistema di Ilizarov È composto da anelli capaci di accettare, in appositi alloggiamenti ed in qualsiasi posizione sul piano dell’anello stesso, fili metallici di vario diametro (fili di Kirschner), di tenderli e di fissarne i due estremi. Nel montaggio canonico, coppie parallele di fili grosso modo perpendicolari tra loro ed all’asse longitudinale dell’osso, vengono transfissi per via percutanea e sotto controllo ampliscopico, sopra e sotto la sezione ossea prescelta per la corticotomia (interruzione della corticale ossea per tutta la sua circonferenza); vengono quindi fissati in tensione agli anelli, posizionati in numero variabile secondo configurazioni definite in funzione della tattica correttiva che il chirurgo intende adottare. Tali anelli vengono quindi connessi tra loro mediante barre filettate e dadi. Attraverso una o due piccole incisioni cutanee, che permettono il passaggio di un apposito osteotomo, viene poi realizzata sotto controllo ampliscopico la corticotomia. Le barre di connessione tra gli anelli, attraverso l’avvitamento orario od antiorario dei dadi permettono la variazione, nei due versi, della distanza tra gli anelli; l’allontanamento assiale degli anelli determina l’allontanamento delle due superfici corticotomiche e quindi l’allungamento del segmento osseo. Le deviazioni assiali degli arti Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale L’alterazione dell’allineamento assiale degli arti inferiori può svilupparsi sia sul piano frontale che su quello sagittale e si localizza di regola al ginocchio. Viene percepito dal paziente e dalla famiglia come deformità a connotazione puramente estetica; in realtà, al di fuori di quelle che per entità ed età del soggetto sono configurabili nell’ambito dei paramorfismi dell’età, le deviazioni assiali degli arti, se strutturate e di grado significativo, hanno sempre un significato funzionale, conseguente all’alterazione della configurazione meccanica di ginocchio, caviglia ed anca. Le deviazioni assiali degli arti hanno talvolta origine congenita o sono accolte entro un quadro osteocondrodisplasico; talvolta costituiscono l’esito di patologia settica neonatale o di lesioni traumatiche metafisarie. Il trattamento di ieri Nel passato, il trattamento delle deviazioni assiali frontali degli arti inferiori avveniva sempre mediante interventi di osteotomia direzionale, femorale o/e tibiale, e sintesi effettuati di regola a livello del ginocchio, che richiedevano lunghe immobilizzazioni in apparecchio gessato o l’applicazione di fissatori esterni. Successivamente, entrava nell’uso comune l’intervento di emiepifisiodesi temporanea, consistente nell’inserimento di dispositivi a livello della porzione di cartilagine d’accrescimento (fisi) di prevalente attività, capaci di determinare un blocco localizzato della crescita (Blount et al., 1949); tra questi, quelli di uso più comune sono state sicuramente le cambre, la cui dimostrata efficacia ne consente ancora l’uso corrente (Surdam et al., 2003). Tali chiodi a forma di “C”, vengono piantati, in numero di due o tre per cartilagine, a cavallo della porzione mediale o laterale delle cartilagini prescelte, rispettivamente per correzione di valgismo o di varismo; in tal modo, l’accrescimento longitudinale dell’arto, che avviene esclusivamente per opera delle porzioni di cartilagine lasciate libere, realizza la correzione della La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività deformità angolare. Raggiunta la neutralità dell’asse, i dispositivi vengono rimossi, ma, a causa del frequente inglobamento nell’osso neoformato, tale procedura risulta spesso molto laboriosa ed invasiva; inoltre, nei momenti di crescita più rapida, non infrequentemente si assiste alla deformazione, alla dislocazione ed anche alla rottura o all’espulsione di questi dispositivi; infine, non eccezionalmente, l’emiepifisiodesi perdura dopo la rimozione delle cambre, determinando un’ipercorrezione. Il trattamento odierno La correzione delle deviazioni assiali più complesse, soprattutto se associate a difetti in lunghezza, può oggi essere affrontata efficacemente per mezzo della fissazione esterna. Per quanto riguarda le deviazioni assiali semplici, recentemente è stato ideato un dispositivo che permette la cosiddetta crescita guidata; si tratta di una placca a due viti, denominata per la sua forma “8-plate”, che, pur concettualmente simile alle cambre, offre risultati migliori uniti ad una bassa invasività (Stevens, 2007). Infatti, è sufficiente l’azione di una sola placca per ogni cartilagine (Fig. 2); il suo inserimento avviene senza alcuna necessità di apertura del periostio; il suo adattamento alle variazioni geometriche e meccaniche accrescitive della metafisi permette di evitare i rischi connessi all’uso dei cambre; la sua rimozione, infine, effettuata al raggiungimento della correzione assiale, è semplice, sempre agevole e permette la ripresa della regolare funzione della cartilagine di crescita. Di regola, la correzione ottenuta viene mantenuta nel tempo; per questo motivo l’intervento può essere eseguito precocemente. Indicazioni Le indicazioni all’emiepifisiodesi temporanea mediante 8-plate sono esclusivamente riferite a deformità sicuramente strutturali, con rilevanza di tipo estetico e/o funzionale; irrinunciabile pre-requisito è l’esistenza di un accrescimento residuo dell’arto sufficiente alla correzione. L’età migliore per effettuare l’intervento, a seconda della maturazione e del sesso, può essere quella degli 11-13 anni. In altre deformità assiali, soprattutto se evolutive e in varo, come accade nel Blount, la correzione deve avvenire più precocemente. Nei soggetti giunti tardivamente ad osservazione, quando la crescita residua è verosimilmente insufficiente a permettere un’emiepifisiodesi temporanea, si deve procedere ad osteotomia (Green, 1993). Figura 2. Soggetto affetto da varismo delle ginocchia in displasia epifiso-metafisaria a fine trattamento. Evidenti le “8-plate” impiantate. Box 3 - Il dispositivo “8-plate” Si compone di una placca e due viti; le dimensioni sono molto ridotte e articolate su tre misure. La placca, metallica e di forma a 8, è dotata di tre fori, uno piccolo centrale e due più grandi periferici, questi ultimi posti ciascuno al centro di una delle due parti tonde; i fori grandi accolgono le viti, che sono autofilettanti e cannulate. Sotto controllo ampliscopico, a livello della porzione di fisi ove è prevista l’emiepifisiodesi si pratica un’incisione cutanea di circa 3 cm e si giustappone la placca per mezzo di un filo di Kirschner infitto nella fisi attraverso il foro piccolo; mediante la guida di altri due fili di Kirshner, si preparano quindi nell’osso col trapano i due fori per le viti, dopo il cui inserimento i fili vengono rimossi. La scoliosi Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale La presenza di una scoliosi viene frequentemente rilevata dal pediatra di famiglia, che ben conosce le procedure cliniche atte alla diagnosi precoce, ma altre volte viene scoperta dai genitori, che osservano il figlio durante la stagione balneare, o l’insegnante di educazione fisica o il maestro di sport; la manifestazione di una scoliosi è infatti un evento di regola improvviso e ben evidente. Determinando asimmetrie del tronco e gibbosità, la scoliosi viene vissuta con molta ansia da gran parte dei pazienti e delle famiglie soprattutto per le sue connotazioni di tipo estetico; spesso viene ricercata la soluzione del problema mediante il nuoto, essendo radicato il concetto dell’efficacia correttiva di questo sport sulla scoliosi. In realtà il problema è molto complesso ed ogni trattamento presenta dei grossi limiti: quello conservativo offre di regola soltanto un’efficacia contro il peggioramento delle curve, se non molto evolutive; per contro il trattamento chirurgico risulta capace di ridurre l’entità della curva e di determinare un notevole miglioramento estetico, ma a prezzo di un’artrodesi, che determina la completa perdita della motilità del tratto rachideo operato. La scoliosi, mai da confondere con i banali atteggiamenti scoliotici, è una deformità strutturale della colonna vertebrale a sviluppo tridimensionale, caratterizzata da un potenziale evolutivo che si attua di regola durante l’età della crescita; l’intera colonna risulta deformata in torsione (Perdriolle et al., 1993); l’alterazione della retta d’azione dei muscoli, lo stiramento o la retrazione dei legamenti e la degenerazione dei dischi intervertebrali rendono autosostenuto il processo d’evoluzione della scoliosi. Alcune curve sono ad eziologia nota, altre, la maggior parte, sono ancora oggi considerate idiopatiche; è stato dimostrato che l’origine di queste ultime è su base genetica, ma per la loro manifestazione sembra necessaria l’associazione di fattori extragenetici (Justice et al., 2003). Il trattamento di ieri Negli anni ’60, soprattutto per merito della scuola francese, che aveva evidenziato l’efficacia del trattamento conservativo integrando l’utilizzo di gessi, corsetti ortopedici e rieducazione, il problema della diagnosi e della terapia precoce della scoliosi aveva potuto raggiungere un livello di attenzione elevatissimo, da parte dei medici, della popolazione e delle istituzioni; il trattamento chirurgico, infatti, ritenuto molto rischioso e talvolta poco efficace, veniva visto 107 S. Becchetti, F. Becchetti Figura 3. Immagine radiografica di scoliosi operata con metodica di Cotrel-Dubousset; ben evidente la numerosità degli elementi di vincolo e la doppia barra. A) Rx in AP; B) Rx in LL. soltanto come rimedio al fallimento delle cure incruente. Per la correzione chirurgica veniva utilizzata di regola la barra di Harrington, dispositivo d’acciaio che agiva in sola distrazione, “aprendo” la curva ma appiattendo contemporaneamente ed ulteriormente il profilo sagittale del rachide, già appiattito dalla deformità; l’impianto, dopo l’intervento, doveva essere protetto per circa 6-8 mesi mediante un busto gessato a permanenza e poi un corsetto ortopedico. Negli anni ’80, il fiorire di una metodica di correzione chirurgica della scoliosi veramente innovativa, quella di Cotrel e Dubousset (C-D) (Fig. 3), produceva un profondo mutamento culturale attorno al paziente scoliotico; infatti, il sistema C-D, a fronte di una maggior complessità di tecnica, offriva una grande efficacia correttiva tridimensionale della curva e un significativo ripristino del profilo sagittale, senza richiedere alcuna contenzione esterna, né gessata, né ortopedica (Cotrel et al., 1984). Negli anni ’90 otteneva grande favore, nei casi più gravi, il doppio approccio chirurgico, ossia l’associazione della via anteriore con quella posteriore; l’approccio anteriore, che spesso prevedeva grandi accessi toracotomici, toraco-freno-lombotomici e laparotomici, inoltre, veniva da alcune Scuole preferito incondizionatamente a quello posteriore. Il trattamento odierno Oggi, il soggetto scoliotico viene operato più precocemente col vantaggio inconfutabile di ridurre l’estensione dell’artrodesi e quindi l’entità dell’intervento e la lunghezza del tratto anchilotico. Inoltre, l’evoluzione della tecnica chirurgica e delle caratteristiche delle strumentazioni impiantabili, tutte comunque derivate dal sistema di Cotrel e Dubousset, ha permesso soluzioni chirurgiche più efficaci accanto alla disponibilità di geometrie migliori, di ingombri più contenuti, di materiali più biocompatibili e di soluzioni meccaniche ancora più affidabili. Anche se l’essenza dell’intervento rimane ancora l’artrodesi, gli obiettivi di correzione chirurgica tridimensionale e massimale della curva e di ripristino del normale allineamento sagittale del rachide sono oggi più facilmente e costantemente raggiungibili, anche grazie ad una recente tecnica di utilizzo di “tutte 108 viti” in sostituzione dei tradizionali uncini per la fissazione vertebrale. Inoltre, le moderne tecniche di monitoraggio spinale intraoperatorio consentono oggi una riduzione sostanziale del rischio di paraplegia; l’affinamento delle tecniche anestesiologiche dedicate riduce il rischio di complicanze generali; l’affidabilità delle moderne banche dell’osso, nonché la diffusione dei sostituti ossei rende ormai eccezionale il prelievo dall’ala iliaca del paziente per effettuare un innesto osseo omoplastico. Oggi, a pochi giorni dall’intervento il paziente operato può scendere dal letto e camminare, senza alcun bisogno di busti gessati od ortopedici e, con alcune attenzioni, può svolgere già in convalescenza una vita sostanzialmente normale. Attualmente, inoltre, la via d’accesso anteriore al rachide ha ottenuto una più precisa collocazione e, per effetto di un affinamento della tecnica e della strumentazione posteriore, è meno frequentemente utilizzata. Oggi, infine, i progressi della chirurgia video-assistita e di quella toracoscopica e laparoscopica hanno permesso un utilizzo di queste tecniche a ridotta invasività anche nel campo della chirurgia vertebrale, con grandi vantaggi, in termini di minor aggressività verso il soggetto, di brevità dei tempi di degenza e di rapidità del recupero funzionale (Lee et al., 2006). Tuttavia questa particolare chirurgia espone a grandi rischi se non viene praticata da chirurghi particolarmente esperti (Norton et al., 2007); il futuro della chirurgia vertebrale guarda in questa direzione. Occorre comunque ricordare che, ancora oggi, il trattamento conservativo, se iniziato precocemente e nel rispetto della tipologia e dell’entità della curva, nonché della costituzione e della maturazione del soggetto scoliotico, se indirizzato nella giusta considerazione dell’eziologia e della prognosi, se, infine, correttamente attuato, offre possibilità di successo; di diritto, il trattamento incruento può affermare ancora la modernità del suo ruolo. Indicazioni Sono ancora oggi oggetto di discussione; tuttavia, semplificando molto, l’intervento chirurgico nel trattamento della scoliosi risulta generalmente indicato in curve di qualsiasi eziologia che, a fine crescita, superano il valore angolare di 40° o che, in corso di crescita, evidenziano un’evolutività non contenibile con mezzi conservativi. Soltanto la previsione di una cospicua crescita residua del tronco Box 4 - L’intervento di Cotrel-Dubousset Utilizza complessi sistemi d’impianto modulari, metallici, oggi in titanio. Mediante un approccio posteriore, vengono inseriti particolari dispositivi di vincolo in uno od entrambi i lati di molte tra le vertebre comprese nella curva scoliotica; tali elementi, rappresentati da uncini e viti di varia forma e dimensione e dotati di un meccanismo di serraggio, vengono connessi senza essere fissati, con due barre premodellate, posizionate ai due lati della colonna vertebrale. Mediante particolari manovre di derotazione e di raddrizzamento, si effettua un buon riallineamento tridimensionale delle vertebre, che viene mantenuto mediante il serraggio degli uncini e delle viti sulle barre; previa decorticazione degli archi vertebrali e delle apofisi trasverse, asportazione delle articolazioni posteriori e successiva connessione tra le due barre mediante particolari dispositivi, viene attuato un abbondante innesto osseo, garante di una buona artrodesi. La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività Box 5 - La chirurgia mini-invasiva della scoliosi La chirurgia toraco-scopica utilizza una sonda visiva, connessa a un apparato televisivo, introdotta nel torace attraverso un tramite di minima entità, e alcune altre piccole incisioni atte al passaggio degli strumenti chirurgici; risulta ottimale per interventi di release anteriore e di discectomia su più livelli del tratto più rigido della curva scoliotica, che successivamente verrà strumentata per via posteriore, ma per questa via è anche possibile inserire un impianto vertebrale anteriore. La chirurgia anteriore video-assistita, più usata a livello lombare, utilizza un analogo sistema, che, nei casi in cui è necessario intervenire a cielo aperto, permette di ridurre al minimo la lunghezza dell’incisione e dell’intero accesso chirurgico; non induce particolari limitazioni all’inserimento di impianti di sintesi da parte di chirurghi esperti. costituisce una controindicazione all’artrodesi posteriore, che condizionerebbe un successivo fenomeno di ulteriore evoluzione e “spanciamento” della curva (effetto vilebrequin); nei casi in cui, per operare, non è possibile attendere l’adolescenza inoltrata, occorre associare una sterilizzazione dell’accrescimento dei corpi vertebrali mediante chirurgia anteriore, possibilmente effettuata mediante toracoscopia, al fine di evitare l’effetto vilebrequin. Le indicazioni al trattamento conservativo sono limitate alle scoliosi minori ma anche alle scoliosi infantili e giovanili, che, di regola molto evolutive, ottengono con questo trattamento una remissione della loro evoluzione atta al procrastinamento dell’intervento chirurgico. Le paralisi ostetriche Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale Le “paralisi ostetriche del plesso brachiale” costituiscono giustamente un motivo di forte preoccupazione per la famiglia e il pediatra, talvolta privi dei giusti riferimenti specialistici atti ad offrire al neonato il massimo delle possibilità terapeutiche; conseguono a lesioni nervose periferiche, interessanti il plesso brachiale, verificatesi in un neonato e si instaurano, senza intervallo libero, soprattutto in nati da parto distocico; possono tuttavia evidenziarsi anche in casi di parto eutocico e, molto raramente, di parto cesareo. Il deficit neurologico è di tipo flaccido sensitivo-motorio, diversamente esteso a seconda del livello lesionale; la prognosi è varia, legata alle caratteristiche anatomo-patologiche del danno radicolare. Il meccanismo che determina la lesione è correlato alle manovre del parto; l’eccessiva pulsione verso il basso della spalla eserciterebbe una trazione esagerata e lesiva di tutte o di alcune delle radici tributarie del plesso brachiale. Nei casi in cui il danno sia soltanto uno stiramento senza interruzione delle fibre, la paralisi assume di regola un andamento spontaneamente migliorativo; per contro, la paralisi rimane definitiva nei casi in cui le fibre radicolari o le intere radici vengano strappate; in funzione delle radici lesionate e del loro numero, la paralisi assume evidenza clinica diversa e presenta diverse sequele nel tempo. Il numero di pazienti affetti da questa patologia tocotraumatica si è ridotta nel tempo, parallelamente al miglioramento delle tecniche di assistenza al parto e alla maggior frequenza con cui si ricorre oggi al parto cesareo. Oggi è cambiata ampiamente anche la prognosi, grazie alle nuove tecniche di ricostruzione microchirurgica del plesso brachiale. Il trattamento di ieri Un ruolo importante è stato sempre riconosciuto alla chinesiterapia che, tuttavia, veniva di regola iniziata soltanto dopo un periodo di immobilizzazione in docce gessate “da schermitore”. Il risultato del trattamento conservativo era ovviamente scadente nei casi di interruzione delle radici e gli esiti invalidanti della paralisi venivano affrontati chirurgicamente per mezzo della cosiddetta chirurgia palliativa, con la quale era di regola possibile migliorare in vario modo l’aspetto funzionale dell’arto. Il trattamento odierno Non prevede più alcuna immobilizzazione, addirittura ritenuta controindicata; per contro raccomanda un inizio molto precoce del trattamento chinesiterapico. Negli ultimi anni, è entrata nell’uso corrente la riparazione chirurgica delle lesioni ostetriche, sia pur esclusivamente presso i pochi Centri dotati della specifica competenza. Attualmente infatti, l’affinamento delle tecniche micro-chirurgiche, favorito dalle ricerche neurofisiologiche ed anatomo-patologiche, dalla realizzazione di efficienti strumentazioni veramente miniaturizzate e di adeguati sistemi di microscopia operatoria, nonché dai progressi nel campo dell’anestesia e rianimazione infantile, ha permesso di affrontare con successo il ripristino della continuità anatomica e funzionale di un plesso brachiale interrotto nella sua struttura e funzione (Gilbert et al., 2006). La rieducazione psico-mo- Box 6 - Paralisi ostetriche del plesso brachiale Conseguono di regola a lesioni delle radici da C5 a D1. A seconda del numero e del livello delle radici interessate, le paralisi ostetriche si propongono attraverso quadri clinici eterogenei; più frequentemente, la paralisi è di tipo totale o superiore. L’esame clinico deve comportare un’attenta valutazione del tono e della sensibilità, la ricerca di movimenti spontanei, di sincinesie e la verifica dei riflessi all’arto superiore (molto importanti quello di Moro, il bicipitale, il tricipitale, lo stiloradiale, il grasping). La paralisi di tipo totale, che interessa le radici da C5 a D1, si verifica nel 20% dei casi; l’arto è ciondolante, con ipo-anestesia dell’avambraccio, assenti tutti i riflessi all’arto interessato; infrequentemente, si associa a lesione delle fibre ortosimpatiche di D1 e D2 con conseguente sindrome di Bernard-Horner (miosi, enoftalmo, ptosi palpebrale). La paralisi di tipo superiore si verifica nell’80% dei casi; interessa le radici di C5 e C6 (paralisi di Erb-Duchenne), talvolta di C7; l’innervazione della mano è risparmiata; la paralisi della spalla risparmia di regola la sola adduzione; la paralisi del gomito è totale se vi è coinvolgimento anche di C7, ma risparmia l’estensione se questa radice non è stata interessata dal danno; può coinvolgere C4, con conseguente paralisi dell’emidiaframma omolaterale alla lesione per interessamento del nervo frenico. In caso di paralisi di tipo superiore, per la prevalenza dei muscoli non interessati dalla paralisi il bambino mantiene, in posizione supina, l’arto addotto e intraruotato, il gomito esteso e l’avambraccio pronato; grazie all’ampia sovrapposizione metamerica di innervazione sensitiva, la sensibilità dell’arto è in gran parte conservata. Di raro riscontro è la lesione isolata di C8 e D1 (paralisi di Dejerine-Klumpke) o di C7 (paralisi di Fumarola). 109 S. Becchetti, F. Becchetti toria deve sempre accompagnare il lungo iter riabilitativo; la chirurgia palliativa, che ancora oggi ha mantenuto un ruolo importante, offre prospettive di miglioramento morfologico e funzionale nei casi più gravi e, comunque, nei risultati di recupero incompleto (Senes et al., 2003). Indicazioni L’indicazione alla riparazione microchirurgica del plesso brachiale emerge da un’adeguata valutazione diagnostica clinico-strumentale tempestiva, seguita da un attento monitoraggio, in corso di chinesiterapia, atto alla verifica dell’andamento della paralisi; ove non dimostrabile un recupero adeguato nei primi due-tre mesi, il paziente deve essere necessariamente affidato a competenze superspecialistiche al fine di una valutazione dell’eventuale indicazione chirurgica, da attuarsi precocemente (ai 3-6 mesi di vita) (Senes, 2003). Box 7 - Chirurgia palliativa delle paralisi ostetriche È stata nel passato anche recente unica risorsa terapeutica delle deformità e del deficit funzionale dell’arto leso; consiste in tecniche di chirurgia osteo-articolare mirate al recupero, anche parziale, di importanti funzioni perdute a causa della paralisi, sia direttamente mediante la trasposizione dell’inserzione di muscoli indenni in siti osteo-legamentosi strategicamente scelti, sia indirettamente, mediante la riorientazione dell’arto in posizioni maggiormente funzionali, ottenute per mezzo di osteotomie correttive o favorite da interventi mirati al miglioramento dell’articolarità o mediante la realizzazione di un’anchilosi chirurgica (artrodesi). I tumori e le lesioni pseudotumorali Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale Nel bambino, i tumori maligni, più rari rispetto all’adulto, sono molto meno frequenti di quelli benigni (1:10); il loro trattamento pone problematiche peculiari legate in gran parte alla crescita residua. La quasi totalità di questi tumori è rappresentata dal sarcoma di Ewing e dall’osteosarcoma; il primo è di natura neuro-ectodermica, può osservarsi già nel primo anno di vita e può dare metastasi anche a distanza di 10 anni dal trattamento, il secondo è di origine osteogenica, non compare di regola prima degli 8-10 anni ed i risultati Figura 4. Tecnica di termoablazione con radiofrequenza per osteoma-osteoide tibiale. A) Particolare geometria del terminale della sonda, in posizione aperta. B) Immagine TC durante il posizionamento intraoperatorio della sonda in un caso di Osteoma osteoide tibiale. 110 Box 8 - Chirurgia del plesso brachiale Si avvale di tecniche microchirurgiche; consiste nella neurolisi e nella ricostruzione del plesso. La neurolisi consiste nella liberazione dei tronchi nervosi dalle aderenze e dal tessuto cicatriziale; costituisce il primo tempo di qualsiasi intervento ricostruttivo sul plesso; da solo è indicato solo nei casi in cui vi sia continuità anatomica della struttura; negli altri casi viene effettuata la ricostruzione del plesso che difficilmente può avvenire mediante sutura diretta. L’innesto nervoso autoplastico, effettuato utilizzando il nervo cutaneo mediale della sura spesso prelevato bilateralmente, permette di colmare il gap tra due monconi che, già spontaneamente retratti, risultano ulteriormente accorciati a causa dell’indispensabile regolarizzazione preparatoria alla sutura microchirurgica. Nei casi in cui le radici risultano avulse a livello intraforaminale, è indicata la cosiddetta neurotizzazione, che consiste nell’apporto nervoso esterno alla radice interrotta attuato mediante la sutura tra il moncone distale e un’altra radice del plesso o nervo esterno al plesso. possono essere considerati stabili dopo 5 anni. A differenza delle forme maligne, i tumori benigni sono molto spesso asintomatici; vengono talvolta rilevati in occasione di esami radiografici conseguenti a traumi; richiedono comunque sempre una diagnosi sicura che talvolta è possibile solo con biopsia (Morrissy et al., 2006). Non necessariamente devono essere trattati, ma devono sempre essere sorvegliati. Possono essere osteogenici, come l’osteocondroma, l’osteoma osteoide e l’osteoblastoma, condrogenici, come il condroma, il condroblastoma e il fibroma condromixoide, fibroblastici e fibroistiocitari, come il fibroma ossificante e il fibroma non ossificante. L’osteoma osteoide costituisce il 10% di tutti i tumori benigni che colpiscono il bambino; l’età che predilige è compresa tra i 10 e i 20 anni; colpisce soprattutto le ossa lunghe; è molto raro nelle ossa piatte, come il bacino, le coste e le scapole; non esiste nelle ossa membranose, come cranio e clavicole; nelle localizzazioni vertebrali, è la causa più frequente di scoliosi dolorosa del bambino; è di piccole dimensioni, generalmente inferiore ad 1 cm; se ha dimensioni superiori ai 2 cm si tratta di un osteoblastoma; ha sintomatologia caratteristica notturna, pulsante, sensibile all’aspirina; gli esami rivelatori principali sono la scintigrafia ossea e la TC. La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività Alcune lesioni hanno comportamento assimilabile a quello dei tumori benigni ma non possono essere considerate tali; sono le distrofie pseudotumorali, come la cisti solitaria, la cisti aneurismatica e il granuloma a cellule di Langerhans. La cisti ossea solitaria è una distrofia ossea pseudotumorale; predilige l’età compresa tra i 5 e i 15 anni e, nella quasi totalità dei casi, colpisce la metafisi prossimale dell’omero o del femore. È la causa più frequente di fratture patologiche nel bambino, ove fratture incomplete che presentino già segni di callo osseo riparativo possono porre problemi di diagnosi differenziale con patologia tumorale maligna. Il trattamento di ieri Nel passato, la strategia terapeutica dei tumori maligni era fondata su interventi chirurgici estremamente demolitivi, come le amputazioni. La difficoltà di stabilire preventivamente i limiti tra il sano ed il tessuto patologico, tra l’altro, esponeva i pazienti al rischio di essere sottoposti ad interventi eccessivamente demolitivi, dopo i quali non esistevano possibilità ricostruttive ma soltanto protesiche esterne. I rapporti sequenziali tra procedure diagnostiche, intervento e trattamento chemioterapico, non erano inoltre ben codificati in rigidi protocolli; le aspettative di vita e la qualità della vita erano piuttosto modeste. Per quanto riguarda la patologia tumorale benigna o pseudotumorale, la terapia era di regola rappresentata dall’intervento di pulizia chirurgica eseguita a cielo aperto. Il trattamento odierno Oggi l’approccio alla patologia tumorale e pseudotumorale è decisamente cambiato; ai tumori maligni viene riservato un trattamento più aggressivo ma meno invalidante; le amputazioni, infatti, sono oggi divenute rare, grazie all’affidabilità del trattamento integrato, chirurgico e chemioterapico, modulato sulla stadiazione del tumore. L’intervento consiste di regola in resezioni estese che permettono di asportare in blocco il tumore, avvolto nei tessuti molli che lo circondano, il cui strato più superficiale deve essere completamente sano lungo l’intera superficie (“en bloc”). Il tratto scheletrico asportato viene sostituito, nel corso dello stesso intervento, da protesi o da innesti di osso omoplastico o, meglio, autoplastico con l’utilizzo della tecnica del perone vascolarizzato (Jouve et al., 2001). Questa chirurgia, spesso risolutiva, riesce molto spesso a rispettare le cartilagini di crescita e, di conseguenza, a garantire la crescita dell’arto, che mantiene una morfologia ed una funzione più che accettabili; nei casi in cui si verifichino successivi deficit della crescita in lunghezza o deviazioni assiali, si può fare ricorso ad interventi correttivi mediante fissazione esterna. Box 9 - La tecnica del perone vascolarizzato Consiste nel prelievo, generalmente dallo stesso soggetto, di una porzione più o meno ampia di perone, completa del suo peduncolo vascolare, e nel trapianto di questo segmento peroneale in sostituzione anatomica della zona resecata; il suo attecchimento e la sua integrazione nel sito anatomico ricevente sono resi possibili grazie alle moderne tecniche microchirurgiche, che permettono l’innesto del peduncolo vascolare del perone sui vasi sanguigni della zona ove è stato asportato il tumore, risparmiati dalla demolizione chirurgica; il perone trapiantato rimane quindi vitale in quanto rivascolarizzato. Anche per quanto riguarda i tumori benigni e le lesioni pseudotumorali, vi è oggi un atteggiamento meno aggressivo rispetto al passato. Esempio emblematico della trasformazione che ha subito l’approccio terapeutico dei giorni nostri alla patologia tumorale benigna è quello riguardante l’osteoma osteoide. Da sempre trattato mediante intervento chirurgico a cielo aperto, attualmente l’osteoma osteoide tende a non essere più asportato con metodologia tradizionale, bensì mediante termoablazione con radiofrequenza TC guidata (Fig. 4); con questa moderna tecnica mini invasiva, la percentuale di successo è sovrapponibile a quella relativa al trattamento tradizionale, anche se in alcune statistiche il successo raggiunge la quasi totalità dei casi; il grosso vantaggio, oltre alla minima invasività di base, deriva dal fatto che viene eliminata la necessità di innesti ossei o di fissazione interna conseguente ai casi in cui l’accesso al nidus esige grosse demolizioni ossee (Peyser et al., 2007). Anche il trattamento dell’emangioma e del fibroma non ossificante vengono oggi di regola affrontati con metodologia mini-invasiva: il primo mediante l’embolizzazione arteriosa selettiva (Cottalorda et al., 2001), il secondo, quando per dimensioni è necessario intervenire, mediante il curettage assistito dall’endoscopia transossea. Anche per quanto riguarda le lesioni pseudotumorali, l’intervento chirurgico di pulizia ed innesto osseo è divenuto infrequente; l’istiocitosi a cellule di Langerhans può essere affrontata con l’endoscopia transossea (Sadile, 2007); la cisti ossea solitaria, a parte i casi in cui sono necessari provvedimenti più invasivi per prevenire o trattare significative riduzioni di resistenza meccanica, raramente richiede la chirurgia a cielo aperto, ormai soppiantata dalle infiltrazioni corticosteroidee percutanee; le cisti aneurismatiche vengono oggi affrontate mediante l’embolizzazione arteriosa selettiva, utilizzata da sola o in preparazione all’intervento, oppure mediante l’iniezione diretta percutanea TC assistita di sostanze sclerotizzanti ed embolizzanti radio-opache, capaci di provocare l’occlusione dei vasi sanguigni afferenti alla cisti, dal suo versante interno (Bollini et al., 1996). Indicazioni Qualsiasi indicazione terapeutica deve conseguire ad una precisa diagnosi che, nei casi non perfettamente chiariti dalla diagnostica per immagini, richiede il supporto bioptico. Nelle lesioni presumibilmente benigne, un’agobiopsia tranquillizzante è ritenuta sufficiente a giustificare un comportamento di astensione terapeutica e di controllo nel tempo; ma in quelle presumibilmente maligne o sospette, Box 10 - Termoablazione con radiofrequenza TC assistita L’apparato consta di un generatore di radiofrequenza, di cavi di connessione, di una sonda operatoria, avvolta da guaina isolante atta a preservare i tessuti sani del tramite chirurgico, e di un terminale speciale, la cui morfologia consente la concentrazione dell’energia erogata sulla zona ove è compreso il nidus. L’intervento, necessariamente, viene effettuato in una sala radiologica dotata di TC, allestita a sala operatoria. Con paziente in narcosi o anestesia spinale, attraverso una pressoché puntiforme incisione cutanea e sotto controllo TC si infigge la sonda sino a raggiungere la neoformazione, che deve entrare in contatto col terminale; accertato il corretto posizionamento del terminale, si procede all’erogazione della radiofrequenza, che realizza la termoablazione nel tempo di qualche minuto. 111 S. Becchetti, F. Becchetti la biopsia deve essere eseguita a cielo aperto, con tecnica rispettosa della possibilità di dover accedere ad un’asportazione “en bloc”. La positività dell’istologia indica l’accesso ai protocolli oncologici di trattamento chemioterapico, che precede e segue alla chirurgia. Conclusioni Le connotazione odierne dell’ortopedia infantile si sono avvicinate ancora di più a quelle che Nicolas Andry ha voluto dare al termine “ortopedia”, da lui coniato dalle radici greche “orthos” e “paidos” per descrivere l’arte di far crescere i bambini esenti da difetti dell’apparato osteo-articolare. La moderna chirurgia ortopedica infantile, avendo ottenuto le risorse adatte, in termini di tecnologia e tecnica chirurgica, può infatti provvedere ad un tutoraggio chirurgico che, per la sua sempre minore invasività, può essere eseguito sempre più precocemente con l’obiettivo di prevenire l’estensione o l’aggravamento della patologia e di ottenere il recupero della normalità morfologica e funzionale di un apparato osteo-articolare in crescita. Box di orientamento Cosa occorre ricordare: • Il piede piatto strutturale, se sintomatico o di grado elevato, dovrà comunque essere trattato chirurgicamente attorno ai 10-12 anni; questo però non giustifica il completo abbandono terapeutico quando la deformità viene rilevata precocemente. • Le differenze di lunghezza degli arti inferiori possono essere costanti nel tempo; qualche volta, se lievi, possono tendere ad uno spontaneo compenso; tuttavia, in altri casi sono evolutive. È quindi importante la consulenza o la presa in carico specialistica al fine dell’individuazione delle cause e del conseguente programma terapeutico a breve e lungo termine. • Le deviazioni assiali degli arti possono essere trattate efficacemente mediante interventi chirurgici a bassa invasività, soltanto se le cartilagini di crescita del distretto anatomico sono ancora presenti ed attive. La correzione chirurgica effettuata dopo la fusione di queste cartilagini è possibile ma richiede procedure chirurgiche invasive ed importanti. • Non esiste, ad oggi, la prevenzione della scoliosi; ma soltanto una prevenzione dell’evoluzione che consiste nel trattamento stesso. Il trattamento conservativo della scoliosi è rappresentato soltanto dalla sapiente integrazione tra rieducazione motoria, corsetti ortopedici ed apparecchi gessati. Per nessuna delle altre pratiche, più o meno note, che oggi spesso si vedono proporre per la cura o la “prevenzione” della scoliosi è mai stata dimostrata una qualsiasi evidenza. • Il trattamento chirurgico della scoliosi è molto invasivo ed espone a rischi importanti; occorre quindi cercare di contrastare l’evoluzione della scoliosi adottando precocemente il trattamento conservativo. • Di fronte ad un neonato che evidenzi una ridotta motricità di un arto superiore, soprattutto se quest’ultimo viene mantenuto in estensione e pronazione, occorre sospettare una paralisi ostetrica ed indirizzare il neonato ad un Centro specialistico competente. • Salvo localizzazioni anatomiche o situazioni particolari, oggi non è più possibile accettare il trattamento dell’osteoma osteoide eseguito mediante intervento chirurgico a cielo aperto. Bibliografia Blount WR, Clarke G. Control of bone growth by epiphyseal stapling. J Bone Joint Surg 1949;31:464-8. * Lavoro storico di cui si consiglia la lettura, in quanto pone le basi del futuro sviluppo del trattamento delle eterometrie in lunghezza degli arti. Boero S, Stella G. L’allungamento chirurgico degli arti. Prospettive in Pediatria 1994;24:333-8. Boero S, Aldegheri R, Garofano A, et al. L’allungamento degli arti nell’ipo e acondroplasico. Rivista Italiana di Ortopedia e Traumatologia Pediatrica 1995;11:377-408. Bollini G, Panuel M, Jouve J-L, et al. Kiste aneurismal. In: Lascombe P, Lefort G, eds. Les tumeurs osseuses bénignes de l’enfant. Montpellier: Sauramps Médica 1996: 157-72. ** Si tratta di una pubblicazione di grande rilievo culturale e pratico, ricca di immagini, che illustra in modo sintetico ed efficace particolarmente la clinica e la diagnostica differenziale. Se ne consiglia la lettura al pediatra. Castaman E. L’intervento di calcaneo-stop nel piede piatto-valgo. Chirurgia del Piede 1985;9:319-29. Cottalorda J, Bourelle S. 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Percutaneous endoscopic lumbar discectomy for adolescent lumbar disc herniation: surgical outcomes in 46 consecutive patients. Mt Sinai J Med 2006;73:864-70. Lelièvre J, Lelièvre J-F. Manuale di patologia del piede. Milano: Masson 1985. Malerba F, Faldini A, Giannini S, Consoli V. Il piede piatto. Bologna: Aulo Gaggi 1993. La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività Mastragostino S, Bagliani GP, Boero S, et al. Tecnica di Wagner modificata nell’allungamento chirurgico degli arti. Giornale Italiano di Ortopedia e Traumatologia Pediatrica 1989;15:151-62. Morrissy RT, Weinstein SL. Pediatric Orthopaedics. 6th edition. Philadelphia: Lippincott W&W 2006. Splendida e attuale monografia di ortopedia infantile; tuttavia, dati i contenuti tecnici, se ne consiglia la lettura ai soli pediatri particolarmente interessati all’ortopedia. È prevalentemente un’opera da consultazione. * Norton RP, Patel D, Kurd MF, et al. The use of thoracoscopy in the management of adolescent idiopathic scoliosis. Spine 2007;32:2777-85. Pubblicazione capace di chiarire in modo semplice le prospettive della nuova chirurgia del rachide. * Peyser A, Applbaum Y, Khoury A, et al. Osteoid osteoma: CT-guided radiofrequency ablation using a water-cooled probe. Ann Surg Oncol 2007;14:591-6. Perdriolle R, Becchetti S, Vidal J, Lopez P. Mechanical process and growth cartilages. Essential factors in the progression of scoliosis. Spine 1993;18:343-9. Sadile F. Il trattamento mini invasivo del fibroma non ossificante e dell’istiocitosi X mediante curretage assistito dall’endoscopia transossea. In: Atti XIII Congresso Nazionale SITOP (Stresa, 2007): 73-4. Seringe R. Déformations des membres. In: Carlioz H, Seringe R, eds. Orthopédie du nouveau-né à l’adolescent. Paris: Masson 2002: 146-81. Senes FM. Le paralisi del plesso Brachiale: trattamento chirurgico. La Pediatria Medica e Chirurgica 2003;1:77-9. * Lavoro di buon interesse per il pediatra; la sua lettura permette di comprendere meglio il ruolo della moderna chirurgia ricostruttiva del plesso brachiale. Senes FM, Campus R. Secondary surgery of the shoulder for the sequele of obstetrical brachial plexus paralysis. J Hand Surg Br 2003;1:6-9. Stevens PM. Guided growth for angular correction: a preliminary series using a tension band plate. J Pediatr Orthop 2007;27:253-9. Surdam JW, Morris CD, De Weese JD, Drwaric DM. Leg length inequality and epiphysiodesis: review of 96 cases. J Pediatr Orthop 2003;23:381-4. Wagner H. Operative lengthening of the femur. Clin Orthop 1978;136:125-30. Corrispondenza prof. Stelvio Becchetti, U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia, Istituto “Giannina Gaslini”, largo Gaslini 5, 16148 Genova • Tel. +39 010 5636506 • Cell. +39 348 4142552 • E-mail: [email protected] 113 Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 114-120 ORTOPEDIA Le rachialgie in età pediatrica Flavio Becchetti U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia, Istituto “Giannina Gaslini”, Genova Riassunto L’Autore rileva l’importanza e la frequenza con cui le rachialgie compaiono in età di accrescimento; prende in esame le varie situazioni patologiche vertebrali, primitive e secondarie, che possono costituire causa di rachialgia, evidenziandone le singole caratteristiche. In particolare, vengono descritte le rachialgie di origine traumatica, distrofica, displasica, malformativa, tumorale e pseudotumorale, infettiva, da malattie sistemiche e da alterazioni posturali. Nell’articolo, viene poi richiamata all’attenzione del pediatra la necessità di tenere sempre ben presente che alcune di queste cause hanno origini ben lontane dalla colonna vertebrale; vengono quindi prese in esame tali cause extrarachidee, ricordando anche i pericoli connessi con una diagnosi di rachialgia psicogena, la cui consistenza deve essere sempre rivalutata nel tempo. Summary The Author underlines the importance and the frequency of backache in childhood and makes a survey of the different vertebral pathological conditions, both primary and secondary, that can cause backache illustrating their peculiar characteristics. In particular, the Author describes backache due to trauma, dystrophy, dysplasia, malformations, tumor/pseudotumor, infection, systemic disease and postural alterations. Pediatricians are recommended to consider that some of these causes of backache are not related to problems affecting the vertebral column. These causes are examined, as well as the risk related to a diagnosis of psychogenic backache, which must always be reevaluated over time. Sempre più frequentemente accade che il pediatra venga consultato per un bambino o per un adolescente che soffre di “mal di schiena”. Alcune inchieste eseguite in passato nelle scuole svizzere ed inglesi già avevano dimostrato che il 25% dei soggetti interrogati soffriva di lombalgie e che la minor frequenza di queste in età di crescita è reale prima dei 10 anni, ma si attenua molto dopo i 12 anni (Balague et al., 1988). Molto recentemente, uno studio metanalitico sulle rachialgie ha confermato questo dato, evidenziando, accanto ad un’estrema variabilità nelle osservazioni riportate in letteratura, la pressoché ugual incidenza e prevalenza del mal di schiena nella tarda adolescenza e nell’età adulta (Jeffries et al., 2007). In età adulta inoltrata, la presenza di un mal di schiena, a causa della sua elevatissima frequenza, generalmente non costituisce per il paziente un evento preoccupante, mentre così non è nell’adolescente né a maggior ragione nel bambino, ove viene sempre percepita come una situazione allarmante; tale situazione appare in parte ingiustificata, in quanto conseguenza dell’apprensione della famiglia, ma in parte reale, data la maggior frequenza con cui una rachialgia in età di crescita deriva da cause di una certa gravità (Bernstein, 2007). Di conseguenza, la presenza di una rachialgia persistente, in un adolescente e, soprattutto, in un bambino deve costituire motivo di particolare attenzione per il pediatra. Le rachialgie del soggetto in crescita si differenziano da quelle dell’adulto per caratteristiche e cause; tale differenza appare verosimilmente legata alle peculiarità strutturali e funzionali della colonna vertebrale in crescita. Hensinger, nel 1980, in un fondamentale lavoro sulle rachialgie in età di crescita, aveva correlato il 67% delle osservazioni a malattie di sviluppo, individuate in scoliosi e cifosi, il 33% ad eventi posttraumatici e il 18% a pregresse infezioni o tumori; nel restante 15% l’autore non era riuscito a trovare cause dimostrate o verosimili della rachialgia. Oggi, nelle varie esperienze, le statistiche non sono so- 114 stanzialmente variate, anche se i progressi delle tecniche diagnostiche hanno permesso una miglior suddivisione nosologica. Box 1 - Elementi di differenziazione della colonna in crescita rispetto a quella adulta • Minori dimensioni • Variazione temporale degli indici biomeccanici in funzione della maturazione, per evoluzione sia del rapporto tra altezza della vertebra e superficie dei piatti vertebrali, sia della lunghezza della colonna in rapporto alla statura • Maggior presenza della componente cartilaginea, che alla nascita è massimo, occupando il 57% del volume rachideo • Maggior altezza (lo spessore totale dei dischi rappresenta il 25% della lunghezza dell’intero rachide), maggiore elasticità e sporgenza del disco intervertebrale (sino all’età di 8 anni, il nucleo polposo è quasi liquido) • Strutture mio-legamentose a elevata elasticità e maggior articolarità intervertebrale • Maggior elasticità del sistema rachideo, che dissipa meglio l’energia per sollecitazioni provenienti dai 3 piani dello spazio • Variazione dei rapporti tra complessi disco-vertebrali e midollo; la crescita totale del midollo spinale non supera i 30 cm, contro i 40 cm del rachide cervico-dorso-lombare e i 60 cm della statura da seduto • Maggiori potenzialità di modellamento (deformità secondarie) e rimodellamento (potenzialità riparative) • Maggiore esposizione alle deformità secondarie Le rachialgie in età pediatrica Cause di rachialgia Ancora oggi il 15% circa delle rachialgie non è individuabile; di conseguenza appare lecito ipotizzare la presenza di cause di rachialgie ancora non dimostrabili, anche se una parte di queste è riconoscibile in situazioni di competenza neuropsicologica. Le cause note di rachialgia possono essere suddivise in cause rachidee e cause extrarachidee (Becchetti et al., 2002). Le cause rachidee si riferiscono a eventi o situazioni anatomo-funzionali che, presenti a livello rachideo, generano direttamente la rachialgia; possono essere primitive o secondarie; per secondarie si intendono quelle lesioni che, pur effetto di cause primitive extrarachidee, assumono una propria autonomia e persistono anche dopo l’eventuale scomparsa della lesione primitiva. Le cause extrarachidee vengono invece riferite a situazioni o a eventi topograficamente esterni al rachide, capaci di generare dolore o per via riflessa o attraverso l’instaurazione di processi rachidei secondari di entità irrilevante rispetto alla causa primaria, effimeri,ed incapaci di autonomizzarsi (Tab. I). Rachialgie da cause rachidee primitive Traumi e lesioni post-traumatiche Una frequente causa di rachialgia, soprattutto nella terza infanzia può essere ricercata in un banale trauma che, talvolta non riferito dal bambino ai genitori, emerge spesso solo da un’anamnesi molto accurata; alcune fratture delle apofisi trasverse, alcuni piccoli distacchi a livello delle spinose o piccoli schiacciamenti dei corpi vertebrali, possono non essere evidenziati dalla radiologia tradizionale e la persistenza di sintomatologia dopo un trauma vertebrale per caduta “di schiena” o “in piedi”, deve indicare l’esecuzione di una RM (Bollini et al., 1989). Lo sport dà sicuramente un importante contributo alla patologia traumatica e microtraumatica dei giovani (Adirim et al., 2003); il sovraccarico sportivo è sicuramente la causa più frequente di mal di schiena nei ragazzi sportivi, soprattutto negli adolescenti (Bensahel, 1998); è un problema di grande attualità, correlato anche al fatto che, oggi, i soggetti in crescita che praticano sport sono divenuti veri atleti e che spesso le metodologie di preparazione sportiva e di allenamento non tengono sufficientemente presenti le complesse problematiche psicofisiche di un soggetto in crescita; le sollecitazioni meccaniche reiterate, che spesso superano i limiti di tolleranza dell’individuo, determinano una “sindrome da over-use”, rilevabile da segni clinici ma difficilmente documentabile con immagini. Il mal di schiena ricorre prevalentemente in soggetti che praticano il calcio, la pallavolo e la ginnastica artistica; nel calcio, la genesi del dolore sembra di tipo prevalentemente muscolare e correlabile soprattutto con la retrazione contratturale delle catene muscolari posteriori, tipica di questo sport; per quanto riguarda invece la pallavolo e la ginnastica artistica, il mal di schiena, che si localizza soprattutto a livello lombare, sembrerebbe da attribuirsi alle eccessive sollecitazioni in iperlordosi lombare e ad una situazione di ipertono e retrazione muscolare che tende a fissare il bacino in antiversione. Nei giovani atleti lombalgici, soprattutto in quelli praticanti sport ove il gesto sportivo espone a forzati e rapidi movimenti in iperlordosi, è di relativamente frequente riscontro la presenza di un spondilolisi, mono o bilaterale, ossia di una frattura da fatica della pars interpeduncolaris dell’arco vertebrale posteriore; tale frattura conseguirebbe a microtraumi sull’istmo peduncolare di L5 o, meno frequentemente, di L4 inferti in maniera violenta e reiterata dalle articolari caudali della vertebra soprastante, con meccanismo “a taglia sigaro”. Talvolta, l’instabilità vertebrale che consegue alla spondilolisi, favorisce l’insorgenza di una olistesi, ossia dello scivolamento anteriore di una vertebra sulla sottostante; anche la spondilolistesi, di per sé può generare lombosciatalgia (Filipe, 2001). Un’altra tipica lesione algogena, anche se relativamente rara, è l’ernia discale, la cui origine in età di crescita, diversamente dall’adulto, viene generalmente attribuita ad eventi traumatici o a intense e durature sollecitazioni microtraumatiche (Ozgen et al., 2007); in età di crescita, infatti, l’erniazione del disco avviene spesso attraverso una breccia, che si apre tra osso e listerella marginale avulsa posteriormente per effetto di un trauma; si tratterebbe quindi di un vero e proprio distacco condrale, che offre al nucleo polposo discale una strada libera verso il canale vertebrale (Fig. 1). Distrofie rachidee La cosiddetta distrofia rachidea di crescita è senza dubbio una causa molto frequente di mal di schiena in tarda terza infanzia e in adolescenza. Il termine di malattia di Scheuermann, denominata anche “cifosi dorsale giovanile”, è per alcuni autori sinonimo di cifosi distrofica; altri ritengono che la malattia di Scheuermann, pur configurabile entro l’ambito della distrofia rachidea di crescita con cui condivide sintomi e quadro radiografico, mantenga una propria individualità nosologica, caratterizzata dalla deformità a cuneo vertebrale anteriore di almeno 5° su almeno tre vertebre (Fig. 2). I quadri clinici e per immagini della distrofia rachidea di crescita sono comunque vari. La diagnostica per immagini evidenzia un’alterazione della regolarità dei piatti somatici vertebrali, ernie intraspongiose di Schmorl, osteoporosi, riduzione dello spessore dell’immagine discale soprattutto anteriormente, alterazioni della listerella marginale anteriore e, clinicamente, cifosi e rachialgia (Bracq et al., 1989). Colpisce più frequentemente il rachide dorsale, con interessamento molto frequente di T8-T9. Queste localizzazioni sono le più deformanti, mentre le più algogene sono quelle toracolombari, probabilmente a causa dell’alterazione della disposizione del Tabella I. Cause di rachialgia. Cause rachidee Cause extrarachidee Primitive Secondarie – Traumi e lesioni post-traumatiche Malattie sistemiche Malformazioni Distrofie rachidee Tumori metastatici Tumori, lesioni pseudotumorali e infezioni Displasie scheletriche costituzionali Alterazioni posturali Deformità degli arti inferiori Malformazioni congenite Alterazioni neuropsicologiche Tumori e lesioni pseudotumorali Infezioni 115 F. Becchetti Figura 1. Ernia discale. Schema della diversa morfologia e patogenesi tra età adulta (A) ed età di crescita (B). Figura 2. Malattia di Scheuermann. A) Particolare di immagine radiografica; B) Immagine RM. Ben evidente la deformazione vertebrale a cuneo anteriore delle vertebre apicali. Figura 3. Cifosi giunzionale toraco-lombare in adolescente. La cifosi tra la dodicesima vertebra toracica e la prima lombare appare di grado elevato. segmento T11-L1 che, fisiologicamente rettilineo, appare deformato in cifosi, la cosiddetta cifosi giunzionale (Fig. 3); gli autori sono infatti concordi nel riconoscere la natura meccanica delle rachialgie nello Scheuermann, essendo tra l’altro presenti solo in carico ed esacerbate dall’esercizio fisico. La diagnosi differenziale si pone con la displasia spondilo-epifisaria tardiva e, nelle forme localizzate a due o tre vertebre, con la spondiloliscite. L’iter diagnostico comprende la radiografia tradizionale, la scintigrafia e la RM. Nell’ambito delle distrofie rachidee algogene in età evolutiva, è bene ricordare che anche alcune rare situazioni patologiche, come l’osteoporosi idiopatica giovanile e la calcificazione del disco intervertebrale, possono essere causa di mal di schiena e, inoltre, che questo può essere sostenuto da un’osteoporosi vertebrale in corso di trattamento farmacologico protratto con steroidi, come accade nei soggetti reumatici, oncologici o in trattamento dialitico. Displasie scheletriche costituzionali 116 Nelle osteocondrodisplasie la presenza di rachialgie è correlata a instabilità, stenosi o deformità, eventualmente presenti (Finidori, 2003). È opportuno segnalare che, tra le varie forme, come ad esempio accade di regola nella displasia diastrofica, è frequente un’aplasia o ipoplasia del dente dell’epistrofeo con conseguente instabilità cervicale, che potrebbe generare episodi di cervicalgia o di torcicollo; di regola questi soggetti eseguono di routine indagini al riguardo, tuttavia, in caso di cervicalgia presente in questi soggetti o in soggetti con anamnesi famigliare positiva per tali malattie, è prudente consigliare accertamenti atti alla scoperta o al controllo di un’eventuale malformazione della cerniera occipito-atlo-assiale, dato il rischio neurologico e vitale che talvolta consegue ad un’instabilità eventualmente presente. In altre forme, come nell’acondroplasia, è frequente la cifosi giunzionale D-L o la presenza di un canale Le rachialgie in età pediatrica stretto lombare per brevità dei peduncoli vertebrali. Nelle mucopolisaccaridosi, come nel Morquio, spesso il materiale d’accumulo si localizza anche a livello cervicale determinando una grave stenosi con conseguenze non solo algiche, ma anche deficitarie più o meno gravi, sino alla tetraparesi. Malformazioni congenite Raramente le scoliosi e le cifosi congenite determinano rachialgia, tuttavia i soggetti che ne sono affetti possono, anche se infrequentemente, presentare una sintomatologia lombalgica, con o senza irradiazione sciatalgica, cruralgica o brachialgica. Nei casi in cui è presente sintomatologia dolorosa, questa è spesso correlabile con problematiche importanti di conflitto radicolare e/o compressione midollare per stenosi foraminale o del canale vertebrale, anche se in tali deformità talvolta il canale appare più ampio rispetto agli altri livelli. Inoltre, una rachialgia può essere causata da un midollo ancorato per mancato riassorbimento del filum terminale, da una diastematomielia, ossia dalla presenza di un setto osseo o fibroso che attraversa il canale vertebrale e, quindi, il midollo, da una idromielia o siringomielia, ossia relativamente dalla presenza di una dilatazione cistica del canale ependimale o da una cavità nel contesto midollare o da altre più rare situazioni; può esservi un coinvolgimento deficitario delle strutture nervose, spesso evidenziabile anche per la presenza di un piede cavo. Talvolta una rachialgia viene riferita ad una schisi degli archi vertebrali, ma questa evenienza, del resto molto frequente, è di regola asintomatica e può essere causa di sola dolorabilità locale; altre volte può essere correlabile ad una spondilolistesi di tipo displasico, determinata da anomalie di natura congenita dei peduncoli o delle apofisi articolari. Un dolore cervicale può essere causato da malformazioni complesse della giunzione cervico-dorsale od anche dalla presenza di una semplice mega-apofisi trasversa di C7; tali situazioni malformative possono determinare anche una “sindrome dello sbocco toracico”. Tumori e lesioni pseudotumorali I tumori primitivi dello scheletro colpiscono il rachide infrequentemente; tuttavia occorre ricordare che la rachialgia persistente è normalmente il primo sintomo di tumori, sia benigni, sia maligni (Cahuzac, 1989). Nella grande maggioranza dei casi (80%) si tratta di forme benigne o di lesioni pseudotumorali; tra queste, meritano particolare attenzione l’osteoma osteoide, l’osteoblastoma, l’emangioma, la cisti aneurismatica e l’istiocitosi a cellule di Langerhans. Può accadere che la diagnosi di istiocitosi, le cui localizzazioni vertebrali rappresentano il 20-30% delle localizzazioni ossee di questa malattia, venga fatta quando è già presente una vertebra plana, ossia un cedimento strutturale delle vertebre infiltrate dal tessuto patologico. L’osteoma osteoide presenta una tipica sintomatologia dolorosa, rappresentata da un dolore prevalentemente notturno che scompare con la somministrazione di acido acetilsalicilico; la sua localizzazione alla colonna vertebrale, di regola a livello dei peduncoli o dell’arco neurale, pur decisamente più frequente rispetto a quella dell’osteoblastoma, è limitata ad un 10% di casi; l’osteoblastoma, per contro, pur essendo cinque volte meno frequente dell’osteoma osteoide, si localizza al rachide nel 40% dei casi, spesso a livello delle spinose. La localizzazione vertebrale della cisti aneurismatica rappresenta il 20% di tutte le sue localizzazioni. Assieme al cranio, la colonna vertebrale costituisce sede elettiva dell’emangioma; pur infrequente, questo tumore benigno rappresenta una lesione temibile, infatti è spesso asintomatico ed espone al rischio di fratture patologiche mieliche. Per quanto riguarda i tumori maligni primitivi dello scheletro che colpiscono la colonna vertebrale, l’osteosarcoma è eccezionale; il sarcoma di Ewing è l’unico tumore che appare con una relativa frequenza a livello del rachide in età di crescita, anche se tale localizzazione non rappresenta che il 15% di tutte le localizzazioni ossee del tumore. Per contro, i tumori rachidei che originano dalle strutture medullo-radicolari e dai loro involucri sono più frequenti; determinano costantemente rachialgia, talvolta accompagnata da scoliosi e spesso da irradiazione; di regola non vi è correlazione tra il livello interessato dal tumore ed il livello ove la sintomatologia viene riferita; talvolta la sintomatologia è limitata ad una rigidità della colonna vertebrale o ad una perdita delle normali curve sagittali rachidee. Anche se questi tumori sono di prevalente competenza del neurochirurgo, la loro diagnosi viene spesso fatta dall’ortopedico, consultato per la presenza di una rachialgia, di un rachide rigido, di una scoliosi o, talvolta, di una zoppia o di piede cavo. Tra questi tumori, meritano menzione i neurinomi, i meningiomi ed alcuni altri. Il neurinoma vero, o swannoma, tumore biologicamente benigno la cui localizzazione rachidea nel bambino rappresenta solo il 2% di tutte le localizzazioni, deve essere considerato un tumore radicolare, extra od intradurale; nel 10% circa dei casi, i neurinomi determinano una compressione medullo-radicolare; il neurofibroma viene osservato di regola nella malattia di Rechlinghausen, nell’ambito della quale può avere anche una trasformazione maligna. Il meningioma, anch’esso benigno, è più raro e determina compressioni molto raramente. I tumori midollari incidono per il 30% circa tra tutti i tumori intraspinali. I gliomi astrocitari, che sono i più frequenti, hanno un’incidenza pari a quasi il 60% e nella maggioranza dei casi sono rappresentati da astrocitomi benigni; nel bambino, infatti, i gliomi maligni sono rari; la loro morfologia è essenzialmente cistica e, questo spiega il motivo della loro frequente grande estensione concomitante ad una sintomatologia di regola estremamente esigua. Gli ependimomi incidono per meno del 30%; pongono il rischio di una disseminazione secondaria tardiva. Vanno ancora nominati i teratomi, i lipomi e le cisti dermoidi. È importante tenere presente che, nell’ambito dei tumori a derivazione nervosa o meningea, accanto alla valutazione dell’aggressività biologica, va considerata la malignità topografica, che può rendere difficilmente operabile un tumore benigno o consentire a questo di produrre danni invalidanti o vitali. Infezioni La discite si evidenzia con una sintomatologia lombalgica o lombosciatalgia; è noto come non in tutti i casi sia possibile evidenziare un germe patogeno e come il processo sia spesso autolimitante ed a guarigione spontanea. Così non è per le spondilodisciti, di cui l’osteoartrite tubercolare, che oggi è meno rara rispetto al recente passato, rappresenta l’evento più emblematico (Fig. 4); si tratta infatti di processi che tendono ad espandersi e che richiedono drastici e puntuali provvedimenti terapeutici (Milon, 1995). Più raramente, la localizzazione osteoartritica od osteitica è causata da germi comuni, come nel caso dell’ascesso da stafilococco. Rachialgie da cause rachidee secondarie Malattie sistemiche La comparsa di una rachialgia può essere il primo sintomo di una leucemia linfatica acuta; la causa del dolore va ricercata nell’infiltrazione neoplastica vertebrale indotta dall’emopatia. La rachialgia può precedere la positività delle immagini radiografiche e degli esami 117 F. Becchetti di rachialgie, indotte e sostenute da una metastasi vertebrale, quando ancora la localizzazione primitiva è silente. Figura 4. Spondilodiscite tubercolare in bimba di 5 anni. A) Immagine RM in AP: ben evidente l’ascesso ossifluente. B) Immagine RM in LL: ben evidenti le lesioni su due livelli. ematologici di base; di conseguenza, in presenza di una rachialgia indiagnosticata, può essere indicato ricorrere al puntato midollare. Inoltre, episodi di mal di schiena possono evocare malattie di interesse reumatologico; alcune di queste, infatti, possono compromettere i tessuti scheletrici rachidei e determinare rachialgie più o meno importanti (Buoncompagni et al., 1999). Pur nella complessità nosologica e classificativa delle malattie reumatologiche è utile ricordare che, nell’artrite idiopatica giovanile, l’interessamento del rachide cervicale è raro rispetto alle forme dell’adulto e che tuttavia questa localizzazione deve costituire un evento di grande attenzione, in quanto non solo può rappresentare un segno di esordio della malattia ma può anche prevedere complicanze di natura neurologica; ricordare che le rachialgie sono frequenti nel campo delle spondiloartropatie giovanili, denominate anche spondiloartriti sieronegative per assenza del fattore reumatoide; che queste si accompagnano di regola a positività dell’antigene HLA-B27 (Human Leucocyte Antigen B27); che la spondilite difficilmente si presenta prima dei 16 anni, ma che molti degli adulti affetti da spondilite anchilosante hanno presentato nella tarda infanzia o nell’adolescenza un’oligoartrite periferica accompagnata dalla presenza dell’antigene di istocompatibilità HLA-B27. Nell’interessamento vertebrale delle spondiloartropatie giovanili, il dolore è classicamente ad esordio subdolo, persistente, tende ad esacerbarsi col riposo notturno, è accompagnato da rigidità mattutina e si attenua con l’esercizio fisico; tuttavia nel bambino frequentemente la sintomatologia si attenua col riposo, non migliora col movimento e tende ad aumentare durante il giorno; inizialmente si accompagna a dolore sacro-iliaco, che la precede; nelle prime fasi, la rachialgia è di tipo lombo-sacrale, in seguito si estende al dorso e solo in ultimo al tratto cervicale; vi è la tendenza ad una progressiva rigidità ed all’ipercifosi toracica ed infine alla cifosi cervico-toracica. Tumori metastatici Tra i tumori rachidei metastatici che in età di crescita possono colpire la colonna vertebrale, il più frequente è senza alcun dubbio il neuroblastoma; questo tumore, a partenza extrarachidea, infiltra spesso il rachide per contiguità; frequentemente, la presenza della lesione primitiva extrarachidea viene rivelata proprio dalla presenza 118 Alterazioni posturali Il mal di schiena può avere origini posturali; la sua relativa frequenza negli scolari e negli studenti poco avvezzi ad un buon igiene posturale ne è verosimile dimostrazione (Geldhof et al., 2007). Com’è noto, la postura è controllata dal sistema nervoso centrale, che si avvale di numerose complesse integrazioni neurosensoriali provenienti dagli innumerevoli circuiti di feedback posturale; pur non estranei al rachide, tali circuiti traggono informazioni da strutture prevalentemente extra-rachidee, come l’occhio, l’orecchio, gli arti per mezzo dei fusi neuromuscolari, degli organi tendinei, della cute ed altro. Di conseguenza, le alterazioni posturali che generano una rachialgia hanno in massima parte origine extra-rachidea, ma la vera causa del dolore risiede nel mal-allineamento del rachide, mantenuto in criticità per tutto il perdurare della postura patologica; la forza di gravità determina sullo scheletro in ortostasi sollecitazioni inadeguate all’anatomia funzionale delle strutture e condiziona l’insorgenza del dolore. Le rachialgie posturali si localizzano prevalentemente alla colonna lombare, ove può essere presente un atteggiamento iperlordotico o ipolordotico; sono particolarmente ribelli se sono sostenute da una cifosi giunzionale al passaggio toraco-lombare; si esacerbano con la stazione eretta prolungata e tendono a regredire per effetto di un corretto igiene motorio o, meglio, di una rieducazione motoria. Rachialgie da cause extrarachidee Malattie sistemiche Una causa di mal di schiena può essere individuata, anche se più raramente rispetto alle articolazioni dello scheletro appendicolare, nella cosiddetta artrite reattiva, che con qualche riserva è configurabile tra le cause extrarachidee di rachialgie, anche se per alcuni autori deve considerarsi compresa tra le spondiloartropatie giovanili; consegue, a 3-4 settimane di distanza, ad un evento infettivo sviluppato in una sede lontana dalla localizzazione articolare, a livello della quale non è dimostrabile alcun agente infettivo; in età pediatrica consegue di regola a localizzazioni faringee o gastro-intestinali; si accompagna talvolta a sintomi sistemici; parte degli autori mantiene l’artrite reattiva separata dalle artriti post-infettive. Malformazioni Una cervicobrachialgia, presente soprattutto in epoca prepubere o in adolescenza, può essere sintomo di una sindrome dello sbocco toracico, prima conosciuta col nome di sindrome della fossetta sopraclaveare; la sintomatologia deriva dalle turbe vascolo-nervose di tipo irritativo o eccezionalmente deficitario indotte dal conflitto tra le strutture vascolari e nervose del collo e uno scaleno accessorio, una costa cervicale o altre strutture compressive. In caso di rachialgie cervicali, in particolare quando siano accompagnate da torcicollo o/e da brachialgia è necessario anche escludere, con RM, la cosiddetta malformazione di Chiari I, ossia la presenza di una erniazione delle strutture encefaliche attraverso il foramen magnum (Fig. 5). Tumori, lesioni pseudotumorali e infezioni Una rachialgia può derivare da tumori, da situazioni similtumorali e da infezioni che colpiscono lo scheletro appendicolare; il meccanismo Le rachialgie in età pediatrica tumore toracico o anche di un ascesso latero-cervicale. Nella ricerca delle cause di una lombalgia, soprattutto se accompagnata a sciatalgia, occorre anche ricordare la possibilità che questa derivi da un’appendicopatia o da un ascesso del cavo del Douglas nonché dall’esistenza di una sacro-ileite, di una psoite o di altre analoghe situazioni. Deformità degli arti inferiori Alcune rachialgie possono originare da deformità posturali o strutturali degli arti inferiori; si tratta sostanzialmente di deformità che non coinvolgono la colonna vertebrale e che sono sostenute da modificazioni funzionali o/e strutturali, sia osteo-articolari, sia muscolo-toniche o di trofismo, sia iperplasiche tendineo-muscolari; in queste situazioni, il mal di schiena viene prodotto per una verosimile mal funzione rachidea, soprattutto del segmento lombare; ne risulta un’alterazione della regolarità del ritmo lombo-pelvico durante la deambulazione e un sovraccarico per le articolazioni sacro-iliache; questo meccanismo può anche essere invocato per giustificare la presenza di lombalgie in caso di differenza in lunghezza degli arti inferiori (Filipe, 2001; Metaizeau, 2001). Alterazioni neuropsicologiche Nei casi in cui non è stato possibile individuare la causa della rachialgia, viene spesso ipotizzata una causa psicogena; spesso in questi casi viene riferita gelosia verso il fratello, un cattivo rendimento scolastico con frequenti tentativi di non andare a scuola, la separazione dei genitori ed altre situazioni critiche. In molti casi la diagnosi si rivela corretta e la psicoterapia può dimostrarsi risolutiva. Tuttavia, è indispensabile che diagnosi in tal senso vengano confermate mediante un monitoraggio clinico e strumentale accurato, dato che, in un discreto numero di casi può rendersi evidente nel tempo una causa organica anche molto grave della rachialgia, prima non diagnosticabile (Filipe, 2001). Conclusioni Figura 5. Malformazione di Arnold-Chiari associata a siringomielia. Quadro RM: in alto evidente l’erniazione delle tonsille cerebellari, in basso la cavità siringomielica. d’azione è indiretto, è infatti frequentemente legato ad irradiazione o ad alterazioni funzionali rachidee indotte da atteggiamenti antalgici. Inoltre, una lombalgia può essere il sintomo rivelatore di un tumore o di altre alterazioni delle strutture addominali; infatti, nelle femmine, è frequente una lombalgia in occasione di cisti ovarica; inoltre una rachialgia del rachide cervico-dorsale, con o senza irradiazione brachialgica, può derivare dalla presenza di un Il mal di schiena in età evolutiva costituisce un complesso capitolo dell’ortopedia pediatrica e un importante esempio della valenza multidisciplinare, che la preparazione dell’ortopedico pediatra deve avere; ma costituisce anche una delle innumerevoli situazioni che il pediatra deve sempre guardare con sospetto, dato che una rachialgia può rappresentare un banale ed effimero problema ma anche il primo segno di una grave malattie in divenire; al pediatra è affidata, infatti, la responsabilità delle prime scelte, che spaziano tra provvedimenti di vigile attesa emergenti da giudizi tranquillizzanti e decisioni di accesso ad un secondo livello di accertamenti; proprio per questo ricade in prima istanza sul pediatra la responsabilità morale e anche medico-legale della diagnosi precoce di una patologia grave, individuata personalmente o con l’aiuto di altre competenze specialistiche, ma anche la responsabilità amministrativa di un accesso razionale alle innumerevoli risorse diagnostiche, spesso molto costose, oggi disponibili. Il pediatra, quindi, di fronte ad una rachialgia, soprattutto se persistente, deve valutare attentamente le indicazioni diagnostiche ed anche garantire un prudente monitoraggio clinico col quale verificare la scomparsa della sintomatologia; tale monitoraggio può essere condiviso con lo specialista ortopedico, col quale deve esservi un reciproco scambio di informazioni cliniche e di dati diagnostici strumentali. 119 F. Becchetti Box di orientamento Cosa occorre ricordare • La maggior parte delle rachialgie originano da cause banali, ma la loro persistenza richiede una valutazione specialistica ortopedica pediatrica. • Una spontanea e non altrimenti motivata sensibile riduzione delle abitudini motorie di un soggetto sportivo, una particolare attenzione ad evitare movimenti forzati ed improvvisi, una perdita di articolarità della colonna ed un controllo posturale visibilmente volontario hanno valore di rachialgia, anche se questa non viene dichiarata. • La presenza di una deviazione scoliotica primitiva non giustifica sintomatologia dolorosa; un atteggiamento scoliotico o un’alterazione delle curvature fisiologiche sagittali accompagnate da rachialgie devono indurre il sospetto di patologia organica. • La diagnosi di atteggiamento scoliotico va sempre confermata almeno una volta dopo 6 mesi. • La presenza di una scoliosi accompagnata da piede cavo o una scoliosi toracica sinistra convessa esigono accertamenti di secondo livello. • Una differenza in lunghezza degli arti inferiori può essere causa di lombalgie. • In caso di lombalgie, soprattutto se in femmina, un’ETG delle fosse iliache deve completare il programma diagnostico. • In caso di negatività di esami ematologici e di radiografie occorre ripeterne l’esecuzione se la sintomatologia persiste. • La diagnosi di rachialgia psicogena va sempre formulata con grande prudenza e soltanto dopo accertamenti diagnostici accuratissimi eseguiti presso un centro ospedaliero; è d’obbligo comunque effettuare rivalutazioni nel tempo alla ricerca di eventuali lesioni organiche divenute diagnosticabili. Bibliografia Adirim TA, Cheng TL. Overwiev of injuries in the young atlete. Sports Med 2003;33:201-7. Becchetti S, Becchetti F. Le rachialgie in età evolutiva. In: Atti Corso di Pediatria ortopedica. Lecce: Manni 2002: 143-54. Balague F, Dutoit G, Waldburger M. Low back pain in school children. An epidemiological study. Scand J Rehabil Med 1988;20:175-9. Becchetti F, Tornago S, Becchetti S, Franchin F. Rachialgie da sport in età evolutiva: i pericoli di una diagnosi affrettata. La Ginnastica Medica 2004;52:33-6. Bensahel H. L’enfant et la pratique sportive. Paris: Masson, 1998. ** Il libro tratta in modo semplice ed esaustivo tutte le problematiche ortopediche legate alla pratica sportiva in età evolutiva. Vengono prese in considerazione, in chiave moderna ed ancora attuale, le varie funzioni ed i vari organi scheletrici, per quanto riguarda sia le alterazioni microtraumatiche da eccesso di sollecitazione, sia le lesioni macro traumatiche. Vengono poi illustrati vantaggi e limiti dei singoli sport ed i loro rapporti con patologie non ortopediche. Se ne consiglia la lettura sia ai pediatri, sia agli ortopedici, sia ai medici dello sport; da questa emergono importanti informazioni anche di carattere pratico. Bernstein RM, Cozen H. Evaluation of back pain in children and adolescent. Am Fam Physician 2007;76:1669-76. Bollini G, Lena G, Rambaud M, et al. Fracture du rachis de l’enfant et croissance. In: Bollini G, ed. Chirurgie & orthopédie du rachis. Enfant, Adolescent. Montpellier: Sauramps Medical 1989: 179-89. Bracq H, Chapuis M. Dystrophye rachidienne de croissance. Investigation et histoire naturelle. In: Bollini G, ed. Chirurgie & orthopédie du rachis. Enfant, Adolescent. Montpellier: Sauramps Medical 1989: 151-6. Buoncompagni A, Gattorno M, Picco P. Reumatologia pediatrica. Milano: McGraw-Hill 1999. Monografia di grande valore, completa e di notevole semplicità esplicativa. Cahuzac J-P, Clement J-L. Diagnostic des tumeurs osseuses du rachis. In: Bollini G, ed. Chirurgie & orthopédie du rachis. Enfant, Adolescent. Montpellier: Sauramps Medical 1989: 215-29. Filipe G. Lombalgie de l’enfant. In: Seringe R, ed. Problèmes courants d’orthopédie infantile. Rueil-Malmaison: Doin 2001: 47-52. Finidori G, Maroteaux P, Le Merrer M, et al. Pathologie épiphysaire dans les chondrodysplasies et dans les mucopolysaccharidoses. Aspects diagnostiques et thérapeutiques chez l’enfant. In: Finidori G, Glorion Ch, Langlais J, eds. La pathologie épiphysaire de l’enfant. Montpellier: Sauramps Medical 2003: 143-80. * Il capitolo, come del resto tutta la monografia che l’accoglie, merita la lettura, per la sua completezza, chiarezza espositiva e modernità. Geldhof E, De Clercq D, De Bourdeaudhuij I, Cardon G. Classroom postures of 8-12 year old children. Ergonomics 2007;50:1571-81. Hensinger RN. Back pain in children. In: Braidford DS, Hensinger MD, eds. The pediatric spine. New York: Thieme 1985: 63-7. Jeffries LJ, Milanese SF, Grimmer-Somers KA. Epidemiology of adolescent spinal pain: a systematic overview of the research literature. Spine 2007;32:2630-7. ** La pubblicazione è riferita a uno studio metanalitico molto accurato; può ritenersi il riferimento epidemiologico più attuale del mal di schiena in età di crescita. Metaizeau J-P. Diagnostic d’une boiterie de l’enfant. In: Seringe R, ed. Problèmes courants d’orthopédie infantile. Roueil-Malmaison: Doin 2001: 13-21. Milon E, Bosson N, Carlioz H, Pous J-G. Tuberculose osseuse. In: Morin C, Herbaux B, eds. Les infections osteo-articulaires de l’enfant. Montpellier: Sauramps Medical 1995: 203-15. Ozgen S, Konya D, Toktas OZ, Dagcinar A, Ozek MM. Lumbar disc herniation in adolescence.Pediatr Neurosurg 2007;43:77-81. * Corrispondenza dott. Flavio Becchetti, U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia. Istituto “Giannina Gaslini”, largo Gaslini 5, 16148 Genova • Tel. +39 010 5636506 • Cell. +39 349 0899392 • E-mail: [email protected] 120 Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 121-132 PEDIATRIA DELLO SVILUPPO E DEL COMPORTAMENTO Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo Alfonso Romano, Marina Macca, Ennio Del Giudice Dipartimento di Pediatria, Settore di Neuropsichiatria Infantile, Università “Federico II”, Napoli Riassunto La salute mentale dei bambini e degli adolescenti costituisce un’importante priorità nella cura della salute generale. Numerosi dati della letteratura anglosassone e in parte anche italiana sottolineano che il ruolo del pediatra sta progressivamente cambiando. Negli Stati Uniti, in particolare, il pediatra è chiamato per varie ragioni a svolgere anche un ruolo nell’identificazione, nella diagnosi e nella terapia del disturbo comportamentale e psichico. Dati pubblicati indicano che, anche in Italia, al pediatra viene richiesto con frequenza di intervenire in problematiche analoghe. L’aumento della diagnosi di patologie complesse, come l’autismo e il ritardo mentale e la depressione in età evolutiva, e di patologie non così gravi, ma ugualmente cariche di conseguenza sulla vita del bambino e della sua famiglia, come i disturbi del linguaggio, i disturbi di apprendimento, la dislessia, i deficit di attenzione con e senza iperattività, obbligano il pediatra a conoscere e trattare patologie generalmente poco usuali per lui e nelle quali non sempre la formazione ricevuta è sufficiente. La sorveglianza di tali patologie, la precoce identificazione, l’individuazione di problematiche all’interno della coppia genitoriale e della famiglia, i possibili interventi terapeutici, producono una riduzione dello stress e hanno svariate ricadute. La tutela della salute mentale del bambino può influenzare la vita psichica del futuro adulto. È difficile valutare quanto un intervento precoce sul comportamento o sui sintomi psichiatrici possa ridurre la patologia dell’adulto, tuttavia la riduzione dei sintomi e dei disturbi psichiatrici del bambino produce in genere un immediato miglioramento della sua autostima, dei risultati accademici, delle relazioni sociali. Quando un pediatra riesce, oltre ai vari compiti che gli spettano, anche a tutelare la salute mentale, lo sviluppo comportamentale cognitivo e affettivo dei bambini che si affidano a lui, interpreta pienamente il ruolo di garante della salute in età pediatrica. Summary The mental health of children and adolescents constitutes an important priority in general health care. Numerous data in the American and English literature as well as some Italian studies stress that the role of the paediatrician is progressively changing. In the United States, in particular, paediatricians are asked (for numerous reasons) to play a role in the identification, diagnosis, and therapy of behavioural and psychiatric disturbances. The published data indicate that this is true in Italy as well. Paediatricians are required to recognize and treat several pathologies such as autism, mental retardation, and depression in childhood as well as less severe (but nevertheless consequential for the patient and parents) disorders such as language disturbances, learning disorders, dyslexia, and attention deficit disorder with or without hyperactivity. Often, pediatricians have not received adequate training for the treatment of these diseases. The early identification of the pathology, the problems within the parental couple and the family in general, and possible therapeutic approached can lead to an immediate reduction of stress and, over time, have dramatic beneficial effects. The level of mental health care in childhood can directly influence an individual’s psychiatric wellbeing as an adult. It’s difficult to evaluate how an early intervention in a childhood behavioural or psychiatric problem can reduce the pathology in adulthood. In any case, the decrease in symptoms and psychiatric disturbances in the children generally produces an immediate improvement in self-esteem, academic performance, and social relationships. If, apart from the various responsibilities that await them, paediatricians are able to care for the mental health of the children under their care, they completely fulfill their role as guarantors of the child’s health. Introduzione Il Consiglio Direttivo dell’Associazione Culturale Pediatri (ACP), in un editoriale pubblicato nel 2007 sui Quaderni ACP (Consiglio Direttivo ACP, 2007), enuncia le “Quattro priorità della associazione”. Le priorità sono state identificate alla luce della letteratura pediatrica recente e del “Rapporto sulla salute di bambini ed adolescenti in Italia” (www.csbonlus.org/inc/ALLEGATI/Rapporto_salute-2005.pdf). Tra le priorità viene identificata “La salute mentale nei bambini e negli adolescenti”. Nel Rapporto sulla salute, emerge che una percentuale variabile dal 2,5% al 10-30% della popolazione compresa tra i 6 e i 18 anni soffre di un disturbo psichiatrico. Al di là delle variabilità statistiche, i pediatri sono sempre più frequentemente impegnati nell’identificazione e nel trattamento di patologie comportamentali e psichiatriche. Negli Stati Uniti, sin dai primi anni ’70, i cambiamenti nella cura e nella prevenzione delle malattie acute hanno provocato una ridefinizione del fare pediatria ambulatoriale. Il pediatra ha iniziato ad occuparsi della salute mentale e dello sviluppo del bambino e a promuoverne, insieme con le famiglie, la realizzazione di una piena e produttiva vita da adulto. In uno studio di pediatria di base, i disturbi comportamentali vengono diagnosticati in un bambino su cinque e rappresentano la causa principale di una successiva visita specialistica. L’identificazione e il trattamento di questi disturbi sono il vero nuovo impegno della pratica pediatrica in paesi con un benessere sanitario e socioeconomico consolidato (Guevara et al., 2006). È verosimile che un interesse così elevato sia stato favorito, negli Stati Uniti, dalla carenza di efficaci e diffusi servizi territoriali di psichiatria dell’età evolutiva. La letteratura americana sottolinea che, se da un lato la identificazione di bambini affetti da disagio psichico è fortemente aumentata, la possibilità di invio ad un intervento di secondo livello è particolarmente complicata per ragioni logisticotopografiche (le grandi distanze tra le cittadine periferiche ed i centri universitari delle grandi città) e per le lunghe liste di attesa. Infine, proprio i bambini e gli adolescenti appartenenti a famiglie a rischio 121 A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice Tabella I. Problemi frequenti diagnosticati dai pediatri. Età prescolare Disturbi del linguaggio (5,8%) Ritardi dello sviluppo (3,2%) Tra i 6 e i 17 anni Disturbi di apprendimento (11,5%) Deficit dell’attenzione associato o meno ad iperattività (8-10%) Disturbi comportamentali e della condotta (5-7%) Sindromi d’ansia o depressione (2-4%) Abuso di alcool o droghe (19-22%) Diagnosi di autismo: 1 su 200 bambini* La aumentata frequenza può dipendere da un miglioramento delle capacità diagnostiche dei pediatri, da una modifica dei criteri diagnostici, da una reale aumento della patologia o dalla combinazione di tutti questi fattori. * sono quelli che più frequentemente disertano il trattamento dopo il primo colloquio (Blanchard et al., 2007). Lo scopo di questa revisione della letteratura è offrire un aggiornamento sulle patologie neuropsichiatriche che con maggiore frequenza sono motivo di consultazione per il pediatra di famiglia e per il pediatra ospedaliero. quenza più alta di disturbi emozionali, comportamentali e dello sviluppo: più del 40% ritenevano che i loro figli avessero disturbi di apprendimento e nel 36% dei casi temevano un disturbo d’ansia o una depressione. Ne deriva che i pediatri possono svolgere un ruolo decisivo nell’aiutare i genitori a riconoscere l’insorgenza nei loro figli di disturbi comportamentali e nel verificarne la reale entità. Metodologia della ricerca Il ruolo del pediatra Le informazioni riportate in questo articolo derivano da dati desunti da articoli scientifici comparsi dal 2005 al 2007. È stato utilizzato PubMed per individuare gli articoli più idonei pubblicati in lingua inglese. I criteri che hanno guidato la selezione sono stati la novità, la revisione ampia dei disturbi comportamentali o psichiatrici in età pediatrica, la ricaduta nella pratica pediatrica quotidiana. Abbiamo scelto review, articoli originali, studi epidemiologici. Le parole chiave utilizzate sono state: attachment, autism, gene, genomic disorder, behavioral disorders, childhood and adolescent depression, Speech and Language Difficulties, Developmental dyslexia, Language Impairment, Attention-deficit/hyperactivity disorder, child and adolescent psychiatric disorders, behavioral health. Negli Stati Uniti, negli ultimi 30 anni, l’identificazione dei disturbi del comportamento in età pediatrica e la tutela della salute mentale sono diventati un obbiettivo prioritario. Tuttavia, la identificazione di questi disturbi è complessa. I pediatri ne riconoscono solo una minima parte (tra il 4% e il 17% dei bambini e degli adolescenti affetti). I pediatri che adoperano scale standardizzate o il DSM-IV, sono capaci di identificare un numero maggiore di patologie comportamentali (Leventhal et al., 2006). Tuttavia, i pediatri americani ammettono di diagnosticare meglio patologie come il disturbo da deficit dell’attenzione (con o senza iperattività) (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder [ADHD]), perché hanno ricevuto corsi di aggiornamento mirati e dispongono di scale specifiche, mentre solo recentemente si stanno confrontando con patologie come l’ansia e la depressione. L’importanza di una diagnosi precoce dei disturbi comportamentali e psichiatrici fu sottolineata già quasi 10 anni fa, da Cassidy et al. (1998) che dimostrava come una distimia cronica di basso grado, durante la fanciullezza, era un verosimile fattore di rischio per lo sviluppo di una depressione maggiore in età adulta. Recentemente Costello et al. (2006) hanno dimostrato che, in una coorte di fanciulli La dimensione del problema Diversi studi epidemiologici confermano una prevalenza di psicopatologia in età pediatrica compresa tra il 12% e il 27%. Le frequenze delle problematiche comportamentali negli Stati Uniti non si sono modificate nei tre anni trascorsi dalla “2003 National Survey of Children’s Health” (Blanchard et al., 2006) (Tabb. I e II). Uno studio longitudinale (Costello et al., 2006) ha confermato che per coorti di età comprese tra 9 e 16 anni, su periodo di osservazione di tre mesi, la prevalenza di qualunque disturbo del comportamento era intorno al 13%. Il 6,8% di questi bambini presentava un disturbo grave. In questo studio, l’età prescolare si conferma come un’epoca della vita cruciale per la salute mentale. Molti disturbi, che daranno segno di sé, nelle età successive hanno la loro genesi nei primi anni di vita. La prevalenza dei disturbi comportamentali in questa età viene stimata tra il 7% e il 24% (Tab. III). Rispetto a questi dati, i genitori denunciavano al pediatra, una fre- 122 Tabella II. Disturbi più frequenti per età. < 12 anni > 12 anni ADHD Depressione Disturbi da ansia da separazione Fobia sociale Disturbo oppositivo provocatorio Ansia generalizzata Enuresi Abuso di droghe Encopresi Disturbi della condotta Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo Tabella III. Categorie diagnostiche frequenti in epoca prescolare. Disturbi della relazione genitori figlio Disturbi dell’attaccamento Disturbi della regolazione (sonno, alimentazione) Disturbi di apprendimento* Depressione* Specie in epoca prescolare, disturbi di apprendimento o depressione appaiono sfumati e difficili da identificare. a capire le continue modifiche del comportamento dei propri figli, a valorizzare gli aspetti positivi, a cogliere eventuali segnali di allarme di un disturbato rapporto pedagogico (Tab. IV). L’approccio al problema coinvolge, oltre al pediatra e ai familiari, gli operatori sociali, gli psicologi e gli psichiatri. Il pediatra spiega l’importanza di un approccio non punitivo per i comportamenti sbagliati e rafforza nei genitori l’autostima e la consapevolezza di poter diventare buoni educatori. * seguiti fino all’età adulta, i tre quarti delle diagnosi di disturbo psichiatrico poste a 26 anni erano già state formulate a 18 anni e la metà, addirittura, a 15 anni. I pediatri americani hanno a disposizione numerosi test di screening di facile somministrazione, accanto a test più complessi e mirati (cfr. Weitzmann e Leventhal 2006). In Italia, non sono disponibili test di screening standardizzati, di pronto utilizzo. Il bilancio di salute può divenire un insostituibile momento, durante il quale ottenere informazioni sulle preoccupazioni dei genitori, sul rendimento scolastico del bambino e sul suo comportamento. Scale diagnostiche più mirate saranno applicate a bambini problematici. Una volta individuato un bambino a rischio o patologico, bisogna organizzare un intervento terapeutico. In Italia generalmente, il pediatra demanda questo compito alle strutture territoriali di neuropsichiatria infantile. Negli Stati Uniti, alcuni pediatri (Kelleher et al., 2006) hanno sperimentato nuovi modelli di intervento. Il pediatra in prima persona, coadiuvato da uno psicologo, da un assistente sociale e da un pedagogista, insieme offrono un primo intervento terapeutico, sia farmacologico che non farmacologico. La supervisione e la collaborazione con uno psichiatra infantile completano l’intervento, riducendo la necessità di spostamenti versoi i grossi centri di riferimento. La prevenzione resta insostituibile. Ad esempio, nei bambini in età prescolare, un comportamento fortemente aggressivo e oppositivo precoce, è molto problematico da gestire per i genitori, ed è considerato precursore di problemi comportamentali molto più gravi nelle età successive, spesso con un alto costo sociale (delinquenza, uso di droghe, ecc.). Nerista Bauer (Bauer et al., 2006) presenta un possibile modello di intervento terapeutico per i comportamenti oppositivi ad esordio precoce (tra i 2 e gli 8 anni) che coinvolge tutto il nucleo familiare. Con l’obiettivo di creare una “genitorialità consapevole”, i genitori vengono addestrati Tabella IV. I segnali di allarme. Le patologie frequenti La depressione Nella letteratura americana, fino al 15% di bambini e adolescenti ha un qualche sintomo di depressione. Il 5% di questi, con età compresa tra 9 e 17 anni, soddisfa i criteri per una diagnosi di depressione maggiore. Dopo i 14 anni, i disturbi depressivi sono due volte più frequenti nel sesso femminile rispetto a quello maschile. La depressione in età adolescenziale ha un decorso cronico, che alterna risoluzioni a ricadute, con un rischio da due a quattro volte maggiore rispetto ad una popolazione campione di sviluppare una depressione persistente in età adulta. Bhatia et al. (2007) in un recente articolo, rivedono i caratteri della depressione in età prepubere e nella adolescenza, riconoscono alcuni fattori di rischio sia biomedici che sociali (Tab. V) e la presenza di una comorbilità almeno nei due terzi dei ragazzi affetti (Tab. VI). Di fronte al sospetto clinico-anamnestico, l’uso di scale o interviste di screening può essere d’aiuto nella pratica quotidiana: uno degli strumenti più adoperati è la Children’s Depression Inventory, una scala di autosomministrazione per maschi e femmine fino ai 17 anni (Kovacs et al., 1997). Recentemente in Italia è disponibile una batTabella V. Depressione: fattori di rischio. Fattori biomedici Malattie croniche (ad es. il diabete) Sesso femminile Modifiche ormonali nella pubertà Depressione dei genitori Storia familiare di depressione Presenza di specifiche varianti del gene serotonina-transporter Uso di alcuni farmaci (isotretinoina) Fattori psicosociali Bambino maltrattato o trascurato Il mio bambino mi disobbedisce sempre Agenti stressanti generici (deprivazione socioeconomica) Quasi sempre si rifiuta di eseguire un compito assegnato Perdita di un genitore o di un amore Io non riesco ad educare mio figlio Il mio bambino ha problemi con i coetanei a scuola Fattori diversi L’insegnante dice che il bambino ha difficoltà nell’apprendimento Disturbi d’ansia Il/la mio/mia compagno/a siamo in disaccordo su come educare il bambino Disturbi da deficit dell’attenzione e/o iperattività, della condotta Io mi sento stanca/o e avvilita/o Fumo di sigarette Non so come prenderlo/a Storia di depressione Disturbi dell’apprendimento 123 A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice Tabella VI. Le comorbilità. Disturbi distimici Disturbo d’ansia Disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività Disturbo oppositivo-provocatorio Disturbo da uso di sostanze teria di scale di auto somministrazione (Scale psichiatriche di Auto somministrazione per Fanciulli ed Adolescenti [SAFA], Cianchetti et al., 2001) che consente una iniziale valutazione dello stato psichico fra gli 8 ed i 18 anni. Tra le altre, è presente una scala, la SAFA-D, che misura l’umore depresso, l’anedonia, il disinteresse, l’umore irritabile, il senso di inadeguatezza, la bassa autostima, l’insicurezza, il senso di colpa, la disperazione. I sintomi clinici, non sono sempre facilmente identificabili. I bambini sotto i sette anni possono lamentarsi di dolori e fastidi generalizzati, cefalee, gastralgie. I più grandi possono avere umore irritabile, comportamenti collerici o ostili. Attenzione discontinua, difficoltà a concentrarsi e ansietà possono mimare un disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività. L’abuso di alcool o sostanze stupefacenti può essere una automedicazione, inconsapevolmente scelta dall’adolescente, per la depressione. Una diagnosi di depressione impone l’esclusione un accurato inquadramento diagnostico (Tab. VII). I genitori non sempre sono capaci di identificare questi sintomi, specie se essi stessi soffrono di depressione. Gli autori, propongono una reinterpretazione dei criteri diagnostici del DSM-IV, adattandoli all’età pediatrica (Tab. VIII). Infine, viene rivisto il trattamento alla luce delle più recenti acquisizioni. Le conclusioni sono riassunte nella Tabella IX. Frequentemente la depressione in età giovanile ha un decorso ricorrente. Una recente ricerca (Dunn et al., 2006) ha consentito di individuare quali fattori di rischio di ricorrenza e di un tempo più lungo di remissione dall’episodio di esordio, la gravità dei sintomi durante il primo episodio, la precocità dell’età di insorgenza, la durata della malattia prima che venisse instaurato un trattamento, il sesso femminile. La possibilità che si instauri una malattia mentale a decorso recidivante e ricorrente giustifica l’inizio di un intervento terapeutico precoce, con regolari follow-up. Le tappe dello sviluppo adolescenziale possono influenzare l’espressione della depressione in questa età. Per converso, la depressione può influenzare le competenze e lo sviluppo della personalità adolescenziale, aumentando il rischio di ricorrenza di patologie psichiatriche in età adulta (Gollan et al., 2006). Studi clinici randomizzati e controllati (Cheung et al., 2005) avevano già dimostrato che fino al 60% degli adolescenti affetti da depressione miglioravano pur assumendo un farmaco placebo al posto degli SRSI (Serotonin Recapture Selective Inhibitors). Questo dato conferma che un intervento di supporto psicologico interattivo con un professionista attento rappresenta un trattamento efficace, in attesa di avviare una psicoterapia di tipo cognitivo comportamentale che è la scelta raccomandata,anche se difficoltà logistiche, sociali ed economiche non la rendono sempre attuabile. In alternativa, Stein et al. (2006) hanno dimostrato che un intervento psicosociale in un ambulatorio pediatrico poteva essere efficace da solo o in associazione con farmaci SRSI. Alle stesse conclusioni arrivava una ricerca condotta in Gran Bretagna (Goodyer et al., 2007) su 208 adolescenti tra gli 11 e 17 anni che ricevevano una diagnosi di depressione, ma un intervento diversificato (Tab. X). Tutti i pazienti ricevevano un trattamento con SRSI e poi venivano divisi in due gruppi: il primo veniva trattato anche con una psicoterapia cognitivo-comportamentale (per 12 settimane per un totale di 19 incontri, discutendo con i ragazzi le eventuali assenze) ed una presa in carico terapeutica routinaria (i criteri sono in Tab. X). Il secondo gruppo riceveva solo la terapia routinaria. L’intervento terapeutico routinario era concentrato sull’identificazione delle cause della depressione con una particolare attenzione a recenti conflitti con i familiari o con i coetanei e alle comorbilità. In alcuni casi si ricercava la collaborazione della scuola o di altri gruppi non medici. Alla fine del lavoro, dopo 28 settimane i risultati raggiunti dai due gruppi erano sovrapponibili e non dimostravano un primato della terapia cognitivo-comportamentale sulla presa in carico routinaria, durante trattamento farmacologico. Pertanto, sarebbe possibile un intervento non soltanto farmacologico, offerto da personale medico idoneamente formato, ma non necessariamente specialista in psichiatria, anche se quest’ultima resta la migliore opzione. Una revisione di queste problematiche è stata pubblicata nel 2005, sotto forma di linee guida per un approccio alla depressione in età evolutiva (http://mhr.org. uk/articles/2005/10/nice_guidelines.html). Tabella VII. Depressione: inquadrameno diagnostico. Disturbi depressivi Inquadramento clinico La depressione è causata da una condizione clinica, da un farmaco Escludere endocrinopatie, tumori, malattie croniche, anemia, deficit o entrambi? vitaminici e farmaci come l’isotretinoina La depressione sia accompagna ad abuso di alcol o droghe? Valutare se la depressione è la causa dell’abuso o la conseguenza La depressione è successiva a eventi della vita stressanti? Considerare una diagnosi di disturbo dell’adattamento La depressione è cronica, di lieve entità? Considerare una diagnosi di disturbo distimico Si tratta di un disturbo depressivo di altro tipo? Considerare una diagnosi di depressione minore, di depressione bipolare, o depressione atipica Si tratta di depressione maggiore? Applicare i criteri del DSM-IV, valutare la gravità e l’eventuale presenza di caratteri psicotici Coesistono altre malattie mentali? Le comorbilità più frequenti sono: disturbi distimici, disturbi d’ansia, ADHD, disturbo oppositivo provocatorio, disturbo da uso di sostanze Si tratta di una depressione pericolosa? Valutare il rischio di suicidio 124 Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo Tabella VIII. La diagnosi di depressione maggiore nell’infanzia e nell’adolescenza. A. Durante un periodo di almeno due settimane consecutive devono essere presenti almeno 5 dei seguenti sintomi e due di essi devono essere: 1) umore depresso, 2) perdita di interesse 1) L’umore può essere depresso o irritabile. I bambini ancora piccoli possono non essere capaci di descrivere il proprio stato d’animo e allora compaiono vaghi malesseri fisici, un’espressione del volto triste, uno scarso contatto oculare. L’umore irritabile può manifestarsi con un comportamento auto o eteroaggressivo, o con una comunicazione ostile e aggressiva. Disturbi dell’umore più simili a quello dell’adulto compaiono nella tarda adolescenza (vedi DSM-IV) 2) Perdita di interesse nel gioco con i coetanei e nelle attività scolastiche 3) Difficoltà a prendere peso piuttosto che dimagrire 4) Come gli adulti insonnia o ipersonnia quasi tutti i giorni 5) Insieme con le modiche dell’umore si può osservare un comportamento iperattivo 6) Sintomi di affaticamento come per gli adulti manifestati dallo scarso interesse al gioco con i coetanei, aumentate assenze a scuola, rifiuto scolastico 7) Diminuita stima in se stessi (sono incapace… sono stupido…) 8) Difficoltà di attenzione e concentrazione possono manifestarsi come difficoltà di comportamento o scarso rendimento scolastico 9) Compaiono segnali non verbali di potenziali comportamenti suicidi come il donare la collezione preferita di dischi o rinunciare spontaneamente a qualche evento importante B. I sintomi non evocano un disturbo bipolare C. Si manifesta un peggioramento del funzionamento scolastico e sociale clinicamente significativo D. I sintomi non sono provocati fa farmaci, alcool o droghe E. Se compaiono sintomi psicotici nel corso di un episodio di depressione maggiore in genere si tratta di allucinazioni uditive Tabella IX. Depressione: la terapia. Raccomandazioni chiave nella pratica clinica Livello di evidenza In età infantile e adolescenza gli antidepressivi triciclici non vanno usati come terapia della depressione maggiore A L’evidenza di efficacia degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SRSI) è limitata nell’infanzia e adolescenza e vanno usati solo in caso di depressione maggiore. Fluoxetina per i ragazzi tra gli 8 e i 17 anni è approvata negli USA. L’AIFA dal 2006 ha reso possibile anche in Italia la prescrizione del farmaco nella stessa fascia di età in un piano diagnostico-terapeutico compilato dal neuropsichiatra infantile B La psicoterapia cognitivo comportamentale è efficace nel trattamento delle depressioni di grado lieve e medio A Bambini e adolescenti in trattamento con antidepressivi possono sviluppare ideazione e/o comportamenti suicidari C La depressione va trattata per almeno sei mesi C A = evidenza di buona qualità orientata al paziente; B = evidenza di limitata qualità orientata al paziente; C = consensus, opinioni di esperti, casistica clinica. Sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) L’ADHD (Brusset et al., 2007) è un disturbo che insorge nell’infanzia caratterizzato da un continuum di sintomi: difficoltà di concentrazione, inadeguato controllo degli impulsi ed iperattività, evidenti in diversi contesti: casa, scuola e relazioni sociali. Tutti i bambini presentano questo comportamento, ma quando si verifica in un epoca inappropriata dello sviluppo causa una compromissione delle normali funzioni. La prevalenza, in diversi studi, varia dal 3 al 10%. L’età maggiormente colpita si colloca fra i 5 e i 10 anni. Generalmente i maschi sono maggiormente affetti rispetto alle femmine in un rapporto di 1,5:1 fino a 12:1. Alcuni ricercatori ritengono che questa stima è inferiore alla realtà: poiché le femmine presentano meno iperattività e meno aggressività, l’attenzione di genitori e degli inse- gnanti verso di loro è minore, rendendo la identificazione del disturbo meno frequente. La crescita determina una diminuzione dei sintomi di iperattività e una persistenza o una lieve riduzione dei sintomi di disattenzione. L’eziologia è eterogenea come eterogenee sono le basi neuro-anatomiche. Studi di neuroradiologia hanno dimostrato una diminuzione di volume della corteccia frontale, del cervelletto e delle strutture sottocorticali. La corteccia del giro cingolato appare ipofunzionante nelle prove di controllo inibitorio e sono state dimostrate disfunzioni della via fronto-sottocorticale. I circuiti fronto-striali e pallido-talamo-corticali presiedono al controllo motorio, alle funzioni esecutive, al comportamento inibitorio e modulano la ricerca del compenso. Questa via fornisce alla corteccia un feedback sul comportamento. Una influenza genetica appare per l’ADHD molto verosimile, anche se le modalità di trasmissione familiari e i geni 125 A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice Tabella X. Caratteristiche principali di uno studio in Gran Bretagna (Goodyer et al., 2007) su 208 adolescenti tra gli 11 e 17 anni con diagnosi di depressione, sottoposti a diversi tipi di interventi. Diagnosi Depressione moderata o grave Probabile depressione maggiore Non responsivi primo breve trattamento Ideazione e/o comportamento suicidario Psicosi depressive Disturbi della condotta Primo gruppo SRSI (10 e i 20-40 mg/die fino a 60 mg/die nei casi poco responsivi) Psicoterapia cognitivo comportamentale (per 12 settimane per un totale di 19 incontri con sorveglianza e richiamo delle eventuali defezioni) Presa in carico terapeutica ordinaria* Secondo gruppo SRSI (10 e i 20-40 mg/die fino a 60 mg/die nei casi poco responsivi) Presa in carico terapeutica ordinaria* * Presa in carico terapeutica “routinaria”: criteri Gli psichiatri coinvolti adoperavano un protocollo e un manuale comune di intervento Gli incontri, tutti ambulatoriali, strutturavano: una relazionale empatica e reflessiva; un monitoraggio dello stato mentale; un intervento psicoeducativo; un supporto genitoriale; tecniche di problem solving; attenzione alle comorbilità; collegamenti con altre realtà sociosanitarie e ambientali; gli incontri erano videoregistrati. implicati non sono ancora chiaramente definiti. Diversi geni sono stati chiamati in causa (Faraone et al., 2005): DRD4 e DRD5 (che codificano per due diversi recettori della dopamina) DAT e 5 HTT (che appartengono alla famiglia dei geni trasportatori di neurotrasmettitori, dopamine e serotonine rispettivamente) HTR1B (che codifica per un recettore della 5OHtriptamina-serotonina) e SNAP-25 (che codifica per una proteina associata alla membrana del sinaptosoma). Studi sui gemelli hanno dimostrato un’ereditabilità media per l’ADHD del 77%. Le cause ostetriche (tossiemia, eclampsia, salute materna scadente, età materna avanzata, post-maturità, lunga durata del travaglio, basso peso alla nascita, emorragie pre-parto, fumo in gravidanza), psicosociali (contrasti intrafamiliari cronici, scarsa coesione familiare, esposizione a psicopatologie genitoriali, particolarmente quelle materne) e ambientali giocano un ruolo e meritano per il futuro ulteriori studi (Spencer et al., 2007). L’ADHD si accompagna a numerose comorbilità: disturbi della condotta, disturbi dello sviluppo e dell’apprendimento, depressione, sindromi d’ansia. Tutti questi disturbi, quando individuati, meritano un trattamento idoneo insieme al trattamento per l’ADHD. Il futuro degli adolescenti e degli adulti affetti da ADHD è contraddistinto da una serie di problemi che coinvolgono la salute mentale, il raggiungimento dei successi accademici, il benessere economico e la rete di relazioni sociali, e che possono parzialmente essere predetti dalla presenza di psicopatologia materna o di comorbilità psichiatrica, ma anche dalla appartenenza a famiglie numerose (Spencer et al., 2007). Dunn et al. (2006) hanno esplorato i rapporti tra epilessia e ADHD. Studi epidemiologici hanno confermato che da un terzo ad una metà dei bambini affetti da epilessia soffrono di importanti sintomi di disattenzione 126 e/o ADHD. Alcuni fattori di rischio come un basso QI, disfunzioni del sistema nervoso centrale, attività epilettiforme subclinica ed effetti collaterali degli antiepilettici si associano alla presenza di disturbi dell’attenzione. Il trattamento combinato farmacologico-psicoterapeutico è il primo presidio nei pazienti affetti da epilessia e ADHD. Se coesistono disturbi dell’apprendimento e/o ritardo mentale, essi vanno affrontati con interventi specifici. Il ritardo semplice del linguaggio Lo sviluppo del linguaggio rappresenta un utile indicatore dello sviluppo globale di un bambino e delle sue capacità cognitive. Esso sembrerebbe, peraltro, correlato alla successiva riuscita scolastica (Rutter e Taylor, 2002). È stato recentemente dimostrato (Hohm et al., 2007) che lo sviluppo del linguaggio all’età di 10 mesi, misurato con uno strumento standardizzato come la Receptive-Expressive Emergent Language scale (REEL), predice quali saranno lo sviluppo cognitivo a 11 anni e il grado di successo scolastico alla fine della scuola primaria. Il problema del significato predittivo a lungo termine della valutazione del linguaggio in età prescolare è tuttora ampiamente dibattuto. I punti più controversi riguardano il tipo di test da utilizzare, l’attendibilità di tali misure al di sotto dei 2 anni di vita e la possibilità di utilizzarle come test di screening precoce dei disturbi del linguaggio. Lo screening ideale dovrebbe consentire, mediante l’identificazione precoce dei bambini a rischio per un ritardo dello sviluppo, l’avvio tempestivo di un intervento terapeutico efficace. L’US Preventive Services Task Force (USPSTF), nelle linee guida emanate nel 2006 (US Preventive Services Task Force, 2006; Nelson Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo Figura 1. Disturbi dello spettro autistico. In questa figura vengono idealmente assemblati insieme le molte possibili eziologie dei disturbi dello spettro autistico: eterogeneità genetica ed ambientale (circoli blu), eterogeneità clinica o sindromica (circoli verdi), insieme ai numerosissimi processi di neuro differenziazione e strutturazione cerebrale (figura centrale con le frecce), che alterandosi, possono produrre una “disconnessione” delle aree cerebrali a funzioni altamente associative con il lobo frontale (Le aree con i contorni tratteggiati indicano cause il cui contributo alla disconnessione deve essere meglio dimostrato). Sebbene gli autori ritengono che il meccanismo della disconnessione delle aree cerebrali sia un tema unificante per spiegare la patofisiologia dell’autismo, ritengono sia importante ricordare che poco è conosciuto delle relazioni reciproche tra eziologie, meccanismi e fenotipi risultanti. Le recenti ricerche confermano che l’autismo è una sindrome ad eziologia eterogenea, da qui, la necessità di ridefinire la sindrome autistica come gli autismi. Il termine autismi riflette non soltanto la molteplicità delle eziologie, ma anche la molteplicità delle manifestazioni cliniche. Un quinto degli autismi ha una macrocefalia, il cosiddetto big brain: macrocefalia, convulsioni e regressione possono costituire un’ulteriore sottocategoria. Tradotta e modificata da Geschwind e Levitt, 2007. et al., 2006), non prende posizione né a favore né contro l’uso dello screening rapido dei disturbi del linguaggio nei bambini in età prescolare. Non c’è evidenza sufficiente, infatti, che in questo modo si possano identificare tutti quei bambini che necessitano di una specifica valutazione del deficit e di un eventuale successivo intervento terapeutico. Non sono peraltro stati studiati i potenziali benefici che deriverebbero da un tale atteggiamento rispetto a quello di attenta vigilanza dei sintomi nel tempo, da parte dei genitori o del medico. Inoltre, mentre è stato dimostrato che un intervento precoce ha un effetto positivo a breve termine sulle competenze linguistiche del bambino, nessuno studio è disponibile sugli effetti a lungo termine di questo approccio. Anche i possibili effetti dannosi di uno screening a tappeto, quali ad esempio la trasformazione del bambino in un potenziale paziente, la conseguente comparsa di ansia nei genitori e la perdita di tempo in esami e terapie non necessari, necessitano di ulteriore approfondimento. Sono disponibili diversi strumenti diagnostici per lo studio dei disturbi del linguaggio (MacArthur Communicative Development In- ventory, Early Language Milestone Scale, Language Development Survey, ecc.), ampiamente discussi dalla letteratura inglese come anche da quella italiana. Tuttavia, della maggior parte di essi non è stata valutata l’appropriatezza come strumenti di screening. Da ciò scaturisce, quindi, che il pediatra di famiglia, in assenza di strumenti standardizzati di screening, dovrebbe piuttosto cercare di riconoscere eventuali disturbi del linguaggio sulla base delle preoccupazioni dei genitori e dell’osservazione diretta del bambino. Specifici fattori di rischio potrebbero motivare uno screening selettivo per i disturbi del linguaggio; tuttavia l’USPSTF non ne ha ancora sviluppato una lista formale. Quelli più frequentemente riportati, in ogni caso, sono la presenza di disturbi del linguaggio nella storia familiare, il genere maschile, i fattori perinatali come la prematurità o un basso peso alla nascita e l’essere l’ultimo nato in una famiglia numerosa. Negli ultimi anni è emerso un aspetto interessante: la misura quantitativa della memoria fonologica a breve termine (Phonological Short-Term Memory [STM]), realizzata mediante prove di ripetizione 127 A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice di parole prive di significato (Non-Word Repetition [NWR]), rappresenterebbe un marker di ritardo selettivo del linguaggio (Selective Language Delay [SLI]), così come di alcune forme di dislessia (Newbury et al., 2005). Un deficit facilmente quantificabile di un particolare aspetto del funzionamento del linguaggio potrebbe essere, pertanto, utilizzato come indice di fenotipi più complessi, quali il ritardo selettivo del linguaggio o la dislessia, indirizzandone in questo modo la diagnosi. Bisogna sottolineare comunque che un bambino con un “NWR deficitario” non ha necessariamente un disturbo del linguaggio, ma risulta maggiormente suscettibile allo sviluppo di tale patologia, soprattutto se coesistono altri fattori di rischio. Quattro loci sono stati recentemente individuati per SLI mediante studi di linkage; di questi tre hanno mostrato un linkage significativo anche con NWR (SLI1 sul cromosoma 16q [SLI Consortium, 2002]; SLI2 sul cromosoma 19q [SLI Consortium, 2004]; SSD [Speech Sound Disorder] sul cromosoma 3p [Stein et al., 2004]). Dal momento che il deficit di memoria a breve termine mostra un pattern di trasmissione familiare più semplice da studiare, si potrebbe immaginare di utilizzare questo parametro per una migliore comprensione delle basi genetiche e dei meccanismi patogenetici di un fenotipo complesso e clinicamente eterogeneo come il disturbo selettivo del linguaggio. I problemi del linguaggio orale e quelli del linguaggio scritto spesso coesistono e molti esperti considerano SLI e dislessia manifestazioni diverse dello stesso disordine di base (Bishop et al., 2004). Dislessia La dislessia (Developmental Dyslexia [DD]) (Shastry, 2007) consiste in un disordine specifico della lettura in cui il soggetto è incapace di decodificare le parole in maniera adeguata (phonological coding), cioè di riconoscere i singoli fonemi che le costituiscono (Rumsey, 1992). Gli studi neurobiologici su campioni di cervello appartenenti a soggetti dislessici indicano un cattivo funzionamento delle regioni temporo-parieto-occipitali di sinistra (Eckert et al., 2005), le quali sono appunto coinvolte nella conversione delle parole da simboli scritti a unità fonetiche. La dislessia ha una prevalenza del 5-10% in età scolare (Shaywitz et al., 1990), con un’incidenza maggiore nel genere maschile. Si tratta di un disordine a carattere familiare con una probabile componente genetica. Gli studi di linkage hanno individuato diversi loci di suscettibilità sui cromosomi 1, 2, 3, 6, 11, 13, 15 e 18 e quattro geni candidati (KIAA 0319, DYX1C1, DCDC2 e ROBO1, implicati nella migrazione neuronale che sottende lo sviluppo della corteccia cerebrale) sono risultati associati alla dislessia. Come nel deficit selettivo del linguaggio, anche nella dislessia è stato descritta una compromissione della memoria fonologica a breve termine, verosimilmente implicata nella genesi di questa malattia. A tale proposito è interessante rilevare che un possibile linkage con SLI1 (SLI Consortium, 2004), uno dei geni associati sia a SLI che a NWR, è stato suggerito anche per la dislessia. Attaccamento L.T. Hardy recentemente ha pubblicato una interessante ed approfondita selezione multidisciplinare della letteratura su questo argomento (Hardy, 2007). La teoria dell’attaccamento, introdotta da John Bowlby negli anni ’60 (Bowlby, 1982), individua nel rapporto iniziale del bambino con la figura adulta che se ne prende cura il più importante predittore dello sviluppo della personalità del bambino e della qualità delle sue future relazioni interpersonali. Sono stati definiti nel bambino quattro stili di attaccamento: sicuro, evitante, resistente-ambivalente e disorganizzato-disorientato. I bambini che manifestano un attaccamento del primo tipo protesta- 128 no vigorosamente quando separati dall’oggetto. Nel comportamento evitante, si manifesta un chiaro rifiuto dell’oggetto dell’attaccamento, mentre lo stile resistente-ambivalente è caratterizzato da una fissazione sull’oggetto di attaccamento, che è alternativamente ricercato o rifiutato. Infine l’attaccamento disorganizzato, tipico dei bambini che hanno subito maltrattamenti, si caratterizza per un atteggiamento ambivalente e conflittuale ed è più spesso associato alla presenza di veri e propri disturbi psichici, In letteratura sono numerosi i lavori che sottolineano l’importanza del rapporto di attaccamento precoce per uno sviluppo psico-affettivo armonico (De Chateau, 2007). Due sono i modelli proposti: quello della psicologia dello sviluppo e quello della neuropsicanalisi. Il primo sostiene che il rapporto iniziale con l’oggetto di attaccamento porti l’individuo a strutturare dei modelli relazionali che, operando inconsciamente, condizioneranno i rapporti interpersonali durante tutto l’arco della vita (Barrett et al., 2000). Secondo la prospettiva neuropsicanalitica, peraltro, le rappresentazioni del sé e dell’altro che si formano nella prima infanzia e le esperienze affettive che ne derivano, risultano fondamentali per il corretto sviluppo neurologico del bambino. Esse contribuiscono, infatti, alla formazione dei circuiti neurali implicati nella vita di relazione e localizzati nell’emisfero cerebrale di destra (Schore, 1994). Hunter et al. (2001) hanno dimostrato, inoltre, che esiste anche una correlazione tra attaccamento insicuro e malattie organiche, verosimilmente attribuibile ad una maggiore suscettibilità allo stress. In uno studio recente, Crawford et al. (2007) hanno messo in evidenza come la storia di un attaccamento insicuro di tipo ansioso o di tipo evitante possa associarsi alla presenza di disturbi della personalità Brennan et al. (1998) avevano messo in relazione lo stile ansioso con i disturbi da alterata regolazione emozionale, come i comportamenti di evitamento sociale, i disturbi d’ansia, la labilità affettiva, la condotta autolesionistica, ecc. L’attaccamento evitante, al contrario, si associava alla presenza di una personalità introversa con difficoltà a esprimere la propria emotività (inhibitedness). L’attaccamento ansioso analizzato con modelli biometrici risulta essere fortemente influenzato dai fattori genetici, mentre quello evitante sembrerebbe condizionato esclusivamente dai fattori ambientali. L’associazione tra attaccamento ansioso e disturbi della personalità potrebbe spiegarsi con la presenza di un sostrato genetico comune, mentre quella tra attaccamento evitante e introversione può essere attribuita alle esperienze personali realizzate dall’individuo nel contesto sociale. Autismo Recentemente si è assistito a un aumento della prevalenza di questa condizione (fino a 5-6 casi ogni 1000 bambini ≤ 5 anni di età), probabilmente a causa della maggiore sensibilità al problema e delle migliorate capacità diagnostiche (Fomborme, 2001). I genitori dei bambini autistici avrebbero desiderato una diagnosi la più precoce possibile, dal momento che un intervento tempestivo può migliorarne notevolmente gli esiti a lungo termine. (Baird et al., 2003), Secondo i criteri dell’ICD-10 e del DSM-IV, l’autismo e disturbi dello spettro autistico (DSA) è un disturbo del comportamento caratterizzato dalla compromissione di tre aree fondamentali: 1) interazione sociale; 2) linguaggio-comunicazione-immaginazione; 3) interessi e attività, che appaiono nella maggior parte dei casi, notevolmente ridotti. Sono comuni, inoltre, i comportamenti ripetitivi stereotipati e l’ipo- o ipersensibilità all’ambiente circostante. La maggior parte dei genitori riconosce i primi segni di allarme quando il bambino ha più o meno un anno e mezzo: la mancanza del Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo sorriso, l’inespressività del volto, la scarsa attenzione all’ambiente circostante ed una interazione sociale scadente sono tutte caratteristiche discriminanti. La diagnosi di autismo, ad ogni modo, viene generalmente posta tra i due e i tre anni di età. Uno dei motivi che inducono a un approfondimento diagnostico è la mancata acquisizione del linguaggio o la regressione dello stesso in un bambino con compromissione della comunicazione e dell’interazione sociale. Purtroppo non è ancora possibile uno screening precoce dei DSA (Hail et al., 2003), ma non mancano ipotesi, spesso solo teoriche, in questo senso. Bohm et al., per esempio, hanno segnalato una associazione tra alte concentrazione del testosterone nel liquido amniotico (TECAF) alla 14-20a settimana di gestazione e rischio elevato di sviluppare DSA nell’arco della vita (Bohm et al., 2007; Lutchmaya et al., 2004). Tuttavia, questo parametro, considerato singolarmente, non è dirimente e la sua applicazione pratica nella diagnosi precoce di autismo non è stata ancora sufficientemente indagata. Molto più importante si è dimostrata, invece, la sorveglianza svolta dai genitori e, più in generale, dagli adulti che hanno a che fare col bambino nei primi anni di vita. La maggior parte dei pediatri, durante l’esercizio della propria professione, viene a contatto con uno o più bambini autistici. La diagnosi tempestiva e l’inizio precoce di un adeguato programma terapeutico sono fondamentali per una prognosi migliore. Per l’inquadramento diagnostico dell’autismo, è quasi sempre necessario realizzare una serie di indagini allo scopo di riconoscere, quando possibile, l’eziologia che sottende a questa condizione. Esse comprendono una consulenza genetica, se si associano dismorfismi o altre anomalie congenite, il cariotipo standard ed eventuali analisi citogenetiche più sofisticate, il test molecolare per l’X-fragile quando è presente ritardo mentale e la ricerca delle mutazioni del gene MeCP2, se si manifestano segni suggestivi della sindrome di Rett. La definizione diagnostica prevede, inoltre, l’uso di strumenti standardizzati come le interviste semistrutturate e l’osservazione del gioco libero, nonché la valutazione della presenza di eventuali comorbidità, in particolare l’epilessia, i disturbi dell’apprendimento ed altri disordini psichiatrici (ansia, depressione, ADHD). Nella diagnosi differenziale vanno considerati il deficit mentale, il ritardo selettivo del linguaggio, i disturbi dell’attaccamento, l’epilessia e le malattie neurodegenerative. I fattori genetici giocano un ruolo importante nella patogenesi dell’autismo. Fatta eccezione per la sindrome di Rett, attribuibile, nella maggior parte dei casi, a mutazioni del gene MeCP2, gli altri disordini pervasivi dello sviluppo (DPS) non hanno, comunque, una causa genetica definita. Probabilmente sono coinvolti molteplici fattori genetici che interagiscono tra di loro e con l’ambiente, contribuendo in questo modo all’ampia variabilità fenotipica di questa condizione. A sostegno di un’ereditarietà geneticamente determinata, la concordanza nei gemelli monozigoti è del 60%. Le strategie utilizzate per identificare i loci genici verosimilmente implicati nello siluppo di questa malattia sono essenzialmente tre: analisi di linkage in famiglie con più di un membro affetto; indagini citogenetiche, tradizionali o mediante array-based Comparative Genomic Hybridization (arrayCGH); infine, lo studio dei geni candidati, scelti sulla base del loro coinvolgimento nei processi di sviluppo del sistema nervoso e della loro posizione all’interno del genoma. In questo modo, è stato possibile dimostrare il coinvolgimento di numerose regioni cromosomiche, tra cui 1p, 2q, 3p, 7q, 17q, 15q11-q13. La duplicazione di questa regione del cromosoma 15 è l’unico riarrangiamento ricorrente nei pazienti con DSA (Schroer et al., 1998), tanto da configurare una vera e propria “sindrome da dup(15)” ad esso associata. Questa regione comprende un gruppo di geni che codificano per le subunità del recettore dell’acido γ-amminobutirrico (GABRB3, GABRA5, GABRG3), responsabile della trasmissione gabaergica all’interno del sistema nervoso centrale. Delezioni/duplicazioni a carico di questi geni sono state descritte in vari disordini dello sviluppo neuropsichico, come la sindrome di Prader-Willi e la sindrome di Angelman, mentre una loro anomala espressione, almeno in parte attribuibile a meccanismi epigenetici (Hogart et al., 2007), è stata recentemente dimostrata nel cervello di pazienti autistici (Schmitz et al., 2005). Sarebbe quindi auspicabile uno studio di questi trascritti come possibili geni candidati per DSA. In un lavoro del 2007, Balciuniene et al. (2007) hanno riportato tre diverse delezioni a carico della regione 10q22.3q23.31, ricca in LCR (Low-Copy-Repeats), che si associavano alla presenza di disturbi del comportamento e dello sviluppo cognitivo, tra cui l’autismo. Si potrebbe pensare quindi che in tale regione vi siano uno o più geni necessari al normale funzionamento del sistema nervoso e che questi potrebbero essere studiati come geni candidati per DSA. Tra gli altri, gli autori propongono PTEN, il gene mutato nelle sindromi di Bannayan-Riley-Ruvacalba e di Cowden, a carico del quale sono state precedentemente descritte mutazioni in pazienti con DSA e macrocefalia (Butler et al., 2005). Molte delle anomalie cromosomiche descritte nei pazienti con DSA non possono essere rilevate con le comuni tecniche citogenetiche. Jacquemont e colleghi (Jacquemont et al., 2006) hanno recentemente identificato mediante array-CGH, una tecnica citogenetico-molecolare di analisi quantitativa del DNA, un numero elevato di riarrangiamenti cromosomici (piccole delezioni e duplicazioni) associati a DSA sindromico. Gli autori suggeriscono che uno screening ad alta risoluzione dell’intero genoma dovrebbe essere offerto a tutti i pazienti con DSA sindromico sia ai fini diagnostici che di ricerca. La presenza di DSA nell’ambito di alcune malattie, come la sindrome dell’X fragile o la sindrome di Rett, suggerisce, infine, il coinvolgimento di meccanismi epigenetici di regolazione della espressione genica nella patogenesi dell’autismo (Hagerman et al., 2005; Samaco et al., 2005). Le anomalie citogenetiche di più comune riscontro nel DSA, peraltro, riguardano regioni cromosomiche, come 15q11-q13, 7q21-q31.31 e 7q32.3-q36.3, soggette a imprinting genetico. Nuove tecniche di analisi dovrebbero quindi essere applicate per poter individuare eventuali epialleli che conferiscono suscettibilità a DSA. Infine, The Autism Genome Project Consortium (2007) ha pubblicato nel 2007 nuove ricerche che confermano il ruolo patogenetico della regione cromosomica 11p12-p13 e delle neuroxine. Le neurexine implicate con le neuroligine nella sinaptogenesi glutamatergica, richiamano in causa i geni legati al glutammato quali possibili candidati nella eziologia dell’autismo. Queste evidenze e l’importanza che i meccanismi epigenetici hanno nel corretto sviluppo dei circuiti neurali implicati nel comportamento sociale, nel linguaggio e nelle funzioni cognitive, ne suggeriscono il coinvolgimento nella patogenesi dell’autismo (Schanen, 2006). I fattori ambientali, come l’esposizione ad agenti tossici e teratogeni, gli insulti perinatali o le infezioni contratte in utero come la rosolia e il citomegalovirus, sono ritenuti responsabili del 6-10% dei casi di autismo. Comportamenti autistici sono anche frequenti nella sclerosi tuberosa o come esiti di encefalite infettiva; questi, però, incidono solo per una piccola parte dei casi diagnosticati. L’autismo, come il ritardo mentale, ha svariate eziologie e più che di autismo si dovrebbe parlare degli autismi (Geshwind et al., 2007). Studi genetici recenti accoppiati a studi anatomici e neuroradiologici funzionali, permettono di iniziare a formulare un’ipotesi eziopatogenetica uniforme. Si suppone una deconnessione durante lo sviluppo delle aree ad alta capacità associativa frontale. Questa ipotesi della deconnessione durante lo sviluppo potrebbe spiegare la peculiarità 129 A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice dei sintomi, l’insorgenza durante i primi anni dello sviluppo appunto e l’eterogeneità degli aspetti cognitivi e comportamentali. La presa in carico e il programma terapeutico del bambino con autismo oggi pone l’accento sulla centralità del paziente e della sua famiglia. In particolare, esistono dei veri e propri programmi di parent training, come, per esempio, l’Early Bird programme (Sheilds, 2001). Il programma riabilitativo prevede sia approcci di tipo comportamentale, che didattico e dovrebbe essere avviato quanto più precocemente possibile. Gli strumenti utilizzati sono molteplici: tra gli altri, i Lovaas programmes, l’uso di immagini per la comunicazione espressiva, l’Higashi excercise programme, ecc. Purtroppo, è molto difficile misurare l’efficacia dei questi interventi, anche se esistono degli indicatori di successo terapeutico (come, per esempio, l’acquisizione dell’uso funzionale del linguaggio verbale o di un sistema alternativo di comunicazione). L’intervento dovrebbe tenere conto delle peculiari attitudini comportamentali del bambino autistico, tendere allo sviluppo di abilità specifiche e migliorare le capacità empatiche e di comunicazione del piccolo paziente. Valorizzare il potenziale e migliorare la qualità di vita di questi pazienti è il principale obiettivo della presa in carico terapeutica, trattandosi di una condizione che durerà probabilmente per tutta la vita. Dal bambino all’adulto: il perpetuarsi di una patologia Importanti studi epidemiologici longitudinali (Rutter et al., 2006) confermano che esiste una continuità, in alcuni casi sorprendentemente stretta, tra la patologia comportamentale e psichiatrica del bambino e quella dell’adulto. Studi retrospettivi hanno dimostrato che giovani schizofrenici presentavano, rispetto ai controlli, una maggiore quantità di problemi sociali, comportamentali ed emozionali prima dell’insorgenza franca della patologia. Anche le tappe di acquisizione dello sviluppo motorio e del linguaggio risultavano alterate e veniva trovata una forte associazione tra episodiche esperienze allucinatorie e sporadiche credenze deliranti all’età di 11 anni e il successivo svilupparsi di una schizofrenia conclamata a 26 anni. Studi prospettici hanno dimostrato che in soggetti autistici, un QI di performance inferiore a 50 correlava con il raggiungimento di scadenti inserimento sociale e autonomie personali. Al contrario, un QI superiore a 50 e un linguaggio intellegibile intorno ai 5 anni, si associava con un raggiungimento all’età di 29 anni di sufficiente autonomia personale, sociale e lavorativa e, in una ristretto numero di casi, anche al conseguimento di una istruzione superiore. Questo gruppo di pazienti, tuttavia, continuò a mostrare durante tutta la vita significativi comportamenti autistici. Nondimeno, la metà dei ragazzi con un QI di 70 o superiore, non raggiungeva alcun inserimento né sociale, né lavorativo. Questa variabilità non è spiegabile: forse è frutto anche di un diverso approccio abilitativo. Gli adulti che sono stati affetti da disturbo del linguaggio specifico continuano a presentare sfumati disturbi del linguaggio espressivo, ma sorprendentemente, hanno una maggiore frequenza di difficoltà e insuccessi nel funzionamento sociale, nelle relazioni sociali e nelle prove di valutazione della teoria della mente. L’ipotesi è che il disturbo del linguaggio isolato è parte di un continuum di patologie che vanno dai disturbi del linguaggio espressivo sfumati fino a forme più gravi, che nell’età adulta si manifestano, soprattutto, come disturbo delle funzioni pragmatiche e sociali, ricordando, fatte le dovute riserve, le difficoltà pragmatiche e sociali dell’autismo. La dislessia può essere diagnosticata ovviamente solo in età scolare, anche se, in epoca prescolare questi bambini presentano deficit cognitivi e linguistici geneticamente determinati. I problemi di lettura 130 successivamente condizionano i successi accademici e direttamente ed indirettamente le opportunità lavorative e le condizioni materiali nella vita adulta creando problemi persistenti. Numerosi studi hanno documentato l’alta frequenza di associazione tra dislessia e comportamento antisociale. L’ADHD è una patologia caratterizzata da uno spettro di sintomi di gravità eterogenea, che supera di gran lunga i criteri stabiliti per la diagnosi. Nell’infanzia, l’ADHD, si associa a disturbo oppositivo provocatorio e a disturbi della condotta e nell’età adolescenziale a comportamenti antisociali. Rispetto ai gruppi controllo, nell’età adulta, metà dei bambini con diagnosi di ADHD presentano un deterioramento psicopatologico, sociale e accademico. I geni DRD4 e DAT1 (Mill et al., 2006) implicati nell’espressione comportamentale dell’ADHD correlano con variazioni di QI e con una prognosi peggiore nell’età adulta. Questi dati sono recenti e meritano ulteriori conferme. Box 1 - Ereditabilità (h2) Esprime la proporzione della variabilità totale di una popolazione che può essere attribuita alla variabilità genetica. Si usa comunemente per indicare quanto la variabilità fenotipica, in una data popolazione, è influenzato da fattori genici ed è, quindi, trasmissibile alla progenie. Può variare da 0 (la variabilità del carattere dipende interamente da effetti di natura ambientale) a 1 (la variabilità del carattere dipende interamente da effetti di natura genetica), e spesso è espressa in termini percentuali. L’ereditabilità (Box 1) della depressione è bassa nell’infanzia, ma tende a salire nell’adolescenza, cosicché, la depressione in età prepubere non sembra evolvere in depressione in età adulta, al contrario di quella che si sviluppa in età adolescenziale. L’aumento di ereditabilità in adolescenza può essere spiegato dalla correlazione con eventi avversi o stressanti contingenti o avvenuti precocemente nella vita. Infatti, alcune ricerche hanno dimostrato che già intorno ai 5 anni, i bambini che hanno una percezione cognitiva inappropriata di tipo depressogeno, hanno una tendenza a fare valutazioni negative o a richiamare alla Box 2 - Stile esplicativo La modalità di pensiero che spiega la realtà e gli eventi che accadono nella propria vita è stata definita stile esplicativo. Gli psicologi hanno identificato tre componenti dello stile esplicativo: la personalizzazione, la permanenza e la pervasività. La personalizzazione si realizza quando la persona ritiene di essere la causa dell’evento, cioè internalizza la causa per l’evento. La permanenza è data dalla sensazione di immodificabilità dell’evento. La pervasività, dalla capacità di quell’evento di influenzare tutti gli avvenimenti della vita. Quelle persone che si ritengono responsabili degli eventi che gli accadono, che ritengono questi eventi immodificabili e capaci di influenzare vari aspetti della loro vita hanno uno stile esplicativo pessimistico. Quelle persone che ritengono gli altri responsabili degli eventi e pensano che questi eventi si risolvano rapidamente e che abbiano influenze limitate e circoscritte, per converso hanno uno stile esplicativo ottimistico (Seligman, 1996-2000). Lo stile esplicativo non è la causa di problemi, ma piuttosto un fattore di rischio disposizionale. Dato un evento incontrollabile, lo stile esplicativo determina il modo in cui l’individuo risponde. Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo memorie esperienze negative di fronte ad eventi stressanti. Nei bambini, esperienza della depressione e stile esplicativo (Box 2) pessimistico si influenzano l’una con l’altra: una depressione nell’infanzia può indurre un stile esplicativo pessimistico, anche quando la depressione si è risolta, ma a sua volta uno stile esplicativo pessimistico preannuncia sintomi depressivi nella tarda infanzia. L’ansia può manifestarsi nell’infanzia, proseguire nell’adolescenza e accompagnarsi alla depressione maggiore. Il sovrapporsi e il continuarsi l’una nell’altra di queste comorbilità ha fatto supporre che l’ansia possa essere considerata un’espressione età-dipendente di una patologia depressiva nascosta. Questa ipotesi è sostenuta da studi longitudinali di popolazione e studi su gemelli che confermano una comune eziologia genetica con differenti espressioni fenotipiche in differenti fasi dello sviluppo. Di fatto, il disturbo di ansia da separazione nell’infanzia, l’ansia generalizzata, e gli attacchi di panico, frequentemente si associano alla depressione, e per converso, nell’adulto, la depressione è in genere, preceduta da un disturbo iperansioso adolescenziale. Il comportamento antisociale è un forte esempio di interazione tra patrimonio genetico e ambiente. Diversi studi hanno dimostrato l’esistenza di un legame tra comportamento oppositivo a 3 anni, difficoltà comportamentali fra i 5 e i 7 anni, disturbi della condotta a 7-9 anni, e un aumentato rischio di disturbi di personalità antisociale e comportamenti delinquenziali nella giovinezza. Negli stessi soggetti erano più frequenti mediocri risultati scolastici e lavorativi, scadenti rapporti affettivi e precoci rapporti sessuali spesso non protetti, abuso di sostanze, disturbi dell’umore, comportamenti suicidari. Questa raccolta di osservazioni della letteratura conferma che la conoscenza di una condizione morbosa o dei suoi prodromi è indispensabile per un’identificazione e successiva prevenzione e terapia. Il pediatra può individuare precocemente i fattori di rischio ambientali, sociali e familiari che possono condizionare la salute mentale del bambino. Il pediatra è il primo professionista, capace di esercitare un patrocinio e una difesa del bambino (advocacy). Bibliografia De Chateau P. Presidential address: early parent-infant interaction and mental health. Infant Ment Health J 2007;28:449-57. Dunn V, Goodyer IM. Longitudinal investigation into childhood- and adolescence-onset depression: psychiatric outcome in early childhood. Br J Psychiatry 2006;188:216-22. Dunn DW, Kronenberger WG. Childhood epilepsy, attention problems, and ADHD: review and practical considerations. Semin Pediatr Neurol 2006;12:222-8. Eckert MA, Leonard CM, Wilke M, et al. 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Pansini 5, 80131 Napoli • Tel. +39 081 7462678 • Fax +39 081 7463116 • E-mail: ennio. [email protected] 132 Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 133-141 PEDIATRIA DELLO SVILUPPO E DEL COMPORTAMENTO Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale Giovanna Stefania Colafati1 2, Rosamaria Siracusano3, Claudia Mastroeni4, Valentina Maglio5, Antonella Gagliano3, Saverio Malena1, Francesco Di Salle2 4 Dipartimento di Diagnostica per Immagini, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma; 2 Department of Cognitive Neuroscience, University of Maastricht; 3 Cattedra di Neuropsichiatria Infantile, Università di Messina; 4 Cattedra di Neurofisiopatologia, Università di Messina; 5 Dipartimento di Neuroscienze, Università di Pisa 1 Riassunto La risonanza magnetica consente lo studio delle funzioni neuronali attraverso una serie di applicazioni avanzate. In particolare, la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è un metodo che permette lo studio non invasivo della funzionalità cerebrale in vivo mediante la valutazione degli effetti dell’attivazione neuronale sulla perfusione regionale cerebrale. Accanto alla fMRI propriamente detta, tuttavia, vengono trattati in questo articolo anche i presupposti teorici e gli aspetti applicativi essenziali di alcune tecniche emergenti correlate di studio funzionale del cervello, che si avvalgono di approcci di tipo morfometrico-strutturale (studi di connettività, fiber tracking, Voxel Based Morphometry) e di tipo spettroscopico. Sebbene l’applicazione delle tecniche di neuroimaging funzionale ai disturbi neuropsichiatrici dei bambini comporti peculiari sfide metodologiche riguardanti soprattutto la collaborazione dei pazienti, grazie ad esse sono stati compiuti progressi sostanziali nella comprensione del normale sviluppo delle funzioni cognitive, delle sue patologie e dei disordini del comportamento in età pediatrica. In questo articolo vengono illustrati i differenti aspetti delle applicazioni delle metodiche di neuroimaging funzionale in età pediatrica, i risultati raggiunti nella comprensione dei disordini neuropsichiatrici nell’età evolutiva, con uno sguardo ai possibili futuri sviluppi. Summary Functional Magnetic Resonance Imaging has recently opened entire new avenues in the study of human brain and mind. Under this term goes a set of new methods permitting to measure neuronal activity in vivo (Blood Oxygenation Level Dependent contrast fMRI), anatomical brain connectivity (Diffusion Tensor Imaging), morphometric correlates of brain patologies (Voxel Based Morphometry and Cortical Thickness Measurement), and neurotransmitters distribution and functional changes (neurotransmitters functional spectroscopy). The combined use of these methods has a revolutionary potential in modern child neuropsychiatry, and is already changing the way many major syndromes are classified and the hypotheses regarding their pathogenesis. In this paper we review the applications already proposed for the methods of functional Magnetic Resonance Imaging in the study of child neuropsychiatric diseases, and the results gathered up to now, together with some major limitations in their use in a pediatric population. Introduzione La risonanza magnetica funzionale (fMRI) è un insieme di metodologie di Risonanza Magnetica (MRI) di studio funzionale del cervello. Nell’ambito di tale denominazione viene indicata più propriamente la risonanza funzionale con tecnica BOLD (Blood Oxygenation Level Dependent contrast), ma anche lo studio del tensore di diffusione, alcune nuove applicazioni spettroscopiche e nuove tecniche di morfometria automatica cerebrale. Il denominatore comune di tali metodologie è quello di impiegare come strumento di base la risonanza magnetica e di produrre informazioni sulle funzioni cerebrali. Le metodologie più diffuse e dalle quali si è ricavata la maggior parte delle informazioni utilizzabili per lo studio delle patologie neuropsichiatriche infantili sono la risonanza funzionale con tecnica BOLD e la morfometria automatica. L’fMRI BOLD è una tecnica non invasiva di studio dell’attività cerebrale di recente introduzione (1992) ed in rapidissima evoluzione, che usa le piccole differenze di suscettività magnetica esistenti tra emoglobina ossigenata e deossigenata come mezzo di contrasto endogeno, e modificazioni regionali del rapporto ossi/deossiemoglobina durante l’attivazione neuronale come fattore di localizzazione dell’attività. Le informazioni fMRI BOLD vengono generalmente presentate sotto forma di mappe statistiche di attivazione, sogliate a valori standard (p < 0,01-0,05) di significatività corretta per misure multiple. Le tecniche di morfometria automatica sono ancora più recenti e il prototipo di tali tecniche è noto con il nome di Voxel Based Morphometry (VBM). Questa tecnica confronta due popolazioni tra di loro, più spesso pazienti e controlli, e produce mappe colorimetriche sogliate a valori standard di significatività corretta, che rappresentano la differente probabilità che in un determinato punto dell’immagine si trovi sostanza grigia/bianca o liquor in una rispetto all’altra popolazione esaminata. Una variante metodologica morfometrica proposta recentemente, denominata misura dello spessore corticale, avvicina molto di più tali tecniche a eventuali applicazioni cliniche per le quali sia necessario l’esame di un singolo individuo e non di un’intera popolazione (Fig. 1). 133 G.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Di Salle possono presentare segni precoci già a 12 mesi di vita. Ad oggi, la diagnosi si basa esclusivamente su rilievi clinici comportamentali. L’apporto del neuroimaging alla ricerca e alla diagnostica si basa sul riscontro di segni patologici di tipo strutturale, biochimico e funzionale. Figura 1. Tappe dell’elaborazione delle informazioni anatomiche ai fini delle indagini morfometriche. I dati anatomici tridimensionali cerebrali vengono separati dalle strutture extracerebrali e ricostruiti tridimensionalmente. La ricostruzione tridimensionale può essere condotta lungo la giunzione tra sostanza bianca e grigia (sin) o sulla superficie piale. Dalla composizione di queste due superficie viene calcolato lo spessore corticale in ogni punto. Perché sia possibile estendere i risultati a un’intera popolazione e perché diventino confrontabili tra di loro in individui differenti, i dati vengono “normalizzati”, ovvero deformati leggermente sino a coincidere dimensionalmente con una griglia tridimensionale di riferimento (normalizzazione di Talairach). Applicazione in età evolutiva Entrambe queste tecniche presentano un enorme potenziale applicativo allo studio di patologie neuropsichiatriche infantili anche se sono presenti alcuni problemi di implementazione in popolazioni di bambini poco collaboranti. Questi problemi, riconducibili essenzialmente alla necessità di evitare qualsiasi movimento durante l’effettuazione dell’esame e di garantire una corretta effettuazione dei compiti con i quali viene modulata l’attività cerebrale, sono ora più facilmente risolvibili grazie all’enorme avanzamento tecnologico di questa disciplina. Attualmente è crescente l’uso di tali metodiche nello studio dei disordini dello sviluppo neurologico quali l’autismo, la dislessia e l’ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder). Analizziamo di seguito il ruolo della fMRI, integrato con le metodiche di morfometria in MRI nella comprensione del substrato neurobiologico di questi disordini. Segni strutturali di patologia Misure generali dello sviluppo cerebrale Vi sono evidenze, con studi condotti con misura della circonferenza cranica (HC), MRI e autoptici (PM), di un aumento del volume cerebrale nei DSA durante l’infanzia. Le dimensioni massime sono raggiunte circa 6-10 anni prima del normale, con “traiettoria” di crescita complessa (Fig. 2) (MRI, Courchesne et al., 2001). Rispetto alla HC e agli studi PM, la MRI ha il notevole vantaggio di dare in vivo una misura diretta del tessuto cerebrale. La sua affidabilità è però modulata da fattori metodologici, come il tipo di apparecchiatura e le tecniche di acquisizione usate, e soprattutto dalle procedure di segmentazione che definiscono i confini delle strutture da misurare. L’importante disomogeneità dei risultati presenti in letteratura (Brambilla et al., 2003; Redcay e Courchesne, 2005) è pertanto da imputare alle molte variabili metodologiche oltre che demografiche e cliniche, ed impone un assoluto rigore dei metodi e la correzione delle misure per quei fattori che fisiologicamente influiscono sul volume cerebrale, come età, sesso e QI. Misure regionali dello sviluppo cerebrale Attraverso studi PM (Bauman e Kemper, 2005) era stato ipotizzato che l’inizio della patologia si collocasse nella prima metà della gravidanza, con anomalie localizzate nella corteccia fronto-temporo-parietale, nel sistema limbico e nel cervelletto, ove il rilievo macroscopico di ipoplasia cerebellare è prodotto da un’importante riduzione delle cellule di Purkinje. La metodologia di analisi assume cruciale importanza nello studio della corteccia cerebrale. La maggior parte degli studi morfometrici è stata effettuata con VBM, che fornisce valutazioni quantitative ma Disturbi dello spettro autistico Cenni nosografici L’autismo, considerato il prototipo dei disordini dello spettro autistico (DSA) che comprendono anche il disturbo di Asperger e i disordini pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati, è definito dalla compromissione qualitativa della comunicazione verbale e non verbale e dell’interazione reciproca sociale, e da comportamenti ristretti, ripetitivi e stereotipati (DSM-IV). In base al QI > o < a 70, l’autismo si definisce ad alto (HFA) o a basso funzionamento (LFA). I DSA sono molto frequenti (secondo le stime correnti 1:150 bambini), con un rapporto M/F di 4:1. Di solito diagnosticati a 2-3 anni di età, 134 Figura 2. La figura mostra l’andamento nel tempo di una misura congiunta di circonferenza cranica e di volume cerebrale in MRI. Il cervello autistico passa bruscamente da una dimensione inferiore del 10% rispetto al volume cerebrale normale alla nascita, ad una dimensione maggiore del 10% tra il primo ed il secondo anno di vita, per poi tendere asintoticamente alle dimensioni normali nella terza decade di vita (modificata da Redcay e Courchesne 2005). Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale probabilistiche dei compartimenti strutturali cerebrali, e non consente la misura metrica dello spessore. Può essere strumento affidabile solo su popolazioni sufficientemente estese e relativamente omogenee sotto il profilo morfostrutturale, dipendendo dalla possibilità di elaborare un template comune di popolazione e da una corretta segmentazione dei diversi tessuti. Al contrario, misure dirette dello spessore corticale sono più precise e si adattano meglio a popolazioni disomogenee. Nei bambini autistici il massimo volume corticale è raggiunto a 2-4 anni, circa 4-6 anni prima della norma con successivo rallentamento di crescita (Courchesne et al., 2001). La letteratura è discordante riguardo alla sede ed al tipo di interessamento, ipo o iperplastico, della sostanza grigia (SG) (review, Brambilla et al., 2003). Tuttavia, di particolare interesse sono i riscontri di variazioni regionali nelle aree che sottendono le funzioni cognitive sociali, tra le quali il giro frontale inferiore (IFG) il solco temporale superiore (STS), il giro fusiforme (FG), l’amigdala e la regione prefrontale mediale. Studi con misure dirette dello spessore in età evolutiva hanno riscontrato un aumento dello spessore corticale totale, nei lobi parietale e temporale (Hardan et al., 2006), e una riduzione nella corteccia orbitale prefrontale, nell’STS di sinistra e nel giro occipito-temporale (Chung et al., 2005). Caratteristiche particolari del fenotipo neuropsicologico autistico si correlano con specifiche variazioni morfometriche: per esempio variazioni correlate con i comportamenti ripetitivi e stereotipati si riscontrano nella corteccia orbitofrontale (riduzione volumetrica [Hardan et al., 2006]) e nel nucleo caudato (aumento di volume [Rojas et al., 2006]), mentre la compromissione dell’interazione sociale è correlata con differenze volumetriche nell’amigdala di destra (aumento di volume [Munson et al., 2006]). Anche la sostanza bianca (SB) raggiunge il suo maggior volume a 2-3 anni di età, mentre questo rapporto sembra ridursi nell’adolescenza per rallentata velocità di crescita (Courchesne et al., 2001). Recenti studi MRI con tecniche in grado di valutare la struttura della sostanza bianca (Diffusion Tensor Imaging) sono suggestivi per una compromissione nelle regioni cerebrali coinvolte nelle funzioni sociali (Barnea-Goraly et al., 2004). Uno studio volumetrico mostra uno shifting superiore e posteriore dei solchi frontali, della scissura silviana e di quelli temporali, che depone per una ritardata o incompleta maturazione, essendovi normalmente uno shifting anteriore con l’età (Levitt et al., 2003) (Fig. 3). Figura 3. Diagramma dei solchi cerebrali, codificato con un codice cromatico per indicare le maggiori differenze di posizione tra ogni solco in una popolazione di bambini con autismo rispetto a una popolazione di soggetti normali di controllo (modificata da Levitt et al., 2003). Figura 4. La sostanza bianca periferica sottocorticale e di associazione intraemisferica appare di volume aumentato nell’autismo, mentre la sostanza bianca profonda, contenente fibre di associazione interemisferica e di proiezione appare di volume ridotto. A testimonianza di tale rilievo si apprezza una riduzione di volume del corpo calloso. L’incremento della SB, sottocorticale, che riguarda prevalentemente le connessioni intraemisferiche (Herbert et al., 2004), mentre è costante il rilievo di un assottigliamento del corpo calloso (CC), nelle porzioni anteriori che mediano la connessione interemisferica fra aree corticali del cervello sociale (Just et al., 2007) (Fig. 4). Segni biochimici di patologia La spettroscopia con MRI (MRS) è una metodica in grado di valutare vari metaboliti cerebrali a basso peso molecolare in vivo. Studi MRS recenti in bambini riportano una riduzione dell’N-acetil-aspartato (NAA, amminoacido presente prevalentemente nei neuroni e negli assoni), nella SG e SB cerebrale, e del glutammato (Glx, neurotrasmettitore eccitatorio con ruolo integrante nei processi di sviluppo neuronale) nella SG cerebrale e cerebellare (DeVito et al., 2007). Poiché negli studi autoptici (Bauman e Kemper, 2005) non risulta una ridotta densità neuronale della SG è verosimile che la riduzione del NAA cerebrale rifletta un deterioramento della funzione neuronale piuttosto che una riduzione del numero dei neuroni. Segni funzionali di patologia Teoria dell’ipoconnettività Questa teoria nasce nel 2004 da uno studio fMRI (Just et al., 2004) che aveva riscontrato una ridotta sincronizzazione di aree corticali attivate durate compiti di linguaggio, e suggerisce un ipofunzionamento dei circuiti di connessione, risultante in un deficit di integrazione delle informazioni. Tale ipotesi è in accordo con i dati strutturali di modificazione delle connessioni intraemisferiche e interemisferiche e con il rilievo PM di minicolonne (organizzazione verticale dei neuroni nella neocorteccia) più numerose e sottili nelle regioni frontale e temporale che creano un’abbondanza di fibre corte di connessione (Casanova et al., 2002). 135 G.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Di Salle In accordo sono anche i dati forniti da studi fMRI in adolescenti ed adulti ad esempio con compiti di funzionamento esecutivo (Just et al., 2007), di linguaggio e di immaginazione figurata (Kana et al., 2006). Compromissione dell’interazione sociale e linguaggio Nei pazienti con DSA è evidente una compromissione dell’abilità a riconoscere le facce e a valutare le espressioni facciali, essenziali nell’interazione sociale. Studi fMRI con compiti di discriminazione delle facce hanno riscontrato una mancata attivazione del giro fusiforme (FG, importante nell’identificazione delle facce), e una iperattivazione del giro temporale inferiore, coinvolto normalmente nel riconoscimento di oggetti, indicativa di una strategia alternativa di percezione (Schultz et al., 2000). Gli studi fMRI sono controversi circa l’attivazione dell’amigdala, importante nel riconoscimento “automatico” delle emozioni facciali e nel rilevarne il significato sociale, tuttavia in bambini ed adolescenti (Wang et al., 2004) è stato rilevato che i DSA hanno una ipoattivazione dell’amigdala rispetto ai controlli in compiti di confronto delle emozioni facciali (compito percettivo) rispetto a quelli di descrizione dell’espressione del volto (compito cognitivo), con una minore attivazione anche del FG durante il compito di confronto. Il rilievo di un’attivazione del precuneo testimonia l’uso di strategie percettive alternative, mentre non è stata riscontrata compromissione dell’attività della corteccia prefrontale, coinvolta nell’interpretazione “cognitiva” esplicita delle emozioni. Un recente studio (Dapretto et al., 2006) mostra che i bambini con HFA hanno un’ipoattivazione dell’amigdala, dell’insula e della pars opercularis durante l’osservazione e l’imitazione delle espressioni emozionali della faccia e, a indicare l’uso di circuiti alternativi di elaborazione, maggiore attivazione delle aree modulate dall’attenzione visiva e motoria (Fig. 5). La pars opercolaris del giro frontale inferiore (IFG) fa parte, con la adiacente area ventrale (frontale inferiore), il lobulo parietale inferiore ed il STS, del network di aree che sottendono al sistema dei neuroni specchio (MNS), basato sul fenomeno di attivazione della stessa area corticale in seguito sia all’osservazione Figura 5. I bambini con DSA non mostrano attivazione della pars opercularis del giro frontale inferiore (area anteriore) importante nel network del sistema dei neuroni specchio, presente invece, maggiormente a destra, in quelli con sviluppo tipico. Diversamente dai controlli, nei DSA si osserva attivazione della corteccia visiva (area posteriore) (modificata e semplificata da Dapretto et al., 2006). 136 sia all’esecuzione di una determinata azione. I dati riportati supportano dunque l’ipotesi di una precoce disfunzione del MNS, possibile substrato del deficit di empatia nei DSA. Evidenze fMRI di circuiti neurali alternativi di elaborazione provengono anche da studi sul linguaggio. Negli HFA è presente iperattivazione dell’area di Wernicke (LSTG), coerente con la loro iperlessicalità o inusuale capacità nell’elaborazione del significato delle singole parole e ipoattivazione dell’IFG di sinistra (e in particolare la pars triangularis), in accordo con il rilievo della compromissione dell’elaborazione del significato di frasi complesse. La presenza di una diversa attivazione del solco intraparietale che sottende l’immaginazione mentale, indica probabilmente una strategia di compenso (Just, 2004). Tale area è reclutata anche per la comprensione di frasi a bassa raffigurazione visiva e non solo, come nei controlli sani, per quelle più complesse (Kana, 2006). Particolarmente compromessa nei DSA è la capacità di capire le “intenzioni comunicative” degli altri quando il linguaggio è utilizzato in modo non letterale. Mediante l’uso di vignette con commenti lineari e ironici, è stata rilevata in bambini una maggiore attivazione prefrontale e temporale, in particolare dell’IFG di destra, quando è necessario interpretare il contesto, e bilateralmente in presenza di analisi prosodica. Ciò riflette verosimilmente un maggiore bisogno di integrare i segnali facciali, prosodici e del contesto per desumere l’intento di chi parla quando il significato letterale di un commento è in conflitto con le altre informazioni disponibili. Interessante è inoltre il rilievo che le istruzioni esplicite di prestare attenzione alle espressioni facciali o al tono di voce provocano un pattern di attivazione corticale simile a quello dei bambini con sviluppo tipico, circostanza indicativa di integrità dei circuiti neurali (Wang et al., 2006). Se confermati, questi dati potrebbero avere importanti risvolti sulle strategie di intervento riabilitativo. Disturbo da deficit d’attenzione e iperattività Cenni nosografici L’ADHD è un disturbo a esordio precoce caratterizzato da due gruppi di sintomi o dimensioni psicopatologiche definibili come inattenzione e iperattività-impulsività. La prevalenza è del 5-10% in popolazioni di bambini in età scolare. L’inattenzione si manifesta soprattutto come scarsa cura per i dettagli e incapacità a portare a termine le azioni intraprese con tendenza allo spostamento rapido del focus attentivo da un’attività all’altra; l’impulsività, generalmente associata ad iperattività, è la difficoltà ad inibire le risposte automatiche e a controllare il comportamento in vista di uno scopo. Tali sintomi, non dipendono da deficit cognitivi ma da difficoltà oggettive nell’autocontrollo e nella capacità di pianificazione (DSM-IV). Ipotesi neurobiologiche e neuroimaging Sebbene la patogenesi non sia ancora nota, nell’ultima decade gli studi di neuroimaging hanno notevolmente ampliato le conoscenze sulle basi neurobiologiche. In particolare sembra emergere l’ipotesi di un’alterazione anatomo-funzionale dei circuiti cerebrali che sottendono l’inibizione e l’autocontrollo, funzioni necessarie per il mantenimento dell’attenzione. Appaiono compromesse la corteccia prefrontale, che ha un ruolo fondamentale nei processi di attenzione, controllo esecutivo, programmazione e working memory, il cervelletto responsabile della percezione e modulazione delle componenti tempo-correlate degli stimoli e delle azioni, e i gangli della base coinvolti nell’attivazione Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale Tabella I. Alterazioni morfologiche in bambini e adolescenti con ADHD. Aree cerebrali Alterazione Studi Volume totale cerebrale Riduzione del volume Castellanos (2001, 2002), Mostofsky (2002), Hill (2003), Carmona (2005) Lobo frontale Riduzione volume della corteccia prefrontale Mostofsky (2002), Hill (2003), Wang (2007) Riduzione volume lobo frontale Carmona (2005) Riduzione volume corteccia orbitofrontale Sowell (2003), Carmona (2005) Riduzione sostanza grigia prefrontale MacAlonan (2007) Aumento sostanza grigia orbitofrontale Plessen (2006) Riduzione volume corteccia anteriore bilaterale Sowell (2003) Riduzione volume regione temporo mediale dx Wang (2007) Riduzione di volume lobo parietale sin Wang (2007) Lobo temporale Lobo parietale Riduzione volume corteccia paritale inf bil Sowell (2003) Lobo occipitale Aumento volume lobo occipitale dx Wang (2007) Cervelletto Deficit volume cerebellare bilaterale Castellanos (2002), Carmona (2005) Deficit volume verme cerebellare Castellanos (2001) Ippocampo Aumento volume bilaterale Plessen (2006) Corpo calloso Riduzione volume corpo calloso Hill (2003) Gangli della base Riduzione volume gangli della base Wang (2007) e inibizione dell’attività motoria (Bush et al., 2005; Seidman et al., 2005). Neuroimaging morfometrico Anche nell’ADHD i dati morfometrici finora prodotti sono estremamente disomogenei (Tab. I), probabilmente a causa di differenze metodologiche, dell’esiguo numero di pazienti esaminati e della disomogeneità dei campioni (pazienti trattati o meno farmacologicamente, range di età diversi). Il comune denominatore dei dati pubblicati è una riduzione generalizzata di volume del cervello, differente nei due sessi (Castellanos et al., 2001). Ad essa contribuisce una riduzione di volume della SG e della SB cerebrale, del corpo calloso (Hill et al., 2003) e del cervelletto. Tale riduzione di volume è diffusa ma non generalizzata: ad esempio l’ippocampo e la SG orbito-frontale ed occipitale appaiono aumentate di volume. È interessante notare che l’aumento di volume ippocampale si correla negativamente con la severità dei sintomi, forse per un ruolo compensatorio (Plessen et al., 2006). Neuroimaging funzionale Il primo approccio allo studio del disturbo con metodiche di neuroimaging funzionale si è avvalso di metodiche medico/nucleari (SPECT e PET) che hanno dato un notevole contributo alla comprensione della patogenesi, suggerendo che una disregolazione del sistema dopaminergico sia alla base del disturbo (Spencer et al., 2005). Gli studi di fRMI hanno focalizzato l’attenzione sulle aree cerebrali normalmente coinvolte nelle funzioni esecutive, che regolano i processi cognitivi di pianificazione, controllo e coordinazione. Tra le alterazioni delle funzioni esecutive (memoria, orientamento, pianificazione, capacità di problem solving, ecc.) riscontrate nell’ADHD, i deficit d’attenzione e d’inibizione di risposte automatiche risultano rilevanti e sono stati i più indagati con metodiche di neuroimaging funzionale. In particolare si è evidenziata una minore attività dei sistemi di inibizione ed un’iperattività dei sistemi di attivazione. Per esempio attraverso il task di “Go-No Go”, che valuta l’abilità di un indivi- duo ad inibire una risposta abituale, si è evidenziato un deficit funzionale della corteccia prefrontale (Durston, 2003). In particolare un’ipoattivazione della corteccia dorsale cingolata anteriore (dACC) sembra essere correlata a un’inefficiente capacità di decisione, ed un aumento degli errori ad un aumento dell’attività della corteccia cingolata anteriore perigenuale (pgACC) (Bush, 2005). Sempre con lo stesso task di inibizione della risposta, Rubia et al. (2005) evidenziano un’ipoattivazione della corteccia prefrontale inferiore destra durante l’inibizione riuscita e della corteccia cingolata posteriore e del precuneo durante l’inibizione fallita. Per quanto riguarda l’attenzione appare evidente un’alterazione funzionale di tutti i network che la sottendono. Ad esempio attraverso un Attention Network Test è stata osservata una ridotta attivazione dell’ACC durante lo stato di allerta, ed un’ipoattivazione del putamen dx e della corteccia prefrontale sin durante il controllo esecutivo, mentre durante la fase di orientamento della scelta un aumento dell’attivazione nel putamen dx e nel giro frontale dx e nell’insula di sin. Mentre Rubia et al. (2007) valutando le risposte date quando il task prevede l’individuazione di uno stimolo deviante (Odball) in una serie temporale di stimoli identici, evidenzia una ridotta attivazione della corteccia temporale, dell’insula, dei gangli della base e del lobo parietale. La composizione di questi e altri risultati (Fig. 6) ha permesso di definire l’ADHD come un disturbo neurobiologico della corteccia prefrontale e dei nuclei della base che si manifesta come un’alterata elaborazione degli stimoli ambientali. Dislessia Cenni nosografici La dislessia è un disturbo neurobiologico, con una larga componente ereditaria, che comporta una difficoltà specifica nell’acquisizione della capacità di leggere in modo fluente e/o accurato e che in genere si associa a carente abilità nella scrittura. Possono esservi anomalie sottostanti dell’elaborazione cognitiva 137 G.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Di Salle Figura 6. Esempi di task frequentemente usati nell’ADHD. come ad esempio un deficit della percezione visiva o dello sviluppo del linguaggio, prevalentemente nella sua componente fonologica. Le stime della prevalenza dei disturbi dell’apprendimento variano dal 2 al 10% (DSM-IV). Conseguenze secondarie possono includere problemi di comprensione e ridotta pratica della lettura, con risvolti sull’ampliamento del vocabolario e sul bagaglio di conoscenze culturali generali. Neuroimaging morfometrico e strutturale I dati degli studi di imaging morfologico appaiono poco omogenei per le diversità metodologiche e per l’esiguità e l’eterogeneità dei pazienti studiati (spesso adulti con conseguenti ulteriori variabili legate alla scolarizzazione o al ridotto esercizio di lettura negli anni). Le regioni cerebrali compromesse in bambini ed adolescenti sono alquanto diffuse e includono il lobo frontale, parietale, temporale e il cervelletto. Mediante tecniche di segmentazione manuale (Eckeret et al., 2003) è stata riscontrata una riduzione di volume della pars triangularis e del lobo anteriore destro cerebellare, correlate con il deficit neuropsicologico. Correlazioni positive tra modificazioni del volume della SG e performance sono state inoltre riscontrate nel giro temporale inferiore sinistro (riduzione), precentrale bilaterale (aumento, Vinckenbosk el al., 2005) e fusiforme bilaterale, nel cervelletto e nel giro sovramarginale destro (riduzione, Kronbichler et al., 2007). 138 Figura 7. Aree cerebrali coinvolte nel deficit di lettura. Nella maggior parte degli studi di fRMI è riportata un’ipoattivazione della regione temporo-parietale dorsale, deputata all’analisi fonologica, della regione occipitotemporale ventrale responsabile dell’abilità di decodifica dell’ortografia. Un aumento di attivazione è invece riscontrato nella regione frontale, in particolare il giro frontale inferiore, associata alle funzioni di denominazione e articolazione. Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale Neuroimaging funzionale Gli studi di imaging funzionale hanno permesso di identificare, come responsabili di un mancato sviluppo di una lettura fluente, alterazioni funzionali in regione occipito-temporale sinistra (Shaywtz et al., 2006). In particolare il dato più frequentemente riscontrato è un’ipoattivazione a sinistra della regione parieto-temporale (competenza fonologica) e nel giro fusiforme (abilità di decodifica dell’ortografia), e un’iperattivazione dell’IFG (processo di compensazione) (Hoeft et al., 2007) (Fig. 7). Un recente studio (Hoeft et al., 2006) evidenzia un’ipoattivazione del lobo parietale inferiore sinistro, giro linguale e fusiforme, probabilmente in relazione con un’anomalia funzionale indipendente dal livello dell’abilità di lettura, mentre aree di iperattivazione (giro frontale sinistro inferiore e medio, caudato sinistro e talamo destro) correlano con il livello corrente dell’abilità di lettura. Inoltre le alterazioni morfologiche evidenziate correlano solo con il pattern di ipoattivazione. Uno studio recente (Booth et al., 2007), analizzando le capacità semantiche di adolescenti, evidenzia che i dislessici presentano, sia per task visivi che uditivi, una ridotta attività nel giro temporale medio e lobo parietale inferiore di sinistra, area dell’integrazione dell’informazione semantica, e un’ipoattivazione del giro frontale omolaterale, propria solo dello stimolo visivo. L’identificazione delle sub-componenti che costituiscono i circuiti neurali interessati dal deficit di lettura,rappresenta un traguardo importante anche se ancora incompleto. Conclusioni Per quanto gli studi di neuroimaging funzionale siano suggestivi ed estremamente promettenti, al momento non si prospetta per tali indagini un chiaro ruolo diagnostico. L’utilizzazione che viene fatta attualmente del neuroimaging consiste in genere nello sfruttare le potenzialità dell’imaging strutturale tradizionale per escludere patologie organiche. Tuttavia appare evidente che la convergenza di informazioni morfometriche e funzionali in un approccio multimodale, possa contribuire notevolmente all’identificazione dei circuiti neurali interessati nei diversi disordini. Di estremo interesse risulta la possibilità che i risultati del neuroimaging possano avere un’influenza diretta sulla scelta e sul monitoraggio delle strategie neuroriabilitative, per la possibilità di valutare direttamente la normalizzazione dei circuiti neurali interessati dai DSA e dall’ADHD. Box di orientamento Cosa sapevamo prima... L’autismo per molti decenni è stato considerato un disturbo affettivo, risultante da precoci esperienze di attaccamento e inadeguata promozione dell’interazione sociale, statico nel corso della vita. Il disturbo da deficit d’attenzione e iperattività, definito prima “disordine ipercinetico” o Minimal Brain Dysfunction, fino a pochi anni fa veniva diagnosticato raramente, soprattutto in Italia, pur rappresentando uno dei disordini psichiatrici più frequenti in età evolutiva. Ciò è dovuto ai differenti criteri di classificazione e alle difficoltà di identificarne il nucleo patogenetico. Numerosi sono stati, nel corso degli anni, i tentativi di comprendere le basi neuropsicologiche della dislessia, ma le teorie che si sono susseguite (teorie del processamento rapido, visiva, cerebellare, magnocellulare, ecc.), non sono sufficienti a chiarire la natura del disturbo. Cosa sappiamo oggi... Negli ultimi anni le tecniche di neuroimaging hanno dato un notevole contributo alla comprensione delle basi neurobiologiche di alcuni disordini dell’età evolutiva (disturbo autistico, disturbo da deficit d’attenzione e iperattività, dislessia). Una revisione della letteratura sull’uso delle tecniche di neuroimaging mette in evidenza risultati spesso eterogenei legati sia alla ridotta numerosità che alla disomogeneità delle popolazioni studiate, ed anche a variabili dipendenti dalle metodiche stesse. Tuttavia acquisizioni interessanti sono state prodotte da tecniche di morfometria in risonanza magnetica, dalla possibilità di valutare in vivo metaboliti cerebrali con la spettroscopia (MRS), e soprattutto dalla possibilità di una valutazione funzionale (fMRI) dei circuiti neurali. Ad esempio, i DSA sono adesso riconosciuti come espressione di un disordine organico dello sviluppo cerebrale pre- e post-natale e gli studi di morfometria hanno avuto un ruolo cruciale nell’identificazione di sottili modifiche morfometriche tipiche, con diversa espressione con l’età. Gli studi funzionali hanno poi evidenziato la presenza di alterazioni tipiche delle funzioni cerebrali implicate nello sviluppo e nella gestione delle relazioni sociali, e il ruolo cruciale che assume un diffuso deficit di connessione a lungo raggio ed interemisferica. L’applicazione di queste metodiche ha permesso, tra l’altro, di definire l’ADHD come un disturbo neurobiologico della corteccia prefrontale e dei nuclei della base, e la dislessia come una disfunzione del processing fonologico nel cui sviluppo intervengono fattori genetici e/o ambientali. Quali ricadute sulla pratica clinica... Per quanto gli studi di neuroimaging siano suggestivi ed estremamente promettenti, al momento non si prospetta per tali indagini un chiaro ruolo diagnostico. L’utilizzazione che ne viene fatta consiste in genere nell’esclusione di patologie lesionali. Tuttavia appare evidente che la convergenza di informazioni morfometriche e funzionali in un approccio multimodale, possa contribuire notevolmente all’identificazione dei circuiti neurali interessati nei diversi disordini, possa ben presto essere di aiuto nell’identificazione di bambini a rischio e, soprattutto, nelle valutazioni prognostiche e nel monitoraggio dei trattamenti. Di estremo interesse la possibilità che i risultati del neuroimaging abbiano un’influenza diretta sulla scelta e sul monitoraggio delle strategie neuroriabilitative, per la possibilità di monitorare direttamente la normalizzazione dei circuiti neurali interessati dai DSA e dall’ADHD. 139 G.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Di Salle Bibliografia Barnea-Goraly N, Kwon H, Menon V, et al. White matter structure in autism: preliminary evidence from diffusion tensor imaging. Biol Psychiatry 2004;55:323-6. * Bauman ML, Kemper TL. Neuroanatomic observations of the brain in autism: a review and future directions. Int J Dev Neurosci 2005;23:183-7. Booth JR, Bebko G, Burman DD, Bitan T. Children with reading disorder show modality independent brain abnormalities during semantic tasks. Neuropsychologia 2007;45:775-83. Brambilla P, Hardan A, di Nemi SU, et al. Brain anatomy and development in autism: review of structural MRI studies. Brain Res Bull 2003;61:557-69. Accurata review sugli studi MRI strutturali nei DSA, con rilievo di evidenze convergenti di anomalie nei network neurali comprendenti il sistema fronto-temporo-parietale, limbico ed il cervelletto, manifesti nei primi anni di vita. Focalizza la necessità del rigore metodologico e della correzione dei dati per fattori di confound quali età, sesso e QI, sulla base della discordanza dei risultati nei vari studi. ** Bush G, Valera EV, Seidman LJ. Functional neuroimaging of attention deficit hyperactivity disorder: a review and suggested future directions. Biol Psychiatry 2005;57:1273-84. Attenta review che prende in considerazione sia studi di SPECT, PET che di fRMI e le aree cerebrali interessante da un punto di vista funzionale nell’ADHD. ** Casanova MF, Buxhoeveden, DP, Switala AE, et al. Minicolumnar pathology in autism. Neurology 2002;58:428-32. Castellanos FX, Giedd JN, Berquin PC, et al. Quantitative brain magnetic resonance imaging in girls with attention-deficit/hyperactivity disorder. Arch Gen Psyshiatry 2001;58:289-95. * Chung MK, Robbins SM, Dalton KM, et al. Cortical thickness analysis in autism with heat kernel smoothing. Neuroimage 2005;25:1256-65. Courchesne E, Karns C, Davis HR, et al. Unusual brain growth patterns in early life in patients with autistic disorder: an MRI study. Neurology 2001;57:245-54. Studio condotto su un’ampia popolazione con DSA che evidenzia l’anomalia del pattern di crescita del volume totale, della sostanza grigia e bianca e del cervelletto. ** Dapretto M, Davies MS, Pfeifer JH, et al. Understanding emotions in others: mirror neuron dysfunction in children with autism spectrum disorders. Nat Neurosi 2006;9:28-30. È il primo studio fMRI che indaga il sistema dei neuroni specchio in bambini con DSA fornendo forte supporto all’ipotesi di una precoce disfunzione di questo sistema, verosimile substrato del deficit di empatia. ** DeVito TJ, Drost DJ, Neufeld RW, et al. Evidence for cortical dysfunction in autism: a proton magnetic resonance spectroscopic imaging study. Biol Psychiatry 2007;61:465-73. Durston S. A review of the biological bases of ADHD: what have we learned from imaging studies? MRDD 2003;9:184-95. Ampia analisi che correla aspetti clinici, neurofarmacologici, genetici e di neuroimaging dell’ADHD, con particolare attenzione agli studi anatomici e funzionali. ** Ecker MA, Leonard CM, Richerds TL, et al. Anatomical correlates of dyslexia: frontal and cerebellar findings. Brain 2003;126:482-94. Dettagliata review che analizza lo stato dell’arte in merito agli studi morfometrico-strutturali sulla dislessia. ** Hardan AY, Muddasani S, Vemulapalli M, et al. An MRI study of increased cortical thickness in autism. Am J Psychiatry 2006;163:1290-2. Herbert MR, Ziegler DA, Makris N, et al. Localization of white matter volume increase in autism and developmental language disorder. Ann Neurol 2004;55:530-40. Questo studio caratterizza le modificazioni volumetriche della sostanza bianca dimostrando che solo quella sottocorticale è ingrandita, con una deviazione rispetto alla norma soprattutto nei lobi frontali. Questo pattern volumetrico è simile a quello dei soggetti con disturbi del linguaggio. ** Hoeft F, Hernandez A, McMillon G, et al. Neural basis of dyslexia: a comparison between dyslexic and non dyslexic children equated for reading ability. J Neurosci 2006;26:10700-8. ** L’autore confronta pazienti dislessici sia con controlli omogenei per età che 140 controlli omogenei per abilità di lettura. Emergono quindi dati dipendenti dalla dislessia e dati correlati alle abilità di lettura indipendenti dalla dislessia. Hoeft F, Meyler A, Hernandez A, et al. Functional and morphometric brain dissociation between dyslexia and reading ability.PNAS 2007;104:4234-9. Just MA, Cherkassky VL, Keller TA, Minshew NJ. Cortical activation and synchronization during sentence comprehension in high-functioning autism: evidence of underconnectivity. Brain 2004;127:1811-21. Questo studio mette in luce nei DSA il deficit di connessione funzionale fra aree deputate al linguaggio e, integrando i questi risultati ai dati strutturali di studi precedenti, l’autore formula la teoria dell’ipoconnettività. ** Just MA, Cherkassky VL, Keller TA, et al. Functional and anatomical cortical underconnectivity in autism: evidence from an FMRI study of an executive function task and corpus callosum morphometry. Cereb Cortex 2007;17:951-61. * Kana RK, Keller, TA, Cherkassky VL, et al. Sentence comprehension in autism: thinking in pictures with decreased functional connectivity. Brain 2006;129:2484-93. * Konrad K, Neufang S, Hanisch, et al. Disfuctional attentional in children with attention deficit/hyperactivity disorder: evidence from an Event-related fuctional magnetic resonance imaging study. Biol Psychiatry 2006;59:643-51. Kronbichler M, Wimmer H, Staffen W, et al. Developmental dyslexia: gray matter abnormalities in the occipitotemporal cortex. Hum Brain Mapp 2008;29:613-25. Levitt JG, Blanton RE, Smalley S, et al. Cortical sulcal maps in autism. Cereb Cortex 2003;13:728-35. Munson J, Dawson G, Abbott R, et al. Amygdalar volume and behavioral development in autism. Arch Gen Psychiatry 2006;63:686-93. Questo studio, condotto su 45 bambini tra 3 e 6 anni di età con DSA, dimostra che l’incremento volumetrico dell’amigdala di destra a 3-4 anni è associato con un decorso clinico più severo ed una prognosi peggiore nelle età successive. ** Plessen KJ, Bansal R, Zhu H, et al. Hippocampus and amygdala morphology in attention-deficit/hyperactivity disorder. Arch Jen Psychiatry 2006;63:795-807. Redcay E, Courchesne E. When is the brain enlarged in autism? A meta-analysis of all brain size reports. Biol Psychiatry 2005;58:1-9. Questa meta-analisi mostra che l’incremento volumetrico cerebrale postnatale è un fenomeno presente in molti studi. Nonostante i diversi metodi di acquisizione, quando le dimensioni cerebrali sono corrette per l’età risulta un chiaro pattern di aumentato accrescimento cerebrale con ridotto o normale volume alla nascita, rapido accrescimento nei primi 2-4 anni e successivo forte rallentamento di crescita. ** Rojas DC, Peterson E, Winterrowd E, et al. Regional gray matter volumetric changes in autism associated with social and repetitive behavior symptoms. BMC Psychiatry 2006;6:56. * Rubia K, Smith A, Brammer M, et al. Abnormal brain activation during inhibition and error detection in medication-naïve adolescents with ADHD. Am J Psychiatry 2005;162:1067-75. * Rubia K, Smith A, Brammer M, Taylor E. 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In vivo neuroreceptor imaging in attention-deficit/hyperactivity disorder: a focus on the dopamine transporter. Biol Psychiatry 2005;57:1293-300. Attenta review confronta studi PET e SPECT, effettuati in centri diversi e con sonde diverse, ne risulta che nella maggior parte degli studi è evidente un significativo aumento dei recettori dopaminergici in bambini e adulti con ADHD in particolare a livello dello striato, probabilmente come compenso di una disregolazione della dopamina. ** Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale Vinckenbosch E, Robichon F, Eliez S. Gray matter alteration in dyslexia: converging avidence from volumetric and voxel-by-voxel MRI analyses. Neuropsychologia 2005;43:324-31. Wang AT, Dapretto M, Hariri AR, et al. Neural correlates of facial affect processing in children and adolescents with autism spectrum disorder. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 2004;43:481-90. * Wang AT, Lee SS, Sigman M, Dapretto M. Reading affect in the face and voice: neural correlates of interpreting communicative intent in children and adolescents with autism spectrum disorders. Arch Gen Psychiatry 2007;64:698-708. Studio condotto su 80 bambini con DSA. Le istruzioni esplicite a prestare attenzione alle espressioni facciali ed al tono di voce, possono evocare un incremento di attività della corteccia prefrontale mediale che è parte del network per la conoscenza delle intenzioni degli altri. Questi risultati suggeriscono una strategia per future ricerche su interventi neuroriabilitativi. ** Corrispondenza dott.ssa Giovanna Stefania Colafati, Dipartimento di Diagnostica per Immagini, Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, largo S. Onofrio 4, 00165 Roma • Tel. +39 06 68592487 • Cell. +39 349 6972982 • E-mail: [email protected] 141 Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 142-151 FRONTIERE Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK come meccanismo unificante delle sindromi di Noonan, LEOPARD, Costello e cardiofaciocutanea: le sindromi neurocardiofaciocutanee Giuseppe Zampino*, Marco Tartaglia** Servizio di Epidemiologia e Clinica dei Difetti Congeniti, Istituto di Clinica Pediatrica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; ** Dipartimento di Biologia Cellulare e Neuroscienze, Istituto Superiore di Sanità, Roma * Riassunto In questa revisione si riassumono le recenti evidenze sperimentali che dimostrano il coinvolgimento della via RAS-MAPK, da tempo nota per il suo ruolo centrale nell’oncogenesi, nella patogenesi di un gruppo di sindromi malformative (le sindromi di Noonan, di Costello, LEOPARD e cardiofaciocutanea, e la neurofibromatosi di tipo 1) che condividono caratteristiche cliniche, tra cui dimorfismi facciali, difetti cardiaci congeniti, anomalie dell’apparato scheletrico, coinvolgimento ectodermico, deficit d’accrescimento e cognitivo e, in alcuni casi, predisposizione a specifici tumori o emopatie maligne, giustificando il loro raggruppamento in un’unica famiglia di sindromi “neurocardiofaciocutanee”. Saranno discussi gli eventi molecolari responsabili dell’alterata regolazione del flusso di informazioni promosso dalla via RAS-MAPK e il loro significato funzionale. Presenteremo le evidenze molecolari e biochimiche che dimostrano la diversa capacità delle mutazioni trasmesse per via germinale o acquisite come eventi somatici di alterare quei processi cellulari che controllano lo sviluppo embrionale e l’oncogenesi, e delineeremo gli aspetti clinici più importanti relativi ai diversi geni coinvolti. Summary Here we review recent molecular and biochemical evidence supporting the major role of dysregulared RAS-MAPK signalling in the pathogenesis of a group of clinically related developmental disorders, namely Noonan, LEOPARD, Costello and cardiofaciocutaneous syndromes and neurofibromatosis type 1. These conditions share a number of features, including facial dysmorphisms, congenital heart defects and hypertrophic cardiomyopathy, skeletal anomalies, ectodermal involvement, defective linear growth, variable cognitive deficit and predisposition to certain malignancies, and have collectively been termed “neurocardiofaciocutaneous syndromes”. In this review, we report on the molecular causes, i.e. missense mutations in the PTPN11, SOS1, HRAS, KRAS, NF1, BRAF, RAF1, MEK1 and MEK2 genes, which are responsible for dysregulation of the RAS-MAPK pathway, as well as the accumulating data indicating the strict correlation between the identity of mutations and their recurrence as a somatically acquired vs. germline transmitted event. Their differential perturbing role on protein function and signal flow will be discussed. We also summarize the most relevant clinical features associated with each individual gene involved. Introduzione La trasduzione del segnale è un processo di trasferimento e integrazione dell’informazione necessario alla cellula per rispondere in maniera appropriata agli stimoli esterni. Nel contesto della singola cellula, le vie di trasduzione del segnale controllano virtualmente tutti i processi metabolici, così come lo stesso destino cellulare. A un livello superiore, esse rappresentano il meccanismo attraverso cui le cellule coordinano lo sviluppo embrionale e la crescita dell’organismo. Non sorprende perciò che un numero sempre più cospicuo di malattie genetiche sia causato da alterazioni del flusso di segnalazione intracellulare, così come la disregolazione di una stessa via di trasduzione possa essere alla base di malattie dello sviluppo tra loro correlate e contribuire all’oncogenesi. Le proteine RAS (Rat Osteosarcoma) sono trasduttori del segnale che funzionano come interruttori molecolari nel controllo della risposta cellulare a stimoli esterni. Esse giocano un ruolo chiave nel controllo 142 della proliferazione, del metabolismo e del destino differenziativo delle cellule, accoppiando l’attivazione di recettori di superficie cellulare a diverse vie di segnalazione intracellulare che hanno come ultimo bersaglio la modulazione dell’espressione genica. La loro scoperta, la delineazione del loro ruolo nella regolazione delle funzioni cellulari e l’identificazione dell’attività aberrante di queste proteine come uno degli eventi più frequenti che contribuisce all’oncogenesi, hanno fornito un importante contributo per la comprensione dei complessi meccanismi molecolari che regolano la comunicazione tra cellule. Sorprendentemente, le scoperte effettuate negli ultimi anni hanno documentato che una distinta classe di mutazioni in queste proteine e in trasduttori del segnale che ne controllano la funzione o ne propagano il segnale, rappresenta la causa molecolare di un gruppo di malattie dello sviluppo clinicamente correlate che include la sindrome di Noonan (SN; OMIM 163950) (Box 1), la sindrome cardiofaciocutanea (SCFC; OMIM 115150) (Box 2), la sindrome di Co- Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK Box 1 - La sindrome di Noonan Incidenza 1:2000 Sviluppo psicomotorio Difficoltà di apprendimento (25%), ritardo psicomotorio lieve (10-15%). Performance verbali più basse di quelle motorie. Crescita Peso: normale alla nascita, rallentamento nei primi mesi di vita per difficoltà alla deglutizione, recupero entro 18 mesi. Statura: alla nascita normale, in seguito il 50° centile segue il 3° centile del bambino normale fino alla pubertà quando lo spurt puberale nel paziente con SN sembra meno intenso. L’età ossea è ritardata permettendo una crescita potenziale fino ai 20 anni. Caratteristiche craniofacciali Si modificano con l’età, gli elementi salienti sono: ipertelorismo, epicanto, rima oculare verso il basso, palpebra ptosica e/o ispessita, padiglioni auricolari a basso impianto, ruotati posteriormente con elice ripiegato, sella nasale ipoplasica e punta bulbosa. Nel tempo il volto diventa triangolare con fronte ampia e mento appuntito. Caratteristiche cardiovascolari Stenosi della valvola polmonare (20-50%), spesso displasica; cardiomiopatia ipertrofica (20-30%); DIA, DIV, coartazione aortica, tetralogia di Fallot; disturbi del ritmo. Caratteristiche scheletriche Collo corto, torace carenato superiormente escavato inferiormente, cubito valgo. Caratteristiche ectodermiche Cheratosi follicolare sulla superficie estensoria degli arti e sul volto, lentiggini e macchie caffèlatte. Altro Pterigio del collo, criptorchidismo, epatosplenomegalia, diatesi emorragica, linfedema dorso mani e piedi che tende a scomparire, anomalia di Chiari, ipoacusia. La presenza di lentigginosi, ipoacusia, cardiomiopatia ipertrofica orientano verso la sindrome LEOPARD. La presenza di macchie caffè-latte, neurofibromi e noduli di Lish orientano verso la condizione neurofibromatosi-sindrome di Noonan. Box 2 - La sindrome cardiofaciocutanea Incidenza Rara Sviluppo psicomotorio Ritardo psicomotorio moderato-grave; epilessia a volte farmacoresistente. Crescita Peso e lunghezza neonatali normali; difficoltà alla deglutizione e problemi gastrointestinali (RGE) determinano rallentamento della crescita ponderale; bassa statura. Caratteristiche craniofacciali Macrocefalia relativa, fronte alta, costrizione bitemporale, arcate sopraorbitarie ipoplasiche, ipertelorismo, telecanto, epicanto, ptosi, naso piccolo con ipoplasia della radice e narici anteverse, padiglioni auricolari a basso impianto, angolati posteriormente, con digitazioni sul lobo, filtro profondo, relativa micrognatia. Caratteristiche cardiovascolari Stenosi polmonare, difetti settali, cardiomiopatia ipetrofica, displasia valvolare, disturbi del ritmo. Caratteristiche scheletriche Collo corto, deformità del torace. Caratteristiche ectodermiche Iperchetarosi palmo-plantare, ulteritema ophrogene, ittiosi; capelli sparsi, ricci, fini e radi; sopracciglia ipoplasiche; unghie distrofiche. Altro Criptorchidismo, malformazione di Chiari tipo 1, idrocefalo. stello (SC; OMIM; 218040) (Box 3), la sindrome LEOPARD (SL; OMIM 151100) e la neurofibromatosi di tipo 1 (NF1; OMIM 162200) (Gelb e Tartaglia, 2006; Kratz et al., 2007; Schubbert et al., 2007). Tali sindromi malformative condividono numerose caratteristiche cliniche, giustificando il loro raggruppamento in un’unica famiglia di sindromi “neurocardiofaciocutanee”. In questa revisione sarà presentata una breve descrizione della via di trasduzione del segnale mediato dalle proteine RAS e dalle MAPK (Mitogen-Associated Protein Kinase), degli eventi molecolari responsabili dell’alterata regolazione della via e del loro impatto nello sviluppo e nell’oncogenesi. Le proteine RAS e la cascata MAPK Le proteine RAS sono piccole GTPasi, cioè enzimi che idrolizzano la guanosina trifosfato (GTP) a guanosina difosfato (GDP), in grado di assumere due conformazioni alternative che dipendono dal loro legame con i due nucleosidi guaninici (Barbacid, 1987). Nella loro conformazione attiva esse legano GTP, mentre nella conformazione funzionalmente inattiva legano GDP. Tali legami sono estremamente specifici e stabili, e il corrispondente cambiamento conformazionale richiede la loro interazione con proteine che agiscono come catalizzatori, sia per la reazione di idrolisi del GTP a GDP che per il rilascio di GDP (Wittinghofer e Waldmann, 2000). L’attivazione delle proteine RAS avviene in risposta alla stimolazione indotta da una molecola segnale, quale un fattore di crescita o una citochina. Il legame di tali molecole a recettori della superficie cellulare promuove infatti la creazione di siti di legame per proteine adattatrici e proteine con funzione regolatoria nella porzione citoplasmatica dei 143 G. Zampino, M. Tartaglia Box 3 - La sindrome di Costello Incidenza 1:2000 Sviluppo psicomotorio Difficoltà di apprendimento (25%), ritardo psicomotorio lieve (10-15%). Performance verbali più basse di quelle motorie. Crescita Peso: normale alla nascita, rallentamento nei primi mesi di vita per difficoltà alla deglutizione, recupero entro 18 mesi. Statura: alla nascita normale, in seguito il 50° centile segue il 3° centile del bambino normale fino alla pubertà quando lo spurt puberale nel paziente con SN sembra meno intenso. L’età ossea è ritardata permettendo una crescita potenziale fino ai 20 anni. Caratteristiche craniofacciali Si modificano con l’età, gli elementi salienti sono: ipertelorismo, epicanto, rima oculare verso il basso, palpebra ptosica e/o ispessita, padiglioni auricolari a basso impianto, ruotati posteriormente con elice ripiegato, sella nasale ipoplasica e punta bulbosa. Nel tempo il volto diventa triangolare con fronte ampia e mento appuntito. Caratteristiche cardiovascolari Stenosi della valvola polmonare (20-50%), spesso displasica; cardiomiopatia ipertrofica (20-30%); DIA, DIV, coartazione aortica, tetralogia di Fallot; disturbi del ritmo. Caratteristiche scheletriche Collo corto, torace carenato superiormente escavato inferiormente, cubito valgo. Caratteristiche ectodermiche Cheratosi follicolare sulla superficie estensoria degli arti e sul volto, lentiggini e macchie caffèlatte. Altro Pterigio del collo, criptorchidismo, epatosplenomegalia, diatesi emorragica, linfedema dorso mani e piedi che tende a scomparire, anomalia di Chiari, ipoacusia. La presenza di lentigginosi, ipoacusia, cardiomiopatia ipertrofica orientano verso la sindrome LEOPARD. La presenza di macchie caffè-latte, neurofibromi e noduli di Lish orientano verso la condizione neurofibromatosi-sindrome di Noonan. recettori stessi. La formazione di questo complesso attivato favorisce la traslocazione in membrana di proteine GEF (Guanine Nucleotide Exchange Factor) che, interagendo direttamente con le proteine RAS, ne facilitano il rilascio di GDP, promuovendone il legame con GTP, presente a più alte concentrazioni nella cellula (Fig. 1). RAS legante GTP assume una conformazione in grado di interagire con numerosi effettori intracellulari per regolare diverse vie di trasduzione dell’informazione che promuovono le risposte cellulari al segnale. Il flusso dell’informazione è controllato da un meccanismo di regolazione attuato dalle proteine GAP (GTPase Activating Proteins) che, stimolando l’attività catalitica di RAS, promuovono l’idrolisi del GTP a GDP e, conseguentemente, il ripristino della conformazione inattiva. Figura 1. La via di trasduzione del segnale RAS-MAPK e i geni coinvolti nelle sindromi neurocardiofaciocutanee. 144 La modalità attraverso cui le proteine RAS controllano il flusso dell’informazione è complessa (Malumbres e Barbacid, 2003) ed è in parte mediata dalla cascata MAPK. Questa via di traduzione comprende le proteine RAF (Rat Fibrosarcoma) ad attività serina/treonina chinasica, effettori di RAS, in grado di fosforilare e attivare le proteine MEK (Mitogen-Activated and Extracellular Signal-Regulated Kinase), chinasi a doppia specificità che a loro volta attivano le proteine ERK (Extracellular Signal-Regulated Kinase), serina/treonina chinasi che regolano la funzione di proteine citoplasmatiche e nucleari, inclusi numerosi fattori di trascrizione. Mutazioni somatiche e germinali dei geni HRAS e KRAS I tre geni RAS codificano per quattro proteine di 21 kD, HRAS, NRAS, KRASA e KRASB, le ultime due originate da un diverso processamento dello stesso trascritto. I quattro membri della famiglia sono caratterizzati da una regione N-terminale altamente conservata che comprende le regioni di interazione con le proteine effettrici e regolatorie e la tasca che lega GTP/GDP, e una corta porzione C-terminale altamente divergente che contiene motivi di riconoscimento per il complesso processamento postraduzionale richiesto per direzionare queste proteine sulla superficie citoplasmatica della membrana cellulare e delle altre membrane intracellulari. Le mutazioni somatiche attivanti nei geni RAS si osservano in circa il 30% dei tumori solidi e leucemie. Nella grande maggioranza dei casi le mutazioni che promuovono le proteine RAS a divenire oncoproteine causano singole sostituzioni aminoacidiche di un numero esiguo di residui che pregiudicano l’attività catalitica GTPasica della proteina e/o conferiscono resistenza all’azione delle proteine GAP. In entrambi i casi, queste mutazioni promuovono il mantenimento costitutivo della conformazione attiva legante GTP in grado di interagire con i diversi effettori e di conferire un comportamento aberrante nella cellula tumorale. Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK Tabella I. Lista dei geni implicati nelle sindromi neurocardiofaciocutanee, fenotipo associato e rilevanza clinica delle mutazioni somatiche dei geni coinvolti. Gene Sindrome e prevalenza delle mutazioni Caratteristiche cliniche PTPN11 Sindrome di Noonan (40-50%); sindrome Stenosi della polmonare, deficit cognitivo lieve JMML, leucemie acute LEOPARD (85%) (25%) SOS1 Sindrome di Noonan (10%) Normale sviluppo cognitivo e accrescimento, Non descritte anomalie ectodermiche KRAS Sindrome di Noonan (3%); sindrome cardiofaciocutanea (5-10%) Fenotipo clinico variabile, ritardo mentale lieve Tumori del colon, polmoni, pancreas, ovarici e o moderato, coinvolgimento ectodermico tratto biliare, leucemie acute HRAS Sindrome di Costello (85-100%) Marcato deficit di crescita, cardiomiopatia Tumori della vescica e della tiroide, melanomi ipertrofica, coinvolgimento articolare, predisposizione a tumori NF1 Neurofibromatosi tipo 1 (100%) Macchie caffè-latte, lentigginosi atipica, neu- JMML, leucemie acute, neurofibromi, rofibromi, glioma ottico, noduli di Lisch, lesioni astrocitomi, feocromocitomi ossee distintive BRAF Sindrome cardiofaciocutanea (32-80%) Ritardo mentale moderato/grave, epilessia, Melanomi, tumori del tratto biliare, del colon e coinvolgimento ectodermico della tiroide RAF1 Sindrome di Noonan (3-5%); sindrome Cardiomiopatia ipertrofica, deficit cognitivo e Non descritte LEOPARD (3-5%) di accrescimento, lentigginosi MEK1 Sindrome cardiofaciocutanea (5-10%) Ritardo mentale moderato/grave, epilessia, Non descritte coinvolgimento ectodermico MEK2 Sindrome cardiofaciocutanea (5%) Ritardo mentale moderato/grave, epilessia, Non descritte coinvolgimento ectodermico Studi condotti negli ultimi tre anni hanno dimostrato che mutazioni germinali nei geni HRAS e KRAS sono state identificate essere la causa molecolare rispettivamente della SC (Aoki et al., 2005) e di una condizione fenotipicamente eterogenea con caratteristiche e segni clinici ricollegabili alla SN, ma sovrapponibili a quelli caratterizzanti la SCFC e la SC (Carta et al., 2006; Niihori et al., 2006; Schubbert et al., 2006). Sebbene studi indipendenti abbiano documentato una diversa prevalenza delle mutazioni di HRAS tra i pazienti con diagnosi di SC (Aoki et al., 2005; Estep et al., 2006; Gripp et al., 2006; Kerr et al., 2006; Zampino et al., 2007) (Tab. I), l’opinione di chi scrive è di limitare la diagnosi di questa entità nosologica ai soggetti con mu- Neoplasie associate a mutazioni somatiche tazioni in eterozigoti di HRAS. Questa considerazione è supportata dalla marcata omogeneità del fenotipo associato a queste mutazioni e tiene conto dell’importante significato prognostico associato alla presenza di una mutazione nel gene HRAS relativo alla predisposizione a neoplasie. Nella SC le mutazioni germinali sono generalmente missenso, cioè responsabili di singole sostituzioni aminoacidiche, e coinvolgono preferenzialmente il codone 12 (Tab. II). Queste mutazioni sono state osservate solo raramente nei tumori. Il diverso spettro mutazionale e l’evidenza sperimentale di una più debole proprietà trasformante delle sostituzioni identificate in pazienti con SC, suggeriscono che le mutazioni ricorrenti nell’oncogenesi non si Tabella II. Spettro molecolare e relativa prevalenza delle mutazioni germinali e somatiche ricorrenti dei geni HRAS e KRAS. Proteina HRAS KRAS Sostituzione aminoacidica o residuo coinvolto Evento germinale Evento somatico Gly12Ser 85% 5% Gly12Ala 8% < 1% Gly12Val 1% 44% Gln61His/Leu/Arg/Lys – 33% Altre 6% 18% Gly12 – 87% Gly13 – 10% Val14Ile 18% – Gln22Glu/Arg 9% – Pro34Leu/Arg/Gln 14% – Gly60Arg 9% – Asp153Val 22% – Phe156Ile/Leu 9% – Altre 19% 3% Fonti dei dati molecolari: Carta et al., 2006; Niihori et al., 2006; Schubbert et al., 2006; COSMIC, http://www.sanger.ac.uk/genetics/CGP/cosmic/. 145 G. Zampino, M. Tartaglia Figura 2. Mutazioni dei geni RAS nelle sindromi neurocardiofaciocutanee. A) Struttura cristallografica di HRAS e localizzazione dei residui coinvolti nella sindrome di Costello. È evidenziata la tasca di legame al GTP/GDP (porzione legante il gruppo trifosfato in giallo, rosso e arancio; porzione legante l’anello purinico in celeste, blu e viola) e i residui mutati nella sindrome di Costello. B) Struttura genomica di KRAS e localizzazione delle mutazioni missenso specifiche dell’isoforma KRASB. In grigio sono evidenziati gli esoni coinvolti nel diverso processamento del trascritto (splicing alternativo) che codificano per la porzione C-terminale della proteina. Gli esoni codificanti non sottoposti a splicing alternativo sono evidenziati in nero. osservano come evento germinale in quanto incompatibili con lo sviluppo embrionale o fetale. Differentemente dalle sostituzioni aminoacidiche ai codoni 12 e 13 che causano una riduzione significativa dell’attività GTPasica di RAS e/o conferiscono resistenza all’azione delle GAP, le sostituzioni identificate ai codoni 117 e 146 disregolano la funzione della proteina con un diverso meccanismo molecolare (Clanton et al., 1986; Der et al., 1986; Walter et al., 1986). Infatti, entrambi i residui si affacciano nella tasca che accoglie l’anello purinico del nucleotide (Fig. 2) e studi biochimici suggeriscono che queste sostituzioni aminoacidiche indeboliscono il legame di RAS per il GTP/GDP, favorendo la dissociazione del complesso e promuovendo l’associazione di RAS con GTP, presente nella cellula a una concentrazione più elevata. Mutazioni germinali missenso di KRAS ricorrono in una piccola per- centuale di pazienti con SN. L’espressione fenotipica di queste mutazioni è ampia e abbraccia condizioni con classici dimorfismi craniofacciali, bassa statura, macrocefalia relativa, collo corto/pterigio, ritardo mentale lieve e stenosi della polmonare, fino a quadri in cui il deficit di crescita ponderale, la cardiomiopatia ipertrofica e la cute lassa generano il sospetto di SC o in cui il ritardo mentale moderato e il coinvolgimento ectodermico con capelli sparsi e sottili senza ipercheratosi e ittiosi, ricordano la SCFC (Tab. I) (Carta et al., 2006; Niihori et al., 2006; Schubbert et al., 2006; Zenker et al., 2007a). Le mutazioni di KRAS introducono sostituzioni aminoacidiche che non sono generalmente osservate come evento somatico nei tumori (Tab. II). La caratterizzazione delle conseguenze funzionali di alcune di queste mutazioni ha dimostrato che esse sono attivanti, ma più deboli rispetto a quelle oncogeniche (Schubbert et al., 2006). Alcune delle sostituzioni aminoacidiche di KRAS (Val152Gly, Asp153Val e Phe156Ile) coinvolgono residui localizzati lontano dalla tasca di legame con il nucleoside guaninico e coinvolgono esclusivamente una delle due isoforme della proteina (Fig. 2). Sulla base di studi di modeling molecolare è stato proposto che queste mutazioni possano causare un riarrangiamento conformazionale locale della proteina in grado di destabilizzare il legame con GTP/GDP, favorirne la dissociazione, similmente a quanto osservato per le mutazioni di HRAS ai codoni 117 e 146. L’identificazione di questo secondo gruppo di mutazioni germinali conferma i dati sperimentali precedentemente ottenuti su modelli murini knock-out che hanno dimostrato il ruolo primario della isoforma KRASB nello sviluppo embrionale (Plowman et al., 2003). Mutazioni germinali e somatiche del gene PTPN11 Mutazioni in eterozigosi del gene PTPN11 si osservano in circa il 40-50% dei pazienti con SN (Tartaglia et al., 2001, 2002). PTPN11 codifica per la proteina SHP2, un trasduttore del segnale ad attività tirosina fosfatasica che modula positivamente la funzione di RAS (Neel et al., 2003). La sua struttura è caratterizzata da due dominii SH2 (SRC Homology 2) disposti in tandem nella regione N-terminale e un singolo dominio catalitico (Protein Tyrosine Phosphatase [PTP]) nella porzione C-terminale (Fig. 3). Attraverso il riconoscimento di brevi motivi aminoacidici contenenti un residuo di tirosina fosforilato, i dominii SH2 mediano il legame di SHP2 a recettori di membrana e proteine adattatrici. La traslocazione in membrana è accoppiata all’attivazione catalitica della proteina. Figura 3. Le mutazioni somatiche e germinali del gene PTPN11. A) Schema della struttura di SHP2 e delle sostituzioni aminoacidiche identificate come evento somatico (sopra) o germinale (sotto). B) Struttura cristallografica di SHP2 e residui aminoacidici coinvolti nelle sindromi di Noonan e LEOPARD (sinistra) e nelle leucemie (destra). I colori identificano i diversi dominii della proteina (N-SH2, verde; C-SH2, celeste; PTP, rosa) e le diverse classi delle mutazioni in accordo con Tartaglia et al. (2006). 146 Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK Con pochissime eccezioni rappresentate da delezioni trinucleotidiche, le mutazioni identificate nella SN sono sostituzioni nucleotidiche missenso (Fig. 3) (Tartaglia et al., 2006). PTPN11 è più frequentemente mutato tra i pazienti con stenosi della valvola polmonare (70,6% vs. 46,2%, p = 0,008) e meno frequentemente in quelli con cardiomiopatia ipertrofica (5,9% vs. 26,2%, p = 0,004). Le mutazioni di PTPN11 sembrano essere inoltre associate con deficit accrescitivo, anomalie scheletriche, facies caratteristica e deficit cognitivo lieve o assente (Tartaglia et al., 2002; Zenker et al., 2004; Jongmans et al., 2005). Più recentemente, queste sono state identificate in due sindromi malformative clinicamente correlate alla SN. Tartaglia et al. (2002) e Lee et al. (2005) hanno dimostrato che mutazioni in questo gene, precedentemente descritte in soggetti con SN, si riscontrano in circa il 50% dei pazienti con fenotipo ricollegabile alla SN ma caratterizzato da lesioni multiple a carico del tessuto osseo associate alla presenza di cellule giganti multinucleate. Tale condizione, inizialmente considerata come un’entità nosologica distinta (Noonanlike sindrome with multiple giant cell lesions, OMIM 163955), alla luce dei dati molecolari dovrebbe essere considerata come parte dello spettro fenotipico della SN. Un ristretto numero di mutazioni missenso di PTPN11 sono state infine identificate in circa l’85% dei pazienti con SL (Digilio et al., 2002; Legius et al., 2002). L’osservazione che queste mutazioni non ricorrano nella SN suggerisce la presenza di una loro specifica associazione con cardiomiopatia ipertrofica, difetti di conduzione, sordità, lentiggini e macchie caffèlatte. Tra queste, due mutazioni (386° > G, Tyr279Cys; 1403C > T, Thr468Met) rappresentano circa l’80% dei casi con PTPN11 mutato e sono specifiche di questa condizione. Come osservato per i geni RAS, una distinta classe di mutazioni missenso si osserva come evento somatico in diverse emopatie maligne (Tartaglia e Gelb, 2005). In particolare, queste mutazioni risultano contribuire alla patogenesi della leucemia mielomonocitica giovanile (JMML; OMIM 607785), una rara malattia mieloproliferativa della prima infanzia, in circa il 35% dei casi (Tartaglia et al., 2003), e con frequenza variabile in diverse forme leucemiche e pre-leucemiche dell’età pediatrica, incluse le sindromi mielodisplastiche e le leucemie acute della linea mieloide e linfoide (Tartaglia et al., 2003, 2004, 2005). Tali mutazioni, sebbene coinvolgano residui localizzati nelle superfici d’interazione dei dominii N-SH2 e PTP, non ricorrono come eventi germinali nella SN (Tartaglia et al., 2006) (Fig. 3). Va sottolineato che una specifica sostituzione aminoacidica (Thr73Ile), raramente osservata in pazienti con SN o come evento somatico nelle leucemie, rappresenta circa il 60% dei casi con SN associata a JMML. Questa osservazione suggerisce che durante la prima infanzia, pazienti con questa mutazione possono essere predisposti a disordini mieloproliferativi transienti o JMML. È infine d’interesse sottolineare che PTPN11 solo raramente è stato identificato essere mutato nelle leucemie dell’adulto o in altre condizioni neoplastiche (Bentires-Alj et al., 2004; Martinelli et al., 2005). La maggioranza delle mutazioni missenso osservate come eventi germinali e somatici coinvolge residui localizzati nelle superfici esposte e interagenti dei dominii N-SH2 e PTP che stabilizzano la conformazione inattiva della proteina. Questo suggerisce che il meccanismo patogenico promosso da queste mutazioni coinvolga un’interazione difettiva dei due dominii con conseguente spostamento dell’equilibrio tra la conformazione attiva e quella inattiva della proteina a favore della prima (Tartaglia et al., 2002). In accordo con questa ipotesi, le mutazioni associate alla SN e a leucemie sono attivanti e inducono una ipersensibilità a fattori di crescita e citochine con iperattivazione della via RAS-MAPK (Tartaglia et al., 2003, 2006; Chan et al., 2005; Keilhack et al., 2005). Questa funzione aberrante di SHP2 è più marcata nel caso delle mutazioni associate a neoplasie, indicando che, da un lato, le mutazioni germinali identificate nella SN non promuovono un guadagno di funzione di SHP2 in grado di comportare un vantaggio proliferativo per il clone leucemico, dall’altro, che le mutazioni identificate nelle leucemie non sono compatibili con lo sviluppo embrionale o la sopravvivenza del feto. Una terza classe di mutazioni raggruppa le sostituzioni aminoacidiche identificate nella SL. Tre studi indipendenti hanno infatti dimostrato che queste mutazioni determinano una profonda riduzione dell’attività catalitica della proteina (Kontaridis et al., 2006; Hanna et al., 2006; Tartaglia et al., 2006). Mutazioni germinali di SOS1 e sindrome di Noonan SOS1 codifica per una proteina GEF specifica per RAS (Fig. 1). La sua struttura è piuttosto complessa e conta diversi dominii con funzione Figura 4. Struttura della proteina SOS1 e sostituzioni aminoacidiche identificate nella sindrome di Noonan. A) Rappresentazione schematica della localizzazione dei dominii funzionali caratterizzanti la proteina (HF, Histone Folds; DH, DBL Homology; PH, Pleckstrin Homology; REM, RAS Exchange Motif; CH, CDC25 Homology) e dei residui coinvolti. B) Struttura cristallografica di SOS1 e localizzazione di alcuni dei residui aminoacidici mutati nella sindrome di Noonan 147 G. Zampino, M. Tartaglia regolatoria, catalitica e di interazione proteina-proteina (Fig. 4). In assenza di stimolazione, SOS1 ha una localizzazione citoplasmatica autoinibita. L’attivazione di SOS1 richiede la sua traslocazione in membrana, la rimozione del blocco inibitorio e il legame di RASGDP/GTP a un sito regolatorio. Quest’ultimo evento promuove un cambiamento conformazionale che consente l’interazione di una seconda molecola RAS-GDP con il sito catalitico e il conseguente rilascio di GDP da quest’ultima. Le mutazioni di SOS1 si osservano in circa il 10% dei pazienti con SN (Roberts et al., 2007; Tartaglia et al., 2007). Queste sono missenso e coinvolgono nella maggioranza dei casi regioni della proteina che partecipano al meccanismo inibitorio o che hanno un importante ruolo nel mantenimento della conformazione globale della proteina (Fig. 4). In accordo con questa ipotesi, studi biochimici hanno dimostrato il ruolo attivante di queste mutazioni la cui espressione in colture cellulari determina una iperattivazione di RAS e della cascata MAPK. Le mutazioni di SOS1 sono identificate sono associate a un fenotipo caratteristico. Lo sviluppo psicomotorio e staturo-ponderale sono normali, il coinvolgimento scheletrico è quasi sempre presente con anomalie sterno-costali, cubito valgo, collo corto e pterigio, le caratteristiche craniofacciali e la loro evoluzione nel tempo sono quelle classiche descritte nella SN mentre è presente coinvolgimento ectodermico con cheratosi pilare, ipoplasia delle sopracciglia e capelli ricci. Mutazioni germinali di SOS1 non sono state identificate in pazienti con SCFC (Zenker et al., 2007b). Similmente, non sono state identificate mutazioni somatiche dello stesso gene con possibile ruolo nell’oncogenesi. Mutazioni germinali della neurofibromina Il gene NF1 codifica per una GAP specifica per RAS (Martin et al., 1990; Xu et al., 1990). Mutazioni inattivanti o delezioni del gene in eterozigosi sono la causa molecolare sottostante la neurofibromatosi di tipo 1 (NF1; OMIM 162200), una sindrome malformativa a trasmissione autosomica dominante, a prevalente coinvolgimen- Figura 5. Le sostituzioni aminoacidiche delle proteine BRAF e RAF1 identificate essere implicate nelle sindromi neurocardiofaciocutanee e nell’oncogenesi. Il pannello mostra le mutazioni germinali (in nero, sopra lo schema di ciascuna proteina) e somatiche (in rosso) di RAF1 e BRAF in accordo con Pandit et al. (2007). Gli schemi mostrano le regioni omologhe delle due proteine (CR, Constant Region), i dominii funzionali (RBD, RAS Binding Domain; CRD, Cysteine Rich Domain; AS, Activation Segment) e i due residui di serina (S259 e S621) implicati nella regolazione dell’attivazione di RAF1. to ectodermico con predisposizione per l’insorgenza di uno spettro caratteristico di neoplasie (Tab. I) (Riccardi, 1992). Il ruolo della neurofibromina come oncosoppressore è stato dimostrato dall’osservazione che le cellule tumorali di pazienti con NF1 presentano l’inattivazione di entrambi gli alleli (Shannon et al., 1994) e che la perdita della funzione di questa proteina causa un’iperattivazione del segnale mediato da RAS e conseguente disregolazione della proliferazione cellulare (Bollag et al., 1996). Mutazioni nel gene NF1 possono essere associate a un fenotipo con caratteristiche cliniche ricollegabili alla SN, ed è stato suggerito che questa associazione rappresentasse una entità nosologica distinta (Neurofibromatosis/ Tabella III. Valutazioni clinico/strumentali richieste per un’efficace assistenza dei pazienti con sindromi neurocardiofaciocuanee in accordo con il difetto molecolare causativo. Valutazioni clinico/strumentali PTPN11 SOS1 RAF1 KRAS HRAS BRAF MEK1/MEK2 Esame clinico e neurologico + + + + + + + Test psicometrici + + + + + + + Quantificazione crescita + + + + + + + Quantificazione intake/spesa energetica - - - + + + + Ecocardiogramma con quantificazione spessore setto e pareti + + + + + + + ECG-Holter + - + - + - - Valutazione oculistica + + + + + + + Valutazione audiologica + - + - - - - Prove di coagulazione e sanguinamento + + + + - - - RMN cerebrale - - - + + + + Eco addominale + + + + + + + Polisonnografia - - - + + + + 148 Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK Noonan syndrome; OMIM 601321). Recentemente è stato dimostrato che pazienti con questa condizione generalmente sono eterozigoti per mutazioni intrageniche o delezioni di NF1 ma non di PTPN11 (De Luca et al., 2005), anche se in una minoranza di casi è stata riportata una condizione di eterozigosi per mutazioni in entrambi i geni (Bertola et al., 2005). Lo screening molecolare di NF1 condotto su un ampio numero di soggetti con SN suggerisce che questo gene non sia mutato in questa condizione sindromica (De Luca et al., 2005). Mutazioni germinali e somatiche degli effettori di RAS e dei loro substrati A oggi, mutazioni in quattro geni che codificano per trasduttori del segnale che agiscono a valle delle proteine RAS e partecipano alla cascata MAPK sono state identificate nelle SN, SCFC e SL. Due di queste proteine, BRAF e RAF1, sono effettori di RAS con attività chinasica specifica per residui di serina e treonina; le altre due proteine coinvolte, MEK1 e MEK2, sono chinasi a doppia specificità, substrati delle precedenti, che regolano positivamente la funzione delle proteine ERK (Fig. 1). Le mutazioni germinali di BRAF rappresentano il principale evento molecolare sottostante la SCFC (Niihori et al., 2006; Rodriguez-Viciana et al., 2006). In precedenza, mutazioni somatiche dello stesso gene, in particolare la sostituzione Val600Glu, erano state identificate con alta frequenza nei melanomi e nei tumori della tiroide, del colon-retto e dell’ovaio (Davies et al., 2002; Garnett e Marais, 2004). Differentemente dalle mutazioni somatiche che appaiono localizzate prevalentemente nel dominio catalitico, quelle identificate in pazienti con SCFC sono distribuite in diverse regioni della proteina (Fig. 5). Come osservato per SHP2, HRAS e KRAS, queste sostituzioni aminoacidiche solo raramente sono riportate nei tumori, ancora una volta a suggerire le diverse proprietà attivanti caratterizzanti le due classi di mutazioni. Come dimostrato per la sostituzione oncogenica Val600Glu, le mutazioni associate alla SCFC promuovono generalmente un aumento dell’attività catalitica basale di BRAF, con conseguente iperattivazione della cascata MAPK (Rodriguez-Viciana et al., 2006). Il fenotipo associato a BRAF è quello che classicamente contraddistingue la SCFC. Mutazioni in un secondo membro della famiglia RAF, la proteina RAF1, sono state recentemente identificate in pazienti con SN e SL (Pandit et al., 2007; Razzaque et al., 2007). Queste mutazioni sono missenso e coinvolgono un piccolo numero di residui localizzati in tre distinti dominii funzionali della proteina. Nel 75% dei casi le sostituzioni aminoacidiche ricadono nella sequenza “ArgSerThrSer259ThrPro” che, in presenza dello stato fosforilato del residuo Ser259, costituisce uno dei due siti di legame delle proteine 14-3-3 a RAF1 (Muslin et al., 1996; Wellbrock et al., 2004). Nei casi restanti, le mutazioni coinvolgono aminoacidici localizzati in una regione regolatoria del dominio chinasico o nella porzione C-terninale della proteina. La caratterizzazione biochimica di un pannello di mutanti rappresentativi suggerisce un diverso effetto delle mutazioni sulla funzione della proteina, la mag- Bibliografia Aoki Y, Niihori T, Kawame H, et al. Germline mutations in HRAS proto-oncogene cause Costello syndrome. Nat Genet 2005;37:1038-40. Lo studio ha stabilito che le mutazioni germinali di HRAS rappresentano la causa molecolare della sindrome di Costello. * Barbacid M. Ras genes. Ann Rev Biochem 1987;56:779-827. Bentires-Alj M, Paez JG, David FS, et al. Activating mutations of the Noonan syn- gioranza delle quali in grado di promuovere un aumento dell’attività catalitica di RAF1 e l’iperattivazione della cascata MAPK (Pandit et al., 2007). Questi studi hanno anche dimostrato che le mutazioni al sito di legame delle 14-3-3 determinano l’incapacità di queste proteine regolatorie a legare RAF1 in maniera appropriata, indebolendo significativamente la stabilità della conformazione cataliticamente inattiva della chinasi. Differentemente da quanto dimostrato per il gene BRAF, solo raramente le mutazioni somatiche di RAF1 sono state documentate nei tumori (Fig. 5). Studi di correlazione genotipo-fenotipo hanno documentato che le mutazioni di RAF1 definiscono la cardiomiopatia ipertrofica come elemento caratterizzante il quadro clinico e la prognosi. Infine, un esiguo numero di mutazioni missenso nei geni che codificano per le proteine MEK1 e MEK2 sono state identificate in una piccola percentuale di pazienti con SCFC (Niihori et al., 2006; Rodriguez-Viciana et al., 2006). Queste proteine sono chinasi a doppia specificità in grado di fosforilare le proteine ERK in specifici residui regolatori, modulandone l’attività catalitica. Le mutazioni in MEK1 e MEK2 sono associate a un fenotipo che si distingue poco da quello determinato dalle mutazioni in BRAF. È presente ritardo psicomotorio moderato-grave associato a ritardo di crescita, coinvolgimento ectodermico e caratteristiche craniofacciali dismorfiche simili. I pochi casi descritti mostrano naso corto con sella ipoplasica, narici anteverse e filtro lungo come elementi particolari. Conclusioni La recente identificazione dei meccanismi molecolari alla base della SN, SL, SC e SCFC, ha permesso: 1) di confermare la stretta relazione esistente tra queste sindromi malformative ipotizzata precedentemente sulla base delle similitudini cliniche; 2) di definire con più precisione le caratteristiche cliniche legate a ogni gene mutato; 3) di delineare la storia naturale e la prognosi dei quadri clinici associati ai geni coinvolti. Le ricadute assistenziali sono notevoli poiché è oggi possibile calibrare i bilanci di salute in relazione alle differenti problematiche cliniche legate alla genotipizzazione del paziente. Ad esempio il bambino con mutazioni in HRAS o RAF1 avrà una più stretta sorveglianza cardiaca per il maggior rischio di sviluppare cardimiopatia ipertrofica, mentre il bambino con mutazioni in BRAF avrà una più stretta sorveglianza neurologica per il più importante coinvolgimento cerebrale e per la possibilità di sviluppare epilessia (Tab. III). Queste scoperte infine giustificano la speranza di poter utilizzare farmaci che possano ripristinare la regolazione della cascata RAS-MAPK riducendo le problematiche evolutive, quali la cardiomiopatia ipertrofica. Ringraziamenti Gli studi condotti nei laboratori degli autori sono stati finanziati da fondi per la ricerca elargiti da Telethon-Italy (GGP04172 e GGP07115) e dal “Programma di Collaborazione Italia-USA per le malattie rare”. drome-associated SHP2/PTPN11 gene in human solid tumors and adult acute myelogenous leukemia. Cancer Res 2004;64:8816-20. Bertola DR, Pereira AC, Passetti F, et al. 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Giuseppe Zampino, Servizio di Epidemiologia e Clinica dei Difetti Congeniti, Dipartimento di Scienze Pediatriche Medico-Chirurgiche e Neuroscienze dello Sviluppo, Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia, l.go F. Vito 1, 00168 Roma • E-mail: [email protected] 151 Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 152-161 FOCUS SU: Acido folico che cosa è, a che cosa serve Iris Scala, Renata Bortolus*, Pierpaolo Mastroiacovo** Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli; * Azienda Ospedaliera “Istituti Ospitalieri”, Verona; ** Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects, Roma Riassunto L’acido folico (vitamina B9, acido pteroilglutammico) è una vitamina idrosolubile del gruppo B. È un prodotto sintetico che non si trova in natura ed è il principale composto utilizzato nei prodotti multivitaminici e nella fortificazione di farine e cereali. I folati sono i composti dell’acido pteroilglutammico presenti in natura e, poiché non sintetizzabili nell’uomo, sono alimenti essenziali. Verdure a foglia larga, frutta e cereali fortificati sono le principali fonti alimentari di folati. I folati sono necessari per la moltiplicazione cellulare, particolarmente in periodi di rapida crescita quali la gravidanza e la prima infanzia. Decenni di studi hanno ormai dimostrato che un’assunzione adeguata di acido folico nel periodo periconcezionale riduce il rischio di alcune malformazioni congenite, in particolare di difetti del tubo neurale. Questi risultati hanno indotto azioni di salute pubblica che hanno portato alla formulazione di raccomandazioni per assicurare un adeguato apporto di acido folico nelle prime settimane di gravidanza. Pertanto, alle donne che programmano la gravidanza o che non ne escludono attivamente la possibilità, si consiglia l’assunzione di cibi fortificati o la supplementazione con acido folico oltre ad una dieta ricca di folati per ridurre il rischio di malformazioni congenite. La Recommended Dietary Allowance (RDA) per donne in gravidanza è di 600-800 microgrammi, circa il doppio della normale RDA di 400 microgrammi consigliati al di fuori della gravidanza. Le implicazioni della supplementazione/fortificazione con acido folico per altre patologie quali le patologie vascolari, i tumori, la fertilità sono ugualmente discusse. Summary Folic acid and folate (the anion form) are forms of the water-soluble vitamin B9. These occur naturally in food and can also be taken as supplements. Leafy vegetables, fortified cereal products, and certain other fruits and vegetables are rich sources of folate. Folate is necessary for the production and maintenance of new cells, especially during periods of rapid cell division and growth such as infancy and pregnancy. Decades of studies have demonstrated that adequate folate intake during periconceptional period helps protect against a number of congenital malformations, including neural tube defects. These findings have led to recommendations and actions to ensure adequate folate intake in the first weeks of pregnancy. Hence, women who could become pregnant are advised to eat foods fortified with folic acid or take supplements in addition to a folate-rich diet to reduce the risk of some serious birth defects. The Recommended Dietary Allowance (RDA) for folate equivalents for pregnant women is 600-800 micrograms, twice the normal RDA of 400 micrograms for women who are not pregnant. Implications of folic acid supplementation/fortification in diseases other than congenital defects, such as heart disease/stroke, cancer, fertility are also discussed. Premessa Quale è la relazione tra folati alimentari e acido folico? Per sintetizzare in poche pagine alcuni concetti chiave e i principali articoli degli oltre 14.000 citati su PubMed con le parole chiave “folic acid OR folate” di cui il 35% negli ultimi tre anni (e 1600 solo quelli con le parole chiave nel titolo), gli autori hanno scelto un approccio di domanda e risposta. Per ulteriori domande, saranno lieti di rispondere alle mail inviate a [email protected]. Recentemente negli Stati Uniti è stato introdotto il concetto di “folati equivalenti” basato sulla biodisponbilità. Poiché la biodisponibilità dei folati alimentari è del 50%, quella dei folati aggiunti agli alimenti è dell’85%, ed infine quella dell’AF preso per os è del 100%, ne deriva che 100 mcg di folati alimentari, corrispondono a 170 mcg di AF usato nella fortificazione e 200 mcg di AF usato nella supplementazione. Che cosa è l’acido folico? e i folati? L’acido folico (folacina o vitamina B9 o acido pteroilglutammico) è una vitamina idrosolubile del gruppo B. È un prodotto sintetico che non si trova in natura ed è il principale composto utilizzato nei prodotti multivitaminici e nella fortificazione di farine e cereali. I folati sono varie sostanze (derivati poliglutammici, folati ridotti e tetraidrofolati) presenti negli alimenti che contengono l’acido pteroilglutammico 1. Il 5-metil-tetraidrofolato (5-metil-THF) è la forma con la maggiore attività biologica ed è la molecola nella quale deve essere trasformato l’acido folico (AF) per svolgere la sua funzione biologica nell’organismo. 1 In quali alimenti si trovano i folati? I folati sono presenti in un’ampia varietà di alimenti in quantità variabile per 100 g di alimento: elevata (100-300 mcg) nelle verdure a foglia larga verde scuro (ad es. asparagi, carciofi, broccoli, cavoli), nel fegato e rene; intermedia (44-99 mcg) nelle verdure (ad es. spinaci, bieta, rape rosse), nella frutta fresca (ad es. arance, mandarini, kiwi), nella frutta secca (ad es. mandorle e noci), nei formaggi (ad es. parmigiano, gorgonzola, taleggio), nei legumi (ad es. ceci e fagioli) e nelle uova (Ruggeri et al., 2006). Il pane ha un contenuto moderato di folati (20-39 mcg). La quantità di folati fornita da vari studi è solo orientativa perché In questo articolo quando non specificato con il termine folati si intende l’insieme di folati alimentari e acido folico sintetico. 152 Acido folico che cosa è, a che cosa serve la quantità introdotta dipende dai molti anelli della catena alimentare e della preparazione del cibo. A noi interessa sapere quanti folati introduciamo giornalmente, nella nostra alimentazione usuale. Quanti folati dovremmo assumere? La più recente indicazione è fornita da un gruppo di esperti riuniti dalla Food and Agriculture Organization (FAO) e World Health Organization (WHO) nel 2002, che ha adottato le raccomandazioni del 1998 fornite dall’Institute of Medicine (IOM) degli Stati Uniti: per l’adulto 400 mcg/ die, per la donna in gravidanza 600 mcg/die (WHO/FAO, 2004) L’Institute of Medicine ha inoltre indicato che negli studi di popolazione il livello accettabile di assunzione di folati per gli adulti è di 320 mcg/die (Dietary Reference Intakes for Groups [DRI]). Quanti folati assumiamo in Italia? Secondo una ricerca dell’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) è stato stimato che la popolazione italiana assume mediamente 213 mcg/die di folati alimentari (Ruggeri et al., 2006). Utilizzando uno studio caso-controllo sulla relazione tra folati alimentari e cancro dell’ovaio, condotto su 2411 donne di controllo si evince che la mediana di assunzione in Italia è di 250 mcg/die, che il 20% delle donne assume meno di 186 mcg/die, il 60% tra 187 e 316 mcg/die e il 20% più di 316 mcg/die (Pelucchi et al., 2005). Il valore medio osservato in alcuni paesi europei si attesta tra 217 e 325 mcg/die (Finglas, citato da Ruggeri et al., 2006). Infine, in uno studio australiano (Bower et al., 2006) è stato rilevato che il 66% delle donne assume più di 326 mcg/die. Questi dati indicano che la popolazione Italiana, contrariamente a quanto si crede, assume meno folati di quanto dovrebbe e meno di altre popolazioni! Come incrementare la quantità di folati con gli alimenti? Per incrementare l’assunzione di folati alimentari è utile osservare che frutta, verdura e cereali contribuiscono per circa il 60% dell’introito di folati (Ruggeri et al., 2006). Ovvero chi vuole aumentare “realmente” l’assunzione di folati alimentari deve adottare un’alimentazione ricca di questi alimenti, in particolare di spremute di arance, che rappresentano la modalità più “comoda” per assumere ampie quantità di folati alimentari. A che cosa servono i folati? I folati agiscono come cofattori di enzimi coinvolti nel metabolismo degli amminoacidi, nella sintesi del DNA e dell’RNA (sintesi di purine e pirimidine) e, insieme alla vitamina B12, nelle reazioni di metilazione di acidi nucleici, proteine e lipidi. Di particolare interesse, per le ripercussioni in medicina, è la relazione tra folati e il metabolismo dell’omocisteina/metionina. L’omocisteina è un amminoacido solforato generato dall’idrolisi dell’s-adenosil-metionina nel ciclo metabolico della metionina, un amminoacido assunto normalmente con il cibo e derivante soprattutto dalle proteine animali (Fig. 1). L’omocisteina non viene utilizzata nella normale sintesi proteica e viene metabolizzata attraverso due vie metaboliche: la transulfurazione per produrre cistationina e la rimetilazione per produrre metionina. La transulfurazione consiste nella condensazione dell’omocisteina con la serina mediata dall’enzima cistationina-beta-sintasi (CBS), il cui cofattore è il piridossal-fosfato (vitamina B6). La rimetilazione a metionina è un meccanismo più complesso che necessita dell’enzima metionina-sintasi (MTR), della cobalamina (vitamina B12) come cofattore e del 5-metilTHF come donatore di gruppi metili; infine, la metionina sintasi-reduttasi (MTRR) mantiene l’enzima MTR nella sua forma attiva. La metionina viene successivamente attivata ad s-adenosil-metionina, un intermedio cruciale perché donatore universale di gruppi metilici nelle reazioni di metilazione cellulare, in particolare di DNA, RNA e proteine. Figura 1. Ciclo metabolico della metionina. 153 I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo Nel ciclo dei folati, il donatore di metili 5-metilTHF origina dal 5,10-metileneTHF mediante l’enzima metilenetetraidrofolato reduttasi (MTHFR), vitamina B2 dipendente. Dopo la rimetilazione dell’omocisteina a metionina, il THF viene nuovamente convertito in 5,10-metileneTHF durante la conversione della serina in glicina. L’enzima MTHFR ha un ruolo chiave nella regolazione del pool di folati in quanto, grazie ad una cinetica sensibile a una serie di fattori di regolazione, regola l’equilibrio tra il ciclo di omocisteina/metionina e sintesi di purine e pirimidine (Fowler, 2001). Dalla complessità di questa via metabolica con il gran numero di enzimi e cofattori coinvolti, si può facilmente comprendere come difetti di singoli geni dei vari enzimi, la carenza di certi nutrienti o la combinazione di questi possano causare deficit di folati e/o incrementi di omocisteina (iperomocisteinemia moderata). Senza poi considerare l’influenza delle abitudini di vita (ad es. fumo, caffè, tipo di alimentazione) sui vari processi metabolici. Come si valuta se l’assunzione di folati è appropriata? Classicamente attraverso il dosaggio dei folati nei globuli rossi (per valutare lo stato globale) e nel siero (per valutare una situazione più limitata nel tempo). Un buon indicatore, anche se non specifico perché influenzato anche da altri fattori (ad es. vitamina B12, B6, età, sesso, fumo) è il dosaggio dell’omocisteina, che è correlata in modo inversamente proporzionale alla folatemia. I limiti di normalità per questi parametri sono: AF nei globuli rossi > 305 nmol/L (140 ng/mL); AF nel plasma > 7 nmol/L (3 ng/mL) e omocisteina < 12 micromoli/L. Tali valori tuttavia vanno considerati “valori limite”; infatti valori vicino al limite stanno emergendo in molti studi come fattori di rischio per la salute umana. L’iperomocisteinemia moderata è un fattore di rischio per la salute umana? L’iperomocisteinemia moderata (IOC) è ancor oggi mal definita. Livelli superiori alla norma (intorno a 10-12 micromoli/L) sono stati riscontrati più frequentemente in numerosissime patologie umane: patologie vascolari dell’adulto (ad es. trombosi delle vene profonde, infarto, ictus, vasculopatie occlusive della retina, occlusione extra-cerebrale della carotide), patologie vascolari della placenta (e sue conseguenze: aborti, aborti ripetuti, pre-eclampsia, abruptio placenta, ritardo di crescita intrauterina), tumori, varie malattie neurologiche, disfunzioni cognitive dell’anziano, depressione, osteoporosi, infertilità maschile e femminile. L’ipotesi (e la speranza!) che l’IOC sia l’anello causale nella patogenesi di queste malattie (Fig. 2), e non semplicemente un epifenomeno di natura ancora oscura, non è stata ancora confermata. Un aumentato apporto di acido folico può essere utile? Le applicazioni cliniche tradizionali dell’AF sono numerose e ben conosciute: terapia dell’anemia megaloblastica in associazione alla vitamina B12, prevenzione della carenza di folati in occasione di certi trattamenti farmacologici (ad es. difenilidantoina, carbamazepina, contraccettivi orali e chemioterapici antitubercolari), nel morbo di Crohn. L’utilizzo più massiccio è stato ed è “nel corso della gravidanza” (generalmente dopo il terzo mese) per la prevenzione dell’anemia macrocitica, conseguente alle aumentate esigenze nutrizionali della donna in gravidanza. 2 3 Figura 2. Ipotetico meccanismo patogenetico legato all’iperomocisteinemia di molte patologie umane quali patologie vascolari dell’adulto, patologie vascolari della placenta (e sue conseguenze: aborti, aborti ripetuti, preeclampsia, abruptio placenta, ritardo di crescita intrauterina), tumori, varie malattie neurologiche, disfunzioni cognitive dell’anziano, depressione, osteoporosi, infertilità maschile e femminile. Più recentemente un aumentato apporto di AF è stato unanimemente raccomandato da tutte le società scientifiche e da tutte le organizzazioni di sanità pubblica del mondo per la riduzione del rischio dei difetti del tubo neurale. Quali sono le prove di efficacia alla base dell’unanime raccomandazione di aumentare l’apporto di folati con 0,4 mg/die di acido folico nel periodo peri-concezionale 2 oltre a quelli assunti con una corretta alimentazione, per la riduzione del rischio dei difetti del tubo neurale? 3 Le prove di efficacia alla base della raccomandazione sono numerose e robuste. Nella Tabella I sono presentati gli studi più robusti. In Europa è stato eseguito un solo studio di valutazione dell’efficacia della supplementazione, che ha dato risultato negativo (Kallen, 2007). Infine due studi svolti recentemente in Europa (nessuna nazione ha fortificato!) non hanno osservato un decremento di difetti del tubo neurale (DTN) negli anni più recenti, indicando che la raccomandazione non ha avuto nessun effetto, come ipotizzabile dalla percentuale molto bassa di donne che assumono vitamine a base di acido folico nel periodo pre-concezionale (Busby et al., 2005; Botto et al., 2005). Un sufficiente apporto può essere assicurato soltanto con l’alimentazione? Per rispondere a questa domanda bisogna dapprima capire su che cosa intendiamo per aumentato apporto. Gli studi di fortificazione hanno dimostrato che anche un apporto modesto (in media alla popolazione pari 0,15 mg/die) può essere utile. Ma… in media, per tutta la popolazione! Sappiamo che la media nasconde un range molto am- Si ricorda che il periodo peri-concezionale è un periodo molto ampio che inizia dal momento in cui la donna desidera o non esclude la possibilità di una gravidanza, fino alla fine del terzo mese di gravidanza. La frequente indicazione che il periodo peri-concezionale sia limitato a 1 mese prima e a 3 mesi dopo il concepimento è solo l’indicazione “operativa” utilizzata negli studi di valutazione dell’efficacia della supplementazione peri-concezionale per definire gli “esposti al trattamento”. Si preferisce usare questa terminologia piuttosto che “prevenzione” per sottolineare che, come vedremo, l’AF non previene la patologia (tutti i casi), ma riduce solo il rischio di una patologia che comunque si verificherà anche tra coloro che hanno seguito la raccomandazione di carattere preventivo. Ciò non avviene in altre situazioni, ad esempio: prevenzione del morbillo con la vaccinazione, prevenzione dello scorbuto con la vitamina C. 154 Acido folico che cosa è, a che cosa serve Tabella I. Studi più robusti che dimostrano la possibilità di prevenire i difetti del tubo neurale (DTN) con acido folico (AF) con o senza altre vitamine (MV). Autore, anno di pubblicazione Area dello studio Tipo di studio Trattamento Riduzione % del rischio* IC 95% Frequenza DTN x 1000 nel gruppo di controllo Inghilterra Coorte; sulla ricorrenza AF 0,36 mg + MV 86% 53-96% 47,2 MRC Vitamin Study Research Group, 1991 Europa, in particolare in Inghilterra TCR; sulla ricorrenza AF 4 mg ± MV vs. placebo 84% 40-97% 39,2 Czeizel et al., 1992, 2004, Czeizel e Vargha, 2004 Ungheria TCR + coorte; sull’occorrenza AF 0,8 mg + MV 93% 53-99% 2,8 Cina del Nord† Cina del Sud† Intervento su popolazione; sull’occorrenza AF 0,4 mg 85% 40% 62-94% +2% -60% 4,8 1,0 Canada Studio di popolazione pre-post fortificazione AF medio 0,15 mg 46%† 40-51% 1,6 Smithells et al., 1983 Berry et al., 1999 De Wals et al., 2007‡ TCR = trial clinico randomizzato. * 1-RR (rischio relativo); † Range di decremento tra 22% e 83% con correlazione con la frequenza pre-fortificazione; ‡ È indicato lo studio più recente ed interessante, altri studi sull’efficacia della fortificazione sono reperibili su [email protected] Nota: In tutti gli studi di supplementazione l’AF (± MV) era stato assunto nel periodo peri-concezionale ovvero dal momento in cui la donna desiderava una gravidanza fino alla fine del terzo mese (o comunque almeno da un mese prima del concepimento), infatti poiché il tubo neurale si chiude entro 28 giorni dal concepimento, ogni supplementazione eseguita dopo il concepimento è del tutto inutile. La fortificazione è stata eseguita con quantità tali da assicurare alla popolazione un incrementato apporto di AF tra 0,2 e 0,4 mg: i livelli più bassi di quelli utilizzati nella supplementazione individuale hanno coniugato il vantaggio di raggiungere tutte le donne che iniziano una gravidanza, anche se non prevista, e il possibile svantaggio di incrementare l’assunzione di AF nelle fasce che non ne hanno bisogno o che teoricamente potrebbero averne un danno (mascheramento del deficit di vitamina B12), come quelle anziane. pio e non sappiamo se l’efficacia è da attribuire alle dosi più elevate. Di fatto sappiamo che 0,4 mg/die riducono il rischio, ed è questa la dose che dobbiamo ritenere come “aumentato apporto”. Ebbene, se teniamo conto della biodisponibilità dell’AF, doppia di quella dei folati alimentari, con l’alimentazione una donna che desidera una gravidanza dovrebbe assumere 0,8 mg/die di folati, oltre quelli che dovrebbe assumere normalmente (0,6 mg/die in gravidanza). Ad esempio dovrebbe assumere “in più, a pranzo e a cena una porzione di asparagi, una di lattuga + un mandarino e un kiwi, oppure una porzione di spinaci e una di rape rosse + un pompelmo e un’arancia bionda, oppure un’aranciata di 6 arance rosse (due volte al giorno)”. Perché esiste una così ampia variazione dell’efficacia della supplementazione peri-concezionale e della fortificazione con acido folico? Le spiegazioni della variabilità dell’efficacia dell’aumentato apporto di AF possono essere numerose, quelle meglio note sono tre: 1. La correlazione positiva tra frequenza di base nella popolazione di DTN e la riduzione osservata (la spiegazione più importante e chiara) mostrata nella Figura 3. 2. La correlazione inversa tra quantità di folati assunti (Werler et al., 1993; Shaw et al., 1995; Moore et al., 2003) e quindi di folatemia (Daly et al., 1995), e frequenza di DTN. Questa relazione, osservata principalmente con i folati alimentari, è stata ulteriormente elaborata da Wald et al. (2001) con ulteriori dati (ad es. quelli del trial clinico randomizzato [TCR] del Medical Research Council [MRC] sulla ricorrenza dei DTN) che hanno suggerito con precisione i valori della correlazione tra folatemia, quantità di AF assunto e riduzione del rischio di DTN (Tab. II). 4 5 3. L’interazione con altre vitamine del gruppo B, in particolare B12, come evidenziato dalla modesta e non statisticamente significativa, ma non trascurabile, efficacia di prodotti a base di altre vitamine (MV) senza AF nei confronti del placebo nel TCR sulla ricorrenza citato sopra (MRC Vitamin Study Research Group) 4, dagli studi che suggeriscono un effetto di riduzione del rischio di DTN con buoni livelli di B12, indipendentemente da quello dell’AF (Ray et al., 2007; Oakley, 2007), e infine dall’ampia riduzione ottenuta nello studio di Smithells e negli studi ungheresi che avevano utilizzato (oltre a dosi variabili di AF 0,8 mg/die [Czeizel e Dudás, 1992] e 0,036 [Smithells et al., 1983]) anche altre vitamine. Un aumentato apporto di AF nel periodo peri-concezionale può ridurre il rischio di altre malformazioni? La risposta è positiva ma non conclusiva ed è basata sui seguenti dati: • Uno studio osservazionale svolto in Danimarca negli anni 198386 ha osservato una riduzione del 34% (IC 95% 1-56%) di malformazioni gravi e a insorgenza embriologica precoce (escluse anomalie cromosomiche; frequenza apri a 0,9%) in donne che avevano iniziato prima del concepimento (1562) o nelle prime settimane di gravidanza (3783) a prendere 0,1-2,5 mg/die di AF in confronto a donne (8026) che non avevano preso o preso tardivamente AF (Ulrich et al., 1999). • Il TCR effettuato in Ungheria aveva osservato, seppure come esito secondario, una riduzione del rischio di altre malformazioni, esclusi i DTN, del 33% 5 nelle donne che avevano assunto AF 0,8 mg/die + MV (Czeizel et al., 1992). Nell’analisi per trattamento tra le donne informative vi sono state 7/234 DTN (3,0%) che avevano assunto MV vs. 10/243 (4,11%) tra quelle che avevano assunto placebo (RR = 0,73). 28/2090 vs. 41/2032. 155 I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo Tabella II. Relazione tra folatemia di base e riduzione prevedibile del rischio di DTN. Folatemia ng/mL di base AF mg/die 2,5 5,0 10,0 0,2 36% 23% 13% 0,4 52% 36% 23% 1,0 71% 57% 41% 3,0 87% 78% 66% 5,0 91% 85% 75% Da Wald et al., 2001. – In Canada e in Cile non è stato osservato un decremento né della labiopalatoschisi né della sindrome di Down (Ray et al., 2003a, 2003b; Castilla et al., 2003). • Sono disponibili 3 metanalisi basate almeno su 5 studi. Indicano una riduzione per palatoschisi e labiopalatoschisi rispettivamente di 20% 8 e 28% 9 (Badovinac et al., 2007) e per cardiopatie del 22% 10 (Goh et al., 2006) nelle donne che avevano assunto nel periodo peri-concezionale AF + MV (più spesso). • La revisione sistematica effettuata su altre malformazioni, basata su meno di 5 studi suggerisce una riduzione del rischio anche per: idrocefalo, difetti del tratto urinario, atresia anale, ipo-agenesie degli arti, onfalocele (Goh et al., 2006). • Uno studio caso-controllo condotto in Ungheria suggerisce una riduzione del 60% (IC 95% 30-80%) di sindrome di Down con una dose di 6-9 mg di AF (Czeizel e Puhò, 2005). Figura 3. Correlazione tra prevalenza DTN ed efficacia acido folico. • Uno studio di coorte svolto in Ungheria aveva osservato una riduzione del rischio di tutte le malformazioni eccetto DTN del 23% 6 nelle donne che avevano assunto AF 0,8 mg/die + MV (Czeizel et al., 2004). • Uno studio caso-controllo svolto con dati raccolti nel registro delle malformazioni del Center for Disease Control and Prevention (CDC) ad Atlanta indica una riduzione del 16% 7 di altre malformazioni (esclusi DTN) nelle donne che avevano assunto MV + AF (dose più frequente 0,4 mg/die) (Botto et al., 2004). • Gli studi sugli effetti della fortificazione non forniscono in modo sistematico informazioni su tutte le malformazioni ma solo sulle più comuni, in particolare: – Negli Stati Uniti in uno studio su 15 malformazioni selezionate (Canfield et al., 2005) è stato osservato un decremento statisticamente significativo, oltre che per i DTN, per: trasposizione dei grossi vasi (ma non altre cardiopatie studiate), palatoschisi, labiopalatoschisi, agenesia renale, difetti ostruttivi del tratto urinario, ipo-agenesie degli arti, onfalocele. Da segnalare che il decremento delle schisi orali è stato descritto anche in un altro studio (Yazdy et al., 2007) e che la sindrome di Down non ha mostrato alcun decremento. 8 9 126/3056 vs. 164/3056. OR = 0,84; IC 95% 0,72-0,97. Dati più precisi non forniti. OR = 0,80; IC 95% 0,69-0,92. Stima basata su 10 studi. OR = 0,72; IC 95% 0,58-0,87. Stima basata su 11 studi. 10 OR = 0,78; IC 95% 0,67-0,92. Stima basata su 5 studi. 6 7 156 L’insieme degli studi citati suggerisce, ma non prova definitivamente, l’efficacia dell’AF nei confronti di altre malformazioni perché i risultati del TCR ungherese erano esiti secondari e non primari; la gran parte degli studi disponibili è di tipo caso-controllo, con tutti i limiti di interpretazione tali studi; lo studio ungherese sulla sindrome di Down è isolato e peraltro ripetibile con difficoltà poiché dosaggi elevati di AF non si usano comunemente in altri paesi nel periodo periconcezionale e infine perché negli scarsi studi ecologici postfortificazione la riduzione di altre malformazioni non è risultata così chiara ed evidente come necessario per stabilire prove conclusive. Per questo motivo è necessario attendere uno o più TCR disegnati ad hoc (la cui realizzazione è estremamente complessa per l’elevata numerosità di donne che dovrebbero essere studiate). Quale riduzione dei DTN e di altre malformazioni ci possiamo attendere in Italia? Come indicato nella Tabella III, considerando che la stima della frequenza di DTN in Italia (attraverso i registri di malformazioni congenite regionali attivi, che tiene anche conto di una modesta sottoregistrazione di interruzioni di gravidanza dopo diagnosi prenatale), è di 0,75 per mille (totale 413: 193 anencefalie + 220 spine bifide tra i 550.000 nati) e considerando la correlazione esistente tra frequenza nella popolazione ed efficacia (Fig. 3), la stima più ragionevole della percentuale di riduzione in Italia per i DTN è intorno al 20% (ammettendo una efficacia identica per anencefalia e per spina bifida). Per quanto riguarda le altre malformazioni accettiamo una stima di riduzione del 20% come in altri paesi (non essendo noti per il momento motivi per ritenere l’Italia diversa da altri paesi). Nella Tabella III vengono fornite le stime del numero di casi che si potrebbero osservare, e quindi il numero di casi in meno, sotto tre diversi scenari, sia per quanto riguarda i DTN (con dati più certi) che per tutte le altre malformazioni (con dati molto più incerti). Un aumentato apporto di AF nel periodo peri-concezionale può ridurre il rischio di altre patologie infantili e di altri esiti avversi della riproduzione o della gravidanza? Sì, è probabile ma servono ulteriori studi. Tralasciando tutti gli studi Acido folico che cosa è, a che cosa serve Tabella III. Scenari ipotizzabili in Italia a seguito della supplementazione con 0,4 mg/die o con la fortificazione con acido folico. Attuale Frequenza totale DTN (n. casi) 413 Decremento di … casi Frequenza di anencefalia, totale Scenari ipotizzabili Fortificazione o supplementazione del 100% delle donne Supplementazione del 50% delle donne Supplementazione del 25% delle donne 330 371 392 -83 -41 -21 193 154 173 183 Nati 19 15 17 18 Interruzioni di gravidanza 173 139 156 165 Frequenza di spina bifida 220 176 198 209 Nati 66 53 59 63 Interruzioni di gravidanza 154 123 139 146 16.500 13.200 -3300 14.850 -1650 15.675 -825 Frequenza totale malformazioni Dati per calcolare i diversi scenari. Nati in Italia = 550.000. Frequenza totale DTN (anencefalia e spina bifida) in Italia = 7,5 per 10.000. Anencefalia 3,5 per 10.000, spina bifida 4,0 per 10.000. Dato calcolato dai dati dei registri di malformazioni tenendo conto di una quota di possibile sotto-registrazione soprattutto delle interruzioni di gravidanza dopo diagnosi prenatale. Percentuale di interruzioni di gravidanza dopo diagnosi prenatale 90% per l’anencefalia e 70% per la spina bifida. Frequenza totale di malformazioni 3%. Riduzione attesa di DTN attribuibile all’acido folico = 20%. Riduzione attesa di malformazioni attribuibile all’acido folico 20%. di associazione tra le varie patologie della gravidanza (ad es. aborto spontaneo ricorrente, ritardo di crescita intrauterina, pre-eclampsia, distacco di placenta) con IOC moderata, bassa folatemia o con i polimorfismi di geni coinvolti nel metabolismo dell’AF, che generano soltanto un’ipotesi, seppure suggestiva, di una possibile riduzione dei rischi attraverso un aumentato apporto di AF, e concentrando l’attenzione solo sugli studi che hanno valutato se un reale incrementato apporto nel periodo peri-concezionale di AF con o senza MV sia associato ad una riduzione del rischio di queste patologie, gli studi più importanti questa possibilità sono riportati di seguito. Per la fertilità maschile: Per i tumori infantili: • Un TCR svolto in Olanda ha osservato un aumento del numero di spermatozoi negli uomini subfertili trattati con zinco solfato (66 mg/die) e 5 mg/die AF per 6 mesi. Stranamente tale effetto era limitato agli uomini con genotipo MTHFR normale. Non è stato studiato se le partner sono rimaste incinta (Wong et al., 2002). • Una revisione sistematica di studi caso-controllo svolti in Canada, Stati Uniti e Australia indica per i nati da donne che avevano assunto MV + AF nel periodo peri-concezionale una riduzione del rischio di tumori cerebrali, leucemia e neuroblastoma rispettivamente del 27%, 39% e 47% (Goh et al., 2007). • Uno studio su 89 uomini svolto in California ha osservato che il numero di aneuploidie negli spermatozoi degli uomini era inversamente correlato alla quantità di folati assunta (range 1141150 mcg/die) (Young et al., 2008). • Uno studio condotto in Canada nel periodo post-fortificazione ha osservato un’incidenza di neuroblastoma di 6,2 per 100.000, più bassa del 60% nei confronti del periodo pre-fortificazione (French et al., 2003). Per la prematurità, basso peso neonatale e ritardo di crescita intrauterino: • Uno studio di coorte svolto nel 1983-86 in Danimarca ha osservato che le donne che prendevano AF (1,0-2,5 mg) prima del concepimento avevano un rischio diminuito di prematuri (-19%), di nati con peso -2500 g (-32%) e di nati piccoli per età gestazionale (-17%) (Rolschau et al., 1999). • L’analisi secondaria di uno studio di coorte effettuato per valutare l’effetto di multivitaminici sulla pre-eclampsia, ha osservato nelle donne che prendevano regolarmente AF + MV nei 6 mesi precedenti il concepimento una riduzione non statisti- camente significativa di SGA (OR = 0,64, IC 95% 0,40-1,03) e una riduzione del rischio di prematurità, < 34 settimane del 71% (OR = 0,29, IC 95% 0,13-0,64). Non vi è stato invece alcun effetto sulla prematurità tra 34 e 37 settimane (Catov et al., 2007). • La valutazione della frequenza di prematurità nel periodo postfortificazione negli Stati Uniti indica una frequenza del 7,7%, 4% in meno (p < 0,05) di quella precedente (Shaw et al., 2004). Un aumentato apporto di AF alla popolazione in generale può ridurre il rischio di altre patologie umane? Un gran numero di studi ha suggerito un’associazione tra rischio di patologie vascolari (e non solo) e IOC. È ragionevole pensare che la riduzione dell’omocisteina, che si può ottenere con AF (± MV) possa ridurre il rischio di tali patologie. La prova definitiva deve essere prodotta da studi su esiti di salute importanti (ad es. mortalità e morbosità) e non su esiti surrogati (ad es. decremento dell’omocisteina) e deve essere basata su studi robusti (TCR o studi osservazionali molto validi). Negli ultimi anni si sono resi disponibili i risultati di alcuni TCR, che per convenienza di dimensione del campione da studiare sono stati svolti su persone non più giovani e affette da patologie 157 I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo Tabella IV. Sintesi di studi clinici randomizzati effettuati per valutare l’efficacia di vitamine del gruppo B nella riduzione del rischio di patologie vascolari. Primo autore, anno Nome dello studio Patologia dei pazienti Numero totale di randomizzati pazienti Trattamento sperimentale (TS) Schnyder, 2002 Swiss Heart Study Sottoposti a intervento 553 di angioplastica AF 1 mg + 0,4 mg B12 + Placebo 10 mg B6 per 6 mesi Lange, 2004 Germania Sottoposti a intervento 636 di angioplastica AF 1,2 mg + 0,06 mg B12 Placebo + 48 mg B6 per 6 mesi Toole, 2004 VISP, multicentirco Ictus in passato AF 2,5 + 0,4 mg B12 + 25 AF 0,02 + 0,006 mg mg B6 B12 + 0,2 mg B6 3680 Trattamento di controllo (TC) HOPE-2 Group (Ray, HOPE-2 2007) Malattie vascolari o 5522 diabete AF 2,5 mg + B12 1 mg + Placebo B6 50 mg Bonaa, 2006 NORVIT Precedente infarto del 3749 miocardio A = B6 40 mg; B = AF 0,8 Placebo mg + B12 0,4; C = A + B Bonaa, 2006 NORVIT Precedente infarto del 3749 miocardio A = B6 40 mg; B = AF 0,8 Placebo mg + B12 0,4; C = A + B Bonaa, 2006 NORVIT Precedente infarto del 3749 miocardio A = B6 40 mg; B = AF 0,8 Placebo mg + B12 0,4; C = A + B Jamison, 2007 USA, Veterans Insufficienza renale 2056 AF 40 mg + B12 2 mg + B6 Placebo 100 mg den Heijer, 2007 VITRO High HCY Pazienti con TVP o EP 360 AF 5 mg + B12 0,4 mg + Placebo B6 50 mg den Heijer, 2007 VITRO Low HCY Pazienti con TVP o EP 341 AF 5 mg + B12 0,4 mg + Placebo B6 50 mg TVP = trombosi vene profonde; EP = embolia polmonare. Nota 1. L’analisi per efficacia ha dimostrato una riduzione del 21% di eventi gravi. Nota 2. Morti per ictus = 0,75 (0,59-0,75). Angina instabile = 1,24 (1,04-1,49). Analisi successiva di TVP = 1,01 (0,66-1,53). Tabella V. Effetti collaterali descritti in letteratura in associazione alla supplementazione con acido folico. Effetto collaterale descritto Suggerito da… Conclusione Interazione con farmaci Studi di farmacologia e osservazioni cliniche AF interagisce con antiepilettici (in particolare fenilidantoina) e farmaci ad azione antifolica Disturbi dell’umore, del sonno e sintomi gastrointestinali Studio controllato in aperto, AF 15 mg/die per un Possibile effetto di fattori confondenti. Studio non mese (Hunter et al., 1970) confermato Effetti negativi sulla riproduzione o sui bambini Principio di massima precauzione Plagiocefalia posizionale (PP) Analisi secondaria di pochi casi di PP (Michels Risultati non statisticamente significativi; studio con et al., 2008) possibili bias; pubblicato solo per segnalare ipotesi Decremento soglia epilettogena Studi in laboratorio Ipersensibilità Case report (Smith et al., 2007; Pfab et al., 2007) Diminuita attività cellule NK Studio trasversale su 105 donne post-menopau- Decremento dell’attività delle cellule NK correlato a sa e obese (Troen et al., 2006) AF non metabolizzato; di dubbio significato clinico Malassorbimento zinco Segnalazioni sporadiche Ricorrenza adenomi colon (RAC) TCR di prevenzione di RAC con AF e/o aspirina x Risultati non confermati in ulteriore TCR; neces6 mesi: incremento di RAC 3+ e lesioni più avan- sari altri studi (Logan et al., 2008) zate (Cole et al., 2007) Incremento Ca colon e prostata TCR HOPE-2 (Lonn et al., 2006); TCR RAC (Cole Analisi secondarie; popolazione anziana; neceset al., 2007) sari altri studi Nessuna segnalazione suggestiva in TCR o altri studi Attività epilettogena non confermata nell’uomo * Possibili allergie e crisi anafilattiche Ipotizzato senza trovare conferme Correlazione ecologica positiva tra fortificazione ob- Studio di correlazione ecologica in cui non è stato bligatoria in Canada e Ca colon (Mason et al., 2007) tenuto conto dell’incremento dello screening Incremento Ca mammella pre-menopausa Osservazione in studio di coorte (Lin et al., 2008) Ipotesi da valutare meglio. Rischio non aumentato per Ca mammella in generale (Larsson et al., 2007) Incremento di parti gemellari di-zigoti Due studi in Ungheria (Czeizel et al., 1994; Czei- Ulteriori verifiche non hanno confermato i risultati zel e Vargha, 2004) e due studi in Svezia (Ericson ma hanno dimostrato l’effetto confondente (non conet al., 2001; Kallen, 2004) siderato negli studi iniziali) dei trattamenti a donne subfertili (Vollset et al., 2005; Berry et al., 2005) TCR = trial clinico randomizzato. * Segnalazioni più recenti. 158 Acido folico che cosa è, a che cosa serve Esito primario Durata follow-up Frequenza esito primario con TS Frequenza esito primario con TC RR IC 95% Esito composto: morte + infarto + 11 mesi (media) re-intervento di angioplastica 15,4 22,8 0,68 0,48-0,96 Ricorrenza stenosi coronarie 6 mesi 34,5 26,5 1,30 n.i. Ricorrenza ictus 2 anni 9,2 8,8 1,05 0,8-1,3 Nota 1 Morti per malattie cardiovascolari 5 anni o ictus 18,8 19,8 0,95 0,84-1,07 Nota 2 Esito composto: ricorrenza infarto 3,5 anni + morte cardiaca + ictus 70,1 67,2 1,14 0,98-1,32 Trattamento A Esito composto: ricorrenza infarto 3,5 anni + morte cardiaca + ictus 66,9 67,2 1,08 0,93-1,25 Trattamento B Esito composto: ricorrenza infarto 3,5 anni + morte cardiaca + ictus 81,6 67,2 1,22 1,00-1,50 Trattamento C Morte 3,2 anni n = 448 n = 436 1,04 0,91-1,18 Ricorrenza TVP e EP 2,5 anni 1,14 0,65-1,98 Ricorrenza TVP e EP 2,5 anni 0,58 0,31-1,07 vascolari in precedenza. Non è stata quindi valutata l’efficacia nella prevenzione primaria delle patologie di interesse ma la “prevenzione della ricorrenza” della patologia o delle sue sequele. I risultati tutti negativi, con l’eccezione di una riduzione di ictus cerebrale, sono sintetizzati nella Tabella IV. Da segnalare infine una riduzione della mortalità per ictus cerebrale osservata in Canada e Stati Uniti dopo la fortificazione (Yang et al., 2006). Il problema della relazione tra AF e tumori Un ampio numero di studi osservazionali ha dimostrato che un più elevato apporto di folati è associato a un minor rischio di tumori di vario tipo. Questi studi sono corroborati dalle conoscenze sul meccanismo d’azione dell’AF: sintesi del DNA necessario per la replicazione e riparazione; danno cromosomico in carenza di AF; ruolo importante nella sintesi di S-adenosilmetionina, il donatore universale di metili, necessari per la metilazione del DNA e sua integrità. Nonostante le evidenze osservazionali e le considerazioni patogenetiche manca ancora però la prova decisiva che fornisca l’evidenza della possibilità di prevenire i tumori con AF ± MV. Recenti osservazioni sperimentali e sull’uomo suggeriscono che il fattore critico è il momento in cui si assumono folati o AF (Ulrich e Potter, 2006; Smith et al., 2008). L’assunzione di AF ± MV prima della esistenza di lesioni pre-neoplastiche potrebbe prevenire lo sviluppo di tumori, mentre dopo che la lesione si è già stabilita potrebbe aumentare il rischio di carcinogenicità. Annotazioni Un aumentato apporto di AF può avere effetti collaterali? Il più noto effetto collaterale dell’acido folico è il mascheramento di deficit di vitamina B12, con rischio di peggioramento dei segni neurologici. Sulla base di un centinaio di casi clinici riferiti in letteratura prima degli anni ’60, l’Institute of Medicine, Board of Nutrition ha indicato che il livello più basso per osservare l’effetto di mascheramento (LOAEL) va considerato di 5 mg di AF. Tuttavia per un principio di massima di precauzione ha indicato un fattore di incertezza di 5 e suggerito come dose massima tollerabile quella di 1,0 mg/die di AF sintetico. Non vi sono altre indicazioni per stabilire la dose massima tollerabile. Tutti gli altri affetti collaterali ipotizzati e reperibili in letteratura sono sintetizzati nella Tabella V. Crediti Il presente lavoro è stato svolto nell’ambito del Progetto “Implementazione di strategie utili a favorire l’assunzione ottimale di acido folico nelle donne in età fertile e nella popolazione generale” finanziato dal Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (CCM), Ministero del Lavoro, della Salute e Poliche Sociali, Roma e del Programma “Surveillance and prevention of birth defects” Cooperative Agreement Number U50/CCU207141-15 con i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), Atlanta, United States. Si ringrazia Emanuele Leoncini ed Emanuela Piemonte per l’aiuto fornito. 159 I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo Bibliografia Badovinac RL, Werler MM, Williams PL, et al. Folic acid-containing supplement consumption during pregnancy and risk for oral clefts: a meta-analysis. Birth Defects Res A Clin Mol Teratol 2007;79:8-15. Berry RJ, Kihlberg R, Devine O. Impact of misclassification of in vitro fertilisation in studies of folic acid and twinning: modelling using population based Swedish vital records. BMJ 2005;330:815. Berry RJ, Li Z, Erickson JD, et al. Prevention of neural-tube defects with folic acid in China. China-U.S. Collaborative Project for Neural Tube Defect Prevention. N Engl J Med 1999;341:1485-90. Bønaa KH, Njølstad I, Ueland PM, et al.; NORVIT Trial Investigators. Homocysteine lowering and cardiovascular events after acute myocardial infarction. N Engl J Med 2006;354:1578-88. Botto LD, Lisi A, Robert-Gnansia E, et al. International retrospective cohort study of neural tube defects in relation to folic acid recommendations: are the recommendations working? 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Di Pietro9 Società Italiana di Neurochirurgia Pediatrica, U.O. di Neurochirurgia, Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 1 Associazione Italiana di Neuroradiologia, U.O. di Neuroadiologia, Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 2 Società Italiana di Emato-Oncologia Pediatrica, Centro regionale di riferimento per le coagulopatie, Dipartimento di Emato-Oncologia, Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 3 Società Italiana di Anestesiologia e Rianimazione pediatrica, U.O. di Anestesia e Rianimazione, Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 4 Società Italiana di Cardiologia Pediatrica, U.O. di Cardiologia, Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 5 DEA, Ospedale “Regina Margherita”, Torino; 6 Dipartimento di Pediatria, Università di Padova; 7 Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, IRCCS, Roma; 8 Coordinatore Commissione Tecnica Linee Guida della Società Italiana di Pediatria; 9 Presidente Società Italiana di Pediatria Presentazione Lo stroke in età pediatrica è stato, per anni, una patologia poco conosciuta e studiata, sebbene costituisca una delle prime dieci cause di morte in questa fascia di età 1. Numericamente inferiore a quello dell’adulto, può comportare, per i possibili esiti, un notevole impegno per il paziente in età evolutiva e la sua famiglia, non solo per gli aspetti clinici, ma anche per le ripercussioni emotive, sociali ed assistenziali 2-6. Nel passato, la gestione clinico-terapeutica è stata ricavata essenzialmente dall’esperienza e dagli studi sull’adulto. Tuttavia, le profonde differenze dal punto di vista eziopatogenetico e fisiopatologico dello stroke nell’adulto e nel bambino hanno indotto alla realizzazione di studi multicentrici e registri nazionali in età pediatrica come in Canada o in Svizzera 7 8. In Italia, non sono disponibili dati epidemiologici su base nazionale, ma solo casistiche di pazienti. Esistono due Linee Guida (LG) per lo stroke ischemico pediatrico, entrambe pubblicate alla fine del 2004: quelle inglesi, del Paediatric Stroke Working Group 9, decisamente più ampie in quanto comprensive dei diversi aspetti della gestione del bambino con stroke e quelle statunitensi-canadesi dell’American College of Chest Physicians (ACCP) che, nell’ambito di una LG per la terapia delle più comuni condizioni trombotiche del bambino, includono anche una sezione sullo stroke ischemico 10 50. Entrambe le LG, però, si soffermano poco sugli aspetti peculiari della gestione del bambino in fase acuta, essendo basate su studi con- 162 dotti sull’adulto e su pochi studi pediatrici non randomizzati o su esperienze anedottiche. Scopo della Linea Guida Fornire raccomandazioni per la diagnosi ed il trattamento dello stroke ischemico in fase acuta. La presente LG non considera l’età neonatale. È certamente necessario dichiarare che proprio la mancanza in età pediatrica di dati epidemiologici certi e di studi controllati ha condizionato spesso la forza delle raccomandazioni. Destinatari Pediatri ed altre figure professionali, con competenza pediatrica, coinvolte nel processo diagnostico-terapeutico dello stroke. Implementazione • Presentazione e discussione ai Congressi della Società Italiana di Pediatria (SIP) e delle Società affiliate; • pubblicazione sul sito internet della SIP; • pubblicazioni su riviste pediatriche; • corsi di formazione ed aggiornamento (presentazione teorico-pratica a piccoli gruppi di discenti). Valutazione di efficacia Monitoraggio di indicatori, appositamente scelti, che vadano a valutare l’effettiva efficacia della LG. Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta Aggiornamento Nessuno degli estensori ha ricevuto finanziamenti di alcun genere per la stesura di questa LG o ha indicato potenziali conflitti di interesse. come una “sindrome clinica basata sulla rapida insorgenza di segni neurologici focali o di una disfunzione cerebrale diffusa della durata di almeno 24 ore o con esito mortale, senza cause apparenti al di fuori di un’origine vascolare” 4 12 13. Si definisce invece attacco ischemico transitorio (TIA) un “deficit neurologico acuto focale o diffuso, transitorio, riferibile ad un territorio di distribuzione arteriosa, in un paziente in cui la RMN non mostra segni di ischemia, ma la storia clinica e le indagini cliniche e strumentali suggeriscono una origine vascolare” 9 16 17. Metodologia Epidemiologia Per la redazione della presente LG, è stata effettuata una revisione sistematica della letteratura, ricercando i lavori scientifici, sulla base della piramide delle evidenze, considerando in ordine di priorità: • revisioni sistematiche; • studi randomizzati controllati in doppio cieco; • studi randomizzati controllati; • studi di coorte; • studi caso-controllo; • serie di casi; • case reports; • editoriali-review, report di congressi, opinioni di esperti. Inoltre, sono state considerate le raccomandazioni espresse su LG sullo stroke pediatrico già esistenti, in accordo al livello di evidenza riportato. Per il reperimento delle fonti (identificazione e analisi della letteratura), è stata effettuata una ricerca bibliografica mediante parole chiave (Pediatric stroke, Pediatric arterial stroke, Pediatric ischemic stroke, Childhood stroke, Epidemiology, Emergency Department, Therapy) variamente combinate sulle banche dati Medline tramite motore di ricerca Pubmed, Embase e Cochrane Library dal 1994 al 2007. Inoltre, sono stati ricercati altri documenti rilevanti della letteratura, attraverso motori di ricerca generici e le LG già pubblicate sull’argomento. Gli articoli individuati, dopo una verifica sulla congruità del contenuto, sono stati selezionati e sottoposti ad una valutazione sulla qualità metodologica e riassunti in una scheda di valutazione. Le schede sono state inviate a tutti i componenti del gruppo di redazione della LG (Allegato A). Per la stesura della LG è stato consultato il manuale metodologico del Programma Nazionale per le LG (PNLG) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) (www.pnlg.it) 11. Le prove di efficacia e le raccomandazioni contenute nella LG, utilizzate per redigere il testo, sono state classificate basandosi sui livelli di evidenza del PNLG (Allegato B). Tali livelli hanno lo scopo di riflettere il grado di validità dei risultati e delle conclusioni riportate nei singoli lavori utilizzati, portando alla formulazione della forza delle raccomandazioni (Allegato C). L’incidenza di stroke ischemico arterioso nel bambino al di sopra dei 28 giorni di vita, riportata in letteratura, varia tra 1,2 e 7,9 casi/100.000 bambini per anno 4 7 8 22-24. Tuttavia, negli ultimi vent’anni, si è registrato un aumento dell’incidenza dello stroke ischemico, in relazione probabilmente alla maggiore attenzione verso questa patologia, alla disponibilità di tecniche neuroradiologiche più sensibili e alla maggior sopravvivenza dei bambini con patologie primitive che predispongono allo stroke. D’altro canto, l’introduzione di misure di prevenzione primaria può ridurre significativamente lo stroke in patologie selezionate, come ad esempio l’anemia falciforme, in cui l’incidenza rimane elevata (11% prima dei venti anni di età) 3 5 6 17 25-27. Per quanto riguarda l’outcome, più del 50% dei bambini con stroke presenta esiti neurologici motori e/o cognitivi, crisi epilettiche e/o disturbi psichici. La mortalità varia dal 5 al 28%. Il rischio di ricorrenza è intorno al 20-30% 3 4 6 27 28. Negli anni, la creazione e il consolidamento di registri epidemiologici (in Italia un esempio è dato dal Registro delle Trombosi infantili – RITI recentemente costituito) porterà certamente ad un incremento delle conoscenze. Ogni 3 anni, se non intervengono prima segnalazioni di particolare rilevanza in letteratura in grado di modificare, in misura sostanziale, la base delle conoscenze sulla malattia. Finanziamenti e conflitti di interesse Definizioni Lo stroke è una sindrome clinica caratterizzata dalla presenza di un deficit neurologico riferibile al territorio di perfusione di un’arteria cerebrale e dall’evidenza neuroradiologica di una lesione ischemica. Questa definizione, basata sulla nozione che le indagini neuroradiologiche, in particolare la Risonanza Magnetica Nucleare (RMN), sono oggi irrinunciabili per definire l’origine cerebrovascolare della sintomatologia 9 14 15 17, completa quella eminentemente clinica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che definisce lo stroke Eziologia I fattori di rischio dell’infarto cerebrale in età pediatrica differiscono significativamente da quelli dell’adulto, nel quale sono soprattutto legati alla malattia aterosclerotica e cardioembolica. Sono stati individuati nel bambino oltre 100 fra fattori di rischio e cause di stroke; i più frequenti sono le cardiopatie, le vasculopatie, i disordini ematologici e le infezioni 7 19 21 29-33 117-119 121 (Tab. I). Tuttavia, nel 11-25% dei pazienti, non viene identificato alcun fattore di rischio e si parla di stroke criptogenetico 4 8 18 34. Il ruolo dei fattori protrombotici acquisiti e congeniti nella eziopatogenesi dell’infarto ischemico è stato indagato in numerosi studi, con risultati non univoci. Anomalie protrombotiche vengono riportate nel 20-50% dei bambini con stroke, spesso in associazione ad altri fattori di rischio. I dati più consistenti riguardano la presenza di deficit di fattore V Leiden, deficit di proteina C, elevati livelli di lipoproteina (a). Ci sono evidenze che i bambini con alcune anomalie protrombotiche sono a maggior rischio di recidiva. Tuttavia, non è ancora chiaro se queste anomalie abbiano un diretto nesso causale con l’infarto o contribuiscano a determinarlo in presenza di altri fattori genetici o ambientali 29 35-41. L’associazione di più fattori di rischio sembra correlare con una prognosi sfavorevole in termini di esiti neurologici, di recidiva, di mortalità. È importante, quindi, non fermarsi al riscontro di un primo fattore, ma completare l’iter diagnostico per giungere ad un’accurata diagnosi eziologica, alla luce anche della possibilità che alcune condizioni siano trattabili 8 36. 163 Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta Raccomandazione 1 Il bambino con stroke ischemico deve essere sottoposto ad un completo work up diagnostico, in quanto possono sussistere più cause e/o fattori di rischio (Tab. I). Raccomandazione di grado A. Livello di evidenza V. Presentazione clinica La presentazione clinica dello stroke ischemico è età- e sede-dipendente. Nel lattante e nel bambino più piccolo può essere aspecifica, con segni clinici focali scarsi e sintomatologia più frequente rappresentata da: convulsioni, febbre, irritabilità o cefalea, distonie, alterazione del sensorio. Nella seconda infanzia e nelle età successive, la presentazione clinica prevalente consiste in un deficit neurologico acuto focale quale una emiparesi associata o meno a convulsioni 9 15 20 46-49. Uno studio, condotto in Svizzera su 40 soggetti con stroke di età compresa fra 1 mese e 16 anni, riporta emiparesi nel 30% dei pazienti, paralisi del VII nervo cranico nel 20%, cefalea o alterazione dello stato di coscienza (sonnolenza e stanchezza) nel 15%, disfasia in circa il 13%; meno frequentemente, alterazioni del tono e della sensibilità, crisi epilettiche, atassia, nausea, sintomi oculari, vertigini, disfagia, disturbi del comportamento 8. Tabella I. Cause e fattori di rischio dello stroke arterioso ischemico del bambino (da de Veber 2006 13, mod.). Malattie sistemiche Disordini ematologici Emoglobinopatie (anemia falciforme) Porpora trombocitopenica autoimmune Trombocitosi Policitemia Leucemia o altre neoplasie Porpora trombocitopenica trombotica Disordini metabolici Iperomocistinemia Iperlipidemia Aumento della lipoproteina A Disordini mitocondriali (MELAS) Omocistinuria Malattia di Fabry Condizioni protrombotiche congenite o acquisite Sindrome da antifosfolipidi Alterazioni lipoproteine Deficit antitrombina Deficit di proteina S Deficit proteina C Deficit di plasminogeno Mutazione fattore V Leiden Mutazione della protrombina G20210A Polimorfismi della metiltetraidrofolato reduttasi Contraccettivi orali, assunzione di L-asparaginasi Gravidanza e periodo post-partum Malattie sistemiche Aterosclerosi precoce Diabete Malattia di Ehlers-Danlos Pseudoxantoma elasticum Traumi Erniazione cerebrale, Compressione arteriosa Dissezione arteriosa post-traumatica Trauma intra-orale Legatura della carotide (ECMO) Arteriografia Embolismo liquido amniotico/placentare Embolia gassosa/adiposa o gassosa Embolia iatrogena da corpo estraneo Cateterismo cardiaco Cardiopatie Malattie cardiache congenite Coartazione Difetti complessi congeniti Difetti settali ventricolari/atriali Pervietà del dotto arterioso Pervietà del forame ovale Stenosi aortica o mitralica Malattie cardiache acquisite Cardiomiopatia e miocardite Disaritmie Endocardite batterica Malattia reumatica Mixoma atriale Rabdomioma cardiaco Valvola cardiaca protesica Patologie vascolari Vasculopatie Angiopatia post-varicella Arteropatia transitoria cerebrale Displasia arteriosa fibromuscolare Malattia di Moyamoya Vasculopatia post-radiazioni Disordini vasospastici Emicrania Intossicazioni da sostanze ergotamine-alcaloidi (Ergot poisoning) Vasospasmo con emorragia subaracnoidea 164 Vasculiti Abuso di droghe (cocaina, anfetamina) Angite primitiva del SNC Arterite di Takayasu Artrite reumatoide Dermatomiosite LES Meningite Patologia infiammatoria intestinale Poliarterite nodosa Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta Tabella II. Sintomatologia clinica in rapporto al territorio vascolare interessato. Sintomi Distretto vascolare Afasia Emianopsia Convulsioni Emiparesi Arterie cerebrali media-anteriore e carotide int. Atassia Disturbi del respiro Disturbi del sensorio Nistagmo Opistotono Tremori Vertigini Vomito Arteria basilare Alterazioni del sensorio Cefalea Deficit motori Episodi aspecifici (febbre, vomito) Segni cerebellari Arteria cerebellare Un altro studio, basato sui dati del registro canadese, riporta, come segni d’esordio, emiplegia nel 51% dei bambini, disturbi del linguaggio nel 17% e crisi epilettiche nel 48% (7). La sintomatologia clinica, oltre all’età, è correlata al territorio vascolare coinvolto. Il distretto più colpito è quello dell’arteria cerebrale media (Tab. II). La rapidità di insorgenza dei sintomi correla fortemente con la patogenesi dell’evento ischemico. L’insorgenza non improvvisa (> 30 minuti) orienta per un meccanismo trombotico (p.e. arteriopatia infiammatoria), mentre l’esordio improvviso è legato prevalentemente ad un evento embolico (dissezione, cardiopatia). L’orientamento clinico deve guidare la priorità delle indagini diagnostiche e il trattamento iniziale (terapia anticoagulante vs. antiaggregante) 49. Raccomandazione 2 L’infarto cerebrale ischemico cerebrale va sempre sospettato in caso di: • deficit neurologico acuto; • alterazione dello stato di coscienza; • prima crisi epilettica focale; • qualsiasi sintomo neurologico di nuova insorgenza in un bambino con anemia falciforme. Raccomandazione di grado A. Livello di evidenza V. Diagnosi differenziale Nel bambino che presenti un deficit neurologico acuto, devono essere prese in considerazione, oltre all’infarto ischemico, anche le altre patologie cerebrovascolari (infarto emorragico, trombosi dei seni venosi), nonché altre condizioni morbose. Tra le cause più frequenti di emiplegia acuta, vi sono la paralisi di Todd e l’emicrania. Una crisi epilettica focale, infatti, può essere seguita da monoparesi o emiparesi, senza alterazione dello stato di coscienza o altri segni di malattia. Molto raramente, un deficit motorio focale può essere l’unica manifestazione della crisi 51. Anche l’emicrania emiplegica può mimare un incidente vascolare. In genere, in questo caso, il deficit motorio segue a sintomi visivi e/o sensitivi e precede tipicamente la cefalea. Un’emiplegia acuta legata ad una meningoencefalite è spesso associata a febbre, cefalea e alterazione della coscienza. Anche una emorragia in sede di tumore può manifestarsi con un deficit focale improvviso. Altre cause di deficit neurologico acuto sono la leucoencefalite acuta disseminata, la cerebellite, l’encefalopatia posteriore reversibile (da tossicità da farmaci o da ipertensione arteriosa), l’emiplegia alternante, gli infarti metabolici (malattie mitocondriali, in cui le aree di alterato segnale alla RMN non corrispondono ad un territorio vascolare), l’ipoglicemia. Vanno tenuti presenti, infine, i disturbi di origine psicogena 16 48. In un bambino che si presenti con deficit neurologico acuto, pertanto, è sempre indicato eseguire tempestivamente una valutazione clinica e strumentale completa, in particolare la RMN per chiarire la diagnosi 16 19. In caso la RMN non sia disponibile, va eseguita una Tomografia assiale computerizzata (TAC) cerebrale 67. Diagnosi Pur essendo auspicabile che il paziente pediatrico sia sempre assistito da personale medico ed infermieristico con competenze pediatriche, le differenti caratterizzazioni della rete pediatrica in Italia, variabile da Regione a Regione, rendono impossibile fornire raccomandazioni puntuali e precise sull’opportunità del trasferimento di questi pazienti in centri pediatrici di III livello. Il paziente con sospetto stroke deve essere sottoposto a: • valutazione clinica con esame obiettivo che miri ad una precoce rilevazione dei danni neurologici e ne stabilisca la sede; • anamnesi personale, familiare, fisiologica, patologica che devono mirare alla rilevazione di fattori di rischio importanti nel guidare l’iter diagnostico. A questo proposito, una particolare attenzione deve essere riservata alla tempistica dell’insorgenza dei sintomi e alla modalità di presentazione degli stessi, con la rilevazione di informazioni da testimoni/genitori o dal paziente stesso, se l’età e le condizioni lo permettono; • prelievo venoso volto alla valutazione di selezionati parametri ematochimici (esame emocromocitometrico, PCR, glicemia, azotemia, creatinina, funzione epatica, LDH, ionogramma sierico, emogasanalisi, PT, PTT, fibrinogeno); • accertamenti neuroradiologici (che verranno trattati in dettaglio di seguito); • accertamenti cardiologici (che verranno trattati in dettaglio di seguito); • esecuzione di ulteriori esami ematochimici di approfondimento diagnostico. A seconda dei casi, può essere importante lo screening trombofilico, la valutazione dello stato immunitario (profilo anticorpale, Ab antifosfolipidi, ANA, ANCA; ENA, C3, C4), metabolico (colesterolo totale, trigliceridi, APO-A1, APO-B, lipoproteina A, omocisteinemia) e lo screening tossicologico su urine; • eventuali altri accertamenti sono indicati sulla base della eziologia e della sede dello stroke (EEG e potenziali evocati visivi) 15. Accertamenti neuroradiologici L’accertamento neuroradiologico di elezione è la RMN. Le problematiche organizzative e la complessità dell’esame spesso, però, ne limitano l’utilizzo in urgenza; nondimeno, essendo necessaria una diagnosi precoce, è opportuno non indugiare e sottoporre il piccolo paziente, con segni e sintomi suggestivi di stroke, ad indagine con TAC senza mdc 4 18 64-67 70. Questo esame, infatti, pur essendo dotato di minore sensibilità e specificità nell’evidenziare focolai ischemici, consente di escludere 165 Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta la presenza di eventuali focolai emorragici (ESA e/o emorragia intraparenchimale) ed eventualmente altre patologie responsabili della sintomatologia (“stroke mimics”: neoplasie, patologie degenerative, patologie malformative o infettivo- infiammatorie). È da tenere comunque presente che la TAC può essere completamente negativa nelle prime ore dall’evento. Raccomandazione 3 Il gold-standard per lo studio dello stroke è, allo stato attuale, la RMN 68. Raccomandazione di grado A. Livello di evidenza V-VI. La RMN è infatti in grado di svelare precocemente la lesione utilizzando, oltre le sequenze routinarie (FLAIR, SE e FFE- T2) 4 69, sequenze più sensibili 66 69 della durata complessiva di circa un minuto come DWI e ADC. Escludendo da questa trattazione i dettagli tecnici atti a migliorare l’attendibilità e la sensibilità dell’esame, di cui ogni neuroradiologo deve essere a conoscenza, basti qui ricordare che, ad una generica richiesta specialistica di “RMN encefalo in sospetto ictus”, priva di ulteriori specificazioni, deve corrispondere un protocollo codificato che comprenda sia sequenze pesate in diffusione (DWI e ADC) che sequenze Angio-RM arteriose (della durata di circa 4 minuti) con studio esteso alle diramazioni arteriose distali, per escludere eventuali fistole artero-venose durali (FAVD) 71 e venose (della durata di circa 2 minuti), e una Angio-RM venosa, qualora si sospetti una trombosi dei seni venosi 4 68. Entrambe le sequenze non necessitano obbligatoriamente della somministrazione di mdc 4 68 che viene effettuata dal neuroradiologo solo in caso di dubbio diagnostico. Nel sospetto di dissecazione arteriosa molto prossimale (a carico della carotide comune, del tratto extracranico della carotide interna o della arteria vertebrale), è necessario specificare tale possibile causa al neuroradiologo il quale provvederà a studiare opportunamente il circolo extracranico interessato con Angiografia digitale (DSA) o Doppler o Angio-RMN del collo 4 66 67. In caso di sospetto persistente di lesione ischemica e discrepanza tra quadro clinico e neuroradiologico, esiste la possibilità di approfondimento dello studio dell’encefalo con software avanzati di risonanza magnetica. Qualora la macchina a disposizione lo consenta, si può studiare la perfusione cerebrale (PWI) con somministrazione di gadolinio (il mezzo di contrasto in risonanza magnetica), a elevata velocità di flusso, per mezzo di un accesso venoso di dimensioni appropriate (generalmente agocannula da 16-18 GA, somministrazione in pompa di doppia dose di mdc a 2 ml/s di flusso). Tali procedure consentono di escludere con sicurezza la presenza di ICTUS, così come di deficit perfusivi 69 70. Alcune lesioni ischemiche possono essere passibili di terapia endovascolare e quindi necessitano di una confidenza diagnostica maggiore 67 72 73 che solo la angiografia digitale (DSA) può dare (Box 1). Accanto alle possibilità di approfondimento diagnostico, in caso di patologia vascolare complessa, la DSA permette numerose opzioni terapeutiche che devono essere conosciute dal clinico ed eventualmente prese in considerazione: trattamento di una flap dissecante, dilatazione di stenosi critiche intracraniche anche distali o trattamento disostruttivo (per esempio trapping di embolo o disostruzione meccanica con devices neurointerventistici dedicati); queste manovre devono tuttavia essere eseguite da personale, con esperienza in 166 Box 1 La DSA è una tecnica che permette di visualizzare endovascolarmente la vascolarizzazione del SNC (cranio-encefalo e rachidemidollo). In età pediatrica viene praticata in anestesia generale e, attraverso un introduttore (generalmente posizionato nei vasi femorali), viene fatto scorrere, lungo i grossi vasi dell’organismo, un sottile catetere di materiale plastico che viene posizionato all’inizio del distretto vascolare da studiare. Dopodiché viene iniettato del mezzo di contrasto iodato (iodio) e durante questa fase acquisite una serie di radiografie che permettono di documentare la vascolarizzazione dell’organo oggetto di studio. ambito pediatrico, in grado di mutuare le indicazioni e le tecniche dalla letteratura sullo stroke nell’adulto e di adattarle alle peculiarità del bambino. L’uso di fibrinolitico intrarterioso in età pediatrica (da eseguirsi previo posizionamento di catetere in prossimità del trombo) attualmente non è codificato in letteratura; i singoli case report descritti 73-75 evidenziano esiti discordanti e ne consigliano l’utilizzo in casi superselezionati e in centri dedicati. Raccomandazione 4 L’utilizzazione dell’angiografia con tecnica convenzionale è riservata a casi selezionati 77. Raccomandazione di grado B. Livello di evidenza V. Accertamenti cardiologici In molti pazienti con stroke, una patologia cardiaca può essere misconosciuta 21 36. Il più importante meccanismo di stroke peculiare delle cardiopatie congenite cianogene e delle malformazioni vascolari è l’embolia paradossa. Essa è definita come un evento embolico sistemico dovuto a passaggio, nella circolazione arteriosa sistemica, attraverso una comunicazione anomala, di materiale embolico (trombotico, aria, grasso ecc.) che ha avuto origine dal compartimento ematico venoso e che abbia saltato il filtro capillare polmonare 90-93. Possono potenzialmente essere causa di stroke le cardiopatie congenite, in particolare quelle cianogene 81-83 96, così come deve essere presa in considerazione, quale altra potenziale concausa di stroke in età pediatrica, anche la pervietà del forame ovale, con o senza aneurisma del setto interatriale, in un cuore peraltro normale 84 85 94-98. Nei pazienti affetti da cardiopatia cianogena, il costante passaggio del sangue venoso nella circolazione arteriosa rende questi soggetti particolarmente suscettibili all’embolia paradossa. Nei bambini con cardiopatia congenita, con shunt sinistro-destro o in caso di forame ovale pervio, l’inversione temporanea dello shunt, quale può verificarsi in caso di aumento della pressione intratoracica (esercizio fisico, soprattutto di tipo isometrico o durante manovre tipo Valsalva o la tosse), può favorire l’evento embolico paradosso, se tale episodio di inversione del flusso ematico dovesse casualmente coincidere con la presenza di materiale embolico nel cuore destro 87 98. Possono infine ancora essere causa di stroke l’endocardite infettiva, la patologia delle valvole cardiache (es. valvole cardiache protesiche ecc.), le aritmie (es. fibrillazione atriale), la cardiomiopatia dilatativa, le fistole artero-venose polmonari 96 97. Nei bambini con stroke ischemico, va eseguita una valutazione cardiologica pediatrica comprensiva di ECG ed ecocardiografia transto- Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta racica qualora non vi siano evidenti cause non cardiologiche dell’evento ischemico 98 100. L’ecocardiografia transesofagea è indicata in tutti i casi in cui informazioni diagnostiche significative non possano essere ottenute con l’ecocardiografia transtoracica. In generale l’ecocardiografia transesofagea è la metodica che fornisce le maggiori informazioni, sia riguardo l’identificazione di materiale embolico nelle camere cardiache, sia l’individuazione di potenziali passaggi anatomici 88-90. I maggiori svantaggi dell’ecocardiografia transesofagea sono l’invasività e la necessità di sedazione che riduce la cooperazione del paziente ed impedisce l’effettuazione di una appropriata manovra di Valsalva. Se una fonte cardiaca emboligena è svelata dall’ecocardiografia transtoracica, non risulta giustificato il disagio, per il paziente, dell’ecocardiografia transesofagea. La possibilità di identificare un forame ovale pervio può essere incrementata dalla tosse o praticando una manovra di Valsalva e dall’iniezione di mezzo di contrasto. La manovra di Valsalva è attualmente considerata la manovra dinamica necessaria al fine di rilevare uno shunt destro-sinistro durante l’esecuzione di un’ecocardiografia transtoracica, transesofagea o transcranica 101 102. L’iniezione di mezzo di contrasto (in età pediatrica solitamente soluzione fisiologica agitata), durante l’esecuzione di ecocardiografia transtoracica o transesofagea o Doppler transcranico, è una metodica di imaging sicura, semplice e riproducibile con una provata accuratezza per svelare shunts cardiovascolari non rilevabili al color Doppler, poco utile, però, nell’individuare shunts destro-sinistri a causa della loro bassa velocità e transitorietà 87 101 102. Anche lo shunt causato da fistole artero-venose polmonari può essere rilevato, mediante metodica eco-contrasto, dalla comparsa di microbolle presenti nell’atrio sinistro dopo che sono già passate nell’atrio destro in seguito ad iniezione endovenosa 99. Il Doppler transcranico può essere utilizzato per individuare la presenza di shunt destro-sinistro, come la presenza di pervietà della fossa ovale, nei pazienti in cui l’ecocardiografia transesofagea sia negativa, o in soggetti che abbiano una controindicazione ad eseguire l’ecocardiografia transesofagea 86 102-105. Controindicazioni assolute all’ecocardiografia transesofagea sono costituite da stenosi esofagee, sanguinamento gastrico in atto, perforazione viscerale, fistola tracheo-esofagea non corretta, grave insufficienza respiratoria e inadeguato controllo delle vie aeree 106. L’ecocardiografia dovrebbe essere eseguita, entro 48 ore dalla presentazione dell’evento, in tutti i bambini affetti da stroke ischemico arterioso 87. Il trasferimento presso un centro di III livello potrebbe rendersi necessario se non fossero presenti in loco le opportunità per effettuare un adeguato, completo ed esaustivo imaging. In caso di problematiche riguardanti l’acquisizione e/o l’interpretazione dell’ecocardio- grafia pediatrica, sarebbe opportuno richiedere una consulenza cardiologica-pediatrica presso un centro di III livello. Raccomandazione 5 Nei bambini con stroke ischemico va eseguita valutazione cardiologica con ECG ed ecocardiografia transtoracica o transesofagea. Raccomandazione di grado A. Livello di evidenza V-VI. Terapia La variabilità delle condizioni del paziente con sospetto stroke richiede modalità di intervento diverse. Nel paziente critico, il trattamento delle condizioni generali deve seguire le regole dell’A, B, C, D secondo le LG ILCOR (International Liaison Committee on Resuscitation) 52-56. Nella stragrande maggioranza dei casi, i pazienti non necessitano di assistenza intensiva, ma debbono essere ricoverati in letti di degenza che assicurino l’attento monitoraggio clinico e parametrico. Qualora però le condizioni lo richiedano, è opportuno l’intervento del rianimatore (Tab. III). L’opportunità di ricoverare in terapia intensiva solo i casi più severi deriva dall’osservazione che, nell’adulto, l’outcome non pare significativamente diverso, a seconda che il paziente venga ricoverato o meno in terapia intensiva, se lo stroke è moderato o lieve (NIHSS ≤ 16) 57-63. Raccomandazione 6 Il bambino con stroke cerebrale in fase acuta va ricoverato in reparti che assicurino un monitoraggio clinico e parametrico continuo. Il ricovero in terapia intensiva deve essere riservato a casi selezionati. Raccomandazione di grado B. Livello di evidenza VI. Nel paziente con sospetto stroke i provvedimenti terapeutici sono: a) Stabilizzazione; b) Terapia anticoagulante-antiaggregante. Stabilizzazione • Posizionamento accesso venoso; • infusione di liquidi sulla base dei risultati degli esami eseguiti (controllo della ipoglicemia); • terapia di supporto, se indicata (controllo della ipertermia, terapia anticonvulsiva, antibatterica ecc.). Viene iniziata, quindi, a stroke accertato, una terapia mirata. Tabella III. Condizioni che richiedono il ricovero in terapia intensiva. A (Airway): inadeguato mantenimento della pervietà delle vie aeree con perdita dei riflessi di protezione per depressione dello stato di coscienza o deficit a carico dei nervi cranici, tali da richiedere intubazione tracheale. B (Breathing): inadeguata ventilazione o ossigenazione (ipossia e ipercapnia sono causa di importante vasodilatazione cerebrale e possono aggravare il danno secondario e l’ipertensione endocranica), tali da richiedere il ricorso a ventilazione meccanica. C (Circulation): instabilità emodinamica con inadeguata CPP, necessità di monitoraggio emodinamico avanzato e supporto inotropico. Disturbi aritmici gravi, segni di ischemia miocardica e/o shock cardiogeno, shock ipovolemico. D (Disability): National Institute of healt stroke (NIHSS) > 17, deficit neurologici progressivi, segni di ipertensione endocranica (deterioramento dello stato di coscienza (Glasgow coma scale GCS < 12), ipertensione, bradicardia, respiro irregolare), segni di erniazione cerebrale (anisocoria, decerebrazione, decorticazione). 167 Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta Tabella IV. Trattamento stroke pediatrico secondo le LG UK e ACCP 9 10. Ictus ischemico acuto: UK ACCP ASA 5 mg/kg ENF o EBPM per 5-7 giorni o finché siano stati esclusi cardioembolismo e dissezione Terapia di mantenimento: Generale ASA 1-5 mg/kg/die ASA 2-5 mg/kg/die dopo il termine della terapia anticoagulante Dissezione Considerare terapia anticoagulante fino a ricanalizzazione o per 6 mesi Dopo 5-7 giorni di ENF o EBPM, terapia con EBPM o anticoagulanti orali per 3-6 mesi Cardioembolia Considerare terapia anticoagulante dopo consulenza cardiologica Dopo 5-7 giorni di ENF o EBPM, terapia con EBPM o anticoagulanti orali per 3-6 mesi Arteriopatia ASA 1-3 mg/kg/die ASA 2-5 mg/kg/die dopo terapia anticoagulante ASA = Acido acetil salicilico; EBPM = Eparine a basso peso molecolare; ENF = Eparina non frazionata Trattamento anti-trombotico dello stroke arterioso ischemico I risultati incoraggianti ottenuti negli ultimi anni nel trattamento dello stroke ischemico dell’adulto comportano, per il pediatra, la necessità di confrontarsi con tale esperienza clinica e terapeutica, pur nella consapevolezza delle notevoli differenze etiopatogenetiche esistenti tra la patologia ischemica dell’adulto e quella del bambino 43-45 (Tab. IV). Come emerge dalla Tabella, le differenze sono minime ed essenzialmente ridotte all’impiego di eparina a basso peso molecolare (EBPM) consigliata nei primi giorni di inquadramento dalle LG ACCP. Il parere degli esperti del gruppo propende per i suggerimenti delle LG ACCP, considerato che la diagnosi eziologica di tipo cardioembolico potrebbe non essere immediata. La letteratura disponibile consente di ritenere le EBPM sicure nei bambini con stroke non emorragico in base all’esperienza riportata in totale su 123 pazienti trattati sia con dosi profilattiche che terapeutiche di Enoxaparina e Dalteparina 115 129 130. Raccomandazione 7 I bambini con stroke ischemico arterioso in assenza di importanti infarcimenti emorragici devono essere trattati con EBPM a dose terapeutica per 7-10 gg (Box 2). Raccomandazione di grado A. Livello di evidenza III. Gli estensori della presente LG concordano con il suggerimento di Monagle, Chan, De Veber, Massiccotte sull’esecuzione di una TAC in III giornata di terapia con EBPM per escludere complicanze emorragiche 132. Raccomandazione 8 In III giornata di terapia con EBPM, si raccomanda l’esecuzione di una ulteriore TAC per escludere complicanze emorragiche. Raccomandazione di grado A. Livello di evidenza III. Raccomandazione 9 Dopo i primi 5-7 giorni, o da subito, in caso di esclusione certa di dissecazione arteriosa e/o embolia cardiogena, va somministrata aspirina per 5 aa dall’evento, a 3-5 mg/kg/die. Raccomandazione di grado B. Livello di evidenza III. Insuccessi della profilassi con aspirina sono stati riportati con una percentuale variabile dal 6,6 al 15% di pazienti trattati 122. 168 Nei pazienti intolleranti all’ASA, come anti-aggregante, è stato utilizzato con buoni risultati il Clopidogrel al dosaggio di 1 mg/kg per giorno fino a un massimo di 75 mg 122. Raccomandazione 10 Nei bambini che non tollerano l’aspirina può essere utilizzato come anti-aggregante il Clopidogrel. Raccomandazione di grado B. Livello di evidenza III. Box 2 Le eparine a basso peso molecolare Le eparine a basso peso molecolare (EBPM) possono essere somministrate per via sottocutanea senza effettuare controlli; comportano minor rischio di piastrinopenia e di osteoporosi rispetto all’eparina standard e hanno minori interferenze con farmaci e dieta rispetto agli antagonisti della Vit.K. I bambini molto piccoli e soprattutto i neonati necessitano di dosi maggiori e potenzialmente di infusioni di plasma per i fisiologici bassi livelli di Antitrombina 10. Pertanto, in casi selezionati, può essere necessario monitorare gli effetti della terapia. Le EBPM, in generale, a differenza della eparina standard, inibiscono molto di più il Fattore X della trombina (da 3 a 8 volte) e non alterano i comuni test di screening della coagulazione (PT e aPTT); il test da utilizzarsi è il dosaggio della attività anti-FXa; il dosaggio va eseguito almeno 4-6 ore dalla iniezione sottocutanea con metodica tarata sul farmaco in uso; il range terapeutico è 0,5-1,2 U/ml e quello profilattico 0,20,4 U/ml 10. Le EBPM, per via della somministrazione sottocutanea, comportano qualche problema di compliance; per migliorare l’accettazione della terapia da parte dei bambini e delle famiglie, può essere utilizzato un dispositivo sottocutaneo che può permanere una settimana 107; tale prodotto (Insuflon, Unomedical, Danimarca) è recentemente stato introdotto anche in Italia. In alternativa, può essere utilizzata una crema anestetica da applicarsi sulla sede dell’iniezione circa un’ora prima 108. Le EBPM che sono state utilizzate in pediatria, e per le quali si possono trovare pubblicate LG o raccomandazioni per i dosaggi, sono l’enoxaparina, la dalteparina, la tinzaparina e la reviparina 10. Tra queste la più utilizzata in pediatria è l’enoxaparina. 1 mg contiene 100-120 UI anti-FXa. A seguire viene schematizzata la gestione della terapia sottocute con EBPM in fase di attacco e l’aggiustamento delle dosi nei periodi successivi. Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta assenza di controindicazioni generali ed in centri opportunamente attrezzati. Pertanto non può essere raccomandata allo stato attuale. Box 2 segue Dosi iniziali di EBPM. Farmaco Paziente Dose terapeutica Dose profilattica Enoxaparina ≤ 2 mesi 150 U/kg/12h 75 U/kg/12h > 2 mesi 100 U/kg/12h 50 U/kg/12h Dalteparina Dose unica 129 ±43 U/ Kg/24h 92±52 U/ kg/24h Reviparina ≤ 5 kg 150 U/kg/12h 50 U/kg/12h > 5 kg 100 U/kg/12h 30 U/kg/12h Modifiche del dosaggio della EBPM sulla base dei dati di laboratorio. anti-FXa U/ml Attendere per dose successiva Modifiche Successiva della dose misurazione anti-FXa < 0,35 -- +25% 4 h dopo dose successiva 0,35-0,49 -- +10% 4 h dopo dose successiva 0,5-1,0 -- -- Dopo 24 h, quindi dopo 7 gg 1,1-1,5 -- -20% Prima della dose successiva 1,6-2,0 3 ore -30% Prima della dose successiva > 2,0 Finché anti-FXa = 0,5 U/ml -40% Prima della dose successiva Trombolisi In letteratura, sono riportate limitate esperienze con agenti trombolitici nei bambini e, al momento, non esistono indicazioni sull’uso di tali farmaci in questa fascia di età. La rarità dell’ictus pediatrico può dare luogo ad una percentuale di errori diagnostici, in fase acuta, maggiore rispetto all’adulto, essendo necessario considerare, nella diagnosi differenziale, patologie molto più frequenti in età pediatrica come le epilessie, l’emicrania, le somatizzazioni. La diagnosi di stroke viene quindi posta ben oltre l’intervallo di tempo in cui la trombolisi intravenosa o intra-arteriosa possano essere effettuate 14 109-111. Vi sono, comunque, diverse segnalazioni (ma nessuno studio, neppure di coorte) di trombolisi sistemica o intra-arteriosa con rt-PA (non registrato per l’uso pediatrico in Italia) condotte con successo nell’ictus pediatrico, ma sono riportati episodi di sanguinamento 72-74 111-115. Tale terapia si ritiene eventualmente ipotizzabile solo in soggetti con sottotipo eziopatogenetico noto, nella finestra terapeutica, in Raccomandazione 11 La terapia trombolitica non è da attuare nel paziente pediatrico. Raccomandazione di grado D. Livello di evidenza V-VI. Indicazioni terapeutiche per pazienti selezionati In alcune aree geografiche italiane, vi è una prevalenza di pazienti affetti da anemia falciforme, nei quali l’evenienza stroke è particolarmente elevata 116 117. Il trattamento in urgenza dello stroke in questi pazienti non prevede terapia antitrombotica ma: • una exanguino trasfusione urgente per ridurre l’HbS a meno del 30% e aumentare l’emoglobina a 10-12 g/dl; • se il paziente ha presentato uno stroke nel contesto di una severa anemia (esempio sequestro splenico o crisi aplastica) o se la exanguino trasfusione potrebbe essere eseguita solo dopo 4 ore dall’evento, procedere invece ad una trasfusione di emazie 116 117. Raccomandazione 12 Nei pazienti con HbS si raccomanda, in caso di stroke, una exanguino trasfusione entro 4 ore dall’evento. Oltre tale periodo, e in caso di severa anemia, si raccomanda una trasfusione di emazie concentrate. Raccomandazione di grado B. Livello di evidenza III. In questi pazienti, la terapia antitrombotica andrà presa in considerazione solo in presenza di fattori di rischio trombotico aggiuntivi (es. trombofilia). Nei pazienti con meningiti tubercolari, la terapia specifica, in associazione a desametasone, si è vista avere un effetto preventivo sugli infarti cerebrali, con un meccanismo ancora da chiarire 107. Invece, il trattamento ottimale delle lesioni cerebrovascolari associate a varicella rimane non chiaro, per la variabilità degli approcci terapeutici. Alcuni report sull’associazione di steroidi e di antipiastrinici hanno documentato un miglioramento delle alterazioni vasculitiche 108. Il ruolo di agenti antivirali in questa situazione rimane irrisolto, ma la variabile relazione tra infezione ed esordio dei sintomi neurologici suggerisce che tale trattamento può avere un ruolo limitato 32. Conclusioni Purtroppo, la letteratura sullo stroke in ambito pediatrico è gravemente carente. Non esistono, inoltre, omogenei comportamenti nell’approccio diagnostico-terapeutico allo stroke ischemico in età pediatrica. Si sente sempre più forte, pertanto, la necessità di studi collaborativi multicentrici, non solo per valutare con precisione la validità delle terapie più adottate, ma anche per tentare, su ampi numeri, nuovi approcci terapeutici. Certamente, allo stato attuale, questa LG sullo stroke ischemico in età pediatrica, pur non potendo contare su inequivocabili basi di evidenza, sembra rappresentare la posizione più condivisa di pediatri e specialisti di settore, riguardo la gestione della fase acuta di tale patologia 125-128. 169 Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta Bibliografia 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 Arias E, Anderson RN, Kung HC, Murphy SL, Kochanek KD. Deaths: final data for 2001. Natl Vital Stat Rep 2003;52:1-115. de Veber GA, MacGregor D, Curtis R, Mayank S. 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BC Decker, Hamilton 2006. 118 Corrispondenza dott.ssa Antonella Palmieri, U.O. di Pronto Soccorso, Medicina d’Urgenza DEA, Istituto G. Gaslini - IRCCS, Largo G. Gaslini 5, 16147 Genova • E-mail: [email protected] 172 Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta Allegato A. Scheda di valutazione della qualità della bibliografia. Titolo: Rivista: Autori: Anno: Parole chiave: Riassunto Obiettivo del lavoro: Popolazione/scenario Tipo di studio epidemiologico Risultati Commenti Qualità Alta*: Media**: Bassa***: = soddisfatti tutti i criteri = soddisfatta la maggior parte dei criteri *** = fornite informazioni insufficienti * ** Allegato B. Livelli di evidenza o di prova I. II. III. IV. V. VI. Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o da revisioni sistematiche di studi randomizzati. Prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato. Prove attenute da studi di coorte non randomizzati con controlli concorrenti o storici o loro metanalisi. Prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o loro metanalisi. Prove ottenute da studi di casistica (serie di casi) senza gruppo di controllo. Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato in LG o consensus conference, o basata su opinioni del gruppo di lavoro responsabile di queste LG. Allegato C. Forza delle Raccomandazioni A. L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata. Indica una particolare raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II. B. Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura o intervento debba essere sempre raccomandata, ma si ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata. C. Esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento. D. L’esecuzione della procedura non è raccomandata. E. Si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura. 173 Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta 174 Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 175-189 CONSENSUS CONFERENCE I vaccini anti-papillomavirus Consensus Conference dell’Area Pediatrica Aggiornamento Giugno 2008 Partecipanti G. Bartolozzi (Firenze), G. Bona (Novara), M. Ciofi (Roma), G. Conforti (Genova), M. de Martino (Firenze), P. Di Pietro (Genova), M. Duse (Roma), S. Esposito (Milano), L. Mariani (Roma), G. Marostica (Torino), F. Paravati (Crotone), A. Plebani (Brescia), N. Principi (Milano), A. Ugazio (Roma), C. Zotti (Torino), G.V. Zuccotti (Milano), P.A. Tovo (Torino) Introduzione Il tumore della cervice uterina è la più frequente causa di morte per cancro nelle donne in tutto il mondo, dopo il cancro del seno 1. La peculiarità di questa neoplasia è di avere come elemento indispensabile per il suo sviluppo l’infezione, acquisita prevalentemente per via sessuale, da papillomavirus umano (Human Papillomavirus [HPV]) 2 3, che è considerato il cancerogeno più potente della nostra specie. Ne deriva la possibilità di impedire la comparsa del tumore tramite la prevenzione primaria dell’infezione con l’impiego di vaccini. La recente sperimentazione nell’uomo ha portato allo sviluppo di vaccini dimostratisi ben tollerati, altamente immunogeni ed efficaci nel prevenire le infezioni e le lesioni intraepiteliali causate dai tipi di HPV in essi contenuti. Le infezioni da papillomavirus sono responsabili anche di altre neoplasie della sfera ano-genitale, oltre che dei condilomi acuminati 4, lesioni benigne che richiedono un trattamento doloroso, costoso e hanno frequenti recidive. Poiché la popolazione a cui primariamente sono destinati i vaccini contro l’HPV è rappresentata da bambine pre-puberi o adolescenti non ancora contagiate attraverso rapporti sessuali, ai pediatri è spesso richiesta un’opinione in proposito o di effettuare la vaccinazione. Vengono qui riassunte le informazioni più rilevanti sul tema e le osservazioni emerse dalla discussione fra un pannello di esperti onde fornire, attraverso una revisione critica della letteratura, elementi utili per pediatri o altri operatori sanitari a formulare un parere razionale sui vaccini disponibili anche in Italia. Figura 1. Genoma virale. Il genoma circolare di HPV è composto da circa 8000 basi appaiate ed è suddiviso in tre regioni: 1) regione di controllo a lungo termine (LCR); 2) regione delle proteine precoci (E1-E7) e 3) regione delle proteine tardive (L1, L2). Il papillomavirus umano (HPV) Il virus L’HPV è un virus a DNA in grado di infettare la cute e le mucose. Il DNA è costituito da circa 8000 coppie di basi e si trova all’interno di un capside, formato principalmente da proteine, una delle quali (L1) usata per la preparazione degli attuali vaccini (Fig. 1). Sono stati identificati oltre 120 tipi di HPV, di cui 40 possono causare infezioni genitali. Fra questi, 15 sono considerati ad alto rischio oncogeno e virtualmente responsabili di tutti i tumori del collo dell’utero e delle lesioni precancerose connesse 5 6. Il virus, penetrato attraverso le mucose o alterazioni della cute, raggiunge le cellule basali degli strati più profondi dell’epitelio ove si replica lentamente; giunto agli strati superficiali si diffonde più attivamente e, in seguito allo sfaldamento delle cellule epiteliali, passa nell’ambiente e contagia, per contatto diretto, altre persone. Alcuni genotipi virali (High Risk [HR]) sono maggiormente associati all’insorgenza di tumori (Fig. 2) 7: i genotipi HPV 16 e HPV 18 sono quelli più importanti per la carcinogenesi cervicale, poiché identificati nel 70% dei tumori squamosi (nel 60% l’HPV 16 e nel 10% l’HPV 18) senza grandi differenze geografiche 2 5 8. L’adenocarcinoma, for- 175 I vaccini anti-papillomavirus Figura 2. Storia naturale dell’infezione da HPV. ma più rara e di difficile identificazione perché spesso endocervicale, è in crescita in alcuni paesi industrializzati 9 10 e le percentuali vedono un aumento relativo del tipo 18 (coinvolto in circa il 30% dei casi) rispetto al 16 (circa il 40%) 11. I genotipi virali a basso rischio oncogeno (Low Risk [LR]), fra cui HPV 6, 11, 40, 42, 43, 44, 54, 61, 70, 72, 81, causano, invece, lesioni benigne come i condilomi ano-genitali e il papilloma laringeo 12. Epidemiologia L’HPV è di solito trasmesso in seguito a rapporti sessuali, talora anche non completi 13-15: per tale motivo l’uso del profilattico non garantisce la protezione 16. È ritenuta l’infezione a trasmissione sessuale più frequente al mondo. La prevalenza è correlata all’età della donna ed è direttamente proporzionale al numero di partner sessuali 7 17 18. Circa la metà delle infezioni avviene fra i 15 e 25 anni 19-21 e l’80% delle donne sessualmente attive è contagiato entro i 50 anni 22. La prevalenza dell’HPV in donne senza alterazioni citologiche varia dal 9% in Europa al 24% in Africa 23; inoltre, la frequenza dell’infezione risente degli stili di vita e dei comportamenti 24. Un’indagine negli Stati Uniti 25 mette in rilievo che un quarto delle donne fra i 14 e 59 anni risulta positivo per l’HPV, anche se la prevalenza dei ceppi contenuti nei vaccini è relativamente bassa. Va sottolineato che gli studi epidemiologici sottostimano la frequenza dell’infezione da HPV, poiché questa può non essere diagnosticata in quanto di durata relativamente breve e non necessariamente associata ad una risposta anticorpale. È possibile, anche se avviene di rado (4,3/100.000) 26, la trasmissione madre-bambino durante il passaggio attraverso il canale del parto ed è stata ipotizzata (ma non dimostrata) la trasmissione indiretta attraverso oggetti. Evoluzione e stadi dell’infezione L’infezione da HPV è di solito autolimitante: viene in genere superata nel corso di 4 mesi per i tipi a basso-rischio e di 8-12 mesi per quelli ad alto-rischio; di fatto, entro 2 anni il 90% delle donne supera 176 l’infezione 6. Se non eliminato il virus può replicarsi oppure rimanere silente all’interno delle cellule basali dell’epitelio cervicale per un periodo variabile da un minimo di 8 mesi ad un massimo di 10 anni. In tal caso è presente all’interno della cellula come episoma, non si replica e l’epitelio rimane normale (Fig. 2). Esso può, però, riattivarsi e la fase produttiva può condurre ad alterazioni dell’epitelio cervicale (Low-Grade Squamous Intraepithelial Lesion [LSIL], High-Grade Squamous Intraepithelial Lesion [HSIL]) a seconda del genotipo virale (alto o basso-rischio) 27-29. Dal 20 al 30% delle infezioni del collo dell’utero sono dovute a più di un tipo di HPV, indipendentemente dalle alterazioni indotte sull’epitelio 8 30. HPV e cancro Il modello di carcinogenesi cervicale segue un percorso plurifasico multifattoriale. La causa necessaria (ma non sufficiente) è l’infezione persistente da HPV, specialmente HPV 16 e 18 (Fig. 3). Anche se la distinzione fra ceppi di HPV LR e HR non è assoluta, l’infezione con genotipi LR può dar luogo ad una lesione clinicamente rilevabile, LSIL, definita anche come CIN 1 (Cervical Intraepithelial Neoplasia 1) o displasia lieve (Fig. 2). Questa categoria, che corrisponde a una lesione displastica limitata al terzo inferiore dello strato epiteliale squamoso, comprende anche il condiloma cervicale. La percentuale di regressione spontanea dell’LSIL è molto elevata (90%), specie nelle donne giovani (< 30 anni). In termini oncologici l’infezione da HPV a basso-rischio non ha, quindi, risvolti significativi. Anche l’infezione da genotipi HR può dar luogo a LSIL ma con il persistere dell’infezione questa può progredire verso HSIL. Si tratta di lesioni displastiche estese ai due terzi (CIN 2) o all’intero strato epiteliale squamoso (CIN 3). Le lesioni ad alto rischio sono i precursori del cancro del collo dell’utero. Si stima che il tempo medio fra infezione e insorgenza di HSIL sia di 7-12 anni e quello per il tumore invasivo di 20 anni o più. Pur se raramente, è anche possibile un’evoluzione rapida delle lesioni, che in 1-2 anni evolvono in HSIL e successiva- I vaccini anti-papillomavirus Figura 3. Prevalenza dei tipi di HPV nei carcinomi del collo dell’utero in Europa. Da Smith JS, Lindsay L, Hoots B, et al. Human papillomavirus type distribution in invasive cervical cancer and high-grade cervical lesions: A metaanalysis update. Int J Cancer 2007, mod. mente in carcinoma, senza la tappa intermedia dell’LSIL 31. Alcune di queste lesioni a rapido sviluppo sono responsabili dei carcinomi scoperti dopo pochi mesi da un Pap test negativo. Non tutte le infezioni persistenti da genotipi ad alto rischio evolvono in lesioni precancerose e di queste solo una frazione (1-12%) progredisce verso il tumore 32 33. Sono segnalate regressioni spontanee di lesioni CIN 2 in un terzo dei casi 32 34. D’altro canto, quanto più a lungo l’infezione persiste tanto meno facilmente sarà eliminata 35. È stato notato che l’infezione persistente da HPV 16 evolve più spesso verso una lesione invasiva rispetto ad altri genotipi virali 32 34. Poiché non tutte le donne infettate da virus oncogeni sviluppano il tumore, debbono esistere altri cofattori, fra cui quelli genetici legati alla risposta immune. Un aumentato rischio di tumore è associato all’uso a lungo termine di contraccettivi orali, a gravidanze ripetute, alla presenza di altre infezioni a trasmissione sessuale, al fumo di sigaretta e all’immunosoppressione, come quella indotta da HIV 12 36 37. Va sottolineato che l’HPV è associato, in proporzioni variabili, anche ad altri tumori 38; in particolare al 60% dei carcinomi vaginali 39, al 40-60% di quelli vulvari 40, al 45-95% di quelli anali 12 36 41, al 30% dei tumori della testa e del collo 42 43, oltre a quelli dell’uretra 44 e al 77% di quelli del pene 45. La progressione da HSIL a carcinoma è modulata da una cascata di eventi biologici 46-48; in primo luogo, dall’integrazione del genoma virale ad alto rischio con quello dell’ospite. Ciò conduce a iperespressione dei geni virali E6-E7. Le proteine codificate da questi geni alterano la capacità di replicazione della cellula ed esercitano un’azione di blocco nei confronti di molecole ad azione anti-oncogena (ad es. p53 e pRB). La cellula diventa incapace di riparare o eliminare i cromosomi con DNA danneggiato; ne deriva una proliferazione incontrollata con perdita dei processi di apoptosi e conse- guente immortalizzazione cellulare. È indubbia la compartecipazione di eventi epigenetici e di altri cofattori. Lesioni benigne da HPV I tipi di HPV 6 e 11 vennero inizialmente isolati da condilomi genitali (dette anche verruche ano-genitali o condilomi acuminati) in entrambi i sessi e dai papillomi laringei del bambino. Gli HPV 6 e 11 sono responsabili del 90% di tali verruche 49 50, particolarmente frequenti fra i giovani adulti. La contagiosità è molto elevata (65% di trasmissione ai partner sessuali). Il periodo d’incubazione varia da 3 settimane a 8 mesi. Con il passar del tempo le lesioni possono diventare più numerose ed estese, anche se in circa un quarto dei casi regrediscono spontaneamente dopo 4 mesi. Le verruche vengono vissute come un elemento deturpante, si accompagnano a un senso di vergogna e hanno un elevato costo economico 51. Il papilloma laringeo, pur essendo una malattia rara (1,7-2,6/100.000 bambini negli USA), è l’infezione da HPV più frequente nel bambino: si manifesta prevalentemente nelle prime epoche di vita e l’età mediana alla diagnosi è di 4 anni 52 53. È dovuto a trasmissione per contatto in epoca peri- o post-natale 26 54 55. La presenza di un condiloma genitale materno aumenta di 200 volte il rischio di infezione per il nascituro 51. A fronte dei molti bambini esposti al contagio solo 4/100.000 sviluppano la malattia 56 e la modalità del parto non interferisce sul tasso di trasmissione 57 58. L’evoluzione clinica è variabile, ma spesso è caratterizzata da ripetute recidive. Sono spesso necessari interventi chirurgici ripetuti per mantenere pervie le vie aeree e rimuovere le verruche che provocano sintomatologia ostruttiva 59 60. In rarissime circostanze il papilloma può evolvere verso forme carcinomatose 61 62. 177 I vaccini anti-papillomavirus Altra infezione da HPV nel bambino è quella anogenitale la cui incidenza non è ben nota. Si manifesta in genere entro i 6 anni ed è dovuta solitamente ad autoinoculazione, abuso sessuale da parte di adulti infetti (3-35%) o a trasmissione non sessuale da condilomi cutanei di adulti (soprattutto sierotipo 1 e 2) 53. Terapia delle lesioni Gli interventi terapeutici variano a seconda del tipo di lesione. Nel caso di LSIL in donne di età < 20-25 anni è possibile la semplice osservazione nel tempo in virtù dell’elevata autorisoluzione della lesione. Nelle donne di età superiore si può decidere tra terapia chirurgica escissionale o distruttiva. Questa può essere praticata anche nel caso di HSIL, con istologia deponente per CIN 2, soprattutto se la lesione è completamente visibile. Nel caso di CIN 2 e lesione parzialmente visibile oppure di CIN 3 o CIS (carcinoma in situ) si procede più spesso con escissione (ansa diatermica) o, infine, conizzazione 63. Alcuni di questi interventi terapeutici possono incrementare il rischio di complicanze al momento del parto (PROM e nascita pre-termine) 64. Deve quindi essere posta attenzione, in caso di LSIL in donne in età fertile, a intervenire il più possibile conservativamente e senza alterare le capacità riproduttive della donna. Nel caso del condiloma ano-genitale si procede a trattamento distruttivo (laser-vaporizzazione). Dopo l’intervento, i condilomi tendono a recidivare entro 3 mesi in un quarto dei casi 4 65. Il trattamento farmacologico viene attuato solo per lesioni esterne. Prevenzione secondaria del cancro del collo dell’utero: il Pap test La miglior strategia per la prevenzione secondaria del cancro della cervice rimane ad oggi lo screening colpo-citologico con Pap test 66-68. Di fatto, il Pap test ha ridotto sensibilmente l’incidenza e la mortalità per cancro della cervice nei paesi occidentali. La sua efficacia deriva dal fatto che le lesioni precancerose sono citologicamente riconoscibili, evolvono di solito lentamente e possono essere eliminate con interventi mirati. Il test va ripetuto regolarmente (viene consigliato almeno ogni 3 anni in donne dai 25 ai 65 anni); la sua sensibilità, riproducibilità e specificità non sono ottimali per cui può fornire risultati dubbi 66 69 70. La ricerca dell’HPV DNA è un test più sensibile, raccomandabile come integrazione al Pap test in donne che abbiano superato i 30 anni 71 72. L’adesione allo screening istituzionale è modesta nel nostro paese (la media è del 47%) e varia sensibilmente secondo le aree geografiche, con un’adesione del 50% al Nord e del 20% al Sud/Isole 73 74; bisogna tener conto che questi dati non includono alcune regioni ove lo screening organizzato non è stato attivato. È peraltro presente un altissimo ricorso allo screening spontaneo (privato), di difficile quantificazione e valutazione per il beneficio connesso. È ovvio che lo screening di massa non va assolutamente sospeso a fronte di una campagna vaccinale. Andrà piuttosto con questa integrato per valutare i benefici della vaccinazione a lungo termine sull’intera popolazione in base anche ai diversi fattori di rischio. Frequenza ed evoluzione del cancro della cervice uterina L’incidenza annuale di cancro della cervice nel mondo è stimata in 493.000 nuovi casi, con 274.000 morti 38 75. L’80% dei tumori si manifesta oggi nei paesi in via di sviluppo, ove si raggiungono tassi di incidenza di 50 casi per 100.000 donne, proprio perché la carenza di informazione e risorse non ha permesso l’istituzione dello screening di massa 38 76. In Italia l’incidenza della malattia è passata da 15/100.000 del 1955 a 11/100.000 degli anni ’90, a 6,14/100.000 degli ultimi rilievi 75; ogni anno vengono diagnosticati circa 3500 178 nuovi casi e muoiono per tale patologia circa 1000 donne (Ministero della Salute - Strategia per l’offerta attiva del vaccino verso HPV in Italia, 20/12/2007). Esso rappresenta il 2% dei tumori femminili, è all’ottavo posto per frequenza e colpisce prevalentemente donne in età fertile. La forma prevalente, in Italia come in tutti gli altri paesi, è quella a cellule squamose 73. La sopravvivenza è del 55% con una più alta percentuale nei paesi occidentali: 73% a 5 anni negli USA 77, 63% in Europa 73 e 30,5% nei paesi in via di sviluppo 38 76. Essendo colpite donne relativamente giovani, il cancro della cervice costituisce un’importante causa di perdita di anni di vita, specie nei paesi in via di sviluppo ove è il più comune dei tumori fra le donne 78. In Europa e negli USA muoiono comunque ancor oggi circa 35.000 donne ogni anno per cancro della cervice 79. I vaccini contro i papillomavirus La finalità della vaccinazione anti HPV è prioritariamente quella di prevenire il tumore del collo uterino, ma anche di ridurre l’incidenza di altri tumori associati al virus e le lesioni benigne causate dallo stesso. La scoperta cruciale per lo sviluppo di vaccini anti HPV fu l’osservazione che proteine del capside virale (L1 da sola o L1 + L2), espresse in certi microrganismi, possono assemblarsi in particelle similvirali (Virus-Like Particles [VLP]) che mantengono epitopi in grado di innescare nell’uomo la produzione di anticorpi neutralizzanti dopo iniezione parenterale. Teoricamente possono essere prodotte VLP derivanti da tutti i tipi di HPV, con possibilità di evocare una risposta anticorpale specifica per ciascun genotipo virale. Sono stati sviluppati due vaccini in grado di prevenire l’infezione da HPV e le lesioni precancerose associate con effetti persistenti per più anni. Entrambi i vaccini sono costituiti da proteine capsidiche L1 prodotte con tecniche di DNA ricombinante; non contenendo DNA virale non possono causare infezioni né integrarsi con il DNA della cellula ospite e risultare oncogeni 80. Vaccino quadrivalente (Gardasil®, Sanofi Pasteur MSD) Le proteine L1 vengono espresse in Saccaromyces cerevisiae e generano VLP che mimano il capside di HPV 16, 18, 6 e 11 81. Le particelle purificate sono adsorbite su alluminio idrossi-fosfatosolfato amorfo (AAHS) che agisce da adiuvante. Il vaccino è senza conservanti e contiene 20 µg di particelle simil virali L1 HPV 6 e 18 e 40 µg di particelle simil virali L1 HPV 11 e 16. I protocolli impiegati si basano su tre somministrazioni i.m. di 0,5 mL (a 0, 2 e 6 mesi) 82. Il vaccino è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA), dalla European Medicines Agency (EMEA) e dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), ed è disponibile in Italia (approvato dai 9 ai 26 anni). Vaccino bivalente (Cervarix®, GlaxoSmithKline) Per ottenere l’espressione di L1 VLP di HPV 16 e 18 viene utilizzato un vettore baculovirus ricombinante. 20 µg di ciascun genotipo sono addizionati a un adiuvante costituito da idrossido di alluminio più un agente lipidico (liposoma = 3-O-desacyl-4’-monofosforyl lipide = ASO4). Anche per questo vaccino il protocollo utilizzato prevede tre somministrazioni i.m. di 0,5 mL (a 0, 1 e 6 mesi). Il vaccino è stato approvato dall’EMEA e dall’AIFA, ed è disponibile in Italia (approvato dai 10 ai 25 anni) 83. Sicurezza dei vaccini Durante gli studi randomizzati di fase II, entrambi i vaccini oggi in I vaccini anti-papillomavirus commercio non hanno evidenziato significativi effetti collaterali. Nello studio con vaccino quadrivalente furono notate reazioni avverse locali al punto d’iniezione nell’86% dei vaccinati rispetto al 77% dei controlli 78. Va sottolineato che fra le reazioni locali rientravano dolore, gonfiore ed eritema nella sede di iniezione. Le reazioni sistemiche (febbre, cefalea e nausea) furono simili nei due gruppi, con temperature > 37,8° nell’11,4% dei vaccinati e nel 9,6% dei controlli 52. Cinque donne vaccinate svilupparono manifestazioni gravi (senza apparente correlazione con il vaccino); due fra i controlli. Non sono stati effettuati studi mirati sul vaccino in gravidanza. Durante il programma pre-registrativo relativo al vaccino quadrivalente, 2266 donne (vaccino = 1115, placebo = 1151) hanno presentato almeno una gravidanza. Nel complesso, le gravidanze con esito negativo sono state sovrapponibili nei due gruppi 52 84. Fra le 56 donne che divennero gravide entro 30 giorni dal vaccino, 5 ebbero bambini con anomalie congenite rispetto a nessuna fra le 58 che ricevettero il placebo; le anomalie, di vario tipo e senza correlazione fra di loro (stenosi ipertrofica del piloro, megacolon congenito, idronefronesi, displasia delle anche, piedi vari equini supinati), furono giudicate non legate al vaccino 85. Per le gravidanze iniziate dopo i 30 giorni dalla vaccinazione sono stati osservati 8 casi di anomalie congenite nel gruppo delle vaccinate rispetto a 12 nel gruppo placebo. In generale, il tipo di anomalie osservate è sovrapponibile a quelle che viene solitamente evidenziato in gravide di 16-26 anni 84. I dati sulla somministrazione del vaccino quadrivalente in gravidanza non hanno al momento fornito risultati sufficienti per la sua raccomandazione, che deve, pertanto, essere rimandata a dopo il parto 84. Un totale di 995 madri in allattamento ha ricevuto il vaccino quadrivalente o il placebo senza differenza di reazioni avverse fra i due gruppi. L’immunogenicità è risultata paragonabile fra le donne che allattavano o non allattavano, per cui la vaccinazione può essere effettuata in nutrici 84. Anche gli studi in fase III (Tab. I) non hanno evidenziato particolari effetti collaterali 86 87 della vaccinazione. In pochi soggetti (0,1%) gli eventi avversi hanno causato l’interruzione del ciclo vaccinale. I più comuni effetti collaterali sono stati quelli locali e la febbre. Le manifestazioni avverse gravi (indipendentemente dal loro rapporto con la vaccinazione), sono risultate molto rare e sovrapponibili nei vaccinati (1,8%) e nei controlli (1,7%). Non si sono infine notati eventi avversi in seguito a vaccinazione di donne già infettate da tipi di HPV contenuti nei vaccini. Per il vaccino bivalente negli studi di fase II 88 89 la grande maggioranza degli effetti collaterali furono di entità lieve o moderata. Le reazioni locali furono del 94% fra i vaccinati e dell’88% fra i controlli, con reazioni sistemiche sovrapponibili (4%). Il 16,6% dei vaccinati ed il 13,6% dei controlli ebbe temperatura > 37,4°. Anche l’analisi dello studio di fase III non ha evidenziato particolari effetti collaterali nel gruppo di donne vaccinate rispetto al gruppo di controllo (90). La maggior parte delle reazioni avverse sono state di lieve entità e localizzate al sito di iniezione (Tab. I). Le reazioni gravi, indipendentemente dalla loro correlazione con la vaccinazione, si sono verificate nel 3,5% delle donne in entrambi i gruppi. In totale sono stati osservati 5 decessi, nessuno dei quali associato alla vaccinazione. Un’ulteriore analisi fu effettuata sulle donne diventate gravide durante il periodo di studio (665 nel gruppo vaccinate, 685 nel gruppo placebo). Complessivamente la proporzione di donne in gravidanza che hanno riferito un esito specifico era simile fra i due gruppi (nascita di bambino sano: 41% gruppo vaccino vs. 39% gruppo controllo; aborto: 10% vs. 7% rispettivamente; anomalie congenite 1% in entrambi i gruppi). Gli studi sugli animali non hanno evidenziato effetti dannosi, diretti o indiretti, sulla fertilità, gravidanza, lo sviluppo embrionale/fetale, il parto o lo sviluppo post-natale. Questi dati sono comunque insufficienti per raccomandare l’utilizzo del vaccino bivalente in gravidanza; questo deve pertanto essere posticipato sino a dopo il parto. Non è stato valutato l’effetto del vaccino bivalente sui bambini allattati al seno in seguito a vaccinazione delle madri nutrici. Dopo l’immissione in commercio, i dati di farmacovigilanza statunitensi (Vaccine Adverse Event Reporting System [VAERS]), riguardanti oltre 5 milioni di dosi distribuite, non hanno ad oggi mostrato segnali di allarme. La maggioranza degli effetti collaterali ha riguardato reazioni nella sede di iniezione. Per quanto attiene le reazioni sistemiche sono stati segnalati 13 casi di sindrome di Guillain Barré. In quattro soggetti si sono osservati decessi in associazione temporale con la vaccinazione, senza però evidenza di rapporto causale: l’exitus è stato imputato a embolia polmonare, miocardite, disturbo della coagulazione e infezione da influenza B complicata da stafilococcia 91. Da sottolineare che sono stati segnalati dei casi di svenimento dopo vaccinazione 92 93, motivo per cui le norme di buona pratica vaccinale prevedono la permanenza per almeno 15 minuti nell’ambulatorio dopo l’esecuzione della vaccinazione 94. Immunogenicità dei vaccini La misurazione degli anticorpi anti-L1 VLP è stato il principale parametro per valutare le risposte immuni indotte dai vaccini negli studi clinici. Gli anticorpi sono tipo-specifici 95, anche se esistono omologie fra alcuni HPV che condividono uno o più epitopi (ad es. HPV 6/11, 31/33, 18/45 e 16/31) (Fig. 4). Va sottolineato che durante l’infezione naturale molte donne non sviluppano anticorpi dosabili: nel caso dell’HPV 16 i test evidenziano sieroconversione solo in circa il 60% dei casi 96 97. Nelle infezioni la presenza di anticorpi verso un determinato tipo di HPV viene ritenuta conferire protezione 98, manca però una dimostrazione specifica e in un lavoro viene segnalato che la protezione non è assoluta 99. I vari studi documentano, invece, sieroconversione verso tutti i tipi di HPV contenuti nel vaccino in più del 98% dei casi. Inoltre, i soggetti immunizzati presentano risposte anticorpali sostanzialmente maggiori (almeno di 1-3 logaritmi) di quelle riscontrate in seguito a infezione naturale. Ciò è verosimilmente imputabile al fatto che i vaccini L1 VLP, somministrati per via intramuscolare, raggiungono facilmente le cellule presentanti l’antigene nei linfonodi e danno luogo ad una risposta umorale sistemica 100. Entrambi i vaccini contengono un adiuvante che migliora la risposta immune. È stato sottolineato Figura 4. Albero filogenetico di 30 tipi di HPV. Tratta da Wieland U, Pfister H. Papillomaviruses in human pathology: epidemiology, phatogenesis and oncogenesic role. In: Gross G, Barrasso R, eds. Human papillomavirus infection: a clinical atlas. Berlin: Ullstein Mosby 1997: 1-18. 179 I vaccini anti-papillomavirus Tabella I. Sicurezza dei vaccini anti-HPV: dati principali degli studi in fase III. Studio Eventi avversi locali (lievi) Eventi avversi a carico di vari organi o Eventi avversi gravi* apparati (sistemici)* FUTURE I 86 Numero di donne che hanno presentato: Reazione in sede di iniezione: Gruppo vaccino 2320/2673 (86,8%) Gruppo placebo 2068/2672 (77,4%) Risk difference 9,4 (CI 95% 7,3-11,5) Eritema nel sito di iniezione: Gruppo vaccino 659/2673 (24,7%) Gruppo placebo 450/2672 (16,8%) Risk difference 7,9 (CI 95% 5,6-10) Dolore al sito di iniezione: Gruppo vaccino 2281/2673 (85,3%) Gruppo placebo 2014/2672 (75,4%) Risk difference 10 (CI 95% 7,8-12,1) Prurito al sito di iniezione: Gruppo vaccino 109/2673 (4,1%) Gruppo placebo 80/2672 (3%) Risk difference 1,1 (CI 95% 0,1-2,1) Numero di donne che hanno presentato una o più reazioni sistemiche: Vaccino 1745/2673 (65,3%) Placebo 1701/2672 (63,7%) Risk difference 1,6 (CI 95% -1,0-4,2) Numero di donne che hanno presentato una o più reazioni sistemiche* iniezione correlate: Vaccino 1161/2673 (43,4%) Placebo 1085/2672 (40,6%) Risk difference 2,8 (CI 95% 0,2-5,5) Numero di donne che hanno presentato una o più reazioni gravi: Gruppo vaccino 48/2673 (1,8%) Gruppo placebo 45/2672 (1,7%) Risk difference 0,1 (CI 95% -0,6-0,8) Numero di donne che hanno presentato una o più reazioni gravi vaccino correlate: Gruppo vaccino 1/2673 (< 0,1%) Gruppo placebo 0/2672 (0%) Risk difference 0 (CI 95% -0,1-0,2) Decessi†: Gruppo vaccino 2/2673 (0,1%) Gruppo placebo 2/2672 (0,1%) Risk difference 0 (CI 95% -0,2-0,2) Numero di donne che hanno presentato: Reazione in sede di iniezione: Gruppo vaccino 378/448 (84,4%) Gruppo placebo 348/447 (77,9%) Risk difference 6,5 (CI 95% 1,4-1,7) Dolore in sede di iniezione Gruppo vaccino 372/448 (83%) Gruppo placebo 339/447 (75,8%) Risk difference 7,2 (CI 95% 1,9-12,5) Numero di donne che hanno presentato una o più reazioni sistemiche: Vaccino 275/448 (61,4%) Placebo 268/447 (60%) Risk difference 1,4 (CI 95% 5,0-7,8) Numero di donne che hanno presentato una o più reazioni gravi: Vaccino 45/6,019 (0,7%) Placebo 54/6,031 (0,9%) Risk difference -0,1 (CI 95% -0,5-0,2) Numero di donne che hanno presentato una o più reazioni gravi iniezione correlate: Vaccino 3/6,019 (< 0,1%) Placebo 2/6,031 (< 0,1%) Risk difference 0 (CI 95% -0,1-0,1) Numero di donne che hanno presentato: Dolore entro 7 giorni dalla vaccinazione: Gruppo vaccino 2786/3077 (90,5%) Gruppo placebo 2402/3080 (78%) Arrossamento entro 7 giorni dalla vaccinazione: Gruppo vaccino 1348/3077 (43,8%) Gruppo placebo 851/3080 (27,6%) Tumefazione entro 7 giorni dalla vaccinazione: Gruppo vaccino 1292/3077 (42%) Gruppo placebo 609/3080 (19,8%) Numero di donne che hanno presentato: Artralgia Vaccino 633/3076 (20,6%) Placebo 551/3080 (17,9%) Febbre Vaccino 381/3076 (12,4%) Placebo 337/3080 (10,9%) Febbre > 39† Vaccino 18/3076 (0,6%) Placebo 10/3080 (0,3%) Cefalea Vaccino 1665/3076 (54,1%) Placebo 1579/3080 (51,3%) Rash Vaccino 312/3076 (10,1%) Placebo 258/3080 (8,4%) Orticaria Vaccino 298/3076 (9,7%) Placebo 244/3080 (7,9%) Numero di donne che hanno presentato una o più reazioni gravi: Gruppo vaccino 330/9319 (3,5%) Gruppo placebo 323/9325 (3,5%) Numero di donne che hanno presentato una o più reazioni gravi vaccinazione correlate: Gruppo vaccino 9/9319 (0,1%) Gruppo placebo 6/9325 (0,1%) FUTURE II 87 PATRICIA 90 Alterazioni a carico di: cuore, occhio, sistema immune, sistema gastrointestinale, orecchio, sangue, fegato, vie biliari, sistema muscoloscheletrico, reni, polmoni, cute e annessi, vasi sanguigni, SNC; alterazioni metaboliche, sviluppo si neoplasie o infezioni. † Gruppo vaccino = 1 incidente automobilistico e 1 suicidio; gruppo placebo = 1 trombosi venosa profonda + insufficienza renale + insufficienza polmonare e 1 incidente automobilistico * che l’uso dell’adiuvante lipidico (ASO4) usato nel vaccino bivalente induce titoli di anticorpi neutralizzanti più elevati rispetto al semplice idrossido di alluminio 101. Anche con l’adiuvante utilizzato nel vaccino quadrivalente (AAHS) sono stati segnalati titoli anticorpali più elevati rispetto all’idrossido di alluminio 102. Va rilevato che il significato clinico di una maggior risposta umorale al vaccino rimane da verificare; non è infatti stato ancora identificato il livello minimo di anticorpi che inequivocabilmente indichi protezione (correlato di protezione) e non esistono test anticorpali standardizzati: ogni produttore ha infat- 180 ti sviluppato un proprio test che viene quindi a quantificare anticorpi non necessariamente sovrapponibili. Il picco anticorpale viene raggiunto dopo un mese dalla terza dose, poi si abbassa lentamente fino al 18°/24° mese. In generale, i titoli anticorpali si riducono di 10 volte nei primi 2 anni e si stabilizzano a 3-5 anni, mantenendosi a livelli di oltre 10 volte superiori a quelli indotti dall’infezione 88 89 103. Non potendosi valutare l’efficacia clinica dei vaccini in soggetti sessualmente naive, è stata paragonata l’immunogenicità del vaccino quadrivalente in ragazzi e ragazze di I vaccini anti-papillomavirus Tabella II. Caratteristiche e risultati dei più recenti studi di fase II con vaccino bivalente o quadrivalente. Vaccino Bivalente (HPV 16-18)* Quadrivalente (HPV 16-18-6-11)† Tipo di studio Doppio cieco randomizzato Doppio cieco randomizzato Pazienti arruolati 470 placebo 481 vaccinati 233 placebo 235 vaccinati Età partecipanti Range: 15-25 anni Range: 16-23 anni Follow-up Media: 18 mesi Massimo: 53 mesi Media: 36 mesi (241 per 5 anni) Infezioni persistenti da HPV presenti nel vaccino Vaccino 0 Placebo 9 Vaccino 2 Placebo 45 Lesioni condilomatose Vaccino 0 Placebo 3 Sviluppo CIN 2-3 da HPV vaccinali Vaccino 0 Placebo 5 Sviluppo CIN 2-3 da HPV non contenuti nel vaccino Vaccino 3 Placebo 9 Sieroconversione > 98% * Vaccino 0 Placebo 3 100% Harper et al. 89; † Villa et al. 107. 9-15 anni rispetto a donne di 16-26 anni in cui l’efficacia clinica è dimostrata. I titoli anticorpali sono risultati più elevati fra gli adolescenti 104. Da notare che i due vaccini non sono sovrapponibili, ma vanno tenuti ben distinti e, in mancanza di dati specifici, si consiglia di iniziare e terminare il ciclo vaccinale con lo stesso vaccino senza interscambio. Efficacia dei vaccini Poiché è eccezionale che il cancro del collo dell’utero compaia in donne in età inferiore ai 30 anni, sarebbero necessari almeno 15-20 anni per quantificare gli effetti favorevoli della vaccinazione anti-HPV sullo sviluppo della(e) neoplasia(e). A parte i tempi richiesti, vista la possibilità di eseguire la prevenzione secondaria, non sarebbe etico aspettare lo sviluppo di tumori in soggetti vaccinati e non. La verifica dell’efficacia dei vaccini si è pertanto basata sul confronto della comparsa di lesioni pre-cancerose nei vaccinati e nei controlli. Sei pubblicazioni hanno riportato i risultati di indagini randomizzate in fase II. Due studi riguardano un vaccino monovalente con HPV 16 105 106; due il vaccino quadrivalente 78 107 e due il vaccino bivalente 88 89 (i dati più recenti relativi ai vaccini in commercio sono riportati in Tab. II). Le indagini con vaccino quadrivalente hanno fornito risultati di sicurezza, immunogenicità ed efficacia tali da ottenere l’approvazione del vaccino da parte della FDA, EMEA e AIFA per la prevenzione, in donne dai 9 ai 26 anni, del tumore o della displasia del collo uterino, della displasia vulvare e dei condilomi acuminati associati ai tipi di HPV contenuti nel vaccino 84. L’efficacia tipo specifica contro CIN 2/ CIN 3 è risultata del 100%; la protezione verso i condilomi del 99%. Nelle donne precedentemente infettate da altri tipi di HPV, il vaccino quadrivalente si è dimostrato efficace nel prevenire lesioni precancerose del collo dell’utero dovute ai tipi di HPV in esso contenuti 108. Efficacia sovrapponibile per la prevenzione di displasie del collo dell’utero è emersa in studi di fase II anche con il vaccino bivalente 88 89, che è stato approvato dall’EMEA ed AIFA. Sono stati recentemente pubblicati studi di fase III, sia per il vaccino quadrivalente che bivalente, altri termineranno nei prossimi anni. Lo studio FUTURE (Females United to Unilaterally Reduce Endo/Ectocervical Disease) I 86 riporta l’efficacia del vaccino quadrivalente nel prevenire lo sviluppo di condilomi, di lesioni precancerose vulvari, vaginali, cervicali e di adenocarcinomi in situ associati ai ceppi vaccinali in donne tra i 16 e i 24 anni. I risultati sono riportati in dettaglio nella Tabella III. Lo studio FUTURE II 87 ha invece valutato l’efficacia dello stesso vaccino nel prevenire l’insorgenza di lesioni cervicali di alto grado (CIN 2/3) e di adenocarcinoma in situ associati ad HPV 16 o 18. Come riportato nella Tabella III, è stato osservato lo sviluppo di una lesione displastica (CIN 3) in una sola paziente vaccinata, in cui però era presente sin dall’inizio un altro HPV oncogeno. Due analisi combinate degli studi randomizzati in doppio cieco relativi al vaccino quadrivalente 109 110 hanno valutato l’impatto della vaccinazione su un numero maggiore di donne (18.174 e 20.583 rispettivamente), confermando la riduzione di lesioni vulvari, vaginali, cervicali e di adenocarcinomi in situ emersi nei singoli studi. L’analisi ad interim dello studio di fase III PATRICIA (Papilloma Trial Against Cancer in Young Adults) 90 valuta l’efficacia del vaccino bivalente nel prevenire, a 15 mesi dall’inizio della vaccinazione, la comparsa di lesioni precancerose causate da HPV 16 e 18 in donne tra i 15 e i 25 anni e la possibile cross-protezione nei confronti di altri ceppi virali oncogeni. I risultati sono riportati in dettaglio nella Tabella IV. È stata sottolineata una riduzione del numero di infezioni persistenti da ceppi di HPV 45 e 31, seppur in termini non statisticamente significativi; in proposito sono stati anche sollevati dubbi sulle modalità di analisi dei dati 111. Da sottolineare che l’ottima efficacia dei vaccini emerge quando vengono valutate solo le donne risultate negative per i tipi di HPV contenuti nel vaccino (naive) sia all’inizio dello studio che dopo le tre dosi (o almeno una dose per lo studio PATRICIA), somministrate senza violazioni significative del protocollo. Nel caso del vaccino quadrivalente è stata condotta anche un’analisi intention to treat, in cui sono state considerate tutte le donne arruolate, purché avessero ricevuto almeno una dose di vaccino o placebo, indipendentemente quindi dall’aderenza o meno al protocollo e soprattutto dal fatto che fossero inizialmente già infette con i tipi di HPV contenuti nel vaccino. Con questo tipo di analisi l’efficacia vaccinale verso le lesioni pre-neoplastiche ovviamente si riduce e gli intervalli di confidenza al 95% scendono frequentemente sotto lo zero, risultando quindi non significativi (Tab. III). 181 I vaccini anti-papillomavirus Tabella III. Vaccino quadrivalente: risultati dei principali studi di fase III. FUTURE I Caratteristiche dello studio Studio randomizzato e controllato, in doppio cieco. Donne sane, età 16-24 anni; ≤ 4 partner, non gravide, senza precedenti anomalie al Pap test, in contraccezione efficace. Follow-up medio: 3 anni dalla prima dose di vaccino; campione: 2723 vaccino; 2732 placebo Efficacia Analisi: secondo protocollo* Condilomi: Gruppo vaccino 0/2261 Gruppo placebo 48/2279 100% (95% CI 92-100) VIN/VaIN 2+: Gruppo vaccino 0/2261 Gruppo placebo 9/2279 100% (95% IC 49-100) CIN 2: Gruppo vaccino 0/2241 Gruppo placebo 21/2258 100% (95% IC 81-100) CIN 3: Gruppo vaccino 0/2241 Gruppo placebo 17/2258 100% (95% IC 76-100) AIS: Gruppo vaccino 0/2241 Gruppo placebo 6/2258 100% (95% IC 15-100) Condilomi: Gruppo vaccino 21/2723 Gruppo placebo 86/2732 76% (95% IC 61-86) VIN/VaIN 2+: Gruppo vaccino 5/2723 Gruppo placebo 13/2732 62% (95% IC < 0-89) CIN 2: Gruppo vaccino 36/2723 Gruppo placebo 51/2732 30% (95% IC < 0-56) CIN 3: Gruppo vaccino 39/2723 Gruppo placebo 44/2732 12% (95% IC < 0-44) AIS: Gruppo vaccino 1/2723 Gruppo placebo 6/2732 83% (95% IC < 0-100) Efficacia Analisi: intention to treat** FUTURE II Caratteristiche dello studio Studio randomizzato e controllato, in doppio cieco. Donne sane, età 15-26 anni; ≤ 4 partner, non gravide, senza precedenti anomalie al Pap test, in contraccezione efficace. Follow-up medio: 3 anni dalla prima dose di vaccino; campione: 6087 vaccino; 6080 placebo Efficacia Analisi: secondo protocollo* CIN 2: Gruppo vaccino 0/5305 Gruppo placebo 28/5260 100% (95% IC 86-100) CIN 3: Gruppo vaccino 1†/5305 Gruppo placebo 29/5260 97% (95% IC 79-100) AIS: Gruppo vaccino 0/5305 Gruppo placebo 1/5260 182 100% (95% IC < 0-100) I vaccini anti-papillomavirus Efficacia Analisi: intention to treat** CIN 2: Gruppo vaccino 41/6087 Gruppo placebo 96/6080 57% (95% IC 38-71) CIN 3: Gruppo vaccino 57/6087 Gruppo placebo 104/6080 45% (95% IC 23-61) AIS: Gruppo vaccino 5/6087 Gruppo placebo 7/6080 28% (95% IC < 0-82) Questo tipo di analisi considera le donne che hanno ricevuto le tre dosi di vaccino entro 12 mesi senza violazioni del protocollo, negative (per anticorpi e ricerca del DNA virale) verso i tipi di HPV contenuti nel vaccino (6, 11, 16, 18 o solo 16, 18 in funzione degli studi) sia all’inizio che dopo un mese dalla terza dose. La popolazione analizzata è quella che più si avvicina a quella delle 12enni, presumibilmente non ancora contagiate dall’HPV e nelle quali il vaccino è atteso esercitare il massimo di efficacia. ** In questo tipo di analisi sono incluse tutte le donne arruolate nello studio a cui è stata somministrata almeno una dose di vaccino, indipendentemente dal fatto che esse abbiano completato il ciclo vaccinale oppure siano andate incontro a violazioni significative del protocollo. Vengono incluse anche donne già inizialmente infettate da uno o più tipi di HPV vaccinali o con lesioni citologiche in atto. L’efficacia del vaccino viene quindi diluita dalla presenza di donne già infette prima di iniziare la vaccinazione e rispecchia gli effetti del vaccino in una popolazione generale, che include donne talora già infettate da uno o più tipi di HPV contenuti nel vaccino. † In questo soggetto è stato rilevato HPV 52 all’arruolamento ed in altri 5 prelievi durante il follow-up; HPV 16 è stato isolato in un solo prelievo durante il follow-up. FUTURE I: Garland et al. 86; FUTURE II: Future II Study Group 87. CIN = neoplasia intraepiteliale cervicale; VIN = neoplasia intraepiteliale vulvare; VaIN = neoplasia intraepiteliale vaginale; AIS = adenocarcinoma in sito. * È importante tenere presente che in nessuno degli studi è stata valutata l’efficacia clinica in soggetti di età inferiore ai 15-16 anni. I risultati degli studi di fase III possono comunque essere assunti come validi anche per le dodicenni, che dovrebbero rappresentare una popolazione naive, anche se non è possibile prevedere i risultati reali. Una preoccupazione teorica riguarda la possibilità che la vaccinazione verso alcuni genotipi di HPV possa favorire la diffusione di altri ceppi, sia carcinogenici che non. Ciò appare concettualmente poco probabile, ma tale fenomeno è attualmente sotto osservazione attraverso alcuni studi che potranno chiarire in futuro il dubbio 112 113. so altri ceppi di virus e fornire così una protezione crociata sarebbe indubbiamente vantaggiosa. Con il vaccino bivalente è stata segnalata 89 90 una cross-reattività immunologica fra i ceppi vaccinali e altri tipi di HPV filogeneticamente vicini (Fig. 4), in particolare fra HPV 16 e 31 e HPV 18 e 45. I titoli degli anticorpi neutralizzanti verso genotipi non presenti nella miscela vaccinale sono però più bassi di quelli specifici e, come detto, non ci sono al momento evidenze significative a sostegno della protezione verso lesioni precancerose sostenute da genotipi diversi da quelli contenuti nel vaccino per nessuno dei due prodotti in commercio. Durata della protezione Quando e chi vaccinare L’infezione da HPV viene acquisita nel tempo dopo l’inizio dell’attività sessuale. Gli attuali vaccini non sono in grado di far regredire le lesioni in atto. Ne deriva che per ottimizzarne l’efficacia dovrebbero essere vaccinate le ragazze pre-puberi o nel primo periodo adolescenziale, così come le donne che non abbiano ancora avuto rapporti sessuali (da ricordare che la trasmissione avviene anche per rapporti non completi). D’altra parte anche donne che hanno una vita sessualmente attiva potrebbero giovarsi della vaccinazione, nel caso non fossero ancora state contagiate da uno o più dei tipi di virus contenuti nel vaccino 117. Il rapporto costo-beneficio pare tuttavia inversamente correlato all’età della donna, ricordando l’incidenza rapidamente cumulativa delle infezioni genitali da HPV in giovani donne 118-120. L’Advisory Committee on Immunization Practices (ACIP) raccomanda l’uso routinario del vaccino in ragazze di 11-12 anni (età minima 9 anni) e catch-up vaccination nelle donne di 13-26 anni, indipendentemente dal fatto che siano sessualmente attive. Inoltre, viene indicata la possibilità di vaccinare, a discrezione del medico curante, bambine di 9-10 anni sulla base del contesto sociale in cui vivono 52. Secondo l’American Cancer Society 85, anche le coorti delle donne di 13-18 anni andrebbero vaccinate, per recuperare quelle non vaccinate in precedenza o completare i cicli incompleti. Tali raccomandazioni vengono riprese dall’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) che raccomanda, inoltre, la prima visita ginecologica all’età di 13-15 anni. Fra i quesiti ancora aperti relativi ai vaccini anti-HPV uno dei più rilevanti riguarda la durata dell’effetto protettivo. Una protezione transitoria necessiterebbe, infatti, di richiamo(i) e ciò verrebbe ad incidere sul rapporto costo/beneficio. La maggioranza dei dati disponibili sull’efficacia dei vaccini si riferisce a un follow-up medio di pochi anni con un massimo di cinque dal termine del ciclo vaccinale. Non è pertanto possibile prevedere se sarà necessaria, a distanza di anni, una dose di richiamo. Al momento i risultati documentano una risposta elevata e prolungata 114. È stata inoltre dimostrata una pronta risposta anamnestica dopo somministrazione di una dose di vaccino quadrivalente a distanza di 5 anni dal ciclo vaccinale, inclusi soggetti nel frattempo sieronegativizzatisi, ad indicare la persistenza di memoria immunologica 115. Questi dati suggeriscono una protezione di lunga durata anche in soggetti con caduta degli anticorpi specifici a livelli non dosabili, supportata dall’assenza di infezioni da ceppi vaccinali nei 60 mesi di follow-up. Sono in corso studi di fase III e IV volti a valutare gli effetti protettivi a lungo termine; i risultati saranno disponibili tra il 2015 e il 2020 116. Protezione crociata verso altri tipi di HPV Il 30% dei carcinomi e delle lesioni HR della cervice sono causati da varianti di HPV non contenute negli attuali vaccini. La possibilità che anticorpi neutralizzanti indotti dai vaccini possano cross reagire ver- 183 I vaccini anti-papillomavirus Tabella IV. Vaccino bivalente: risultati del principale studio di fase III. PATRICIA Caratteristiche dello studio Studio randomizzato in doppio cieco Donne sane, età 15-25 anni, ≤ 6 partner, in contraccezione efficace, con cervice intatta. Follow-up medio: 15 mesi Campione: 9319 vaccino bivalente; 9325 controllo (vaccino anti-epatite A) Efficacia Analisi ad interim prespecificata* CIN 1+: Gruppo vaccino 3†/7788 Gruppo placebo 28/7838 89,2% (97,9% CI 59,4-98,5) CIN 2+: Gruppo vaccino 2†/7788 Gruppo placebo 21/7838 90,4% (97,9% CI 53,4-99,3) CIN 2+ causate da HPV 16 e/o 18 e da altri HPV: Gruppo vaccino 2/7788 Gruppo placebo 12/7838 Questa analisi considera tutte le donne vaccinate valutabili per l’efficacia, ossia tutte le donne inizialmente negative per gli HPV contenuti nel vaccino che hanno ricevuto almeno una dose di vaccino, le donne potevano avere infezioni da altri tipi di HPV e/o lesioni citologiche di basso grado all’ingresso nello studio. † Nelle tre donne vaccinate che hanno sviluppato lesioni displastiche associate a HPV16 (2 CIN 2; 1 CIN 1) erano presenti dall’inizio infezioni causate da altri HPV oncogeni che potrebbero aver causato le lesioni. PATRICIA: Paavonen et al. 90. CIN = neoplasia intraepiteliale cervicale. * In alcuni stati Americani è stato proposto di rendere obbligatoria la vaccinazione per HPV per l’ingresso alle scuole medie, ciò ha però suscitato molte perplessità 121. In Italia è prevista la vaccinazione attiva e gratuita della coorte di ragazze dodicenni (ossia dopo il compimento degli 11 anni) ed il vaccino rientra fra i livelli essenziali di assistenza (LEA), mentre l’organizzazione pratica della vaccinazione attraverso le strutture del sistema sanitario compete alle singole Regioni. A maggio 2008 tutte le Regioni risultano aver stabilito i calendari per la somministrazione dei vaccini verso i virus HPV 122. In alcune regioni, il programma di intervento prevede che i vaccini vengano messi a disposizione attivamente non solo per le ragazze nel corso del dodicesimo anno di vita, ma anche per altre coorti. Va segnalato che nel nostro paese al compimento del 12° anno il 96,8% delle bambine ha già manifestato i primi segni di sviluppo puberale e che l’età media del menarca è di 12,4 anni 123. D’altra parte, è indubbio che la vaccinazione conferisce una protezione massima se eseguita prima dell’inizio dell’attività sessuale. Un lavoro italiano 124 riportava l’inizio dell’attività sessuale nel 25% dei giovani tra i 13 e 15 anni e nel 55% di quelli tra i 16 e 18 anni. Un’indagine recente segnala che l’1% dei ragazzi ha rapporti sessuali entro i 12 anni e un terzo entro i 17 anni 125. Alcuni adolescenti tendono a iniziare precocemente l’attività sessuale 126 (Tab. V); in questi soggetti, come in certi gruppi di immigrati le cui tradizioni culturali potrebbero favorire rapporti sessuali precoci, dovrà quindi essere valutata l’opportunità di una vaccinazione anticipata. Il rischio di tumori associati ad HPV, nonché di forme diffuse di condilomi, è particolarmente elevato nei soggetti immunodepressi, come quelli con infezione da HIV o sottoposti a trapianti 127. Rimane da verificare l’immunogenicità, l’efficacia e la sicurezza dei vaccini verso HPV in questi gruppi di pazienti. Vaccinazione nei maschi Nei maschi la vaccinazione potrebbe proteggere dai tumori del pene e da quelli anali o della testa e del collo, nonché dai condilomi acuminati causati dai tipi di HPV presenti nel vaccino quadrivalente. In uno studio su 463 maschi tra i 18 e i 40 anni senza storia di lesioni ano-genitali è stato evidenziato che il 65,4% era positivo per almeno un tipo di HPV, il 29,2% per un tipo di HPV oncogeno e il 36,3% per un HPV a basso rischio 128. Ciò evidenzia l’alta prevalenza di infezione da HPV in uomini asintomatici, che possono così contribuire alla diffusione dei vari virus ai partner. Anche se le risposte anticorpali al vaccino sono sovrapponibili nei maschi e nelle femmine 104, non vi sono studi che documentino l’ef- Tabella V. Condizioni e fattori favorenti l’inizio precoce dell’attività sessuale negli adolescenti. Fattori di rischio Descrizione Biologici Anticipazione del menarca Intrafamiliari Storia multigenerazionale di genitorialità adolescenziale, situazioni di affido, genitori poco presenti o attenti Socioculturali Residenza in aree con alto tasso di povertà e disoccupazione, basso reddito della famiglia Intrapersonali Storia di abuso sessuale o fisico Da De Sanctis 115. 184 I vaccini anti-papillomavirus ficacia dei vaccini in maschi, in cui oltretutto la maggioranza delle infezioni genitali da HPV non sono mucose ma cutanee; nelle donne il vaccino quadrivalente si è comunque dimostrato protettivo anche nei confronti delle lesioni cutanee. In conclusione, al momento non esistono indicazioni per vaccinare i maschi. Alcune nazioni, come Messico e Australia, hanno tuttavia raccomandato il vaccino per HPV in entrambi i sessi, anche in assenza di trial clinici specifici. Vaccinazione HPV e Pap test Dal momento che le lesioni cancerose, correlate a tipi di HPV diversi da quelli presenti nei vaccini, si possono presentare anche in donne vaccinate, è importante che tali lesioni siano identificate da un adeguato screening. Il Pap test deve essere pertanto mantenuto anche nella popolazione vaccinata, secondo le attuali indicazioni. Lo screening può essere, inoltre, utile per verificare gli effetti nel tempo del vaccino fra soggetti con fattori di rischio diversi 129 130. È quindi fondamentale spiegare alle donne la necessità di continuare la sorveglianza per il carcinoma della cervice anche dopo la vaccinazione 131. Vi è concordanza sul fatto che l’utilizzo di metodi per identificare l’HPV DNA aumenti la sensibilità dello screening basato solo sulla citologia 132-134. Adesione alla vaccinazione e ruolo del pediatra nella strategia vaccinale Perché la vaccinazione verso HPV abbia successo, sono necessari più fattori: un’adeguata informazione della popolazione e degli operatori sanitari, una chiara volontà politica, le risorse e una strategia per la sua implementazione (incluse l’identificazione e la distribuzione del vaccino ai servizi) e una precisa programmazione dell’intervento in maniera sequenziale. Infine, è necessaria un’alta copertura con sorveglianza nel tempo. L’adesione alla vaccinazione passa, necessariamente, attraverso una corretta informazione degli operatori. Onde uniformare il più possibile il loro comportamento e integrarsi nelle specifiche competenze, questi potranno avvalersi delle raccomandazioni emanate dalle società scientifiche delle professionalità coinvolte, rafforzando in tal modo la campagna di informazione programmata dalle Regioni e dal Ministero 135. Per quanto riguarda i pediatri, un’indagine condotta in Italia 136 ha confermato l’utilità che la campagna vaccinale sia preceduta da un loro aggiornamento sull’argomento. In particolare, sebbene i pediatri coinvolti nello studio abbiano in generale dimostrato una propensione a consigliare la vaccinazione ai propri assistiti, è emersa la mancanza di alcune conoscenze mirate sull’infezione da HPV e la sua prevenzione, oltre alla necessità di ampliare e approfondire ulteriormente la discussione sulle tematiche sessuali. Le difficoltà peculiari di questa vaccinazione, legate ai suoi aspetti psico-sociali e all’età della popolazione di riferimento (ragazzine), possono essere più facilmente affrontate e superate nella realtà assistenziale italiana, che prevede la figura del pediatra di famiglia da cui vengono assistite oltre l’80% delle dodicenni. Il pediatra è scelto sulla base di un rapporto di fiducia che decorre spesso fin dalla nascita ed i genitori attribuiscono grande importanza alla sua opinione per l’esecuzione di qualsiasi tipo di vaccinazione. Quella verso HPV ha indubbiamente aspetti più complessi ed articolati rispetto ad altre. Inchieste in diversi paesi hanno messo in rilievo che molte madri di bambine di 8-14 anni sapevano pochissimo di HPV e cancro del collo dell’utero 137-143 ed è ragionevole che ciò rispecchi anche la realtà italiana. Trattandosi di un’infezione sessualmente trasmessa, i genitori avevano inoltre molte perplessità sull’epoca ideale in cui somministrare il vaccino, per il timore che, in bambine troppo giova- ni, la vaccinazione potesse portare ad un eccesso di sicurezza con comportamenti sessuali più aperti e a rischio 134 144-150. La continuità del rapporto di fiducia del pediatra con la famiglia e la ragazza gli consente di affrontare adeguatamente, nel corso degli anni, i temi legati a corretti stili di vita, evidenze propedeutiche alla tutela della salute anche in età adulta e in questo ambito si inseriscono l’informazione riguardante il vaccino anti-HPV e le problematiche sessuali connesse. Le visite programmate (bilanci di salute) prevedono un controllo proprio in età pre-adolescenziale. In tale occasione, il pediatra avrà modo di promuovere e rafforzare l’invito alla vaccinazione fatto dal centro di Sanità Pubblica. Ove sussistano le condizioni, potrà egli stesso procedere a vaccinare attivamente, contribuendo così in modo sostanziale al raggiungimento dell’auspicata copertura vaccinale. Prospettive nei paesi in via di sviluppo Non si può dimenticare che l’80% dei tumori del collo dell’utero si riscontra nei paesi in via di sviluppo 1, dove i problemi di tipo economico ed organizzativo sono rilevanti. Ciascun paese dovrà valutare l’importanza della vaccinazione anti-HPV nel contesto locale del rapporto costo/beneficio e rispetto ad altre priorità del sistema sanitario nazionale 130. Tuttavia, i vaccini in genere si sono rivelati efficaci strumenti di salute pubblica, anche in paesi con risorse limitate ed è in corso uno sforzo congiunto delle ditte produttrici e delle agenzie internazionali per la distribuzione e il finanziamento dei vaccini, sì da rendere disponibili, a un prezzo accessibile, quelli verso l’HPV in tutto il mondo. Questi possono, quindi, rappresentare uno straordinario mezzo di profilassi primaria in grado di ridurre significativamente il tumore cervicale anche nelle zone geografiche più svantaggiate o fra la popolazione meno abbiente. Prospettive future: altri vaccini in studio Sono stati recentemente pubblicati vari studi relativi a nuovi vaccini anti-HPV con scopi sia preventivi che terapeutici 151-158. Fra questi, un vaccino sperimentato sull’animale e sull’uomo, è costituito da particelle simil-virali chimeriche (L1 + E7) 151. Tale vaccino si è dimostrato efficace nel generare una risposta immune specifica umorale e cellulare. Non si sono invece evidenziati effetti significativi per quel che concerne l’aspetto terapeutico nell’uomo, anche se la popolazione in studio era troppo limitata per trarre conclusioni definitive. Un altro vaccino, sperimentato sul topo, è costituito da DNA virale codificante per una proteina di fusione rappresentata dalla proteina umana calreticulina associata alle proteine precoci E6-E7 e dalla proteina tardiva L2 152. Tale vaccino si è dimostrato in grado di generare non solo una risposta cellulare specifica nei topi sani vaccinati, ma anche un significativo effetto anti-tumorale in topi malati. Lo sviluppo di nuovi vaccini potrebbe, in un futuro non così remoto, avere effetti non solo sull’incidenza e la distribuzione del cancro uterino, ma anche contribuire a una sua miglior terapia. Conclusioni Sono oggi disponibili, in commercio, due vaccini anti-HPV. Le loro caratteristiche vanno mantenute distinte, anche se entrambi hanno dimostrato ottima immunogenicità e sicurezza. Gli studi di efficacia di fase II e III coprono un arco di tempo ancora limitato, ma la vaccinazione di ragazze e donne non infette dai tipi vaccinali si è dimostrata in grado di prevenire in modo significativo la comparsa di lesioni precancerose del collo dell’utero, nonché, nel caso del vaccino quadrivalente, di lesioni precancerose della vulva e di condilomi acuminati. 185 I vaccini anti-papillomavirus La vaccinazione va offerta prioritariamente a soggetti di sesso femminile prima, dell’inizio dell’attività sessuale. La scelta nel nostro paese è di offrirla a tutte le ragazze nel 12° anno di vita. I vaccini possono rivelarsi utili anche in ragazze e donne di età maggiore, specie se ancora non sessualmente attive. Al momento non vi sono i presupposti per una raccomandazione nei maschi. L’implementazione della vaccinazione non deve ridurre la prevenzione secondaria del cancro della cervice attraverso lo screening di massa con Pap test. Gli attuali vaccini proteggono, infatti, solo nei confronti dei tipi di virus in essi contenuti e non possono, quindi, eradicare il carcinoma cervicale. Per avere successo, la vaccinazione non richiede solo l’impegno della classe medica, ma deve essere preceduta e accompagnata da una chiara volontà politica, dalla disponibilità delle risorse necessarie, da una implementazione razionale e da una campagna d’informazione mirata che renda accettabile e condivisa la vaccinazione alla popolazione generale. Le attuali conoscenze sulle malattie associate all’infezione da HPV e in particolare al suo ruolo cardine nel cancro del collo dell’utero sono, infatti, molto frammentarie. È importante che venga sottolineato che la vaccinazione non protegge dalle altre numerose malattie sessualmente trasmesse. Il fatto che i vaccini si propongano di prevenire patologie di cui il pediatra non ha esperienza diretta e che si manifesteranno a distanza di molti anni si inserisce in quella strategia preventiva con cui il pediatra sempre più si trova ad operare per impedire o ridurre l’insorgenza di malattie nell’adulto. Poiché si tratta di infezioni da HPV che vengono trasmesse per via sessuale, oltre ad un conoscenza approfondita della tematica, si rendono necessari attenzione e sensibilità nel dialogo con le ragazze ed i genitori, teso a chiarire gli obiettivi della vaccinazione, anche vincendo una certa reticenza che, talora, emerge da indagini specifiche. Bibliografia 17 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 Pagliusi S. World Health Organization. Human papillomavirus infection and cervical cancer. http://www.who.int/vaccine/_research/diseases/hpv/env/. Bosch FX, Manos MM, Munoz N, et al. Prevalence of human papillomavirus in cervical cancer: a worldwide perspective. International biological study on cervical cancer (IBSCC) Study Group. J Natl Cancer Inst 1995;87:796-802. Walboomers JM, Jacobs MV, Manos MM, et al. Human papillomavirus is a necessary cause of invasive cervical cancer worldwide. J Pathol 1999;189:12-9. von Krogh G. Management of anogenital warts (condylomata acuminata). Eur J Dermatol 2001;11:598-603. Munoz N, Bosch FX, de Sanjose S, et al. Epidemiologic classification of human papillomavirus types associated with cervical cancer. N Engl J Med 2003;348:518-27. Trottier H, Franco EL. The epidemiology of genital human papillomavirus infection. Vaccine 2006;24(Suppl.1):1-15. Clifford GM, Francschini S, Diaz M, et al. 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Am J Med 1997;102:3-8. 18 Lacey CJN, Lowndes CM, Shah KV. Burden and management of non-cancerous HPV-related conditions: HPV-6/11 disease. Vaccine 2006;24(Suppl.3):35-41. 19 Brown DR, Shew ML, Qadadri B, et al. A longitudinal study of genital human papillomavirus infection in a cohort of closely followed adolescent women. J Infect Dis 2005;191:182-92. 20 Moscicki AB, Hills N, Shiboski S, et al. Risks for incident human papillomavirus infection and low-grade squamous intraepithelial lesion development in young females. JAMA 2001;285:2995-3002. 21 Moscicki AB. Impact of HPV infection in adolescent populations. J Adolesc Health 2005;37(Suppl.6):S3-9. 22 Meyers C, Alam S, Hermonat PL, et al. Altered biology of adeno-associated virus type 2 and human papillomavirus during dual infection of natural host tissue. Virology 2001;287:30-9. 23 Clifford GM, Gallus S, Herrero, et al. 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