Volume 38 - Società Italiana di Pediatria

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Volume 38 - Società Italiana di Pediatria
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Volume 38
151
Luglio-Settembre 2008
INDICE numero 151 Luglio - Settembre 2008
Editoriale
Gianni Bona ............................................................................................................................................................................................. 103
Ortopedia (a cura di Stelvio Becchetti)
La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività: cosa deve sapere il pediatra
Stelvio Becchetti, Flavio Becchetti........................................................................................................................................................... 104
Le rachialgie in età pediatrica
Flavio Becchetti........................................................................................................................................................................................ 114
Pediatria dello sviluppo e del comportamento (a cura di Ennio Del Giudice)
Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo
Alfonso Romano, Marina Macca, Ennio Del Giudice................................................................................................................................. 121
Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale
Giovanna Stefania Colafati, Rosamaria Siracusano, Claudia Mastroeni, Valentina Maglio, Antonella Gagliano, Saverio Malena,
Francesco Di Salle.................................................................................................................................................................................... 133
Frontiere (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon)
Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK come meccanismo unificante
delle sindromi di Noonan, LEOPARD, Costello e cardiofaciocutanea: le sindromi neurocardiofaciocutanee
Giuseppe Zampino, Marco Tartaglia.......................................................................................................................................................... 142
FOCUS SU: (a cura di Pierpaolo Mastroiacovo)
Acido folico che cosa è, a che cosa serve
Iris Scala, Renata Bortolus, Pierpaolo Mastroiacovo................................................................................................................................ 152
Linee guida / Consensus conference
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta. Linea Guida SIP-SIMEUP-SINP 2007................................. 162
I vaccini anti-papillomavirus. Consensus Conference dell’Area Pediatrica. Aggiornamento Giugno 2008................................ 175
Nel prossimo numero 152 Ottobre - Dicembre 2008
Adolescentologia (a cura di S. Bernasconi, S. Bertelloni)
Novità in medicina dell’adolescenza
S. Bertelloni, S. Chiavetta, C. Volta, P. Garofalo, M. Strambi, E. Dati, S. Bernasconi
Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici
G. Raiola, E. Dati, V. De Sanctis, M.C. Galati, S. Bertelloni
Osteoporosi in età adolescenziale
G.I. Baroncelli, F. Vierucci, S. Bertelloni
La sindrome metabolica in età evolutiva
L. Iughetti, P. Bruzzi, B. Predieri, G. Vellani, M. De Simone
Malattie metaboliche (a cura di G. Andria)
Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico: nuove patologie, nuovi geni/malattia e novità nel campo della diagnosi e della terapia
D. Melis, F. Deodato, R. Parini, C. Dionisi-Vici
Screening allargato neonatale per le malattie metaboliche.
S. Tortorelli, P. Rinaldo
Terapia genica nelle malattie metaboliche
N. Brunetti-Pierri
Frontiere (a cura di A. Cao, L.D. Notarangelo, A. Iolascon)
Riprogrammazione nucleare e cellule staminali
L.D. Notarangelo
Focus su: (a cura di G. Andria)
Il trattamento dell’emicrania
G. Galli Gibertini, L. Morin, L. Teisseyre, C. Wood, L. Titomanlio
Linee guida
Malattia di Kawasaki: linee guida italiane
La febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche le basi per la migliore gestione clinica. Linee guida della Società Italiana di Pediatria
INFORMAZIONI SIP (a cura del Presidente)
Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 103
Editoriale
L’acquisizione da parte della Società Italiana di Pediatria (SIP) di Prospettive in Pediatria ha rappresentato un significativo arricchimento
della nostra area editoriale che può contare, a questo punto, di un’ampia varietà di strumenti, ciascuno con finalità specifiche. In questo
panorama complessivo si innesta anche il rinnovamento editoriale di Prospettive in Pediatria.
Uno dei principali obiettivi dell’attuale Consiglio Direttivo SIP è stato quello di far recuperare in pieno, alla nostra Società, quel ruolo attivo
nella ricerca e nell’elaborazione scientifica che deve essere proprio di una società scientifica moderna. Anche in qualità di Vice Presidente
della SIP sono sinceramente soddisfatto dei risultati fin qui raggiunti in questo ambito, frutto di due anni di serrato impegno collettivo.
Cito, a questo proposito, due esempi che reputo particolarmente significativi, sia per l’importanza dei risultati ottenuti, sia perché rappresentativi del prezioso lavoro corale che ha reso possibile il raggiungimento dei risultati attesi: la Linea Guida SIP-SIMEUP-SINP su “Diagnosi
e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta” e la Consensus su “I vaccini anti-papillomavirus”.
Lo stroke, sebbene costituisca una delle prime dieci cause di morte in età pediatrica e nonostante possa comportare, per i possibili esiti,
un notevole impegno per il paziente in età evolutiva e la sua famiglia (sia per aspetti clinici, che per le ripercussioni emotive, sociali ed assistenziali), è stato per anni una patologia poco conosciuta e studiata, in questa fascia di età, con una gestione clinico-terapeutica ricavata
essenzialmente dall’esperienza e dagli studi sull’adulto.
Anche a livello europeo gli studi e le “linee guida” in materia erano risultate particolarmente carenti, specie per quanto riguarda la gestione
del bambino in fase acuta. Da qui l’impegno della SIP e delle Società affiliate per produrre specifiche linee guida. Il lavoro è durato due anni
e ha portato alla definizione di sei raccomandazioni che vanno dall’indicazione di sottoporre il bambino con stoke ischemico ad un completo
work up diagnostico per evidenziare eventuali ulteriori cause e/o fattori di rischio (sempre possibili), all’indicazione che il bambino con
stroke cerebrale in fase acuta sia ricoverato in reparti che assicurino un monitoraggio clinico e parametrico continuo.
La Consensus sul vaccino anti-papillomavirus (lavoro che ha coinvolto i più autorevoli esperti in materia in ambito pediatrico e che costituisce l’aggiornamento di quanto realizzato dallo stesso gruppo di esperti nel 2007 e pubblicato sulle principali riviste pediatriche italiane)
rappresenta l’indispensabile contributo della SIP al dibattito scientifico in corso su un argomento diventato cruciale a seguito della decisione
del Ministero della Salute di proporre attivamente il vaccino a tutte le adolescenti.
Ma il lavoro prodotto sarebbe in parte vanificato se non diventasse, nei tempi più rapidi possibile, patrimonio comune di tutti coloro che ne
sono potenzialmente interessati. Ed è per questo che nel nuovo progetto editoriale di Prospettive in Pediatria sono state previste specifiche
rubriche riguardanti la formazione e la gestione dell’assistenza pediatrica, in cui saranno riportate tutte le novità in materia.
L’obiettivo del nuovo Comitato di Redazione di Prospettive in Pediatria è rendere questa Rivista, già prestigiosa, un vero e proprio strumento
di lavoro per i pediatri. Ritengo che l’inserimento di queste nuove rubriche sia un passo importante in questa direzione, così come ritengo
altrettanto importanti, per rendere la Rivista sempre più aderente alle necessità formative ed informative dei pediatri, i vostri suggerimenti
e le vostre indicazioni.
Gianni Bona
Vice Presidente della Società Italiana di Pediatria
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Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 104-113
ORTOPEDIA
La nuova chirurgia ortopedica infantile
tra prevenzione e mini-invasività:
cosa deve sapere il pediatra
Stelvio Becchetti, Flavio Becchetti
U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia, Istituto “Giannina Gaslini”, Genova
Riassunto
Gli Autori rilevano la particolare disomogeneità che oggi, in ortopedia dell’età evolutiva, si sta verificando nell’approccio terapeutico ad alcune situazioni
patologiche. Nell’articolo viene affermato che la rapidità, con cui le varie procedure chirurgiche si sono evolute, ha determinato una situazione di convivenza
tra vecchie e nuove terapie, spesso entrambi efficaci; le prime generalmente conservative e, se chirurgiche, più invasive; le seconde, prevalentemente
chirurgiche, più tecnologiche e meno invasive. In particolare, gli Autori propongono un razionale confronto tra il nuovo approccio terapeutico e quello tradizionale in tema di piede piatto, di differenza di lunghezza e di deformità assiali degli arti, di scoliosi, di paralisi ostetriche e di patologia tumorale e pseudotumorale. Le note di tecnica fornite sull’articolo appaiono dimensionate sulle esigenze conoscitive del pediatra, che spesso si trova a dover consigliare la
famiglia di un proprio assistito sulle scelte tra proposte diverse, provenienti da diversi specialisti ortopedici.
Summary
The Authors highlight the lack of common therapeutic approaches to some orthopedic pathological conditions affecting childhood. The rapid evolution of the
different surgical procedures has determined a coexistence of old and new therapies, that are often both effective. The first ones are generally conservative and, when surgical, more invasive, while the second ones are mainly surgical, more technological and less invasive. In particular, the authors propose
a rational comparison between the new and old therapeutic approaches to flatfoot, limb length discrepancy and axial deformities, scolioses, obstetrical
palsies and tumor/pseudotumor. The techniques proposed in this paper address the needs of pediatricians, who often has to advise the families of their
patients on which orthopedic technique proposed by orthopedic specialists is most appropriate.
Nell’ultimo decennio, al pari di quanto è accaduto per altri settori
chirurgici, la chirurgia ortopedica ha subito una profonda trasformazione; per quanto riguarda l’area pediatrica, l’approccio “eroico” alla chirurgia ortopedica, contrassegnato dall’utilizzo di grandi
e cruenti interventi a finalità prevalentemente riabilitative, ha negli
anni lasciato spazio a quello “razionale” a finalità prevalentemente preventive, caratterizzato dalla ricerca di procedure chirurgiche
estremamente mirate, altamente efficaci e meno invasive.
Oggi, quindi, in ortopedia infantile, si opera forse di più, ma si sono
abbandonati molti estenuanti trattamenti conservativi, spesso sostenuti da grandi, pesanti e reiterati gessi, talvolta scarsamente
efficaci; si opera prima, ma sono divenuti via via meno frequenti
i casi in cui occorre accedere alla chirurgia maggiore. La chirurgia
ortopedica infantile è divenuta un efficace mezzo di prevenzione:
prevenzione dell’evoluzione delle deformità e della comparsa di deformità secondarie.
Oggi, il pediatra, al quale sempre compete il primo passo verso la
diagnosi precoce, si trova anche di fronte alla grossa responsabilità
di consigliare la famiglia del proprio assistito circa l’accettazione delle
terapie proposte dallo specialista ortopedico o in merito alla scelta
tra indirizzi terapeutici differenziati, proposti da diversi specialisti consultati; oggi, infatti, convivono ancora indicazioni relative a tecniche
nuove e a tecniche ormai datate, a trattamenti incruenti e a trattamenti chirurgici, ad interventi invasivi e ad interventi mini-invasivi. Per
questo, il pediatra deve possedere alcune nozioni relative non solo alla
diagnosi, ma anche al trattamento, soprattutto a quello chirurgico.
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L’oggetto del cambiamento
Pur essendosi verificata una trasformazione delle strategie e delle
tattiche di approccio terapeutico sia in ortopedia, sia in traumatologia infantili, è di maggior interesse per il pediatra conoscere quale
sia stato il cambiamento tecnico-culturale in ortopedia infantile. In
questo ambito, l’oggetto del più evidente cambiamento può essere
individuato nel trattamento del piede piatto, in quello delle differenze
in lunghezza e delle deviazioni assiali degli arti, della scoliosi, delle
paralisi ostetriche, nonché in quello dei tumori e delle lesioni pseudotumorali.
Il piede piatto
Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale
Il piede piatto è una delle più frequenti cause di consultazione dell’ortopedico infantile, al quale spesso la famiglia, sempre ansiosa nei
confronti di questa deformità, si rivolge, incurante delle assicurazioni del pediatra che ha individuato nella deformità le caratteristiche
di un paramorfismo dell’età.
Il termine definisce una situazione clinica che accomuna diverse entità anatomo-patologiche. Occorre innanzi tutto distinguere il piede
piatto posturale da quello strutturale. Il primo è un piede la cui volta
plantare ha ridotto la sua evidenza o è scomparsa, per solo effetto di
una disorganizzazione motoria del suo complesso apparato muscolare. Il piede piatto strutturale è invece rappresentato da un’altera-
La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività
zione statico-dinamica in pronazione, sostenuta dalla deformazione,
di regola ingravescente, delle sue strutture osteo-legamentose e da
un concomitante loro mal allineamento, essenzialmente sostenuto
dallo scivolamento, in rotazione interna e verso il basso, dell’astragalo su un calcagno forzato in valgismo.
Oggi appare più corretto parlare di “sindrome pronatoria”, in quanto
tale termine riesce a evidenziare meglio l’essenza della deformità,
che è la pronazione dell’articolazione sotto-astragalica (Malerba et
al., 1993), e a riunire e definire due situazioni anatomo-patologiche,
entrambi possibili: il piede “piatto valgo”, con grande scivolamento
astragalico ed appiattimento della volta plantare, ed il piede “cavovalgo”, ove lo spiccato valgismo del calcagno, che in questo caso
non è accompagnato da rilevante cedimento della volta, determina
una spiccata rotazione in valgo-pronazione dell’intero piede, con
sollevamento del suo bordo esterno e conseguente impronta plantare evocante quella di un piede cavo.
La necessità di attenzione medica al piede piatto è giustificata dal
fatto che la storia naturale della deformità, se strutturale, prevede un
lento aggravamento; il mal-allineamento osteo-articolare coinvolge
nel tempo altri segmenti del piede ed acquisisce rilevanza funzionale, arrivando ad alterare definitivamente le caratteristiche del passo
e, anche nell’età adulta, ad esporre al rischio di comparsa di un
piede doloroso.
Il trattamento di ieri
La grande fiducia nell’ortesi, tipica della cultura ortopedica tradizionale, aveva portato a schemi di cura del piede piatto fondati
sull’utilizzo della scarpa ortopedica, completa di contrafforti rigidi
e di plantari, alla quale veniva affidato ogni tentativo di correzione.
Infrequentemente, a crescita inoltrata o al termine di questa, nei casi
più gravi e sintomatici si procedeva a complessi interventi sulle parti
molli e talvolta ad interventi di artrodesi e/o resezioni a livello delle
articolazioni tarsali (Lelièvre et al.,1985).
Il trattamento odierno
Oggi, la fiducia degli specialisti ortopedici nel trattamento ortesico
del piede piatto strutturale è sensibilmente diminuita. La scarpa ortopedica, in questa patologia, è caduta in disuso e alcuni specialisti
non consigliano neppure il plantare, ritenendolo raramente efficace,
e rinviano la soluzione del problema ad un eventuale futuro intervento (Seringe, 2002).
Tale mutazione culturale ha fatto sicuramente seguito all’ideazione di
interventi chirurgici a bassa invasività, molto efficaci; le tecniche in uso
oggi sono tre, quella di Castaman (Castaman, 1985), che può essere
considerata la meno invasiva, quella di Giannini e quella di Nogarin.
La minima invasività della tecnica non deve tuttavia indurre a eccessi di indicazione e a comportamenti rinunciatari nei confronti
del trattamento conservativo; l’utilizzo del plantare, infatti, conserva
ancora oggi un suo significato per obiettivi di contenimento dell’evoluzione e di correzione di deformità di modesto grado.
Indicazioni
L’intervento chirurgico è indicato quando, alla morfologia di piede
piatto si accompagnano una o più delle seguenti situazioni: sintomatologia dolorosa, generalmente al piede o alla gamba, tendenza al
valgismo dell’alluce o presenza di extratorsione tibiale molto evidente (rotule strabiche), evidenza di frequenti tendinopatie inserzionali
del tendine tibiale posteriore, facile affaticamento, debolezza nella
fase propulsiva della corsa o del passo, verosimile alto rischio di
comparsa di sintomatologia dolorosa nell’età adulta al piede o aggravamento della deformità nell’età adulta (Di Stadio et al., 1997).
Box 1 - Artrorisi seno-tarsica con
viti di Castaman
L’intervento, che può essere eseguito in anestesia locale e in day
surgery, consiste nella realizzazione di uno stop all’eccessiva articolarità in valgo-pronazione dell’articolazione sottoastragalica,
ottenuto mediante l’infissione di una particolare vite metallica
(vite conica astragalica); tale dispositivo, in acciaio, è dotato di
una peculiare geometria ad andamento conico, comprendente
una parte liscia e una parte filettata. Sotto controllo ampliscopico, la parte filettata del dispositivo viene avvitata, secondo una
precisa direzione obliqua dal basso verso l’alto, nell’astragalo,
in modo tale che l’estremità della parte liscia prenda appoggio
sulla contrapposta superficie del calcagno (Fig. 1).
L’età migliore per l’intervento di Castaman è individuabile tra i 10 e
i 12 anni.
Le differenze in lunghezza degli arti
Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale
L’uguaglianza in lunghezza degli arti è un importante assunto nell’immagine di normalità dell’individuo.
Le moderate differenze di lunghezza degli arti superiori passano di
regola inosservate, dato che solitamente non provocano ricadute
estetiche né funzionali sull’individuo e sulla sua percezione di normalità; così non è per gli arti inferiori, ove la parità di lunghezza
costituisce una condizione irrinunciabile per una corretta postura globale, una normale deambulazione ed una corretta cenestesi
osteo-mio-articolare.
La differenza in lunghezza degli arti inferiori ha origini molteplici: difetti congeniti di uno dei due arti, emi-ipertrofia, esiti di osteoartrite o
di lesioni traumatiche e da altre situazioni lesive la funzionalità delle
cartilagini di crescita.
Il trattamento di ieri
In passato, alla presenza di differenze di lunghezza degli arti inferiori
veniva abitualmente posto rimedio mediante l’adozione di provvedimenti protesici. In alcuni casi, veniva attuato un trattamento chirur-
Figura 1.
Immagine radiografica di un piede operato secondo la tecnica di Castaman. Evidente la vite conica astragalica inserita con giusta obliquità.
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S. Becchetti, F. Becchetti
gico dell’arto più lungo, consistente nell’accorciamento o nel blocco
della crescita ottenuto mediante interventi di epifisiodesi, ossia di
blocco chirurgico della crescita per mezzo di cambre inserite a livello delle cartilagini d’accrescimento metafisarie.
I vari tentativi di superamento di questi interventi sull’arto sano,
concettualmente poco accettabili, portarono quindi all’allungamento
dell’arto più corto, che molto spesso è quello patologico; questi interventi si dimostrarono però nella pratica poco proponibili, in quanto non supportati da dispositivi chirurgici sufficientemente adatti allo
scopo e strettamente legati a grandi apparecchi gessati.
Il trattamento odierno
Solo con la diffusione del sistema di Ilizarov (Ilizarov et al., 1969)
e di altre tecniche di fissazione esterna (Wagner, 1978), che hanno
subito nel tempo miglioramenti ed affinamenti anche per fondamentale opera di numerosi autori italiani (De Bastiani et al., 1987; Mastragostino et al., 1989), il complesso problema delle eterometrie in
lunghezza degli arti in età di crescita ha potuto essere in gran parte
risolto.
La tecnica, al di là di un’apparente semplicità, presenta complessità
di vario tipo, legate alla patologia, al paziente, all’entità dell’allungamento previsto ed alla qualità dell’osso dei segmenti in allungamento. L’allungamento graduale, che di regola è di un millimetro
al giorno, la rigenerazione del tratto allungato e l’acquisizione della
necessaria resistenza meccanica del rigenerato osseo, richiedono
lunghi tempi di trattamento, che talvolta si aggirano attorno all’anno;
a fronte di una moderata invasività chirurgica, la metodica richiede
grande collaborazione da parte del paziente e della famiglia ai quali,
tra l’altro, sia pur sotto monitoraggio medico, viene di regola affidata
la registrazione in allungamento del sistema, da effettuarsi più volte
al giorno.
La tecnica chirurgica, che sempre richiede particolari competenze,
è evoluta nel tempo parallelamente al sistema; oggi sono possibili
montaggi molto elaborati a sviluppo tridimensionale particolarmente
adatti ai casi in cui, all’ipometria, sono associate complesse deviazioni assiali.
La metodica non è esente da complicanze, che possono essere settiche o, nei grandi allungamenti, legate al processo stesso di allungamento (complicanze vascolari, nervose, tendinee, cutanee ecc.)
(Boero et al., 1994).
Indicazioni
L’allungamento chirurgico dell’arto ipometrico è indicato nelle differenze di lunghezza superiori ai tre centimetri, in soggetti quanto
più vicini al termine dell’accrescimento, anche se attualmente alcuni propongono una notevole riduzione dell’età alla quale effettuare
l’intervento.
Nei casi in cui l’anomalia sia individuabile nell’arto più lungo, ancora
oggi appare indicata l’epifisiodesi a livello di quest’ultimo (Surdam
et al., 2003).
L’efficacia delle tecniche, che permettono allungamenti degli arti inferiori di notevole entità (oltre ai 20 cm), ha permesso l’estensione
delle indicazioni alle ipometrie bilaterali ed a settori in precedenza esclusi da qualsiasi trattamento al riguardo, come quello delle
osteocondrodisplasie; la sua applicazione si è infatti dimostrata
estremamente valida anche nei soggetti affetti da bassa statura per
penalizzazione degli arti inferiori, come nell’acondroplasia (Boero et
al., 1995).
106
Box 2 - Il sistema di Ilizarov
È composto da anelli capaci di accettare, in appositi alloggiamenti ed in qualsiasi posizione sul piano dell’anello stesso, fili
metallici di vario diametro (fili di Kirschner), di tenderli e di fissarne i due estremi. Nel montaggio canonico, coppie parallele di
fili grosso modo perpendicolari tra loro ed all’asse longitudinale
dell’osso, vengono transfissi per via percutanea e sotto controllo
ampliscopico, sopra e sotto la sezione ossea prescelta per la
corticotomia (interruzione della corticale ossea per tutta la sua
circonferenza); vengono quindi fissati in tensione agli anelli, posizionati in numero variabile secondo configurazioni definite in
funzione della tattica correttiva che il chirurgo intende adottare. Tali anelli vengono quindi connessi tra loro mediante barre
filettate e dadi. Attraverso una o due piccole incisioni cutanee,
che permettono il passaggio di un apposito osteotomo, viene poi
realizzata sotto controllo ampliscopico la corticotomia. Le barre di connessione tra gli anelli, attraverso l’avvitamento orario
od antiorario dei dadi permettono la variazione, nei due versi,
della distanza tra gli anelli; l’allontanamento assiale degli anelli
determina l’allontanamento delle due superfici corticotomiche e
quindi l’allungamento del segmento osseo.
Le deviazioni assiali degli arti
Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale
L’alterazione dell’allineamento assiale degli arti inferiori può svilupparsi sia sul piano frontale che su quello sagittale e si localizza
di regola al ginocchio. Viene percepito dal paziente e dalla famiglia
come deformità a connotazione puramente estetica; in realtà, al di
fuori di quelle che per entità ed età del soggetto sono configurabili
nell’ambito dei paramorfismi dell’età, le deviazioni assiali degli arti,
se strutturate e di grado significativo, hanno sempre un significato
funzionale, conseguente all’alterazione della configurazione meccanica di ginocchio, caviglia ed anca.
Le deviazioni assiali degli arti hanno talvolta origine congenita o
sono accolte entro un quadro osteocondrodisplasico; talvolta costituiscono l’esito di patologia settica neonatale o di lesioni traumatiche metafisarie.
Il trattamento di ieri
Nel passato, il trattamento delle deviazioni assiali frontali degli arti
inferiori avveniva sempre mediante interventi di osteotomia direzionale, femorale o/e tibiale, e sintesi effettuati di regola a livello del
ginocchio, che richiedevano lunghe immobilizzazioni in apparecchio
gessato o l’applicazione di fissatori esterni. Successivamente, entrava nell’uso comune l’intervento di emiepifisiodesi temporanea,
consistente nell’inserimento di dispositivi a livello della porzione di
cartilagine d’accrescimento (fisi) di prevalente attività, capaci di determinare un blocco localizzato della crescita (Blount et al., 1949);
tra questi, quelli di uso più comune sono state sicuramente le cambre, la cui dimostrata efficacia ne consente ancora l’uso corrente
(Surdam et al., 2003). Tali chiodi a forma di “C”, vengono piantati, in numero di due o tre per cartilagine, a cavallo della porzione
mediale o laterale delle cartilagini prescelte, rispettivamente per
correzione di valgismo o di varismo; in tal modo, l’accrescimento
longitudinale dell’arto, che avviene esclusivamente per opera delle porzioni di cartilagine lasciate libere, realizza la correzione della
La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività
deformità angolare. Raggiunta la neutralità dell’asse, i dispositivi
vengono rimossi, ma, a causa del frequente inglobamento nell’osso
neoformato, tale procedura risulta spesso molto laboriosa ed invasiva; inoltre, nei momenti di crescita più rapida, non infrequentemente
si assiste alla deformazione, alla dislocazione ed anche alla rottura
o all’espulsione di questi dispositivi; infine, non eccezionalmente,
l’emiepifisiodesi perdura dopo la rimozione delle cambre, determinando un’ipercorrezione.
Il trattamento odierno
La correzione delle deviazioni assiali più complesse, soprattutto se
associate a difetti in lunghezza, può oggi essere affrontata efficacemente per mezzo della fissazione esterna.
Per quanto riguarda le deviazioni assiali semplici, recentemente è
stato ideato un dispositivo che permette la cosiddetta crescita guidata; si tratta di una placca a due viti, denominata per la sua forma
“8-plate”, che, pur concettualmente simile alle cambre, offre risultati migliori uniti ad una bassa invasività (Stevens, 2007). Infatti, è
sufficiente l’azione di una sola placca per ogni cartilagine (Fig. 2);
il suo inserimento avviene senza alcuna necessità di apertura del
periostio; il suo adattamento alle variazioni geometriche e meccaniche accrescitive della metafisi permette di evitare i rischi connessi
all’uso dei cambre; la sua rimozione, infine, effettuata al raggiungimento della correzione assiale, è semplice, sempre agevole e permette la ripresa della regolare funzione della cartilagine di crescita.
Di regola, la correzione ottenuta viene mantenuta nel tempo; per
questo motivo l’intervento può essere eseguito precocemente.
Indicazioni
Le indicazioni all’emiepifisiodesi temporanea mediante 8-plate sono
esclusivamente riferite a deformità sicuramente strutturali, con rilevanza di tipo estetico e/o funzionale; irrinunciabile pre-requisito
è l’esistenza di un accrescimento residuo dell’arto sufficiente alla
correzione. L’età migliore per effettuare l’intervento, a seconda della
maturazione e del sesso, può essere quella degli 11-13 anni. In altre
deformità assiali, soprattutto se evolutive e in varo, come accade nel
Blount, la correzione deve avvenire più precocemente.
Nei soggetti giunti tardivamente ad osservazione, quando la crescita
residua è verosimilmente insufficiente a permettere un’emiepifisiodesi temporanea, si deve procedere ad osteotomia (Green, 1993).
Figura 2.
Soggetto affetto da varismo delle ginocchia in displasia epifiso-metafisaria a fine trattamento. Evidenti le “8-plate” impiantate.
Box 3 - Il dispositivo “8-plate”
Si compone di una placca e due viti; le dimensioni sono molto
ridotte e articolate su tre misure. La placca, metallica e di forma
a 8, è dotata di tre fori, uno piccolo centrale e due più grandi
periferici, questi ultimi posti ciascuno al centro di una delle due
parti tonde; i fori grandi accolgono le viti, che sono autofilettanti
e cannulate. Sotto controllo ampliscopico, a livello della porzione di fisi ove è prevista l’emiepifisiodesi si pratica un’incisione
cutanea di circa 3 cm e si giustappone la placca per mezzo di
un filo di Kirschner infitto nella fisi attraverso il foro piccolo; mediante la guida di altri due fili di Kirshner, si preparano quindi
nell’osso col trapano i due fori per le viti, dopo il cui inserimento
i fili vengono rimossi.
La scoliosi
Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale
La presenza di una scoliosi viene frequentemente rilevata dal pediatra di famiglia, che ben conosce le procedure cliniche atte alla
diagnosi precoce, ma altre volte viene scoperta dai genitori, che osservano il figlio durante la stagione balneare, o l’insegnante di educazione fisica o il maestro di sport; la manifestazione di una scoliosi
è infatti un evento di regola improvviso e ben evidente. Determinando asimmetrie del tronco e gibbosità, la scoliosi viene vissuta con
molta ansia da gran parte dei pazienti e delle famiglie soprattutto
per le sue connotazioni di tipo estetico; spesso viene ricercata la soluzione del problema mediante il nuoto, essendo radicato il concetto
dell’efficacia correttiva di questo sport sulla scoliosi. In realtà il problema è molto complesso ed ogni trattamento presenta dei grossi
limiti: quello conservativo offre di regola soltanto un’efficacia contro
il peggioramento delle curve, se non molto evolutive; per contro il
trattamento chirurgico risulta capace di ridurre l’entità della curva
e di determinare un notevole miglioramento estetico, ma a prezzo
di un’artrodesi, che determina la completa perdita della motilità del
tratto rachideo operato.
La scoliosi, mai da confondere con i banali atteggiamenti scoliotici,
è una deformità strutturale della colonna vertebrale a sviluppo tridimensionale, caratterizzata da un potenziale evolutivo che si attua di
regola durante l’età della crescita; l’intera colonna risulta deformata
in torsione (Perdriolle et al., 1993); l’alterazione della retta d’azione
dei muscoli, lo stiramento o la retrazione dei legamenti e la degenerazione dei dischi intervertebrali rendono autosostenuto il processo
d’evoluzione della scoliosi.
Alcune curve sono ad eziologia nota, altre, la maggior parte, sono
ancora oggi considerate idiopatiche; è stato dimostrato che l’origine
di queste ultime è su base genetica, ma per la loro manifestazione
sembra necessaria l’associazione di fattori extragenetici (Justice et
al., 2003).
Il trattamento di ieri
Negli anni ’60, soprattutto per merito della scuola francese, che
aveva evidenziato l’efficacia del trattamento conservativo integrando l’utilizzo di gessi, corsetti ortopedici e rieducazione, il problema
della diagnosi e della terapia precoce della scoliosi aveva potuto
raggiungere un livello di attenzione elevatissimo, da parte dei medici, della popolazione e delle istituzioni; il trattamento chirurgico,
infatti, ritenuto molto rischioso e talvolta poco efficace, veniva visto
107
S. Becchetti, F. Becchetti
Figura 3.
Immagine radiografica di scoliosi operata con metodica di Cotrel-Dubousset; ben evidente la numerosità degli elementi di vincolo e la doppia barra. A) Rx in AP; B) Rx in LL.
soltanto come rimedio al fallimento delle cure incruente. Per la correzione chirurgica veniva utilizzata di regola la barra di Harrington,
dispositivo d’acciaio che agiva in sola distrazione, “aprendo” la curva ma appiattendo contemporaneamente ed ulteriormente il profilo
sagittale del rachide, già appiattito dalla deformità; l’impianto, dopo
l’intervento, doveva essere protetto per circa 6-8 mesi mediante un
busto gessato a permanenza e poi un corsetto ortopedico.
Negli anni ’80, il fiorire di una metodica di correzione chirurgica
della scoliosi veramente innovativa, quella di Cotrel e Dubousset
(C-D) (Fig. 3), produceva un profondo mutamento culturale attorno
al paziente scoliotico; infatti, il sistema C-D, a fronte di una maggior complessità di tecnica, offriva una grande efficacia correttiva
tridimensionale della curva e un significativo ripristino del profilo
sagittale, senza richiedere alcuna contenzione esterna, né gessata,
né ortopedica (Cotrel et al., 1984).
Negli anni ’90 otteneva grande favore, nei casi più gravi, il doppio approccio chirurgico, ossia l’associazione della via anteriore
con quella posteriore; l’approccio anteriore, che spesso prevedeva
grandi accessi toracotomici, toraco-freno-lombotomici e laparotomici, inoltre, veniva da alcune Scuole preferito incondizionatamente
a quello posteriore.
Il trattamento odierno
Oggi, il soggetto scoliotico viene operato più precocemente col vantaggio inconfutabile di ridurre l’estensione dell’artrodesi e quindi
l’entità dell’intervento e la lunghezza del tratto anchilotico. Inoltre,
l’evoluzione della tecnica chirurgica e delle caratteristiche delle
strumentazioni impiantabili, tutte comunque derivate dal sistema di
Cotrel e Dubousset, ha permesso soluzioni chirurgiche più efficaci accanto alla disponibilità di geometrie migliori, di ingombri più
contenuti, di materiali più biocompatibili e di soluzioni meccaniche
ancora più affidabili. Anche se l’essenza dell’intervento rimane ancora l’artrodesi, gli obiettivi di correzione chirurgica tridimensionale
e massimale della curva e di ripristino del normale allineamento
sagittale del rachide sono oggi più facilmente e costantemente raggiungibili, anche grazie ad una recente tecnica di utilizzo di “tutte
108
viti” in sostituzione dei tradizionali uncini per la fissazione vertebrale. Inoltre, le moderne tecniche di monitoraggio spinale intraoperatorio consentono oggi una riduzione sostanziale del rischio di
paraplegia; l’affinamento delle tecniche anestesiologiche dedicate
riduce il rischio di complicanze generali; l’affidabilità delle moderne
banche dell’osso, nonché la diffusione dei sostituti ossei rende ormai eccezionale il prelievo dall’ala iliaca del paziente per effettuare
un innesto osseo omoplastico. Oggi, a pochi giorni dall’intervento il
paziente operato può scendere dal letto e camminare, senza alcun
bisogno di busti gessati od ortopedici e, con alcune attenzioni, può
svolgere già in convalescenza una vita sostanzialmente normale.
Attualmente, inoltre, la via d’accesso anteriore al rachide ha ottenuto
una più precisa collocazione e, per effetto di un affinamento della
tecnica e della strumentazione posteriore, è meno frequentemente
utilizzata.
Oggi, infine, i progressi della chirurgia video-assistita e di quella toracoscopica e laparoscopica hanno permesso un utilizzo di queste
tecniche a ridotta invasività anche nel campo della chirurgia vertebrale, con grandi vantaggi, in termini di minor aggressività verso il
soggetto, di brevità dei tempi di degenza e di rapidità del recupero
funzionale (Lee et al., 2006). Tuttavia questa particolare chirurgia
espone a grandi rischi se non viene praticata da chirurghi particolarmente esperti (Norton et al., 2007); il futuro della chirurgia vertebrale guarda in questa direzione.
Occorre comunque ricordare che, ancora oggi, il trattamento conservativo, se iniziato precocemente e nel rispetto della tipologia e
dell’entità della curva, nonché della costituzione e della maturazione del soggetto scoliotico, se indirizzato nella giusta considerazione dell’eziologia e della prognosi, se, infine, correttamente attuato,
offre possibilità di successo; di diritto, il trattamento incruento può
affermare ancora la modernità del suo ruolo.
Indicazioni
Sono ancora oggi oggetto di discussione; tuttavia, semplificando
molto, l’intervento chirurgico nel trattamento della scoliosi risulta
generalmente indicato in curve di qualsiasi eziologia che, a fine crescita, superano il valore angolare di 40° o che, in corso di crescita,
evidenziano un’evolutività non contenibile con mezzi conservativi.
Soltanto la previsione di una cospicua crescita residua del tronco
Box 4 - L’intervento di
Cotrel-Dubousset
Utilizza complessi sistemi d’impianto modulari, metallici, oggi in
titanio. Mediante un approccio posteriore, vengono inseriti particolari dispositivi di vincolo in uno od entrambi i lati di molte tra
le vertebre comprese nella curva scoliotica; tali elementi, rappresentati da uncini e viti di varia forma e dimensione e dotati
di un meccanismo di serraggio, vengono connessi senza essere
fissati, con due barre premodellate, posizionate ai due lati della
colonna vertebrale. Mediante particolari manovre di derotazione
e di raddrizzamento, si effettua un buon riallineamento tridimensionale delle vertebre, che viene mantenuto mediante il serraggio degli uncini e delle viti sulle barre; previa decorticazione degli
archi vertebrali e delle apofisi trasverse, asportazione delle articolazioni posteriori e successiva connessione tra le due barre
mediante particolari dispositivi, viene attuato un abbondante innesto osseo, garante di una buona artrodesi.
La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività
Box 5 - La chirurgia mini-invasiva
della scoliosi
La chirurgia toraco-scopica utilizza una sonda visiva, connessa a
un apparato televisivo, introdotta nel torace attraverso un tramite
di minima entità, e alcune altre piccole incisioni atte al passaggio
degli strumenti chirurgici; risulta ottimale per interventi di release
anteriore e di discectomia su più livelli del tratto più rigido della
curva scoliotica, che successivamente verrà strumentata per via
posteriore, ma per questa via è anche possibile inserire un impianto vertebrale anteriore. La chirurgia anteriore video-assistita, più usata a livello lombare, utilizza un analogo sistema, che,
nei casi in cui è necessario intervenire a cielo aperto, permette di
ridurre al minimo la lunghezza dell’incisione e dell’intero accesso chirurgico; non induce particolari limitazioni all’inserimento di
impianti di sintesi da parte di chirurghi esperti.
costituisce una controindicazione all’artrodesi posteriore, che condizionerebbe un successivo fenomeno di ulteriore evoluzione e
“spanciamento” della curva (effetto vilebrequin); nei casi in cui, per
operare, non è possibile attendere l’adolescenza inoltrata, occorre
associare una sterilizzazione dell’accrescimento dei corpi vertebrali
mediante chirurgia anteriore, possibilmente effettuata mediante toracoscopia, al fine di evitare l’effetto vilebrequin.
Le indicazioni al trattamento conservativo sono limitate alle scoliosi
minori ma anche alle scoliosi infantili e giovanili, che, di regola molto
evolutive, ottengono con questo trattamento una remissione della
loro evoluzione atta al procrastinamento dell’intervento chirurgico.
Le paralisi ostetriche
Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale
Le “paralisi ostetriche del plesso brachiale” costituiscono giustamente un motivo di forte preoccupazione per la famiglia e il pediatra,
talvolta privi dei giusti riferimenti specialistici atti ad offrire al neonato il massimo delle possibilità terapeutiche; conseguono a lesioni
nervose periferiche, interessanti il plesso brachiale, verificatesi in un
neonato e si instaurano, senza intervallo libero, soprattutto in nati da
parto distocico; possono tuttavia evidenziarsi anche in casi di parto
eutocico e, molto raramente, di parto cesareo.
Il deficit neurologico è di tipo flaccido sensitivo-motorio, diversamente esteso a seconda del livello lesionale; la prognosi è varia, legata alle caratteristiche anatomo-patologiche del danno radicolare.
Il meccanismo che determina la lesione è correlato alle manovre del
parto; l’eccessiva pulsione verso il basso della spalla eserciterebbe una trazione esagerata e lesiva di tutte o di alcune delle radici
tributarie del plesso brachiale. Nei casi in cui il danno sia soltanto
uno stiramento senza interruzione delle fibre, la paralisi assume di
regola un andamento spontaneamente migliorativo; per contro, la
paralisi rimane definitiva nei casi in cui le fibre radicolari o le intere
radici vengano strappate; in funzione delle radici lesionate e del loro
numero, la paralisi assume evidenza clinica diversa e presenta diverse sequele nel tempo.
Il numero di pazienti affetti da questa patologia tocotraumatica si è
ridotta nel tempo, parallelamente al miglioramento delle tecniche di
assistenza al parto e alla maggior frequenza con cui si ricorre oggi
al parto cesareo. Oggi è cambiata ampiamente anche la prognosi,
grazie alle nuove tecniche di ricostruzione microchirurgica del plesso brachiale.
Il trattamento di ieri
Un ruolo importante è stato sempre riconosciuto alla chinesiterapia che, tuttavia, veniva di regola iniziata soltanto dopo un periodo
di immobilizzazione in docce gessate “da schermitore”. Il risultato
del trattamento conservativo era ovviamente scadente nei casi di
interruzione delle radici e gli esiti invalidanti della paralisi venivano
affrontati chirurgicamente per mezzo della cosiddetta chirurgia palliativa, con la quale era di regola possibile migliorare in vario modo
l’aspetto funzionale dell’arto.
Il trattamento odierno
Non prevede più alcuna immobilizzazione, addirittura ritenuta controindicata; per contro raccomanda un inizio molto precoce del
trattamento chinesiterapico. Negli ultimi anni, è entrata nell’uso
corrente la riparazione chirurgica delle lesioni ostetriche, sia pur
esclusivamente presso i pochi Centri dotati della specifica competenza. Attualmente infatti, l’affinamento delle tecniche micro-chirurgiche, favorito dalle ricerche neurofisiologiche ed anatomo-patologiche, dalla realizzazione di efficienti strumentazioni veramente
miniaturizzate e di adeguati sistemi di microscopia operatoria, nonché dai progressi nel campo dell’anestesia e rianimazione infantile,
ha permesso di affrontare con successo il ripristino della continuità
anatomica e funzionale di un plesso brachiale interrotto nella sua
struttura e funzione (Gilbert et al., 2006). La rieducazione psico-mo-
Box 6 - Paralisi ostetriche
del plesso brachiale
Conseguono di regola a lesioni delle radici da C5 a D1. A seconda del numero e del livello delle radici interessate, le paralisi
ostetriche si propongono attraverso quadri clinici eterogenei; più
frequentemente, la paralisi è di tipo totale o superiore. L’esame
clinico deve comportare un’attenta valutazione del tono e della
sensibilità, la ricerca di movimenti spontanei, di sincinesie e la
verifica dei riflessi all’arto superiore (molto importanti quello di
Moro, il bicipitale, il tricipitale, lo stiloradiale, il grasping). La paralisi di tipo totale, che interessa le radici da C5 a D1, si verifica nel
20% dei casi; l’arto è ciondolante, con ipo-anestesia dell’avambraccio, assenti tutti i riflessi all’arto interessato; infrequentemente, si associa a lesione delle fibre ortosimpatiche di D1 e D2
con conseguente sindrome di Bernard-Horner (miosi, enoftalmo,
ptosi palpebrale). La paralisi di tipo superiore si verifica nell’80%
dei casi; interessa le radici di C5 e C6 (paralisi di Erb-Duchenne),
talvolta di C7; l’innervazione della mano è risparmiata; la paralisi
della spalla risparmia di regola la sola adduzione; la paralisi del
gomito è totale se vi è coinvolgimento anche di C7, ma risparmia
l’estensione se questa radice non è stata interessata dal danno;
può coinvolgere C4, con conseguente paralisi dell’emidiaframma
omolaterale alla lesione per interessamento del nervo frenico. In
caso di paralisi di tipo superiore, per la prevalenza dei muscoli
non interessati dalla paralisi il bambino mantiene, in posizione
supina, l’arto addotto e intraruotato, il gomito esteso e l’avambraccio pronato; grazie all’ampia sovrapposizione metamerica di
innervazione sensitiva, la sensibilità dell’arto è in gran parte conservata. Di raro riscontro è la lesione isolata di C8 e D1 (paralisi
di Dejerine-Klumpke) o di C7 (paralisi di Fumarola).
109
S. Becchetti, F. Becchetti
toria deve sempre accompagnare il lungo iter riabilitativo; la chirurgia palliativa, che ancora oggi ha mantenuto un ruolo importante,
offre prospettive di miglioramento morfologico e funzionale nei casi
più gravi e, comunque, nei risultati di recupero incompleto (Senes
et al., 2003).
Indicazioni
L’indicazione alla riparazione microchirurgica del plesso brachiale
emerge da un’adeguata valutazione diagnostica clinico-strumentale
tempestiva, seguita da un attento monitoraggio, in corso di chinesiterapia, atto alla verifica dell’andamento della paralisi; ove non dimostrabile un recupero adeguato nei primi due-tre mesi, il paziente
deve essere necessariamente affidato a competenze superspecialistiche al fine di una valutazione dell’eventuale indicazione chirurgica, da attuarsi precocemente (ai 3-6 mesi di vita) (Senes, 2003).
Box 7 - Chirurgia palliativa
delle paralisi ostetriche
È stata nel passato anche recente unica risorsa terapeutica delle deformità e del deficit funzionale dell’arto leso; consiste in
tecniche di chirurgia osteo-articolare mirate al recupero, anche
parziale, di importanti funzioni perdute a causa della paralisi, sia
direttamente mediante la trasposizione dell’inserzione di muscoli indenni in siti osteo-legamentosi strategicamente scelti, sia
indirettamente, mediante la riorientazione dell’arto in posizioni
maggiormente funzionali, ottenute per mezzo di osteotomie correttive o favorite da interventi mirati al miglioramento dell’articolarità o mediante la realizzazione di un’anchilosi chirurgica
(artrodesi).
I tumori e le lesioni pseudotumorali
Il contesto anatomo-patologico, clinico e sociale
Nel bambino, i tumori maligni, più rari rispetto all’adulto, sono molto meno frequenti di quelli benigni (1:10); il loro trattamento pone
problematiche peculiari legate in gran parte alla crescita residua. La
quasi totalità di questi tumori è rappresentata dal sarcoma di Ewing
e dall’osteosarcoma; il primo è di natura neuro-ectodermica, può
osservarsi già nel primo anno di vita e può dare metastasi anche a
distanza di 10 anni dal trattamento, il secondo è di origine osteogenica, non compare di regola prima degli 8-10 anni ed i risultati
Figura 4.
Tecnica di termoablazione con radiofrequenza per osteoma-osteoide
tibiale. A) Particolare geometria del terminale della sonda, in posizione
aperta. B) Immagine TC durante il posizionamento intraoperatorio della
sonda in un caso di Osteoma osteoide tibiale.
110
Box 8 - Chirurgia del plesso
brachiale
Si avvale di tecniche microchirurgiche; consiste nella neurolisi e
nella ricostruzione del plesso. La neurolisi consiste nella liberazione dei tronchi nervosi dalle aderenze e dal tessuto cicatriziale;
costituisce il primo tempo di qualsiasi intervento ricostruttivo sul
plesso; da solo è indicato solo nei casi in cui vi sia continuità
anatomica della struttura; negli altri casi viene effettuata la ricostruzione del plesso che difficilmente può avvenire mediante
sutura diretta. L’innesto nervoso autoplastico, effettuato utilizzando il nervo cutaneo mediale della sura spesso prelevato bilateralmente, permette di colmare il gap tra due monconi che,
già spontaneamente retratti, risultano ulteriormente accorciati a
causa dell’indispensabile regolarizzazione preparatoria alla sutura microchirurgica. Nei casi in cui le radici risultano avulse a
livello intraforaminale, è indicata la cosiddetta neurotizzazione,
che consiste nell’apporto nervoso esterno alla radice interrotta
attuato mediante la sutura tra il moncone distale e un’altra radice del plesso o nervo esterno al plesso.
possono essere considerati stabili dopo 5 anni. A differenza delle
forme maligne, i tumori benigni sono molto spesso asintomatici;
vengono talvolta rilevati in occasione di esami radiografici conseguenti a traumi; richiedono comunque sempre una diagnosi sicura
che talvolta è possibile solo con biopsia (Morrissy et al., 2006). Non
necessariamente devono essere trattati, ma devono sempre essere sorvegliati. Possono essere osteogenici, come l’osteocondroma,
l’osteoma osteoide e l’osteoblastoma, condrogenici, come il condroma, il condroblastoma e il fibroma condromixoide, fibroblastici
e fibroistiocitari, come il fibroma ossificante e il fibroma non ossificante. L’osteoma osteoide costituisce il 10% di tutti i tumori benigni
che colpiscono il bambino; l’età che predilige è compresa tra i 10 e i
20 anni; colpisce soprattutto le ossa lunghe; è molto raro nelle ossa
piatte, come il bacino, le coste e le scapole; non esiste nelle ossa
membranose, come cranio e clavicole; nelle localizzazioni vertebrali,
è la causa più frequente di scoliosi dolorosa del bambino; è di piccole dimensioni, generalmente inferiore ad 1 cm; se ha dimensioni
superiori ai 2 cm si tratta di un osteoblastoma; ha sintomatologia
caratteristica notturna, pulsante, sensibile all’aspirina; gli esami rivelatori principali sono la scintigrafia ossea e la TC.
La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività
Alcune lesioni hanno comportamento assimilabile a quello dei tumori benigni ma non possono essere considerate tali; sono le distrofie pseudotumorali, come la cisti solitaria, la cisti aneurismatica
e il granuloma a cellule di Langerhans. La cisti ossea solitaria è una
distrofia ossea pseudotumorale; predilige l’età compresa tra i 5 e i
15 anni e, nella quasi totalità dei casi, colpisce la metafisi prossimale dell’omero o del femore. È la causa più frequente di fratture
patologiche nel bambino, ove fratture incomplete che presentino già
segni di callo osseo riparativo possono porre problemi di diagnosi
differenziale con patologia tumorale maligna.
Il trattamento di ieri
Nel passato, la strategia terapeutica dei tumori maligni era fondata
su interventi chirurgici estremamente demolitivi, come le amputazioni. La difficoltà di stabilire preventivamente i limiti tra il sano ed il
tessuto patologico, tra l’altro, esponeva i pazienti al rischio di essere
sottoposti ad interventi eccessivamente demolitivi, dopo i quali non
esistevano possibilità ricostruttive ma soltanto protesiche esterne.
I rapporti sequenziali tra procedure diagnostiche, intervento e trattamento chemioterapico, non erano inoltre ben codificati in rigidi
protocolli; le aspettative di vita e la qualità della vita erano piuttosto
modeste. Per quanto riguarda la patologia tumorale benigna o pseudotumorale, la terapia era di regola rappresentata dall’intervento di
pulizia chirurgica eseguita a cielo aperto.
Il trattamento odierno
Oggi l’approccio alla patologia tumorale e pseudotumorale è decisamente cambiato; ai tumori maligni viene riservato un trattamento
più aggressivo ma meno invalidante; le amputazioni, infatti, sono
oggi divenute rare, grazie all’affidabilità del trattamento integrato,
chirurgico e chemioterapico, modulato sulla stadiazione del tumore.
L’intervento consiste di regola in resezioni estese che permettono di
asportare in blocco il tumore, avvolto nei tessuti molli che lo circondano, il cui strato più superficiale deve essere completamente sano
lungo l’intera superficie (“en bloc”). Il tratto scheletrico asportato
viene sostituito, nel corso dello stesso intervento, da protesi o da
innesti di osso omoplastico o, meglio, autoplastico con l’utilizzo della
tecnica del perone vascolarizzato (Jouve et al., 2001). Questa chirurgia, spesso risolutiva, riesce molto spesso a rispettare le cartilagini
di crescita e, di conseguenza, a garantire la crescita dell’arto, che
mantiene una morfologia ed una funzione più che accettabili; nei
casi in cui si verifichino successivi deficit della crescita in lunghezza
o deviazioni assiali, si può fare ricorso ad interventi correttivi mediante fissazione esterna.
Box 9 - La tecnica del perone
vascolarizzato
Consiste nel prelievo, generalmente dallo stesso soggetto, di una
porzione più o meno ampia di perone, completa del suo peduncolo vascolare, e nel trapianto di questo segmento peroneale in
sostituzione anatomica della zona resecata; il suo attecchimento
e la sua integrazione nel sito anatomico ricevente sono resi possibili grazie alle moderne tecniche microchirurgiche, che permettono l’innesto del peduncolo vascolare del perone sui vasi
sanguigni della zona ove è stato asportato il tumore, risparmiati
dalla demolizione chirurgica; il perone trapiantato rimane quindi
vitale in quanto rivascolarizzato.
Anche per quanto riguarda i tumori benigni e le lesioni pseudotumorali, vi è oggi un atteggiamento meno aggressivo rispetto al passato.
Esempio emblematico della trasformazione che ha subito l’approccio terapeutico dei giorni nostri alla patologia tumorale benigna è
quello riguardante l’osteoma osteoide. Da sempre trattato mediante
intervento chirurgico a cielo aperto, attualmente l’osteoma osteoide tende a non essere più asportato con metodologia tradizionale,
bensì mediante termoablazione con radiofrequenza TC guidata (Fig.
4); con questa moderna tecnica mini invasiva, la percentuale di successo è sovrapponibile a quella relativa al trattamento tradizionale,
anche se in alcune statistiche il successo raggiunge la quasi totalità
dei casi; il grosso vantaggio, oltre alla minima invasività di base,
deriva dal fatto che viene eliminata la necessità di innesti ossei o di
fissazione interna conseguente ai casi in cui l’accesso al nidus esige
grosse demolizioni ossee (Peyser et al., 2007).
Anche il trattamento dell’emangioma e del fibroma non ossificante
vengono oggi di regola affrontati con metodologia mini-invasiva: il
primo mediante l’embolizzazione arteriosa selettiva (Cottalorda et
al., 2001), il secondo, quando per dimensioni è necessario intervenire, mediante il curettage assistito dall’endoscopia transossea.
Anche per quanto riguarda le lesioni pseudotumorali, l’intervento
chirurgico di pulizia ed innesto osseo è divenuto infrequente; l’istiocitosi a cellule di Langerhans può essere affrontata con l’endoscopia
transossea (Sadile, 2007); la cisti ossea solitaria, a parte i casi in cui
sono necessari provvedimenti più invasivi per prevenire o trattare
significative riduzioni di resistenza meccanica, raramente richiede la
chirurgia a cielo aperto, ormai soppiantata dalle infiltrazioni corticosteroidee percutanee; le cisti aneurismatiche vengono oggi affrontate mediante l’embolizzazione arteriosa selettiva, utilizzata da sola
o in preparazione all’intervento, oppure mediante l’iniezione diretta
percutanea TC assistita di sostanze sclerotizzanti ed embolizzanti
radio-opache, capaci di provocare l’occlusione dei vasi sanguigni
afferenti alla cisti, dal suo versante interno (Bollini et al., 1996).
Indicazioni
Qualsiasi indicazione terapeutica deve conseguire ad una precisa
diagnosi che, nei casi non perfettamente chiariti dalla diagnostica
per immagini, richiede il supporto bioptico. Nelle lesioni presumibilmente benigne, un’agobiopsia tranquillizzante è ritenuta sufficiente
a giustificare un comportamento di astensione terapeutica e di controllo nel tempo; ma in quelle presumibilmente maligne o sospette,
Box 10 - Termoablazione con
radiofrequenza TC assistita
L’apparato consta di un generatore di radiofrequenza, di cavi di
connessione, di una sonda operatoria, avvolta da guaina isolante
atta a preservare i tessuti sani del tramite chirurgico, e di un
terminale speciale, la cui morfologia consente la concentrazione
dell’energia erogata sulla zona ove è compreso il nidus. L’intervento, necessariamente, viene effettuato in una sala radiologica
dotata di TC, allestita a sala operatoria. Con paziente in narcosi
o anestesia spinale, attraverso una pressoché puntiforme incisione cutanea e sotto controllo TC si infigge la sonda sino a
raggiungere la neoformazione, che deve entrare in contatto col
terminale; accertato il corretto posizionamento del terminale, si
procede all’erogazione della radiofrequenza, che realizza la termoablazione nel tempo di qualche minuto.
111
S. Becchetti, F. Becchetti
la biopsia deve essere eseguita a cielo aperto, con tecnica rispettosa della possibilità di dover accedere ad un’asportazione “en bloc”.
La positività dell’istologia indica l’accesso ai protocolli oncologici di
trattamento chemioterapico, che precede e segue alla chirurgia.
Conclusioni
Le connotazione odierne dell’ortopedia infantile si sono avvicinate
ancora di più a quelle che Nicolas Andry ha voluto dare al termine
“ortopedia”, da lui coniato dalle radici greche “orthos” e “paidos”
per descrivere l’arte di far crescere i bambini esenti da difetti dell’apparato osteo-articolare. La moderna chirurgia ortopedica infantile, avendo ottenuto le risorse adatte, in termini di tecnologia e tecnica chirurgica, può infatti provvedere ad un tutoraggio chirurgico che,
per la sua sempre minore invasività, può essere eseguito sempre
più precocemente con l’obiettivo di prevenire l’estensione o l’aggravamento della patologia e di ottenere il recupero della normalità
morfologica e funzionale di un apparato osteo-articolare in crescita.
Box di orientamento
Cosa occorre ricordare:
• Il piede piatto strutturale, se sintomatico o di grado elevato, dovrà comunque essere trattato chirurgicamente attorno ai 10-12 anni; questo però non
giustifica il completo abbandono terapeutico quando la deformità viene rilevata precocemente.
• Le differenze di lunghezza degli arti inferiori possono essere costanti nel tempo; qualche volta, se lievi, possono tendere ad uno spontaneo compenso; tuttavia, in altri casi sono evolutive. È quindi importante la consulenza o la presa in carico specialistica al fine dell’individuazione delle cause e
del conseguente programma terapeutico a breve e lungo termine.
• Le deviazioni assiali degli arti possono essere trattate efficacemente mediante interventi chirurgici a bassa invasività, soltanto se le cartilagini di
crescita del distretto anatomico sono ancora presenti ed attive. La correzione chirurgica effettuata dopo la fusione di queste cartilagini è possibile
ma richiede procedure chirurgiche invasive ed importanti.
• Non esiste, ad oggi, la prevenzione della scoliosi; ma soltanto una prevenzione dell’evoluzione che consiste nel trattamento stesso. Il trattamento
conservativo della scoliosi è rappresentato soltanto dalla sapiente integrazione tra rieducazione motoria, corsetti ortopedici ed apparecchi gessati.
Per nessuna delle altre pratiche, più o meno note, che oggi spesso si vedono proporre per la cura o la “prevenzione” della scoliosi è mai stata dimostrata una qualsiasi evidenza.
• Il trattamento chirurgico della scoliosi è molto invasivo ed espone a rischi importanti; occorre quindi cercare di contrastare l’evoluzione della scoliosi
adottando precocemente il trattamento conservativo.
• Di fronte ad un neonato che evidenzi una ridotta motricità di un arto superiore, soprattutto se quest’ultimo viene mantenuto in estensione e pronazione, occorre sospettare una paralisi ostetrica ed indirizzare il neonato ad un Centro specialistico competente.
• Salvo localizzazioni anatomiche o situazioni particolari, oggi non è più possibile accettare il trattamento dell’osteoma osteoide eseguito mediante
intervento chirurgico a cielo aperto.
Bibliografia
Blount WR, Clarke G. Control of bone growth by epiphyseal stapling. J Bone Joint
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Lavoro storico di cui si consiglia la lettura, in quanto pone le basi del futuro
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Si tratta di una pubblicazione di grande rilievo culturale e pratico, ricca di immagini, che illustra in modo sintetico ed efficace particolarmente la clinica e la
diagnostica differenziale. Se ne consiglia la lettura al pediatra.
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Il lavoro esplicita vantaggi e limiti delle varie tecniche di trattamento chirurgico
del piede piatto; può considerarsi ancora attuale.
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Pubblicazione di grande rilievo. Si ritiene di grande interesse per il pediatra,
in quanto prende in esame tutte le problematiche del bambino affetto da tumori
ossei maligni, comprese quelle psicologiche del paziente e della famiglia.
Justice CM, Miller NH, Marosy B, et al. Familial idiopathic scoliosis: evidence of
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Lavoro di grande interesse e attualità, la cui lettura è indubbiamente utile ad
individuare il nuovo approccio culturale alla scoliosi.
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La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività
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Splendida e attuale monografia di ortopedia infantile; tuttavia, dati i contenuti tecnici, se ne consiglia la lettura ai soli pediatri particolarmente interessati
all’ortopedia. È prevalentemente un’opera da consultazione.
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Norton RP, Patel D, Kurd MF, et al. The use of thoracoscopy in the management
of adolescent idiopathic scoliosis. Spine 2007;32:2777-85.
Pubblicazione capace di chiarire in modo semplice le prospettive della nuova
chirurgia del rachide.
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Lavoro di buon interesse per il pediatra; la sua lettura permette di comprendere
meglio il ruolo della moderna chirurgia ricostruttiva del plesso brachiale.
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Corrispondenza
prof. Stelvio Becchetti, U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia, Istituto “Giannina Gaslini”, largo Gaslini 5, 16148 Genova • Tel. +39 010 5636506 • Cell.
+39 348 4142552 • E-mail: [email protected]
113
Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 114-120
ORTOPEDIA
Le rachialgie in età pediatrica
Flavio Becchetti
U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia, Istituto “Giannina Gaslini”, Genova
Riassunto
L’Autore rileva l’importanza e la frequenza con cui le rachialgie compaiono in età di accrescimento; prende in esame le varie situazioni patologiche vertebrali, primitive e secondarie, che possono costituire causa di rachialgia, evidenziandone le singole caratteristiche. In particolare, vengono descritte le
rachialgie di origine traumatica, distrofica, displasica, malformativa, tumorale e pseudotumorale, infettiva, da malattie sistemiche e da alterazioni posturali.
Nell’articolo, viene poi richiamata all’attenzione del pediatra la necessità di tenere sempre ben presente che alcune di queste cause hanno origini ben lontane dalla colonna vertebrale; vengono quindi prese in esame tali cause extrarachidee, ricordando anche i pericoli connessi con una diagnosi di rachialgia
psicogena, la cui consistenza deve essere sempre rivalutata nel tempo.
Summary
The Author underlines the importance and the frequency of backache in childhood and makes a survey of the different vertebral pathological conditions,
both primary and secondary, that can cause backache illustrating their peculiar characteristics. In particular, the Author describes backache due to trauma,
dystrophy, dysplasia, malformations, tumor/pseudotumor, infection, systemic disease and postural alterations. Pediatricians are recommended to consider
that some of these causes of backache are not related to problems affecting the vertebral column. These causes are examined, as well as the risk related
to a diagnosis of psychogenic backache, which must always be reevaluated over time.
Sempre più frequentemente accade che il pediatra venga consultato
per un bambino o per un adolescente che soffre di “mal di schiena”.
Alcune inchieste eseguite in passato nelle scuole svizzere ed inglesi
già avevano dimostrato che il 25% dei soggetti interrogati soffriva
di lombalgie e che la minor frequenza di queste in età di crescita è reale prima dei 10 anni, ma si attenua molto dopo i 12 anni
(Balague et al., 1988). Molto recentemente, uno studio metanalitico
sulle rachialgie ha confermato questo dato, evidenziando, accanto
ad un’estrema variabilità nelle osservazioni riportate in letteratura,
la pressoché ugual incidenza e prevalenza del mal di schiena nella
tarda adolescenza e nell’età adulta (Jeffries et al., 2007).
In età adulta inoltrata, la presenza di un mal di schiena, a causa della sua elevatissima frequenza, generalmente non costituisce per il
paziente un evento preoccupante, mentre così non è nell’adolescente né a maggior ragione nel bambino, ove viene sempre percepita
come una situazione allarmante; tale situazione appare in parte ingiustificata, in quanto conseguenza dell’apprensione della famiglia,
ma in parte reale, data la maggior frequenza con cui una rachialgia
in età di crescita deriva da cause di una certa gravità (Bernstein,
2007). Di conseguenza, la presenza di una rachialgia persistente, in
un adolescente e, soprattutto, in un bambino deve costituire motivo
di particolare attenzione per il pediatra.
Le rachialgie del soggetto in crescita si differenziano da quelle dell’adulto per caratteristiche e cause; tale differenza appare verosimilmente legata alle peculiarità strutturali e funzionali della colonna
vertebrale in crescita.
Hensinger, nel 1980, in un fondamentale lavoro sulle rachialgie in
età di crescita, aveva correlato il 67% delle osservazioni a malattie
di sviluppo, individuate in scoliosi e cifosi, il 33% ad eventi posttraumatici e il 18% a pregresse infezioni o tumori; nel restante 15%
l’autore non era riuscito a trovare cause dimostrate o verosimili della
rachialgia. Oggi, nelle varie esperienze, le statistiche non sono so-
114
stanzialmente variate, anche se i progressi delle tecniche diagnostiche hanno permesso una miglior suddivisione nosologica.
Box 1 - Elementi di
differenziazione della colonna in
crescita rispetto a quella adulta
• Minori dimensioni
• Variazione temporale degli indici biomeccanici in funzione della maturazione, per evoluzione sia del rapporto tra altezza della vertebra e superficie dei piatti vertebrali, sia della lunghezza
della colonna in rapporto alla statura
• Maggior presenza della componente cartilaginea, che alla nascita è massimo, occupando il 57% del volume rachideo
• Maggior altezza (lo spessore totale dei dischi rappresenta il
25% della lunghezza dell’intero rachide), maggiore elasticità
e sporgenza del disco intervertebrale (sino all’età di 8 anni, il
nucleo polposo è quasi liquido)
• Strutture mio-legamentose a elevata elasticità e maggior articolarità intervertebrale
• Maggior elasticità del sistema rachideo, che dissipa meglio
l’energia per sollecitazioni provenienti dai 3 piani dello spazio
• Variazione dei rapporti tra complessi disco-vertebrali e midollo; la crescita totale del midollo spinale non supera i 30 cm,
contro i 40 cm del rachide cervico-dorso-lombare e i 60 cm
della statura da seduto
• Maggiori potenzialità di modellamento (deformità secondarie)
e rimodellamento (potenzialità riparative)
• Maggiore esposizione alle deformità secondarie
Le rachialgie in età pediatrica
Cause di rachialgia
Ancora oggi il 15% circa delle rachialgie non è individuabile; di conseguenza appare lecito ipotizzare la presenza di cause di rachialgie
ancora non dimostrabili, anche se una parte di queste è riconoscibile
in situazioni di competenza neuropsicologica.
Le cause note di rachialgia possono essere suddivise in cause rachidee e cause extrarachidee (Becchetti et al., 2002).
Le cause rachidee si riferiscono a eventi o situazioni anatomo-funzionali che, presenti a livello rachideo, generano direttamente la
rachialgia; possono essere primitive o secondarie; per secondarie
si intendono quelle lesioni che, pur effetto di cause primitive extrarachidee, assumono una propria autonomia e persistono anche
dopo l’eventuale scomparsa della lesione primitiva. Le cause extrarachidee vengono invece riferite a situazioni o a eventi topograficamente esterni al rachide, capaci di generare dolore o per via
riflessa o attraverso l’instaurazione di processi rachidei secondari di
entità irrilevante rispetto alla causa primaria, effimeri,ed incapaci di
autonomizzarsi (Tab. I).
Rachialgie da cause rachidee primitive
Traumi e lesioni post-traumatiche
Una frequente causa di rachialgia, soprattutto nella terza infanzia
può essere ricercata in un banale trauma che, talvolta non riferito
dal bambino ai genitori, emerge spesso solo da un’anamnesi molto
accurata; alcune fratture delle apofisi trasverse, alcuni piccoli distacchi a livello delle spinose o piccoli schiacciamenti dei corpi vertebrali, possono non essere evidenziati dalla radiologia tradizionale
e la persistenza di sintomatologia dopo un trauma vertebrale per
caduta “di schiena” o “in piedi”, deve indicare l’esecuzione di una
RM (Bollini et al., 1989).
Lo sport dà sicuramente un importante contributo alla patologia traumatica e microtraumatica dei giovani (Adirim et al., 2003); il sovraccarico sportivo è sicuramente la causa più frequente di mal di schiena
nei ragazzi sportivi, soprattutto negli adolescenti (Bensahel, 1998); è
un problema di grande attualità, correlato anche al fatto che, oggi,
i soggetti in crescita che praticano sport sono divenuti veri atleti e
che spesso le metodologie di preparazione sportiva e di allenamento
non tengono sufficientemente presenti le complesse problematiche
psicofisiche di un soggetto in crescita; le sollecitazioni meccaniche
reiterate, che spesso superano i limiti di tolleranza dell’individuo, determinano una “sindrome da over-use”, rilevabile da segni clinici ma
difficilmente documentabile con immagini. Il mal di schiena ricorre
prevalentemente in soggetti che praticano il calcio, la pallavolo e la
ginnastica artistica; nel calcio, la genesi del dolore sembra di tipo
prevalentemente muscolare e correlabile soprattutto con la retrazione
contratturale delle catene muscolari posteriori, tipica di questo sport;
per quanto riguarda invece la pallavolo e la ginnastica artistica, il mal
di schiena, che si localizza soprattutto a livello lombare, sembrerebbe
da attribuirsi alle eccessive sollecitazioni in iperlordosi lombare e ad
una situazione di ipertono e retrazione muscolare che tende a fissare
il bacino in antiversione. Nei giovani atleti lombalgici, soprattutto in
quelli praticanti sport ove il gesto sportivo espone a forzati e rapidi movimenti in iperlordosi, è di relativamente frequente riscontro la
presenza di un spondilolisi, mono o bilaterale, ossia di una frattura da
fatica della pars interpeduncolaris dell’arco vertebrale posteriore; tale
frattura conseguirebbe a microtraumi sull’istmo peduncolare di L5 o,
meno frequentemente, di L4 inferti in maniera violenta e reiterata dalle articolari caudali della vertebra soprastante, con meccanismo “a
taglia sigaro”. Talvolta, l’instabilità vertebrale che consegue alla spondilolisi, favorisce l’insorgenza di una olistesi, ossia dello scivolamento
anteriore di una vertebra sulla sottostante; anche la spondilolistesi, di
per sé può generare lombosciatalgia (Filipe, 2001).
Un’altra tipica lesione algogena, anche se relativamente rara, è l’ernia discale, la cui origine in età di crescita, diversamente dall’adulto, viene generalmente attribuita ad eventi traumatici o a intense e
durature sollecitazioni microtraumatiche (Ozgen et al., 2007); in età
di crescita, infatti, l’erniazione del disco avviene spesso attraverso
una breccia, che si apre tra osso e listerella marginale avulsa posteriormente per effetto di un trauma; si tratterebbe quindi di un vero
e proprio distacco condrale, che offre al nucleo polposo discale una
strada libera verso il canale vertebrale (Fig. 1).
Distrofie rachidee
La cosiddetta distrofia rachidea di crescita è senza dubbio una causa
molto frequente di mal di schiena in tarda terza infanzia e in adolescenza. Il termine di malattia di Scheuermann, denominata anche “cifosi dorsale giovanile”, è per alcuni autori sinonimo di cifosi distrofica;
altri ritengono che la malattia di Scheuermann, pur configurabile entro
l’ambito della distrofia rachidea di crescita con cui condivide sintomi
e quadro radiografico, mantenga una propria individualità nosologica,
caratterizzata dalla deformità a cuneo vertebrale anteriore di almeno
5° su almeno tre vertebre (Fig. 2). I quadri clinici e per immagini della
distrofia rachidea di crescita sono comunque vari. La diagnostica per
immagini evidenzia un’alterazione della regolarità dei piatti somatici
vertebrali, ernie intraspongiose di Schmorl, osteoporosi, riduzione dello
spessore dell’immagine discale soprattutto anteriormente, alterazioni
della listerella marginale anteriore e, clinicamente, cifosi e rachialgia
(Bracq et al., 1989). Colpisce più frequentemente il rachide dorsale,
con interessamento molto frequente di T8-T9. Queste localizzazioni
sono le più deformanti, mentre le più algogene sono quelle toracolombari, probabilmente a causa dell’alterazione della disposizione del
Tabella I.
Cause di rachialgia.
Cause rachidee
Cause extrarachidee
Primitive
Secondarie
–
Traumi e lesioni post-traumatiche
Malattie sistemiche
Malformazioni
Distrofie rachidee
Tumori metastatici
Tumori, lesioni pseudotumorali e infezioni
Displasie scheletriche costituzionali
Alterazioni posturali
Deformità degli arti inferiori
Malformazioni congenite
Alterazioni neuropsicologiche
Tumori e lesioni pseudotumorali
Infezioni
115
F. Becchetti
Figura 1.
Ernia discale. Schema della diversa morfologia e patogenesi tra età
adulta (A) ed età di crescita (B).
Figura 2.
Malattia di Scheuermann. A) Particolare di immagine radiografica; B)
Immagine RM. Ben evidente la deformazione vertebrale a cuneo anteriore delle vertebre apicali.
Figura 3.
Cifosi giunzionale toraco-lombare in adolescente. La cifosi tra la
dodicesima vertebra toracica e la prima lombare appare di grado
elevato.
segmento T11-L1 che, fisiologicamente rettilineo, appare deformato
in cifosi, la cosiddetta cifosi giunzionale (Fig. 3); gli autori sono infatti
concordi nel riconoscere la natura meccanica delle rachialgie nello
Scheuermann, essendo tra l’altro presenti solo in carico ed esacerbate
dall’esercizio fisico. La diagnosi differenziale si pone con la displasia
spondilo-epifisaria tardiva e, nelle forme localizzate a due o tre vertebre, con la spondiloliscite. L’iter diagnostico comprende la radiografia
tradizionale, la scintigrafia e la RM.
Nell’ambito delle distrofie rachidee algogene in età evolutiva, è
bene ricordare che anche alcune rare situazioni patologiche, come
l’osteoporosi idiopatica giovanile e la calcificazione del disco intervertebrale, possono essere causa di mal di schiena e, inoltre, che
questo può essere sostenuto da un’osteoporosi vertebrale in corso
di trattamento farmacologico protratto con steroidi, come accade
nei soggetti reumatici, oncologici o in trattamento dialitico.
Displasie scheletriche costituzionali
116
Nelle osteocondrodisplasie la presenza di rachialgie è correlata a
instabilità, stenosi o deformità, eventualmente presenti (Finidori, 2003). È opportuno segnalare che, tra le varie forme, come ad
esempio accade di regola nella displasia diastrofica, è frequente
un’aplasia o ipoplasia del dente dell’epistrofeo con conseguente instabilità cervicale, che potrebbe generare episodi di cervicalgia o di
torcicollo; di regola questi soggetti eseguono di routine indagini al
riguardo, tuttavia, in caso di cervicalgia presente in questi soggetti
o in soggetti con anamnesi famigliare positiva per tali malattie, è
prudente consigliare accertamenti atti alla scoperta o al controllo
di un’eventuale malformazione della cerniera occipito-atlo-assiale,
dato il rischio neurologico e vitale che talvolta consegue ad un’instabilità eventualmente presente. In altre forme, come nell’acondroplasia, è frequente la cifosi giunzionale D-L o la presenza di un canale
Le rachialgie in età pediatrica
stretto lombare per brevità dei peduncoli vertebrali. Nelle mucopolisaccaridosi, come nel Morquio, spesso il materiale d’accumulo si
localizza anche a livello cervicale determinando una grave stenosi
con conseguenze non solo algiche, ma anche deficitarie più o meno
gravi, sino alla tetraparesi.
Malformazioni congenite
Raramente le scoliosi e le cifosi congenite determinano rachialgia,
tuttavia i soggetti che ne sono affetti possono, anche se infrequentemente, presentare una sintomatologia lombalgica, con o senza
irradiazione sciatalgica, cruralgica o brachialgica. Nei casi in cui è
presente sintomatologia dolorosa, questa è spesso correlabile con
problematiche importanti di conflitto radicolare e/o compressione
midollare per stenosi foraminale o del canale vertebrale, anche se
in tali deformità talvolta il canale appare più ampio rispetto agli altri livelli. Inoltre, una rachialgia può essere causata da un midollo
ancorato per mancato riassorbimento del filum terminale, da una
diastematomielia, ossia dalla presenza di un setto osseo o fibroso che attraversa il canale vertebrale e, quindi, il midollo, da una
idromielia o siringomielia, ossia relativamente dalla presenza di una
dilatazione cistica del canale ependimale o da una cavità nel contesto midollare o da altre più rare situazioni; può esservi un coinvolgimento deficitario delle strutture nervose, spesso evidenziabile
anche per la presenza di un piede cavo. Talvolta una rachialgia viene
riferita ad una schisi degli archi vertebrali, ma questa evenienza,
del resto molto frequente, è di regola asintomatica e può essere
causa di sola dolorabilità locale; altre volte può essere correlabile
ad una spondilolistesi di tipo displasico, determinata da anomalie
di natura congenita dei peduncoli o delle apofisi articolari. Un dolore cervicale può essere causato da malformazioni complesse della
giunzione cervico-dorsale od anche dalla presenza di una semplice
mega-apofisi trasversa di C7; tali situazioni malformative possono
determinare anche una “sindrome dello sbocco toracico”.
Tumori e lesioni pseudotumorali
I tumori primitivi dello scheletro colpiscono il rachide infrequentemente; tuttavia occorre ricordare che la rachialgia persistente è
normalmente il primo sintomo di tumori, sia benigni, sia maligni
(Cahuzac, 1989). Nella grande maggioranza dei casi (80%) si tratta
di forme benigne o di lesioni pseudotumorali; tra queste, meritano
particolare attenzione l’osteoma osteoide, l’osteoblastoma, l’emangioma, la cisti aneurismatica e l’istiocitosi a cellule di Langerhans.
Può accadere che la diagnosi di istiocitosi, le cui localizzazioni vertebrali rappresentano il 20-30% delle localizzazioni ossee di questa malattia, venga fatta quando è già presente una vertebra plana,
ossia un cedimento strutturale delle vertebre infiltrate dal tessuto
patologico. L’osteoma osteoide presenta una tipica sintomatologia
dolorosa, rappresentata da un dolore prevalentemente notturno che
scompare con la somministrazione di acido acetilsalicilico; la sua localizzazione alla colonna vertebrale, di regola a livello dei peduncoli
o dell’arco neurale, pur decisamente più frequente rispetto a quella
dell’osteoblastoma, è limitata ad un 10% di casi; l’osteoblastoma,
per contro, pur essendo cinque volte meno frequente dell’osteoma
osteoide, si localizza al rachide nel 40% dei casi, spesso a livello
delle spinose. La localizzazione vertebrale della cisti aneurismatica
rappresenta il 20% di tutte le sue localizzazioni. Assieme al cranio,
la colonna vertebrale costituisce sede elettiva dell’emangioma; pur
infrequente, questo tumore benigno rappresenta una lesione temibile, infatti è spesso asintomatico ed espone al rischio di fratture
patologiche mieliche.
Per quanto riguarda i tumori maligni primitivi dello scheletro che
colpiscono la colonna vertebrale, l’osteosarcoma è eccezionale; il
sarcoma di Ewing è l’unico tumore che appare con una relativa frequenza a livello del rachide in età di crescita, anche se tale localizzazione non rappresenta che il 15% di tutte le localizzazioni ossee
del tumore.
Per contro, i tumori rachidei che originano dalle strutture medullo-radicolari e dai loro involucri sono più frequenti; determinano
costantemente rachialgia, talvolta accompagnata da scoliosi e
spesso da irradiazione; di regola non vi è correlazione tra il livello interessato dal tumore ed il livello ove la sintomatologia viene
riferita; talvolta la sintomatologia è limitata ad una rigidità della
colonna vertebrale o ad una perdita delle normali curve sagittali
rachidee. Anche se questi tumori sono di prevalente competenza
del neurochirurgo, la loro diagnosi viene spesso fatta dall’ortopedico, consultato per la presenza di una rachialgia, di un rachide
rigido, di una scoliosi o, talvolta, di una zoppia o di piede cavo. Tra
questi tumori, meritano menzione i neurinomi, i meningiomi ed alcuni altri. Il neurinoma vero, o swannoma, tumore biologicamente
benigno la cui localizzazione rachidea nel bambino rappresenta
solo il 2% di tutte le localizzazioni, deve essere considerato un
tumore radicolare, extra od intradurale; nel 10% circa dei casi, i
neurinomi determinano una compressione medullo-radicolare; il
neurofibroma viene osservato di regola nella malattia di Rechlinghausen, nell’ambito della quale può avere anche una trasformazione maligna. Il meningioma, anch’esso benigno, è più raro e determina compressioni molto raramente. I tumori midollari incidono
per il 30% circa tra tutti i tumori intraspinali. I gliomi astrocitari,
che sono i più frequenti, hanno un’incidenza pari a quasi il 60%
e nella maggioranza dei casi sono rappresentati da astrocitomi
benigni; nel bambino, infatti, i gliomi maligni sono rari; la loro morfologia è essenzialmente cistica e, questo spiega il motivo della
loro frequente grande estensione concomitante ad una sintomatologia di regola estremamente esigua. Gli ependimomi incidono
per meno del 30%; pongono il rischio di una disseminazione secondaria tardiva. Vanno ancora nominati i teratomi, i lipomi e le
cisti dermoidi. È importante tenere presente che, nell’ambito dei
tumori a derivazione nervosa o meningea, accanto alla valutazione
dell’aggressività biologica, va considerata la malignità topografica,
che può rendere difficilmente operabile un tumore benigno o consentire a questo di produrre danni invalidanti o vitali.
Infezioni
La discite si evidenzia con una sintomatologia lombalgica o lombosciatalgia; è noto come non in tutti i casi sia possibile evidenziare
un germe patogeno e come il processo sia spesso autolimitante
ed a guarigione spontanea. Così non è per le spondilodisciti, di cui
l’osteoartrite tubercolare, che oggi è meno rara rispetto al recente
passato, rappresenta l’evento più emblematico (Fig. 4); si tratta infatti di processi che tendono ad espandersi e che richiedono drastici
e puntuali provvedimenti terapeutici (Milon, 1995). Più raramente, la
localizzazione osteoartritica od osteitica è causata da germi comuni,
come nel caso dell’ascesso da stafilococco.
Rachialgie da cause rachidee secondarie
Malattie sistemiche
La comparsa di una rachialgia può essere il primo sintomo di una
leucemia linfatica acuta; la causa del dolore va ricercata nell’infiltrazione neoplastica vertebrale indotta dall’emopatia. La rachialgia può
precedere la positività delle immagini radiografiche e degli esami
117
F. Becchetti
di rachialgie, indotte e sostenute da una metastasi vertebrale, quando ancora la localizzazione primitiva è silente.
Figura 4.
Spondilodiscite tubercolare in bimba di 5 anni. A) Immagine RM in AP:
ben evidente l’ascesso ossifluente. B) Immagine RM in LL: ben evidenti
le lesioni su due livelli.
ematologici di base; di conseguenza, in presenza di una rachialgia
indiagnosticata, può essere indicato ricorrere al puntato midollare.
Inoltre, episodi di mal di schiena possono evocare malattie di interesse reumatologico; alcune di queste, infatti, possono compromettere i tessuti scheletrici rachidei e determinare rachialgie più o
meno importanti (Buoncompagni et al., 1999). Pur nella complessità nosologica e classificativa delle malattie reumatologiche è utile
ricordare che, nell’artrite idiopatica giovanile, l’interessamento del
rachide cervicale è raro rispetto alle forme dell’adulto e che tuttavia questa localizzazione deve costituire un evento di grande attenzione, in quanto non solo può rappresentare un segno di esordio della malattia ma può anche prevedere complicanze di natura
neurologica; ricordare che le rachialgie sono frequenti nel campo
delle spondiloartropatie giovanili, denominate anche spondiloartriti sieronegative per assenza del fattore reumatoide; che queste si
accompagnano di regola a positività dell’antigene HLA-B27 (Human
Leucocyte Antigen B27); che la spondilite difficilmente si presenta
prima dei 16 anni, ma che molti degli adulti affetti da spondilite anchilosante hanno presentato nella tarda infanzia o nell’adolescenza
un’oligoartrite periferica accompagnata dalla presenza dell’antigene
di istocompatibilità HLA-B27. Nell’interessamento vertebrale delle
spondiloartropatie giovanili, il dolore è classicamente ad esordio
subdolo, persistente, tende ad esacerbarsi col riposo notturno, è accompagnato da rigidità mattutina e si attenua con l’esercizio fisico;
tuttavia nel bambino frequentemente la sintomatologia si attenua
col riposo, non migliora col movimento e tende ad aumentare durante il giorno; inizialmente si accompagna a dolore sacro-iliaco, che
la precede; nelle prime fasi, la rachialgia è di tipo lombo-sacrale, in
seguito si estende al dorso e solo in ultimo al tratto cervicale; vi è
la tendenza ad una progressiva rigidità ed all’ipercifosi toracica ed
infine alla cifosi cervico-toracica.
Tumori metastatici
Tra i tumori rachidei metastatici che in età di crescita possono colpire la colonna vertebrale, il più frequente è senza alcun dubbio il
neuroblastoma; questo tumore, a partenza extrarachidea, infiltra
spesso il rachide per contiguità; frequentemente, la presenza della
lesione primitiva extrarachidea viene rivelata proprio dalla presenza
118
Alterazioni posturali
Il mal di schiena può avere origini posturali; la sua relativa frequenza
negli scolari e negli studenti poco avvezzi ad un buon igiene posturale ne è verosimile dimostrazione (Geldhof et al., 2007).
Com’è noto, la postura è controllata dal sistema nervoso centrale,
che si avvale di numerose complesse integrazioni neurosensoriali
provenienti dagli innumerevoli circuiti di feedback posturale; pur
non estranei al rachide, tali circuiti traggono informazioni da strutture prevalentemente extra-rachidee, come l’occhio, l’orecchio, gli
arti per mezzo dei fusi neuromuscolari, degli organi tendinei, della
cute ed altro. Di conseguenza, le alterazioni posturali che generano
una rachialgia hanno in massima parte origine extra-rachidea, ma
la vera causa del dolore risiede nel mal-allineamento del rachide,
mantenuto in criticità per tutto il perdurare della postura patologica;
la forza di gravità determina sullo scheletro in ortostasi sollecitazioni inadeguate all’anatomia funzionale delle strutture e condiziona
l’insorgenza del dolore. Le rachialgie posturali si localizzano prevalentemente alla colonna lombare, ove può essere presente un atteggiamento iperlordotico o ipolordotico; sono particolarmente ribelli se
sono sostenute da una cifosi giunzionale al passaggio toraco-lombare; si esacerbano con la stazione eretta prolungata e tendono a
regredire per effetto di un corretto igiene motorio o, meglio, di una
rieducazione motoria.
Rachialgie da cause extrarachidee
Malattie sistemiche
Una causa di mal di schiena può essere individuata, anche se più
raramente rispetto alle articolazioni dello scheletro appendicolare, nella cosiddetta artrite reattiva, che con qualche riserva è configurabile tra le cause extrarachidee di rachialgie, anche se per
alcuni autori deve considerarsi compresa tra le spondiloartropatie
giovanili; consegue, a 3-4 settimane di distanza, ad un evento
infettivo sviluppato in una sede lontana dalla localizzazione articolare, a livello della quale non è dimostrabile alcun agente infettivo; in età pediatrica consegue di regola a localizzazioni faringee
o gastro-intestinali; si accompagna talvolta a sintomi sistemici;
parte degli autori mantiene l’artrite reattiva separata dalle artriti
post-infettive.
Malformazioni
Una cervicobrachialgia, presente soprattutto in epoca prepubere o
in adolescenza, può essere sintomo di una sindrome dello sbocco
toracico, prima conosciuta col nome di sindrome della fossetta sopraclaveare; la sintomatologia deriva dalle turbe vascolo-nervose di
tipo irritativo o eccezionalmente deficitario indotte dal conflitto tra le
strutture vascolari e nervose del collo e uno scaleno accessorio, una
costa cervicale o altre strutture compressive.
In caso di rachialgie cervicali, in particolare quando siano accompagnate da torcicollo o/e da brachialgia è necessario anche escludere,
con RM, la cosiddetta malformazione di Chiari I, ossia la presenza
di una erniazione delle strutture encefaliche attraverso il foramen
magnum (Fig. 5).
Tumori, lesioni pseudotumorali e infezioni
Una rachialgia può derivare da tumori, da situazioni similtumorali e
da infezioni che colpiscono lo scheletro appendicolare; il meccanismo
Le rachialgie in età pediatrica
tumore toracico o anche di un ascesso latero-cervicale. Nella ricerca delle cause di una lombalgia, soprattutto se accompagnata
a sciatalgia, occorre anche ricordare la possibilità che questa derivi da un’appendicopatia o da un ascesso del cavo del Douglas
nonché dall’esistenza di una sacro-ileite, di una psoite o di altre
analoghe situazioni.
Deformità degli arti inferiori
Alcune rachialgie possono originare da deformità posturali o strutturali degli arti inferiori; si tratta sostanzialmente di deformità che
non coinvolgono la colonna vertebrale e che sono sostenute da
modificazioni funzionali o/e strutturali, sia osteo-articolari, sia muscolo-toniche o di trofismo, sia iperplasiche tendineo-muscolari; in
queste situazioni, il mal di schiena viene prodotto per una verosimile
mal funzione rachidea, soprattutto del segmento lombare; ne risulta un’alterazione della regolarità del ritmo lombo-pelvico durante la
deambulazione e un sovraccarico per le articolazioni sacro-iliache;
questo meccanismo può anche essere invocato per giustificare la
presenza di lombalgie in caso di differenza in lunghezza degli arti
inferiori (Filipe, 2001; Metaizeau, 2001).
Alterazioni neuropsicologiche
Nei casi in cui non è stato possibile individuare la causa della rachialgia, viene spesso ipotizzata una causa psicogena; spesso in
questi casi viene riferita gelosia verso il fratello, un cattivo rendimento scolastico con frequenti tentativi di non andare a scuola, la
separazione dei genitori ed altre situazioni critiche. In molti casi la
diagnosi si rivela corretta e la psicoterapia può dimostrarsi risolutiva. Tuttavia, è indispensabile che diagnosi in tal senso vengano confermate mediante un monitoraggio clinico e strumentale accurato,
dato che, in un discreto numero di casi può rendersi evidente nel
tempo una causa organica anche molto grave della rachialgia, prima
non diagnosticabile (Filipe, 2001).
Conclusioni
Figura 5.
Malformazione di Arnold-Chiari associata a siringomielia. Quadro RM:
in alto evidente l’erniazione delle tonsille cerebellari, in basso la cavità
siringomielica.
d’azione è indiretto, è infatti frequentemente legato ad irradiazione o ad alterazioni funzionali rachidee indotte da atteggiamenti
antalgici. Inoltre, una lombalgia può essere il sintomo rivelatore di
un tumore o di altre alterazioni delle strutture addominali; infatti, nelle femmine, è frequente una lombalgia in occasione di cisti
ovarica; inoltre una rachialgia del rachide cervico-dorsale, con o
senza irradiazione brachialgica, può derivare dalla presenza di un
Il mal di schiena in età evolutiva costituisce un complesso capitolo dell’ortopedia pediatrica e un importante esempio della valenza
multidisciplinare, che la preparazione dell’ortopedico pediatra deve
avere; ma costituisce anche una delle innumerevoli situazioni che il
pediatra deve sempre guardare con sospetto, dato che una rachialgia può rappresentare un banale ed effimero problema ma anche
il primo segno di una grave malattie in divenire; al pediatra è affidata, infatti, la responsabilità delle prime scelte, che spaziano tra
provvedimenti di vigile attesa emergenti da giudizi tranquillizzanti e
decisioni di accesso ad un secondo livello di accertamenti; proprio
per questo ricade in prima istanza sul pediatra la responsabilità morale e anche medico-legale della diagnosi precoce di una patologia
grave, individuata personalmente o con l’aiuto di altre competenze
specialistiche, ma anche la responsabilità amministrativa di un accesso razionale alle innumerevoli risorse diagnostiche, spesso molto
costose, oggi disponibili.
Il pediatra, quindi, di fronte ad una rachialgia, soprattutto se persistente, deve valutare attentamente le indicazioni diagnostiche ed anche garantire un prudente monitoraggio clinico col quale verificare la scomparsa della sintomatologia; tale monitoraggio può essere condiviso con
lo specialista ortopedico, col quale deve esservi un reciproco scambio
di informazioni cliniche e di dati diagnostici strumentali.
119
F. Becchetti
Box di orientamento
Cosa occorre ricordare
• La maggior parte delle rachialgie originano da cause banali, ma la loro persistenza richiede una valutazione specialistica ortopedica pediatrica.
• Una spontanea e non altrimenti motivata sensibile riduzione delle abitudini motorie di un soggetto sportivo, una particolare attenzione ad evitare
movimenti forzati ed improvvisi, una perdita di articolarità della colonna ed un controllo posturale visibilmente volontario hanno valore di rachialgia,
anche se questa non viene dichiarata.
• La presenza di una deviazione scoliotica primitiva non giustifica sintomatologia dolorosa; un atteggiamento scoliotico o un’alterazione delle curvature
fisiologiche sagittali accompagnate da rachialgie devono indurre il sospetto di patologia organica.
• La diagnosi di atteggiamento scoliotico va sempre confermata almeno una volta dopo 6 mesi.
• La presenza di una scoliosi accompagnata da piede cavo o una scoliosi toracica sinistra convessa esigono accertamenti di secondo livello.
• Una differenza in lunghezza degli arti inferiori può essere causa di lombalgie.
• In caso di lombalgie, soprattutto se in femmina, un’ETG delle fosse iliache deve completare il programma diagnostico.
• In caso di negatività di esami ematologici e di radiografie occorre ripeterne l’esecuzione se la sintomatologia persiste.
• La diagnosi di rachialgia psicogena va sempre formulata con grande prudenza e soltanto dopo accertamenti diagnostici accuratissimi eseguiti presso
un centro ospedaliero; è d’obbligo comunque effettuare rivalutazioni nel tempo alla ricerca di eventuali lesioni organiche divenute diagnosticabili.
Bibliografia
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2003;33:201-7.
Becchetti S, Becchetti F. Le rachialgie in età evolutiva. In: Atti Corso di Pediatria
ortopedica. Lecce: Manni 2002: 143-54.
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Becchetti F, Tornago S, Becchetti S, Franchin F. Rachialgie da sport in età evolutiva: i pericoli di una diagnosi affrettata. La Ginnastica Medica 2004;52:33-6.
Bensahel H. L’enfant et la pratique sportive. Paris: Masson, 1998.
**
Il libro tratta in modo semplice ed esaustivo tutte le problematiche ortopediche
legate alla pratica sportiva in età evolutiva. Vengono prese in considerazione, in
chiave moderna ed ancora attuale, le varie funzioni ed i vari organi scheletrici,
per quanto riguarda sia le alterazioni microtraumatiche da eccesso di sollecitazione, sia le lesioni macro traumatiche. Vengono poi illustrati vantaggi e limiti dei
singoli sport ed i loro rapporti con patologie non ortopediche. Se ne consiglia
la lettura sia ai pediatri, sia agli ortopedici, sia ai medici dello sport; da questa
emergono importanti informazioni anche di carattere pratico.
Bernstein RM, Cozen H. Evaluation of back pain in children and adolescent. Am
Fam Physician 2007;76:1669-76.
Bollini G, Lena G, Rambaud M, et al. Fracture du rachis de l’enfant et croissance.
In: Bollini G, ed. Chirurgie & orthopédie du rachis. Enfant, Adolescent. Montpellier: Sauramps Medical 1989: 179-89.
Bracq H, Chapuis M. Dystrophye rachidienne de croissance. Investigation et histoire naturelle. In: Bollini G, ed. Chirurgie & orthopédie du rachis. Enfant, Adolescent. Montpellier: Sauramps Medical 1989: 151-6.
Buoncompagni A, Gattorno M, Picco P. Reumatologia pediatrica. Milano: McGraw-Hill 1999.
Monografia di grande valore, completa e di notevole semplicità esplicativa.
Cahuzac J-P, Clement J-L. Diagnostic des tumeurs osseuses du rachis. In: Bollini
G, ed. Chirurgie & orthopédie du rachis. Enfant, Adolescent. Montpellier: Sauramps Medical 1989: 215-29.
Filipe G. Lombalgie de l’enfant. In: Seringe R, ed. Problèmes courants d’orthopédie
infantile. Rueil-Malmaison: Doin 2001: 47-52.
Finidori G, Maroteaux P, Le Merrer M, et al. Pathologie épiphysaire dans les
chondrodysplasies et dans les mucopolysaccharidoses. Aspects diagnostiques et thérapeutiques chez l’enfant. In: Finidori G, Glorion Ch, Langlais J,
eds. La pathologie épiphysaire de l’enfant. Montpellier: Sauramps Medical
2003: 143-80.
*
Il capitolo, come del resto tutta la monografia che l’accoglie, merita la lettura,
per la sua completezza, chiarezza espositiva e modernità.
Geldhof E, De Clercq D, De Bourdeaudhuij I, Cardon G. Classroom postures of
8-12 year old children. Ergonomics 2007;50:1571-81.
Hensinger RN. Back pain in children. In: Braidford DS, Hensinger MD, eds. The
pediatric spine. New York: Thieme 1985: 63-7.
Jeffries LJ, Milanese SF, Grimmer-Somers KA. Epidemiology of adolescent spinal
pain: a systematic overview of the research literature. Spine 2007;32:2630-7.
**
La pubblicazione è riferita a uno studio metanalitico molto accurato; può
ritenersi il riferimento epidemiologico più attuale del mal di schiena in età di
crescita.
Metaizeau J-P. Diagnostic d’une boiterie de l’enfant. In: Seringe R, ed. Problèmes
courants d’orthopédie infantile. Roueil-Malmaison: Doin 2001: 13-21.
Milon E, Bosson N, Carlioz H, Pous J-G. Tuberculose osseuse. In: Morin C, Herbaux B, eds. Les infections osteo-articulaires de l’enfant. Montpellier: Sauramps
Medical 1995: 203-15.
Ozgen S, Konya D, Toktas OZ, Dagcinar A, Ozek MM. Lumbar disc herniation in
adolescence.Pediatr Neurosurg 2007;43:77-81.
*
Corrispondenza
dott. Flavio Becchetti, U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia. Istituto “Giannina Gaslini”, largo Gaslini 5, 16148 Genova • Tel. +39 010 5636506 • Cell.
+39 349 0899392 • E-mail: [email protected]
120
Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 121-132
PEDIATRIA DELLO SVILUPPO E DEL COMPORTAMENTO
Salute mentale infantile e psicopatologia
dello sviluppo
Alfonso Romano, Marina Macca, Ennio Del Giudice
Dipartimento di Pediatria, Settore di Neuropsichiatria Infantile, Università “Federico II”, Napoli
Riassunto
La salute mentale dei bambini e degli adolescenti costituisce un’importante priorità nella cura della salute generale. Numerosi dati della letteratura
anglosassone e in parte anche italiana sottolineano che il ruolo del pediatra sta progressivamente cambiando. Negli Stati Uniti, in particolare, il pediatra
è chiamato per varie ragioni a svolgere anche un ruolo nell’identificazione, nella diagnosi e nella terapia del disturbo comportamentale e psichico. Dati
pubblicati indicano che, anche in Italia, al pediatra viene richiesto con frequenza di intervenire in problematiche analoghe. L’aumento della diagnosi di
patologie complesse, come l’autismo e il ritardo mentale e la depressione in età evolutiva, e di patologie non così gravi, ma ugualmente cariche di conseguenza sulla vita del bambino e della sua famiglia, come i disturbi del linguaggio, i disturbi di apprendimento, la dislessia, i deficit di attenzione con e
senza iperattività, obbligano il pediatra a conoscere e trattare patologie generalmente poco usuali per lui e nelle quali non sempre la formazione ricevuta è
sufficiente. La sorveglianza di tali patologie, la precoce identificazione, l’individuazione di problematiche all’interno della coppia genitoriale e della famiglia,
i possibili interventi terapeutici, producono una riduzione dello stress e hanno svariate ricadute. La tutela della salute mentale del bambino può influenzare
la vita psichica del futuro adulto. È difficile valutare quanto un intervento precoce sul comportamento o sui sintomi psichiatrici possa ridurre la patologia
dell’adulto, tuttavia la riduzione dei sintomi e dei disturbi psichiatrici del bambino produce in genere un immediato miglioramento della sua autostima, dei
risultati accademici, delle relazioni sociali. Quando un pediatra riesce, oltre ai vari compiti che gli spettano, anche a tutelare la salute mentale, lo sviluppo
comportamentale cognitivo e affettivo dei bambini che si affidano a lui, interpreta pienamente il ruolo di garante della salute in età pediatrica.
Summary
The mental health of children and adolescents constitutes an important priority in general health care. Numerous data in the American and English literature
as well as some Italian studies stress that the role of the paediatrician is progressively changing. In the United States, in particular, paediatricians are asked
(for numerous reasons) to play a role in the identification, diagnosis, and therapy of behavioural and psychiatric disturbances. The published data indicate
that this is true in Italy as well.
Paediatricians are required to recognize and treat several pathologies such as autism, mental retardation, and depression in childhood as well as less
severe (but nevertheless consequential for the patient and parents) disorders such as language disturbances, learning disorders, dyslexia, and attention
deficit disorder with or without hyperactivity. Often, pediatricians have not received adequate training for the treatment of these diseases.
The early identification of the pathology, the problems within the parental couple and the family in general, and possible therapeutic approached can lead
to an immediate reduction of stress and, over time, have dramatic beneficial effects. The level of mental health care in childhood can directly influence
an individual’s psychiatric wellbeing as an adult. It’s difficult to evaluate how an early intervention in a childhood behavioural or psychiatric problem can
reduce the pathology in adulthood. In any case, the decrease in symptoms and psychiatric disturbances in the children generally produces an immediate
improvement in self-esteem, academic performance, and social relationships. If, apart from the various responsibilities that await them, paediatricians are
able to care for the mental health of the children under their care, they completely fulfill their role as guarantors of the child’s health.
Introduzione
Il Consiglio Direttivo dell’Associazione Culturale Pediatri (ACP), in un
editoriale pubblicato nel 2007 sui Quaderni ACP (Consiglio Direttivo
ACP, 2007), enuncia le “Quattro priorità della associazione”. Le priorità sono state identificate alla luce della letteratura pediatrica recente e del “Rapporto sulla salute di bambini ed adolescenti in Italia”
(www.csbonlus.org/inc/ALLEGATI/Rapporto_salute-2005.pdf).
Tra le priorità viene identificata “La salute mentale nei bambini e negli adolescenti”. Nel Rapporto sulla salute, emerge che una percentuale variabile dal 2,5% al 10-30% della popolazione compresa tra i
6 e i 18 anni soffre di un disturbo psichiatrico. Al di là delle variabilità statistiche, i pediatri sono sempre più frequentemente impegnati
nell’identificazione e nel trattamento di patologie comportamentali e
psichiatriche. Negli Stati Uniti, sin dai primi anni ’70, i cambiamenti
nella cura e nella prevenzione delle malattie acute hanno provocato
una ridefinizione del fare pediatria ambulatoriale. Il pediatra ha iniziato ad occuparsi della salute mentale e dello sviluppo del bambino
e a promuoverne, insieme con le famiglie, la realizzazione di una
piena e produttiva vita da adulto.
In uno studio di pediatria di base, i disturbi comportamentali vengono diagnosticati in un bambino su cinque e rappresentano la causa
principale di una successiva visita specialistica. L’identificazione e il
trattamento di questi disturbi sono il vero nuovo impegno della pratica pediatrica in paesi con un benessere sanitario e socioeconomico
consolidato (Guevara et al., 2006).
È verosimile che un interesse così elevato sia stato favorito, negli
Stati Uniti, dalla carenza di efficaci e diffusi servizi territoriali di psichiatria dell’età evolutiva. La letteratura americana sottolinea che,
se da un lato la identificazione di bambini affetti da disagio psichico
è fortemente aumentata, la possibilità di invio ad un intervento di
secondo livello è particolarmente complicata per ragioni logisticotopografiche (le grandi distanze tra le cittadine periferiche ed i centri
universitari delle grandi città) e per le lunghe liste di attesa. Infine,
proprio i bambini e gli adolescenti appartenenti a famiglie a rischio
121
A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice
Tabella I.
Problemi frequenti diagnosticati dai pediatri.
Età prescolare
Disturbi del linguaggio (5,8%)
Ritardi dello sviluppo (3,2%)
Tra i 6 e i 17 anni
Disturbi di apprendimento (11,5%)
Deficit dell’attenzione associato o meno ad iperattività (8-10%)
Disturbi comportamentali e della condotta (5-7%)
Sindromi d’ansia o depressione (2-4%)
Abuso di alcool o droghe (19-22%)
Diagnosi di autismo: 1 su 200 bambini*
La aumentata frequenza può dipendere da un miglioramento delle capacità diagnostiche dei pediatri, da una modifica dei criteri diagnostici, da una reale aumento della patologia o dalla combinazione di tutti questi fattori.
*
sono quelli che più frequentemente disertano il trattamento dopo il
primo colloquio (Blanchard et al., 2007).
Lo scopo di questa revisione della letteratura è offrire un aggiornamento sulle patologie neuropsichiatriche che con maggiore frequenza sono motivo di consultazione per il pediatra di famiglia e per
il pediatra ospedaliero.
quenza più alta di disturbi emozionali, comportamentali e dello sviluppo: più del 40% ritenevano che i loro figli avessero disturbi di
apprendimento e nel 36% dei casi temevano un disturbo d’ansia o
una depressione. Ne deriva che i pediatri possono svolgere un ruolo
decisivo nell’aiutare i genitori a riconoscere l’insorgenza nei loro figli
di disturbi comportamentali e nel verificarne la reale entità.
Metodologia della ricerca
Il ruolo del pediatra
Le informazioni riportate in questo articolo derivano da dati desunti
da articoli scientifici comparsi dal 2005 al 2007. È stato utilizzato
PubMed per individuare gli articoli più idonei pubblicati in lingua
inglese. I criteri che hanno guidato la selezione sono stati la novità,
la revisione ampia dei disturbi comportamentali o psichiatrici in età
pediatrica, la ricaduta nella pratica pediatrica quotidiana. Abbiamo
scelto review, articoli originali, studi epidemiologici. Le parole chiave
utilizzate sono state: attachment, autism, gene, genomic disorder,
behavioral disorders, childhood and adolescent depression, Speech
and Language Difficulties, Developmental dyslexia, Language Impairment, Attention-deficit/hyperactivity disorder, child and adolescent psychiatric disorders, behavioral health.
Negli Stati Uniti, negli ultimi 30 anni, l’identificazione dei disturbi
del comportamento in età pediatrica e la tutela della salute mentale
sono diventati un obbiettivo prioritario. Tuttavia, la identificazione di
questi disturbi è complessa. I pediatri ne riconoscono solo una minima parte (tra il 4% e il 17% dei bambini e degli adolescenti affetti). I
pediatri che adoperano scale standardizzate o il DSM-IV, sono capaci di identificare un numero maggiore di patologie comportamentali
(Leventhal et al., 2006). Tuttavia, i pediatri americani ammettono di
diagnosticare meglio patologie come il disturbo da deficit dell’attenzione (con o senza iperattività) (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder [ADHD]), perché hanno ricevuto corsi di aggiornamento mirati e
dispongono di scale specifiche, mentre solo recentemente si stanno
confrontando con patologie come l’ansia e la depressione.
L’importanza di una diagnosi precoce dei disturbi comportamentali
e psichiatrici fu sottolineata già quasi 10 anni fa, da Cassidy et al.
(1998) che dimostrava come una distimia cronica di basso grado,
durante la fanciullezza, era un verosimile fattore di rischio per lo
sviluppo di una depressione maggiore in età adulta. Recentemente
Costello et al. (2006) hanno dimostrato che, in una coorte di fanciulli
La dimensione del problema
Diversi studi epidemiologici confermano una prevalenza di psicopatologia in età pediatrica compresa tra il 12% e il 27%.
Le frequenze delle problematiche comportamentali negli Stati Uniti
non si sono modificate nei tre anni trascorsi dalla “2003 National
Survey of Children’s Health” (Blanchard et al., 2006) (Tabb. I e II).
Uno studio longitudinale (Costello et al., 2006) ha confermato che
per coorti di età comprese tra 9 e 16 anni, su periodo di osservazione di tre mesi, la prevalenza di qualunque disturbo del comportamento era intorno al 13%.
Il 6,8% di questi bambini presentava un disturbo grave. In questo
studio, l’età prescolare si conferma come un’epoca della vita cruciale per la salute mentale. Molti disturbi, che daranno segno di sé,
nelle età successive hanno la loro genesi nei primi anni di vita. La
prevalenza dei disturbi comportamentali in questa età viene stimata
tra il 7% e il 24% (Tab. III).
Rispetto a questi dati, i genitori denunciavano al pediatra, una fre-
122
Tabella II.
Disturbi più frequenti per età.
< 12 anni
> 12 anni
ADHD
Depressione
Disturbi da ansia da separazione
Fobia sociale
Disturbo oppositivo provocatorio
Ansia generalizzata
Enuresi
Abuso di droghe
Encopresi
Disturbi della condotta
Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo
Tabella III.
Categorie diagnostiche frequenti in epoca prescolare.
Disturbi della relazione genitori figlio
Disturbi dell’attaccamento
Disturbi della regolazione (sonno, alimentazione)
Disturbi di apprendimento*
Depressione*
Specie in epoca prescolare, disturbi di apprendimento o depressione appaiono sfumati e difficili da identificare.
a capire le continue modifiche del comportamento dei propri figli, a
valorizzare gli aspetti positivi, a cogliere eventuali segnali di allarme
di un disturbato rapporto pedagogico (Tab. IV).
L’approccio al problema coinvolge, oltre al pediatra e ai familiari,
gli operatori sociali, gli psicologi e gli psichiatri. Il pediatra spiega
l’importanza di un approccio non punitivo per i comportamenti sbagliati e rafforza nei genitori l’autostima e la consapevolezza di poter
diventare buoni educatori.
*
seguiti fino all’età adulta, i tre quarti delle diagnosi di disturbo psichiatrico poste a 26 anni erano già state formulate a 18 anni e la
metà, addirittura, a 15 anni.
I pediatri americani hanno a disposizione numerosi test di screening
di facile somministrazione, accanto a test più complessi e mirati (cfr.
Weitzmann e Leventhal 2006). In Italia, non sono disponibili test di
screening standardizzati, di pronto utilizzo. Il bilancio di salute può
divenire un insostituibile momento, durante il quale ottenere informazioni sulle preoccupazioni dei genitori, sul rendimento scolastico
del bambino e sul suo comportamento. Scale diagnostiche più mirate saranno applicate a bambini problematici. Una volta individuato
un bambino a rischio o patologico, bisogna organizzare un intervento terapeutico. In Italia generalmente, il pediatra demanda questo
compito alle strutture territoriali di neuropsichiatria infantile.
Negli Stati Uniti, alcuni pediatri (Kelleher et al., 2006) hanno sperimentato nuovi modelli di intervento. Il pediatra in prima persona,
coadiuvato da uno psicologo, da un assistente sociale e da un pedagogista, insieme offrono un primo intervento terapeutico, sia farmacologico che non farmacologico.
La supervisione e la collaborazione con uno psichiatra infantile completano l’intervento, riducendo la necessità di spostamenti versoi i
grossi centri di riferimento.
La prevenzione resta insostituibile.
Ad esempio, nei bambini in età prescolare, un comportamento fortemente aggressivo e oppositivo precoce, è molto problematico da
gestire per i genitori, ed è considerato precursore di problemi comportamentali molto più gravi nelle età successive, spesso con un
alto costo sociale (delinquenza, uso di droghe, ecc.). Nerista Bauer
(Bauer et al., 2006) presenta un possibile modello di intervento terapeutico per i comportamenti oppositivi ad esordio precoce (tra i 2
e gli 8 anni) che coinvolge tutto il nucleo familiare. Con l’obiettivo di
creare una “genitorialità consapevole”, i genitori vengono addestrati
Tabella IV.
I segnali di allarme.
Le patologie frequenti
La depressione
Nella letteratura americana, fino al 15% di bambini e adolescenti ha
un qualche sintomo di depressione. Il 5% di questi, con età compresa tra 9 e 17 anni, soddisfa i criteri per una diagnosi di depressione
maggiore. Dopo i 14 anni, i disturbi depressivi sono due volte più
frequenti nel sesso femminile rispetto a quello maschile. La depressione in età adolescenziale ha un decorso cronico, che alterna risoluzioni a ricadute, con un rischio da due a quattro volte maggiore
rispetto ad una popolazione campione di sviluppare una depressione
persistente in età adulta. Bhatia et al. (2007) in un recente articolo,
rivedono i caratteri della depressione in età prepubere e nella adolescenza, riconoscono alcuni fattori di rischio sia biomedici che sociali
(Tab. V) e la presenza di una comorbilità almeno nei due terzi dei
ragazzi affetti (Tab. VI).
Di fronte al sospetto clinico-anamnestico, l’uso di scale o interviste
di screening può essere d’aiuto nella pratica quotidiana: uno degli
strumenti più adoperati è la Children’s Depression Inventory, una
scala di autosomministrazione per maschi e femmine fino ai 17 anni
(Kovacs et al., 1997). Recentemente in Italia è disponibile una batTabella V.
Depressione: fattori di rischio.
Fattori biomedici
Malattie croniche (ad es. il diabete)
Sesso femminile
Modifiche ormonali nella pubertà
Depressione dei genitori
Storia familiare di depressione
Presenza di specifiche varianti del gene serotonina-transporter
Uso di alcuni farmaci (isotretinoina)
Fattori psicosociali
Bambino maltrattato o trascurato
Il mio bambino mi disobbedisce sempre
Agenti stressanti generici (deprivazione socioeconomica)
Quasi sempre si rifiuta di eseguire un compito assegnato
Perdita di un genitore o di un amore
Io non riesco ad educare mio figlio
Il mio bambino ha problemi con i coetanei a scuola
Fattori diversi
L’insegnante dice che il bambino ha difficoltà nell’apprendimento
Disturbi d’ansia
Il/la mio/mia compagno/a siamo in disaccordo su come educare
il bambino
Disturbi da deficit dell’attenzione e/o iperattività, della condotta
Io mi sento stanca/o e avvilita/o
Fumo di sigarette
Non so come prenderlo/a
Storia di depressione
Disturbi dell’apprendimento
123
A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice
Tabella VI.
Le comorbilità.
Disturbi distimici
Disturbo d’ansia
Disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività
Disturbo oppositivo-provocatorio
Disturbo da uso di sostanze
teria di scale di auto somministrazione (Scale psichiatriche di Auto
somministrazione per Fanciulli ed Adolescenti [SAFA], Cianchetti et
al., 2001) che consente una iniziale valutazione dello stato psichico
fra gli 8 ed i 18 anni. Tra le altre, è presente una scala, la SAFA-D,
che misura l’umore depresso, l’anedonia, il disinteresse, l’umore irritabile, il senso di inadeguatezza, la bassa autostima, l’insicurezza,
il senso di colpa, la disperazione. I sintomi clinici, non sono sempre
facilmente identificabili. I bambini sotto i sette anni possono lamentarsi di dolori e fastidi generalizzati, cefalee, gastralgie. I più grandi possono avere umore irritabile, comportamenti collerici o ostili.
Attenzione discontinua, difficoltà a concentrarsi e ansietà possono
mimare un disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività. L’abuso
di alcool o sostanze stupefacenti può essere una automedicazione,
inconsapevolmente scelta dall’adolescente, per la depressione. Una
diagnosi di depressione impone l’esclusione un accurato inquadramento diagnostico (Tab. VII). I genitori non sempre sono capaci di
identificare questi sintomi, specie se essi stessi soffrono di depressione. Gli autori, propongono una reinterpretazione dei criteri diagnostici del DSM-IV, adattandoli all’età pediatrica (Tab. VIII).
Infine, viene rivisto il trattamento alla luce delle più recenti acquisizioni. Le conclusioni sono riassunte nella Tabella IX.
Frequentemente la depressione in età giovanile ha un decorso ricorrente. Una recente ricerca (Dunn et al., 2006) ha consentito di
individuare quali fattori di rischio di ricorrenza e di un tempo più
lungo di remissione dall’episodio di esordio, la gravità dei sintomi
durante il primo episodio, la precocità dell’età di insorgenza, la durata della malattia prima che venisse instaurato un trattamento, il
sesso femminile.
La possibilità che si instauri una malattia mentale a decorso recidivante e ricorrente giustifica l’inizio di un intervento terapeutico
precoce, con regolari follow-up. Le tappe dello sviluppo adolescenziale possono influenzare l’espressione della depressione in questa
età. Per converso, la depressione può influenzare le competenze e
lo sviluppo della personalità adolescenziale, aumentando il rischio
di ricorrenza di patologie psichiatriche in età adulta (Gollan et al.,
2006). Studi clinici randomizzati e controllati (Cheung et al., 2005)
avevano già dimostrato che fino al 60% degli adolescenti affetti da
depressione miglioravano pur assumendo un farmaco placebo al
posto degli SRSI (Serotonin Recapture Selective Inhibitors). Questo
dato conferma che un intervento di supporto psicologico interattivo
con un professionista attento rappresenta un trattamento efficace, in
attesa di avviare una psicoterapia di tipo cognitivo comportamentale
che è la scelta raccomandata,anche se difficoltà logistiche, sociali
ed economiche non la rendono sempre attuabile.
In alternativa, Stein et al. (2006) hanno dimostrato che un intervento
psicosociale in un ambulatorio pediatrico poteva essere efficace da
solo o in associazione con farmaci SRSI.
Alle stesse conclusioni arrivava una ricerca condotta in Gran Bretagna (Goodyer et al., 2007) su 208 adolescenti tra gli 11 e 17 anni
che ricevevano una diagnosi di depressione, ma un intervento diversificato (Tab. X).
Tutti i pazienti ricevevano un trattamento con SRSI e poi venivano
divisi in due gruppi: il primo veniva trattato anche con una psicoterapia cognitivo-comportamentale (per 12 settimane per un totale di 19
incontri, discutendo con i ragazzi le eventuali assenze) ed una presa
in carico terapeutica routinaria (i criteri sono in Tab. X). Il secondo
gruppo riceveva solo la terapia routinaria. L’intervento terapeutico
routinario era concentrato sull’identificazione delle cause della depressione con una particolare attenzione a recenti conflitti con i familiari o con i coetanei e alle comorbilità. In alcuni casi si ricercava la
collaborazione della scuola o di altri gruppi non medici. Alla fine del
lavoro, dopo 28 settimane i risultati raggiunti dai due gruppi erano
sovrapponibili e non dimostravano un primato della terapia cognitivo-comportamentale sulla presa in carico routinaria, durante trattamento farmacologico. Pertanto, sarebbe possibile un intervento non
soltanto farmacologico, offerto da personale medico idoneamente
formato, ma non necessariamente specialista in psichiatria, anche
se quest’ultima resta la migliore opzione. Una revisione di queste
problematiche è stata pubblicata nel 2005, sotto forma di linee guida per un approccio alla depressione in età evolutiva (http://mhr.org.
uk/articles/2005/10/nice_guidelines.html).
Tabella VII.
Depressione: inquadrameno diagnostico.
Disturbi depressivi
Inquadramento clinico
La depressione è causata da una condizione clinica, da un farmaco Escludere endocrinopatie, tumori, malattie croniche, anemia, deficit
o entrambi?
vitaminici e farmaci come l’isotretinoina
La depressione sia accompagna ad abuso di alcol o droghe?
Valutare se la depressione è la causa dell’abuso o la conseguenza
La depressione è successiva a eventi della vita stressanti?
Considerare una diagnosi di disturbo dell’adattamento
La depressione è cronica, di lieve entità?
Considerare una diagnosi di disturbo distimico
Si tratta di un disturbo depressivo di altro tipo?
Considerare una diagnosi di depressione minore, di depressione
bipolare, o depressione atipica
Si tratta di depressione maggiore?
Applicare i criteri del DSM-IV, valutare la gravità e l’eventuale presenza di caratteri psicotici
Coesistono altre malattie mentali?
Le comorbilità più frequenti sono: disturbi distimici, disturbi d’ansia,
ADHD, disturbo oppositivo provocatorio, disturbo da uso di sostanze
Si tratta di una depressione pericolosa?
Valutare il rischio di suicidio
124
Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo
Tabella VIII.
La diagnosi di depressione maggiore nell’infanzia e nell’adolescenza.
A.
Durante un periodo di almeno due settimane consecutive devono essere presenti almeno 5 dei seguenti sintomi e due di essi
devono essere: 1) umore depresso, 2) perdita di interesse
1)
L’umore può essere depresso o irritabile. I bambini ancora piccoli possono non essere capaci di descrivere il proprio stato
d’animo e allora compaiono vaghi malesseri fisici, un’espressione del volto triste, uno scarso contatto oculare. L’umore irritabile può manifestarsi con un comportamento auto o eteroaggressivo, o con una comunicazione ostile e aggressiva. Disturbi
dell’umore più simili a quello dell’adulto compaiono nella tarda adolescenza (vedi DSM-IV)
2)
Perdita di interesse nel gioco con i coetanei e nelle attività scolastiche
3)
Difficoltà a prendere peso piuttosto che dimagrire
4)
Come gli adulti insonnia o ipersonnia quasi tutti i giorni
5)
Insieme con le modiche dell’umore si può osservare un comportamento iperattivo
6)
Sintomi di affaticamento come per gli adulti manifestati dallo scarso interesse al gioco con i coetanei, aumentate assenze a
scuola, rifiuto scolastico
7)
Diminuita stima in se stessi (sono incapace… sono stupido…)
8)
Difficoltà di attenzione e concentrazione possono manifestarsi come difficoltà di comportamento o scarso rendimento scolastico
9)
Compaiono segnali non verbali di potenziali comportamenti suicidi come il donare la collezione preferita di dischi o rinunciare
spontaneamente a qualche evento importante
B.
I sintomi non evocano un disturbo bipolare
C.
Si manifesta un peggioramento del funzionamento scolastico e sociale clinicamente significativo
D.
I sintomi non sono provocati fa farmaci, alcool o droghe
E.
Se compaiono sintomi psicotici nel corso di un episodio di depressione maggiore in genere si tratta di allucinazioni uditive
Tabella IX.
Depressione: la terapia.
Raccomandazioni chiave nella pratica clinica
Livello di
evidenza
In età infantile e adolescenza gli antidepressivi triciclici non vanno usati come terapia della depressione maggiore
A
L’evidenza di efficacia degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SRSI) è limitata nell’infanzia e adolescenza e
vanno usati solo in caso di depressione maggiore. Fluoxetina per i ragazzi tra gli 8 e i 17 anni è approvata negli USA. L’AIFA
dal 2006 ha reso possibile anche in Italia la prescrizione del farmaco nella stessa fascia di età in un piano diagnostico-terapeutico compilato dal neuropsichiatra infantile
B
La psicoterapia cognitivo comportamentale è efficace nel trattamento delle depressioni di grado lieve e medio
A
Bambini e adolescenti in trattamento con antidepressivi possono sviluppare ideazione e/o comportamenti suicidari
C
La depressione va trattata per almeno sei mesi
C
A = evidenza di buona qualità orientata al paziente; B = evidenza di limitata qualità orientata al paziente; C = consensus, opinioni di
esperti, casistica clinica.
Sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD)
L’ADHD (Brusset et al., 2007) è un disturbo che insorge nell’infanzia
caratterizzato da un continuum di sintomi: difficoltà di concentrazione, inadeguato controllo degli impulsi ed iperattività, evidenti in
diversi contesti: casa, scuola e relazioni sociali. Tutti i bambini presentano questo comportamento, ma quando si verifica in un epoca
inappropriata dello sviluppo causa una compromissione delle normali funzioni. La prevalenza, in diversi studi, varia dal 3 al 10%. L’età
maggiormente colpita si colloca fra i 5 e i 10 anni. Generalmente i
maschi sono maggiormente affetti rispetto alle femmine in un rapporto di 1,5:1 fino a 12:1. Alcuni ricercatori ritengono che questa
stima è inferiore alla realtà: poiché le femmine presentano meno
iperattività e meno aggressività, l’attenzione di genitori e degli inse-
gnanti verso di loro è minore, rendendo la identificazione del disturbo
meno frequente. La crescita determina una diminuzione dei sintomi
di iperattività e una persistenza o una lieve riduzione dei sintomi
di disattenzione. L’eziologia è eterogenea come eterogenee sono le
basi neuro-anatomiche. Studi di neuroradiologia hanno dimostrato
una diminuzione di volume della corteccia frontale, del cervelletto
e delle strutture sottocorticali. La corteccia del giro cingolato appare ipofunzionante nelle prove di controllo inibitorio e sono state
dimostrate disfunzioni della via fronto-sottocorticale. I circuiti fronto-striali e pallido-talamo-corticali presiedono al controllo motorio,
alle funzioni esecutive, al comportamento inibitorio e modulano la
ricerca del compenso. Questa via fornisce alla corteccia un feedback
sul comportamento. Una influenza genetica appare per l’ADHD molto verosimile, anche se le modalità di trasmissione familiari e i geni
125
A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice
Tabella X.
Caratteristiche principali di uno studio in Gran Bretagna (Goodyer et al., 2007) su 208 adolescenti tra gli 11 e 17 anni con diagnosi di depressione, sottoposti a diversi tipi di interventi.
Diagnosi
Depressione moderata o grave
Probabile depressione maggiore
Non responsivi primo breve trattamento
Ideazione e/o comportamento suicidario
Psicosi depressive
Disturbi della condotta
Primo gruppo
SRSI (10 e i 20-40 mg/die fino a 60 mg/die nei casi poco responsivi)
Psicoterapia cognitivo comportamentale (per 12 settimane per un totale di 19 incontri con sorveglianza e richiamo delle eventuali defezioni)
Presa in carico terapeutica ordinaria*
Secondo gruppo
SRSI (10 e i 20-40 mg/die fino a 60 mg/die nei casi poco responsivi)
Presa in carico terapeutica ordinaria*
*
Presa in carico terapeutica “routinaria”: criteri
Gli psichiatri coinvolti adoperavano un protocollo e un manuale comune di intervento
Gli incontri, tutti ambulatoriali, strutturavano: una relazionale empatica e reflessiva; un monitoraggio dello stato mentale; un intervento
psicoeducativo; un supporto genitoriale; tecniche di problem solving; attenzione alle comorbilità; collegamenti con altre realtà sociosanitarie e ambientali; gli incontri erano videoregistrati.
implicati non sono ancora chiaramente definiti. Diversi geni sono
stati chiamati in causa (Faraone et al., 2005): DRD4 e DRD5 (che codificano per due diversi recettori della dopamina) DAT e 5 HTT (che
appartengono alla famiglia dei geni trasportatori di neurotrasmettitori, dopamine e serotonine rispettivamente) HTR1B (che codifica
per un recettore della 5OHtriptamina-serotonina) e SNAP-25 (che
codifica per una proteina associata alla membrana del sinaptosoma). Studi sui gemelli hanno dimostrato un’ereditabilità media per
l’ADHD del 77%. Le cause ostetriche (tossiemia, eclampsia, salute
materna scadente, età materna avanzata, post-maturità, lunga durata del travaglio, basso peso alla nascita, emorragie pre-parto, fumo
in gravidanza), psicosociali (contrasti intrafamiliari cronici, scarsa
coesione familiare, esposizione a psicopatologie genitoriali, particolarmente quelle materne) e ambientali giocano un ruolo e meritano
per il futuro ulteriori studi (Spencer et al., 2007). L’ADHD si accompagna a numerose comorbilità: disturbi della condotta, disturbi dello
sviluppo e dell’apprendimento, depressione, sindromi d’ansia. Tutti
questi disturbi, quando individuati, meritano un trattamento idoneo
insieme al trattamento per l’ADHD. Il futuro degli adolescenti e degli
adulti affetti da ADHD è contraddistinto da una serie di problemi che
coinvolgono la salute mentale, il raggiungimento dei successi accademici, il benessere economico e la rete di relazioni sociali, e che
possono parzialmente essere predetti dalla presenza di psicopatologia materna o di comorbilità psichiatrica, ma anche dalla appartenenza a famiglie numerose (Spencer et al., 2007). Dunn et al. (2006)
hanno esplorato i rapporti tra epilessia e ADHD. Studi epidemiologici hanno confermato che da un terzo ad una metà dei bambini
affetti da epilessia soffrono di importanti sintomi di disattenzione
126
e/o ADHD. Alcuni fattori di rischio come un basso QI, disfunzioni del
sistema nervoso centrale, attività epilettiforme subclinica ed effetti
collaterali degli antiepilettici si associano alla presenza di disturbi
dell’attenzione. Il trattamento combinato farmacologico-psicoterapeutico è il primo presidio nei pazienti affetti da epilessia e ADHD.
Se coesistono disturbi dell’apprendimento e/o ritardo mentale, essi
vanno affrontati con interventi specifici.
Il ritardo semplice del linguaggio
Lo sviluppo del linguaggio rappresenta un utile indicatore dello sviluppo globale di un bambino e delle sue capacità cognitive. Esso
sembrerebbe, peraltro, correlato alla successiva riuscita scolastica
(Rutter e Taylor, 2002).
È stato recentemente dimostrato (Hohm et al., 2007) che lo sviluppo
del linguaggio all’età di 10 mesi, misurato con uno strumento standardizzato come la Receptive-Expressive Emergent Language scale
(REEL), predice quali saranno lo sviluppo cognitivo a 11 anni e il
grado di successo scolastico alla fine della scuola primaria.
Il problema del significato predittivo a lungo termine della valutazione del linguaggio in età prescolare è tuttora ampiamente dibattuto.
I punti più controversi riguardano il tipo di test da utilizzare, l’attendibilità di tali misure al di sotto dei 2 anni di vita e la possibilità di
utilizzarle come test di screening precoce dei disturbi del linguaggio.
Lo screening ideale dovrebbe consentire, mediante l’identificazione
precoce dei bambini a rischio per un ritardo dello sviluppo, l’avvio
tempestivo di un intervento terapeutico efficace.
L’US Preventive Services Task Force (USPSTF), nelle linee guida
emanate nel 2006 (US Preventive Services Task Force, 2006; Nelson
Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo
Figura 1.
Disturbi dello spettro autistico.
In questa figura vengono idealmente assemblati insieme le molte possibili eziologie dei disturbi dello spettro autistico: eterogeneità genetica ed
ambientale (circoli blu), eterogeneità clinica o sindromica (circoli verdi), insieme ai numerosissimi processi di neuro differenziazione e strutturazione cerebrale (figura centrale con le frecce), che alterandosi, possono produrre una “disconnessione” delle aree cerebrali a funzioni altamente
associative con il lobo frontale (Le aree con i contorni tratteggiati indicano cause il cui contributo alla disconnessione deve essere meglio dimostrato). Sebbene gli autori ritengono che il meccanismo della disconnessione delle aree cerebrali sia un tema unificante per spiegare la patofisiologia
dell’autismo, ritengono sia importante ricordare che poco è conosciuto delle relazioni reciproche tra eziologie, meccanismi e fenotipi risultanti. Le
recenti ricerche confermano che l’autismo è una sindrome ad eziologia eterogenea, da qui, la necessità di ridefinire la sindrome autistica come gli
autismi. Il termine autismi riflette non soltanto la molteplicità delle eziologie, ma anche la molteplicità delle manifestazioni cliniche. Un quinto degli
autismi ha una macrocefalia, il cosiddetto big brain: macrocefalia, convulsioni e regressione possono costituire un’ulteriore sottocategoria.
Tradotta e modificata da Geschwind e Levitt, 2007.
et al., 2006), non prende posizione né a favore né contro l’uso dello
screening rapido dei disturbi del linguaggio nei bambini in età prescolare. Non c’è evidenza sufficiente, infatti, che in questo modo si
possano identificare tutti quei bambini che necessitano di una specifica valutazione del deficit e di un eventuale successivo intervento
terapeutico. Non sono peraltro stati studiati i potenziali benefici che
deriverebbero da un tale atteggiamento rispetto a quello di attenta
vigilanza dei sintomi nel tempo, da parte dei genitori o del medico.
Inoltre, mentre è stato dimostrato che un intervento precoce ha un
effetto positivo a breve termine sulle competenze linguistiche del
bambino, nessuno studio è disponibile sugli effetti a lungo termine di
questo approccio. Anche i possibili effetti dannosi di uno screening
a tappeto, quali ad esempio la trasformazione del bambino in un
potenziale paziente, la conseguente comparsa di ansia nei genitori e
la perdita di tempo in esami e terapie non necessari, necessitano di
ulteriore approfondimento.
Sono disponibili diversi strumenti diagnostici per lo studio dei disturbi del linguaggio (MacArthur Communicative Development In-
ventory, Early Language Milestone Scale, Language Development
Survey, ecc.), ampiamente discussi dalla letteratura inglese come
anche da quella italiana. Tuttavia, della maggior parte di essi non è
stata valutata l’appropriatezza come strumenti di screening. Da ciò
scaturisce, quindi, che il pediatra di famiglia, in assenza di strumenti
standardizzati di screening, dovrebbe piuttosto cercare di riconoscere eventuali disturbi del linguaggio sulla base delle preoccupazioni
dei genitori e dell’osservazione diretta del bambino.
Specifici fattori di rischio potrebbero motivare uno screening selettivo per i disturbi del linguaggio; tuttavia l’USPSTF non ne ha ancora
sviluppato una lista formale. Quelli più frequentemente riportati, in
ogni caso, sono la presenza di disturbi del linguaggio nella storia
familiare, il genere maschile, i fattori perinatali come la prematurità
o un basso peso alla nascita e l’essere l’ultimo nato in una famiglia
numerosa.
Negli ultimi anni è emerso un aspetto interessante: la misura quantitativa della memoria fonologica a breve termine (Phonological
Short-Term Memory [STM]), realizzata mediante prove di ripetizione
127
A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice
di parole prive di significato (Non-Word Repetition [NWR]), rappresenterebbe un marker di ritardo selettivo del linguaggio (Selective
Language Delay [SLI]), così come di alcune forme di dislessia (Newbury et al., 2005). Un deficit facilmente quantificabile di un particolare aspetto del funzionamento del linguaggio potrebbe essere,
pertanto, utilizzato come indice di fenotipi più complessi, quali il ritardo selettivo del linguaggio o la dislessia, indirizzandone in questo
modo la diagnosi. Bisogna sottolineare comunque che un bambino
con un “NWR deficitario” non ha necessariamente un disturbo del
linguaggio, ma risulta maggiormente suscettibile allo sviluppo di tale
patologia, soprattutto se coesistono altri fattori di rischio.
Quattro loci sono stati recentemente individuati per SLI mediante
studi di linkage; di questi tre hanno mostrato un linkage significativo
anche con NWR (SLI1 sul cromosoma 16q [SLI Consortium, 2002];
SLI2 sul cromosoma 19q [SLI Consortium, 2004]; SSD [Speech
Sound Disorder] sul cromosoma 3p [Stein et al., 2004]). Dal momento che il deficit di memoria a breve termine mostra un pattern di
trasmissione familiare più semplice da studiare, si potrebbe immaginare di utilizzare questo parametro per una migliore comprensione
delle basi genetiche e dei meccanismi patogenetici di un fenotipo
complesso e clinicamente eterogeneo come il disturbo selettivo del
linguaggio.
I problemi del linguaggio orale e quelli del linguaggio scritto spesso
coesistono e molti esperti considerano SLI e dislessia manifestazioni
diverse dello stesso disordine di base (Bishop et al., 2004).
Dislessia
La dislessia (Developmental Dyslexia [DD]) (Shastry, 2007) consiste
in un disordine specifico della lettura in cui il soggetto è incapace
di decodificare le parole in maniera adeguata (phonological coding),
cioè di riconoscere i singoli fonemi che le costituiscono (Rumsey,
1992). Gli studi neurobiologici su campioni di cervello appartenenti
a soggetti dislessici indicano un cattivo funzionamento delle regioni
temporo-parieto-occipitali di sinistra (Eckert et al., 2005), le quali
sono appunto coinvolte nella conversione delle parole da simboli
scritti a unità fonetiche. La dislessia ha una prevalenza del 5-10%
in età scolare (Shaywitz et al., 1990), con un’incidenza maggiore
nel genere maschile. Si tratta di un disordine a carattere familiare
con una probabile componente genetica. Gli studi di linkage hanno
individuato diversi loci di suscettibilità sui cromosomi 1, 2, 3, 6, 11,
13, 15 e 18 e quattro geni candidati (KIAA 0319, DYX1C1, DCDC2 e
ROBO1, implicati nella migrazione neuronale che sottende lo sviluppo della corteccia cerebrale) sono risultati associati alla dislessia.
Come nel deficit selettivo del linguaggio, anche nella dislessia è stato descritta una compromissione della memoria fonologica a breve
termine, verosimilmente implicata nella genesi di questa malattia. A
tale proposito è interessante rilevare che un possibile linkage con
SLI1 (SLI Consortium, 2004), uno dei geni associati sia a SLI che a
NWR, è stato suggerito anche per la dislessia.
Attaccamento
L.T. Hardy recentemente ha pubblicato una interessante ed approfondita selezione multidisciplinare della letteratura su questo argomento (Hardy, 2007). La teoria dell’attaccamento, introdotta da John
Bowlby negli anni ’60 (Bowlby, 1982), individua nel rapporto iniziale
del bambino con la figura adulta che se ne prende cura il più importante predittore dello sviluppo della personalità del bambino e della
qualità delle sue future relazioni interpersonali.
Sono stati definiti nel bambino quattro stili di attaccamento: sicuro, evitante, resistente-ambivalente e disorganizzato-disorientato. I
bambini che manifestano un attaccamento del primo tipo protesta-
128
no vigorosamente quando separati dall’oggetto. Nel comportamento
evitante, si manifesta un chiaro rifiuto dell’oggetto dell’attaccamento, mentre lo stile resistente-ambivalente è caratterizzato da una
fissazione sull’oggetto di attaccamento, che è alternativamente ricercato o rifiutato. Infine l’attaccamento disorganizzato, tipico dei
bambini che hanno subito maltrattamenti, si caratterizza per un
atteggiamento ambivalente e conflittuale ed è più spesso associato
alla presenza di veri e propri disturbi psichici,
In letteratura sono numerosi i lavori che sottolineano l’importanza
del rapporto di attaccamento precoce per uno sviluppo psico-affettivo armonico (De Chateau, 2007).
Due sono i modelli proposti: quello della psicologia dello sviluppo e
quello della neuropsicanalisi.
Il primo sostiene che il rapporto iniziale con l’oggetto di attaccamento porti l’individuo a strutturare dei modelli relazionali che, operando
inconsciamente, condizioneranno i rapporti interpersonali durante
tutto l’arco della vita (Barrett et al., 2000). Secondo la prospettiva
neuropsicanalitica, peraltro, le rappresentazioni del sé e dell’altro
che si formano nella prima infanzia e le esperienze affettive che ne
derivano, risultano fondamentali per il corretto sviluppo neurologico
del bambino. Esse contribuiscono, infatti, alla formazione dei circuiti
neurali implicati nella vita di relazione e localizzati nell’emisfero cerebrale di destra (Schore, 1994).
Hunter et al. (2001) hanno dimostrato, inoltre, che esiste anche una
correlazione tra attaccamento insicuro e malattie organiche, verosimilmente attribuibile ad una maggiore suscettibilità allo stress.
In uno studio recente, Crawford et al. (2007) hanno messo in evidenza come la storia di un attaccamento insicuro di tipo ansioso o di tipo
evitante possa associarsi alla presenza di disturbi della personalità
Brennan et al. (1998) avevano messo in relazione lo stile ansioso
con i disturbi da alterata regolazione emozionale, come i comportamenti di evitamento sociale, i disturbi d’ansia, la labilità affettiva, la
condotta autolesionistica, ecc. L’attaccamento evitante, al contrario,
si associava alla presenza di una personalità introversa con difficoltà a esprimere la propria emotività (inhibitedness). L’attaccamento
ansioso analizzato con modelli biometrici risulta essere fortemente
influenzato dai fattori genetici, mentre quello evitante sembrerebbe
condizionato esclusivamente dai fattori ambientali. L’associazione
tra attaccamento ansioso e disturbi della personalità potrebbe spiegarsi con la presenza di un sostrato genetico comune, mentre quella
tra attaccamento evitante e introversione può essere attribuita alle
esperienze personali realizzate dall’individuo nel contesto sociale.
Autismo
Recentemente si è assistito a un aumento della prevalenza di questa
condizione (fino a 5-6 casi ogni 1000 bambini ≤ 5 anni di età), probabilmente a causa della maggiore sensibilità al problema e delle
migliorate capacità diagnostiche (Fomborme, 2001).
I genitori dei bambini autistici avrebbero desiderato una diagnosi la
più precoce possibile, dal momento che un intervento tempestivo
può migliorarne notevolmente gli esiti a lungo termine. (Baird et al.,
2003),
Secondo i criteri dell’ICD-10 e del DSM-IV, l’autismo e disturbi dello
spettro autistico (DSA) è un disturbo del comportamento caratterizzato dalla compromissione di tre aree fondamentali: 1) interazione
sociale; 2) linguaggio-comunicazione-immaginazione; 3) interessi e
attività, che appaiono nella maggior parte dei casi, notevolmente
ridotti. Sono comuni, inoltre, i comportamenti ripetitivi stereotipati e
l’ipo- o ipersensibilità all’ambiente circostante.
La maggior parte dei genitori riconosce i primi segni di allarme
quando il bambino ha più o meno un anno e mezzo: la mancanza del
Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo
sorriso, l’inespressività del volto, la scarsa attenzione all’ambiente
circostante ed una interazione sociale scadente sono tutte caratteristiche discriminanti. La diagnosi di autismo, ad ogni modo, viene
generalmente posta tra i due e i tre anni di età. Uno dei motivi che
inducono a un approfondimento diagnostico è la mancata acquisizione del linguaggio o la regressione dello stesso in un bambino
con compromissione della comunicazione e dell’interazione sociale.
Purtroppo non è ancora possibile uno screening precoce dei DSA
(Hail et al., 2003), ma non mancano ipotesi, spesso solo teoriche, in
questo senso.
Bohm et al., per esempio, hanno segnalato una associazione tra alte
concentrazione del testosterone nel liquido amniotico (TECAF) alla
14-20a settimana di gestazione e rischio elevato di sviluppare DSA
nell’arco della vita (Bohm et al., 2007; Lutchmaya et al., 2004). Tuttavia, questo parametro, considerato singolarmente, non è dirimente e la sua applicazione pratica nella diagnosi precoce di autismo
non è stata ancora sufficientemente indagata. Molto più importante
si è dimostrata, invece, la sorveglianza svolta dai genitori e, più in
generale, dagli adulti che hanno a che fare col bambino nei primi
anni di vita. La maggior parte dei pediatri, durante l’esercizio della
propria professione, viene a contatto con uno o più bambini autistici.
La diagnosi tempestiva e l’inizio precoce di un adeguato programma
terapeutico sono fondamentali per una prognosi migliore. Per l’inquadramento diagnostico dell’autismo, è quasi sempre necessario
realizzare una serie di indagini allo scopo di riconoscere, quando
possibile, l’eziologia che sottende a questa condizione. Esse comprendono una consulenza genetica, se si associano dismorfismi o
altre anomalie congenite, il cariotipo standard ed eventuali analisi
citogenetiche più sofisticate, il test molecolare per l’X-fragile quando è presente ritardo mentale e la ricerca delle mutazioni del gene
MeCP2, se si manifestano segni suggestivi della sindrome di Rett.
La definizione diagnostica prevede, inoltre, l’uso di strumenti standardizzati come le interviste semistrutturate e l’osservazione del
gioco libero, nonché la valutazione della presenza di eventuali comorbidità, in particolare l’epilessia, i disturbi dell’apprendimento ed
altri disordini psichiatrici (ansia, depressione, ADHD). Nella diagnosi
differenziale vanno considerati il deficit mentale, il ritardo selettivo
del linguaggio, i disturbi dell’attaccamento, l’epilessia e le malattie
neurodegenerative.
I fattori genetici giocano un ruolo importante nella patogenesi dell’autismo. Fatta eccezione per la sindrome di Rett, attribuibile, nella
maggior parte dei casi, a mutazioni del gene MeCP2, gli altri disordini pervasivi dello sviluppo (DPS) non hanno, comunque, una causa genetica definita. Probabilmente sono coinvolti molteplici fattori
genetici che interagiscono tra di loro e con l’ambiente, contribuendo
in questo modo all’ampia variabilità fenotipica di questa condizione.
A sostegno di un’ereditarietà geneticamente determinata, la concordanza nei gemelli monozigoti è del 60%. Le strategie utilizzate
per identificare i loci genici verosimilmente implicati nello siluppo di
questa malattia sono essenzialmente tre: analisi di linkage in famiglie con più di un membro affetto; indagini citogenetiche, tradizionali
o mediante array-based Comparative Genomic Hybridization (arrayCGH); infine, lo studio dei geni candidati, scelti sulla base del loro
coinvolgimento nei processi di sviluppo del sistema nervoso e della
loro posizione all’interno del genoma. In questo modo, è stato possibile dimostrare il coinvolgimento di numerose regioni cromosomiche,
tra cui 1p, 2q, 3p, 7q, 17q, 15q11-q13. La duplicazione di questa regione del cromosoma 15 è l’unico riarrangiamento ricorrente nei pazienti con DSA (Schroer et al., 1998), tanto da configurare una vera
e propria “sindrome da dup(15)” ad esso associata. Questa regione
comprende un gruppo di geni che codificano per le subunità del
recettore dell’acido γ-amminobutirrico (GABRB3, GABRA5, GABRG3),
responsabile della trasmissione gabaergica all’interno del sistema
nervoso centrale. Delezioni/duplicazioni a carico di questi geni sono
state descritte in vari disordini dello sviluppo neuropsichico, come
la sindrome di Prader-Willi e la sindrome di Angelman, mentre una
loro anomala espressione, almeno in parte attribuibile a meccanismi
epigenetici (Hogart et al., 2007), è stata recentemente dimostrata nel cervello di pazienti autistici (Schmitz et al., 2005). Sarebbe
quindi auspicabile uno studio di questi trascritti come possibili geni
candidati per DSA. In un lavoro del 2007, Balciuniene et al. (2007)
hanno riportato tre diverse delezioni a carico della regione 10q22.3q23.31, ricca in LCR (Low-Copy-Repeats), che si associavano alla
presenza di disturbi del comportamento e dello sviluppo cognitivo,
tra cui l’autismo. Si potrebbe pensare quindi che in tale regione vi
siano uno o più geni necessari al normale funzionamento del sistema nervoso e che questi potrebbero essere studiati come geni
candidati per DSA. Tra gli altri, gli autori propongono PTEN, il gene
mutato nelle sindromi di Bannayan-Riley-Ruvacalba e di Cowden,
a carico del quale sono state precedentemente descritte mutazioni
in pazienti con DSA e macrocefalia (Butler et al., 2005). Molte delle
anomalie cromosomiche descritte nei pazienti con DSA non possono
essere rilevate con le comuni tecniche citogenetiche. Jacquemont e
colleghi (Jacquemont et al., 2006) hanno recentemente identificato
mediante array-CGH, una tecnica citogenetico-molecolare di analisi
quantitativa del DNA, un numero elevato di riarrangiamenti cromosomici (piccole delezioni e duplicazioni) associati a DSA sindromico.
Gli autori suggeriscono che uno screening ad alta risoluzione dell’intero genoma dovrebbe essere offerto a tutti i pazienti con DSA
sindromico sia ai fini diagnostici che di ricerca. La presenza di DSA
nell’ambito di alcune malattie, come la sindrome dell’X fragile o la
sindrome di Rett, suggerisce, infine, il coinvolgimento di meccanismi
epigenetici di regolazione della espressione genica nella patogenesi dell’autismo (Hagerman et al., 2005; Samaco et al., 2005). Le
anomalie citogenetiche di più comune riscontro nel DSA, peraltro,
riguardano regioni cromosomiche, come 15q11-q13, 7q21-q31.31
e 7q32.3-q36.3, soggette a imprinting genetico. Nuove tecniche
di analisi dovrebbero quindi essere applicate per poter individuare
eventuali epialleli che conferiscono suscettibilità a DSA. Infine, The
Autism Genome Project Consortium (2007) ha pubblicato nel 2007
nuove ricerche che confermano il ruolo patogenetico della regione
cromosomica 11p12-p13 e delle neuroxine. Le neurexine implicate
con le neuroligine nella sinaptogenesi glutamatergica, richiamano in
causa i geni legati al glutammato quali possibili candidati nella eziologia dell’autismo. Queste evidenze e l’importanza che i meccanismi
epigenetici hanno nel corretto sviluppo dei circuiti neurali implicati
nel comportamento sociale, nel linguaggio e nelle funzioni cognitive, ne suggeriscono il coinvolgimento nella patogenesi dell’autismo
(Schanen, 2006).
I fattori ambientali, come l’esposizione ad agenti tossici e teratogeni,
gli insulti perinatali o le infezioni contratte in utero come la rosolia
e il citomegalovirus, sono ritenuti responsabili del 6-10% dei casi di
autismo. Comportamenti autistici sono anche frequenti nella sclerosi
tuberosa o come esiti di encefalite infettiva; questi, però, incidono
solo per una piccola parte dei casi diagnosticati.
L’autismo, come il ritardo mentale, ha svariate eziologie e più che di
autismo si dovrebbe parlare degli autismi (Geshwind et al., 2007).
Studi genetici recenti accoppiati a studi anatomici e neuroradiologici
funzionali, permettono di iniziare a formulare un’ipotesi eziopatogenetica uniforme. Si suppone una deconnessione durante lo sviluppo
delle aree ad alta capacità associativa frontale. Questa ipotesi della
deconnessione durante lo sviluppo potrebbe spiegare la peculiarità
129
A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice
dei sintomi, l’insorgenza durante i primi anni dello sviluppo appunto
e l’eterogeneità degli aspetti cognitivi e comportamentali.
La presa in carico e il programma terapeutico del bambino con autismo oggi pone l’accento sulla centralità del paziente e della sua
famiglia. In particolare, esistono dei veri e propri programmi di parent training, come, per esempio, l’Early Bird programme (Sheilds,
2001). Il programma riabilitativo prevede sia approcci di tipo comportamentale, che didattico e dovrebbe essere avviato quanto più
precocemente possibile. Gli strumenti utilizzati sono molteplici: tra
gli altri, i Lovaas programmes, l’uso di immagini per la comunicazione espressiva, l’Higashi excercise programme, ecc. Purtroppo,
è molto difficile misurare l’efficacia dei questi interventi, anche se
esistono degli indicatori di successo terapeutico (come, per esempio, l’acquisizione dell’uso funzionale del linguaggio verbale o di un
sistema alternativo di comunicazione). L’intervento dovrebbe tenere
conto delle peculiari attitudini comportamentali del bambino autistico, tendere allo sviluppo di abilità specifiche e migliorare le capacità
empatiche e di comunicazione del piccolo paziente. Valorizzare il
potenziale e migliorare la qualità di vita di questi pazienti è il principale obiettivo della presa in carico terapeutica, trattandosi di una
condizione che durerà probabilmente per tutta la vita.
Dal bambino all’adulto: il perpetuarsi di una patologia
Importanti studi epidemiologici longitudinali (Rutter et al., 2006)
confermano che esiste una continuità, in alcuni casi sorprendentemente stretta, tra la patologia comportamentale e psichiatrica del
bambino e quella dell’adulto.
Studi retrospettivi hanno dimostrato che giovani schizofrenici presentavano, rispetto ai controlli, una maggiore quantità di problemi
sociali, comportamentali ed emozionali prima dell’insorgenza franca
della patologia. Anche le tappe di acquisizione dello sviluppo motorio e del linguaggio risultavano alterate e veniva trovata una forte
associazione tra episodiche esperienze allucinatorie e sporadiche
credenze deliranti all’età di 11 anni e il successivo svilupparsi di una
schizofrenia conclamata a 26 anni.
Studi prospettici hanno dimostrato che in soggetti autistici, un QI
di performance inferiore a 50 correlava con il raggiungimento di
scadenti inserimento sociale e autonomie personali. Al contrario, un
QI superiore a 50 e un linguaggio intellegibile intorno ai 5 anni, si
associava con un raggiungimento all’età di 29 anni di sufficiente
autonomia personale, sociale e lavorativa e, in una ristretto numero
di casi, anche al conseguimento di una istruzione superiore. Questo
gruppo di pazienti, tuttavia, continuò a mostrare durante tutta la vita
significativi comportamenti autistici. Nondimeno, la metà dei ragazzi
con un QI di 70 o superiore, non raggiungeva alcun inserimento né
sociale, né lavorativo. Questa variabilità non è spiegabile: forse è
frutto anche di un diverso approccio abilitativo.
Gli adulti che sono stati affetti da disturbo del linguaggio specifico
continuano a presentare sfumati disturbi del linguaggio espressivo,
ma sorprendentemente, hanno una maggiore frequenza di difficoltà
e insuccessi nel funzionamento sociale, nelle relazioni sociali e nelle
prove di valutazione della teoria della mente. L’ipotesi è che il disturbo del linguaggio isolato è parte di un continuum di patologie che
vanno dai disturbi del linguaggio espressivo sfumati fino a forme più
gravi, che nell’età adulta si manifestano, soprattutto, come disturbo
delle funzioni pragmatiche e sociali, ricordando, fatte le dovute riserve, le difficoltà pragmatiche e sociali dell’autismo.
La dislessia può essere diagnosticata ovviamente solo in età scolare, anche se, in epoca prescolare questi bambini presentano deficit
cognitivi e linguistici geneticamente determinati. I problemi di lettura
130
successivamente condizionano i successi accademici e direttamente ed indirettamente le opportunità lavorative e le condizioni materiali nella vita adulta creando problemi persistenti. Numerosi studi
hanno documentato l’alta frequenza di associazione tra dislessia e
comportamento antisociale.
L’ADHD è una patologia caratterizzata da uno spettro di sintomi di
gravità eterogenea, che supera di gran lunga i criteri stabiliti per
la diagnosi. Nell’infanzia, l’ADHD, si associa a disturbo oppositivo
provocatorio e a disturbi della condotta e nell’età adolescenziale
a comportamenti antisociali. Rispetto ai gruppi controllo, nell’età
adulta, metà dei bambini con diagnosi di ADHD presentano un deterioramento psicopatologico, sociale e accademico. I geni DRD4 e
DAT1 (Mill et al., 2006) implicati nell’espressione comportamentale
dell’ADHD correlano con variazioni di QI e con una prognosi peggiore nell’età adulta. Questi dati sono recenti e meritano ulteriori
conferme.
Box 1 - Ereditabilità (h2)
Esprime la proporzione della variabilità totale di una popolazione
che può essere attribuita alla variabilità genetica. Si usa comunemente per indicare quanto la variabilità fenotipica, in una data
popolazione, è influenzato da fattori genici ed è, quindi, trasmissibile alla progenie. Può variare da 0 (la variabilità del carattere
dipende interamente da effetti di natura ambientale) a 1 (la variabilità del carattere dipende interamente da effetti di natura
genetica), e spesso è espressa in termini percentuali.
L’ereditabilità (Box 1) della depressione è bassa nell’infanzia, ma tende a salire nell’adolescenza, cosicché, la depressione in età prepubere
non sembra evolvere in depressione in età adulta, al contrario di quella
che si sviluppa in età adolescenziale. L’aumento di ereditabilità in adolescenza può essere spiegato dalla correlazione con eventi avversi o
stressanti contingenti o avvenuti precocemente nella vita. Infatti, alcune ricerche hanno dimostrato che già intorno ai 5 anni, i bambini che
hanno una percezione cognitiva inappropriata di tipo depressogeno,
hanno una tendenza a fare valutazioni negative o a richiamare alla
Box 2 - Stile esplicativo
La modalità di pensiero che spiega la realtà e gli eventi che accadono nella propria vita è stata definita stile esplicativo. Gli psicologi hanno identificato tre componenti dello stile esplicativo: la
personalizzazione, la permanenza e la pervasività. La personalizzazione si realizza quando la persona ritiene di essere la causa
dell’evento, cioè internalizza la causa per l’evento. La permanenza è data dalla sensazione di immodificabilità dell’evento. La
pervasività, dalla capacità di quell’evento di influenzare tutti gli
avvenimenti della vita. Quelle persone che si ritengono responsabili degli eventi che gli accadono, che ritengono questi eventi
immodificabili e capaci di influenzare vari aspetti della loro vita
hanno uno stile esplicativo pessimistico. Quelle persone che ritengono gli altri responsabili degli eventi e pensano che questi
eventi si risolvano rapidamente e che abbiano influenze limitate
e circoscritte, per converso hanno uno stile esplicativo ottimistico (Seligman, 1996-2000). Lo stile esplicativo non è la causa di
problemi, ma piuttosto un fattore di rischio disposizionale. Dato
un evento incontrollabile, lo stile esplicativo determina il modo in
cui l’individuo risponde.
Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo
memorie esperienze negative di fronte ad eventi stressanti. Nei bambini, esperienza della depressione e stile esplicativo (Box 2) pessimistico si influenzano l’una con l’altra: una depressione nell’infanzia può
indurre un stile esplicativo pessimistico, anche quando la depressione
si è risolta, ma a sua volta uno stile esplicativo pessimistico preannuncia sintomi depressivi nella tarda infanzia.
L’ansia può manifestarsi nell’infanzia, proseguire nell’adolescenza
e accompagnarsi alla depressione maggiore. Il sovrapporsi e il continuarsi l’una nell’altra di queste comorbilità ha fatto supporre che
l’ansia possa essere considerata un’espressione età-dipendente di
una patologia depressiva nascosta. Questa ipotesi è sostenuta da
studi longitudinali di popolazione e studi su gemelli che confermano
una comune eziologia genetica con differenti espressioni fenotipiche in differenti fasi dello sviluppo. Di fatto, il disturbo di ansia da
separazione nell’infanzia, l’ansia generalizzata, e gli attacchi di panico, frequentemente si associano alla depressione, e per converso,
nell’adulto, la depressione è in genere, preceduta da un disturbo
iperansioso adolescenziale.
Il comportamento antisociale è un forte esempio di interazione tra
patrimonio genetico e ambiente. Diversi studi hanno dimostrato
l’esistenza di un legame tra comportamento oppositivo a 3 anni,
difficoltà comportamentali fra i 5 e i 7 anni, disturbi della condotta a 7-9 anni, e un aumentato rischio di disturbi di personalità
antisociale e comportamenti delinquenziali nella giovinezza. Negli stessi soggetti erano più frequenti mediocri risultati scolastici
e lavorativi, scadenti rapporti affettivi e precoci rapporti sessuali
spesso non protetti, abuso di sostanze, disturbi dell’umore, comportamenti suicidari.
Questa raccolta di osservazioni della letteratura conferma che
la conoscenza di una condizione morbosa o dei suoi prodromi è
indispensabile per un’identificazione e successiva prevenzione
e terapia. Il pediatra può individuare precocemente i fattori di
rischio ambientali, sociali e familiari che possono condizionare
la salute mentale del bambino. Il pediatra è il primo professionista, capace di esercitare un patrocinio e una difesa del bambino
(advocacy).
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Corrispondenza
prof. Ennio del Giudice, Dipartimento di Pediatria, via S. Pansini 5, 80131 Napoli • Tel. +39 081 7462678 • Fax +39 081 7463116 • E-mail: ennio.
[email protected]
132
Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 133-141
PEDIATRIA DELLO SVILUPPO E DEL COMPORTAMENTO
Lo studio dei disturbi
dello sviluppo e del comportamento
mediante risonanza magnetica funzionale
Giovanna Stefania Colafati1 2, Rosamaria Siracusano3, Claudia Mastroeni4,
Valentina Maglio5, Antonella Gagliano3, Saverio Malena1, Francesco Di Salle2 4
Dipartimento di Diagnostica per Immagini, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma; 2 Department of Cognitive
Neuroscience, University of Maastricht; 3 Cattedra di Neuropsichiatria Infantile, Università di Messina; 4 Cattedra di
Neurofisiopatologia, Università di Messina; 5 Dipartimento di Neuroscienze, Università di Pisa
1
Riassunto
La risonanza magnetica consente lo studio delle funzioni neuronali attraverso una serie di applicazioni avanzate. In particolare, la risonanza magnetica
funzionale (fMRI) è un metodo che permette lo studio non invasivo della funzionalità cerebrale in vivo mediante la valutazione degli effetti dell’attivazione
neuronale sulla perfusione regionale cerebrale.
Accanto alla fMRI propriamente detta, tuttavia, vengono trattati in questo articolo anche i presupposti teorici e gli aspetti applicativi essenziali di alcune
tecniche emergenti correlate di studio funzionale del cervello, che si avvalgono di approcci di tipo morfometrico-strutturale (studi di connettività, fiber
tracking, Voxel Based Morphometry) e di tipo spettroscopico.
Sebbene l’applicazione delle tecniche di neuroimaging funzionale ai disturbi neuropsichiatrici dei bambini comporti peculiari sfide metodologiche riguardanti soprattutto la collaborazione dei pazienti, grazie ad esse sono stati compiuti progressi sostanziali nella comprensione del normale sviluppo delle
funzioni cognitive, delle sue patologie e dei disordini del comportamento in età pediatrica.
In questo articolo vengono illustrati i differenti aspetti delle applicazioni delle metodiche di neuroimaging funzionale in età pediatrica, i risultati raggiunti
nella comprensione dei disordini neuropsichiatrici nell’età evolutiva, con uno sguardo ai possibili futuri sviluppi.
Summary
Functional Magnetic Resonance Imaging has recently opened entire new avenues in the study of human brain and mind. Under this term goes a set
of new methods permitting to measure neuronal activity in vivo (Blood Oxygenation Level Dependent contrast fMRI), anatomical brain connectivity
(Diffusion Tensor Imaging), morphometric correlates of brain patologies (Voxel Based Morphometry and Cortical Thickness Measurement), and neurotransmitters distribution and functional changes (neurotransmitters functional spectroscopy). The combined use of these methods has a revolutionary
potential in modern child neuropsychiatry, and is already changing the way many major syndromes are classified and the hypotheses regarding their
pathogenesis.
In this paper we review the applications already proposed for the methods of functional Magnetic Resonance Imaging in the study of child neuropsychiatric
diseases, and the results gathered up to now, together with some major limitations in their use in a pediatric population.
Introduzione
La risonanza magnetica funzionale (fMRI) è un insieme di metodologie di Risonanza Magnetica (MRI) di studio funzionale del cervello.
Nell’ambito di tale denominazione viene indicata più propriamente
la risonanza funzionale con tecnica BOLD (Blood Oxygenation Level
Dependent contrast), ma anche lo studio del tensore di diffusione,
alcune nuove applicazioni spettroscopiche e nuove tecniche di morfometria automatica cerebrale.
Il denominatore comune di tali metodologie è quello di impiegare come strumento di base la risonanza magnetica e di produrre
informazioni sulle funzioni cerebrali. Le metodologie più diffuse e
dalle quali si è ricavata la maggior parte delle informazioni utilizzabili per lo studio delle patologie neuropsichiatriche infantili sono
la risonanza funzionale con tecnica BOLD e la morfometria automatica.
L’fMRI BOLD è una tecnica non invasiva di studio dell’attività cerebrale di recente introduzione (1992) ed in rapidissima evoluzione,
che usa le piccole differenze di suscettività magnetica esistenti tra
emoglobina ossigenata e deossigenata come mezzo di contrasto
endogeno, e modificazioni regionali del rapporto ossi/deossiemoglobina durante l’attivazione neuronale come fattore di localizzazione dell’attività. Le informazioni fMRI BOLD vengono generalmente
presentate sotto forma di mappe statistiche di attivazione, sogliate a
valori standard (p < 0,01-0,05) di significatività corretta per misure
multiple.
Le tecniche di morfometria automatica sono ancora più recenti e il
prototipo di tali tecniche è noto con il nome di Voxel Based Morphometry (VBM). Questa tecnica confronta due popolazioni tra di loro,
più spesso pazienti e controlli, e produce mappe colorimetriche sogliate a valori standard di significatività corretta, che rappresentano
la differente probabilità che in un determinato punto dell’immagine
si trovi sostanza grigia/bianca o liquor in una rispetto all’altra popolazione esaminata. Una variante metodologica morfometrica proposta recentemente, denominata misura dello spessore corticale,
avvicina molto di più tali tecniche a eventuali applicazioni cliniche
per le quali sia necessario l’esame di un singolo individuo e non di
un’intera popolazione (Fig. 1).
133
G.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Di Salle
possono presentare segni precoci già a 12 mesi di vita. Ad oggi, la
diagnosi si basa esclusivamente su rilievi clinici comportamentali.
L’apporto del neuroimaging alla ricerca e alla diagnostica si basa
sul riscontro di segni patologici di tipo strutturale, biochimico e funzionale.
Figura 1.
Tappe dell’elaborazione delle informazioni anatomiche ai fini delle indagini morfometriche. I dati anatomici tridimensionali cerebrali vengono
separati dalle strutture extracerebrali e ricostruiti tridimensionalmente.
La ricostruzione tridimensionale può essere condotta lungo la giunzione
tra sostanza bianca e grigia (sin) o sulla superficie piale. Dalla composizione di queste due superficie viene calcolato lo spessore corticale in
ogni punto. Perché sia possibile estendere i risultati a un’intera popolazione e perché diventino confrontabili tra di loro in individui differenti, i
dati vengono “normalizzati”, ovvero deformati leggermente sino a coincidere dimensionalmente con una griglia tridimensionale di riferimento
(normalizzazione di Talairach).
Applicazione in età evolutiva
Entrambe queste tecniche presentano un enorme potenziale applicativo allo studio di patologie neuropsichiatriche infantili anche se
sono presenti alcuni problemi di implementazione in popolazioni di
bambini poco collaboranti. Questi problemi, riconducibili essenzialmente alla necessità di evitare qualsiasi movimento durante l’effettuazione dell’esame e di garantire una corretta effettuazione dei
compiti con i quali viene modulata l’attività cerebrale, sono ora più
facilmente risolvibili grazie all’enorme avanzamento tecnologico di
questa disciplina.
Attualmente è crescente l’uso di tali metodiche nello studio dei
disordini dello sviluppo neurologico quali l’autismo, la dislessia e
l’ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder). Analizziamo di seguito il ruolo della fMRI, integrato con le metodiche di morfometria
in MRI nella comprensione del substrato neurobiologico di questi
disordini.
Segni strutturali di patologia
Misure generali dello sviluppo cerebrale
Vi sono evidenze, con studi condotti con misura della circonferenza cranica (HC), MRI e autoptici (PM), di un aumento del volume
cerebrale nei DSA durante l’infanzia. Le dimensioni massime sono
raggiunte circa 6-10 anni prima del normale, con “traiettoria” di crescita complessa (Fig. 2) (MRI, Courchesne et al., 2001).
Rispetto alla HC e agli studi PM, la MRI ha il notevole vantaggio di
dare in vivo una misura diretta del tessuto cerebrale. La sua affidabilità è però modulata da fattori metodologici, come il tipo di apparecchiatura e le tecniche di acquisizione usate, e soprattutto dalle
procedure di segmentazione che definiscono i confini delle strutture
da misurare.
L’importante disomogeneità dei risultati presenti in letteratura
(Brambilla et al., 2003; Redcay e Courchesne, 2005) è pertanto da
imputare alle molte variabili metodologiche oltre che demografiche
e cliniche, ed impone un assoluto rigore dei metodi e la correzione
delle misure per quei fattori che fisiologicamente influiscono sul volume cerebrale, come età, sesso e QI.
Misure regionali dello sviluppo cerebrale
Attraverso studi PM (Bauman e Kemper, 2005) era stato ipotizzato
che l’inizio della patologia si collocasse nella prima metà della gravidanza, con anomalie localizzate nella corteccia fronto-temporo-parietale, nel sistema limbico e nel cervelletto, ove il rilievo macroscopico di ipoplasia cerebellare è prodotto da un’importante riduzione
delle cellule di Purkinje.
La metodologia di analisi assume cruciale importanza nello studio
della corteccia cerebrale. La maggior parte degli studi morfometrici
è stata effettuata con VBM, che fornisce valutazioni quantitative ma
Disturbi dello spettro autistico
Cenni nosografici
L’autismo, considerato il prototipo dei disordini dello spettro autistico (DSA) che comprendono anche il disturbo di Asperger e i disordini pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati, è definito
dalla compromissione qualitativa della comunicazione verbale e non
verbale e dell’interazione reciproca sociale, e da comportamenti ristretti, ripetitivi e stereotipati (DSM-IV). In base al QI > o < a 70,
l’autismo si definisce ad alto (HFA) o a basso funzionamento (LFA). I
DSA sono molto frequenti (secondo le stime correnti 1:150 bambini),
con un rapporto M/F di 4:1. Di solito diagnosticati a 2-3 anni di età,
134
Figura 2.
La figura mostra l’andamento nel tempo di una misura congiunta di
circonferenza cranica e di volume cerebrale in MRI. Il cervello autistico
passa bruscamente da una dimensione inferiore del 10% rispetto al
volume cerebrale normale alla nascita, ad una dimensione maggiore
del 10% tra il primo ed il secondo anno di vita, per poi tendere asintoticamente alle dimensioni normali nella terza decade di vita (modificata
da Redcay e Courchesne 2005).
Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale
probabilistiche dei compartimenti strutturali cerebrali, e non consente la misura metrica dello spessore. Può essere strumento affidabile
solo su popolazioni sufficientemente estese e relativamente omogenee sotto il profilo morfostrutturale, dipendendo dalla possibilità
di elaborare un template comune di popolazione e da una corretta
segmentazione dei diversi tessuti.
Al contrario, misure dirette dello spessore corticale sono più precise
e si adattano meglio a popolazioni disomogenee.
Nei bambini autistici il massimo volume corticale è raggiunto a 2-4
anni, circa 4-6 anni prima della norma con successivo rallentamento
di crescita (Courchesne et al., 2001).
La letteratura è discordante riguardo alla sede ed al tipo di interessamento, ipo o iperplastico, della sostanza grigia (SG) (review,
Brambilla et al., 2003). Tuttavia, di particolare interesse sono i riscontri di variazioni regionali nelle aree che sottendono le funzioni
cognitive sociali, tra le quali il giro frontale inferiore (IFG) il solco
temporale superiore (STS), il giro fusiforme (FG), l’amigdala e la regione prefrontale mediale. Studi con misure dirette dello spessore in
età evolutiva hanno riscontrato un aumento dello spessore corticale
totale, nei lobi parietale e temporale (Hardan et al., 2006), e una riduzione nella corteccia orbitale prefrontale, nell’STS di sinistra e nel
giro occipito-temporale (Chung et al., 2005). Caratteristiche particolari del fenotipo neuropsicologico autistico si correlano con specifiche variazioni morfometriche: per esempio variazioni correlate con i
comportamenti ripetitivi e stereotipati si riscontrano nella corteccia
orbitofrontale (riduzione volumetrica [Hardan et al., 2006]) e nel nucleo caudato (aumento di volume [Rojas et al., 2006]), mentre la
compromissione dell’interazione sociale è correlata con differenze
volumetriche nell’amigdala di destra (aumento di volume [Munson
et al., 2006]).
Anche la sostanza bianca (SB) raggiunge il suo maggior volume a
2-3 anni di età, mentre questo rapporto sembra ridursi nell’adolescenza per rallentata velocità di crescita (Courchesne et al., 2001).
Recenti studi MRI con tecniche in grado di valutare la struttura della
sostanza bianca (Diffusion Tensor Imaging) sono suggestivi per una
compromissione nelle regioni cerebrali coinvolte nelle funzioni sociali (Barnea-Goraly et al., 2004).
Uno studio volumetrico mostra uno shifting superiore e posteriore dei
solchi frontali, della scissura silviana e di quelli temporali, che depone
per una ritardata o incompleta maturazione, essendovi normalmente
uno shifting anteriore con l’età (Levitt et al., 2003) (Fig. 3).
Figura 3.
Diagramma dei solchi cerebrali, codificato con un codice cromatico per
indicare le maggiori differenze di posizione tra ogni solco in una popolazione di bambini con autismo rispetto a una popolazione di soggetti
normali di controllo (modificata da Levitt et al., 2003).
Figura 4.
La sostanza bianca periferica sottocorticale e di associazione intraemisferica appare di volume aumentato nell’autismo, mentre la sostanza
bianca profonda, contenente fibre di associazione interemisferica e di
proiezione appare di volume ridotto. A testimonianza di tale rilievo si
apprezza una riduzione di volume del corpo calloso.
L’incremento della SB, sottocorticale, che riguarda prevalentemente
le connessioni intraemisferiche (Herbert et al., 2004), mentre è costante il rilievo di un assottigliamento del corpo calloso (CC), nelle
porzioni anteriori che mediano la connessione interemisferica fra
aree corticali del cervello sociale (Just et al., 2007) (Fig. 4).
Segni biochimici di patologia
La spettroscopia con MRI (MRS) è una metodica in grado di valutare
vari metaboliti cerebrali a basso peso molecolare in vivo. Studi MRS
recenti in bambini riportano una riduzione dell’N-acetil-aspartato
(NAA, amminoacido presente prevalentemente nei neuroni e negli
assoni), nella SG e SB cerebrale, e del glutammato (Glx, neurotrasmettitore eccitatorio con ruolo integrante nei processi di sviluppo
neuronale) nella SG cerebrale e cerebellare (DeVito et al., 2007). Poiché negli studi autoptici (Bauman e Kemper, 2005) non risulta una
ridotta densità neuronale della SG è verosimile che la riduzione del
NAA cerebrale rifletta un deterioramento della funzione neuronale
piuttosto che una riduzione del numero dei neuroni.
Segni funzionali di patologia
Teoria dell’ipoconnettività
Questa teoria nasce nel 2004 da uno studio fMRI (Just et al., 2004)
che aveva riscontrato una ridotta sincronizzazione di aree corticali
attivate durate compiti di linguaggio, e suggerisce un ipofunzionamento dei circuiti di connessione, risultante in un deficit di integrazione delle informazioni.
Tale ipotesi è in accordo con i dati strutturali di modificazione delle
connessioni intraemisferiche e interemisferiche e con il rilievo PM di
minicolonne (organizzazione verticale dei neuroni nella neocorteccia)
più numerose e sottili nelle regioni frontale e temporale che creano
un’abbondanza di fibre corte di connessione (Casanova et al., 2002).
135
G.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Di Salle
In accordo sono anche i dati forniti da studi fMRI in adolescenti ed
adulti ad esempio con compiti di funzionamento esecutivo (Just et
al., 2007), di linguaggio e di immaginazione figurata (Kana et al.,
2006).
Compromissione dell’interazione sociale e linguaggio
Nei pazienti con DSA è evidente una compromissione dell’abilità a
riconoscere le facce e a valutare le espressioni facciali, essenziali
nell’interazione sociale. Studi fMRI con compiti di discriminazione
delle facce hanno riscontrato una mancata attivazione del giro fusiforme (FG, importante nell’identificazione delle facce), e una iperattivazione del giro temporale inferiore, coinvolto normalmente nel
riconoscimento di oggetti, indicativa di una strategia alternativa di
percezione (Schultz et al., 2000).
Gli studi fMRI sono controversi circa l’attivazione dell’amigdala, importante nel riconoscimento “automatico” delle emozioni facciali e
nel rilevarne il significato sociale, tuttavia in bambini ed adolescenti
(Wang et al., 2004) è stato rilevato che i DSA hanno una ipoattivazione dell’amigdala rispetto ai controlli in compiti di confronto delle
emozioni facciali (compito percettivo) rispetto a quelli di descrizione
dell’espressione del volto (compito cognitivo), con una minore attivazione anche del FG durante il compito di confronto. Il rilievo di
un’attivazione del precuneo testimonia l’uso di strategie percettive
alternative, mentre non è stata riscontrata compromissione dell’attività della corteccia prefrontale, coinvolta nell’interpretazione “cognitiva” esplicita delle emozioni.
Un recente studio (Dapretto et al., 2006) mostra che i bambini con
HFA hanno un’ipoattivazione dell’amigdala, dell’insula e della pars
opercularis durante l’osservazione e l’imitazione delle espressioni
emozionali della faccia e, a indicare l’uso di circuiti alternativi di elaborazione, maggiore attivazione delle aree modulate dall’attenzione
visiva e motoria (Fig. 5). La pars opercolaris del giro frontale inferiore
(IFG) fa parte, con la adiacente area ventrale (frontale inferiore), il
lobulo parietale inferiore ed il STS, del network di aree che sottendono al sistema dei neuroni specchio (MNS), basato sul fenomeno di
attivazione della stessa area corticale in seguito sia all’osservazione
Figura 5.
I bambini con DSA non mostrano attivazione della pars opercularis del
giro frontale inferiore (area anteriore) importante nel network del sistema dei neuroni specchio, presente invece, maggiormente a destra, in
quelli con sviluppo tipico. Diversamente dai controlli, nei DSA si osserva
attivazione della corteccia visiva (area posteriore) (modificata e semplificata da Dapretto et al., 2006).
136
sia all’esecuzione di una determinata azione. I dati riportati supportano dunque l’ipotesi di una precoce disfunzione del MNS, possibile
substrato del deficit di empatia nei DSA.
Evidenze fMRI di circuiti neurali alternativi di elaborazione provengono anche da studi sul linguaggio. Negli HFA è presente iperattivazione dell’area di Wernicke (LSTG), coerente con la loro iperlessicalità o inusuale capacità nell’elaborazione del significato delle
singole parole e ipoattivazione dell’IFG di sinistra (e in particolare
la pars triangularis), in accordo con il rilievo della compromissione
dell’elaborazione del significato di frasi complesse. La presenza di
una diversa attivazione del solco intraparietale che sottende l’immaginazione mentale, indica probabilmente una strategia di compenso
(Just, 2004). Tale area è reclutata anche per la comprensione di frasi
a bassa raffigurazione visiva e non solo, come nei controlli sani, per
quelle più complesse (Kana, 2006).
Particolarmente compromessa nei DSA è la capacità di capire le
“intenzioni comunicative” degli altri quando il linguaggio è utilizzato
in modo non letterale. Mediante l’uso di vignette con commenti lineari e ironici, è stata rilevata in bambini una maggiore attivazione
prefrontale e temporale, in particolare dell’IFG di destra, quando è
necessario interpretare il contesto, e bilateralmente in presenza di
analisi prosodica. Ciò riflette verosimilmente un maggiore bisogno
di integrare i segnali facciali, prosodici e del contesto per desumere
l’intento di chi parla quando il significato letterale di un commento è
in conflitto con le altre informazioni disponibili. Interessante è inoltre
il rilievo che le istruzioni esplicite di prestare attenzione alle espressioni facciali o al tono di voce provocano un pattern di attivazione
corticale simile a quello dei bambini con sviluppo tipico, circostanza
indicativa di integrità dei circuiti neurali (Wang et al., 2006). Se confermati, questi dati potrebbero avere importanti risvolti sulle strategie di intervento riabilitativo.
Disturbo da deficit d’attenzione e iperattività
Cenni nosografici
L’ADHD è un disturbo a esordio precoce caratterizzato da due gruppi
di sintomi o dimensioni psicopatologiche definibili come inattenzione e iperattività-impulsività. La prevalenza è del 5-10% in popolazioni di bambini in età scolare.
L’inattenzione si manifesta soprattutto come scarsa cura per i dettagli e incapacità a portare a termine le azioni intraprese con tendenza
allo spostamento rapido del focus attentivo da un’attività all’altra;
l’impulsività, generalmente associata ad iperattività, è la difficoltà
ad inibire le risposte automatiche e a controllare il comportamento
in vista di uno scopo.
Tali sintomi, non dipendono da deficit cognitivi ma da difficoltà oggettive nell’autocontrollo e nella capacità di pianificazione (DSM-IV).
Ipotesi neurobiologiche e neuroimaging
Sebbene la patogenesi non sia ancora nota, nell’ultima decade gli
studi di neuroimaging hanno notevolmente ampliato le conoscenze
sulle basi neurobiologiche. In particolare sembra emergere l’ipotesi
di un’alterazione anatomo-funzionale dei circuiti cerebrali che sottendono l’inibizione e l’autocontrollo, funzioni necessarie per il mantenimento dell’attenzione.
Appaiono compromesse la corteccia prefrontale, che ha un ruolo
fondamentale nei processi di attenzione, controllo esecutivo, programmazione e working memory, il cervelletto responsabile della
percezione e modulazione delle componenti tempo-correlate degli
stimoli e delle azioni, e i gangli della base coinvolti nell’attivazione
Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale
Tabella I.
Alterazioni morfologiche in bambini e adolescenti con ADHD.
Aree cerebrali
Alterazione
Studi
Volume totale cerebrale
Riduzione del volume
Castellanos (2001, 2002), Mostofsky (2002), Hill (2003),
Carmona (2005)
Lobo frontale
Riduzione volume della corteccia prefrontale
Mostofsky (2002), Hill (2003), Wang (2007)
Riduzione volume lobo frontale
Carmona (2005)
Riduzione volume corteccia orbitofrontale
Sowell (2003), Carmona (2005)
Riduzione sostanza grigia prefrontale
MacAlonan (2007)
Aumento sostanza grigia orbitofrontale
Plessen (2006)
Riduzione volume corteccia anteriore bilaterale
Sowell (2003)
Riduzione volume regione temporo mediale dx
Wang (2007)
Riduzione di volume lobo parietale sin
Wang (2007)
Lobo temporale
Lobo parietale
Riduzione volume corteccia paritale inf bil
Sowell (2003)
Lobo occipitale
Aumento volume lobo occipitale dx
Wang (2007)
Cervelletto
Deficit volume cerebellare bilaterale
Castellanos (2002), Carmona (2005)
Deficit volume verme cerebellare
Castellanos (2001)
Ippocampo
Aumento volume bilaterale
Plessen (2006)
Corpo calloso
Riduzione volume corpo calloso
Hill (2003)
Gangli della base
Riduzione volume gangli della base
Wang (2007)
e inibizione dell’attività motoria (Bush et al., 2005; Seidman et al.,
2005).
Neuroimaging morfometrico
Anche nell’ADHD i dati morfometrici finora prodotti sono estremamente disomogenei (Tab. I), probabilmente a causa di differenze
metodologiche, dell’esiguo numero di pazienti esaminati e della
disomogeneità dei campioni (pazienti trattati o meno farmacologicamente, range di età diversi).
Il comune denominatore dei dati pubblicati è una riduzione generalizzata di volume del cervello, differente nei due sessi (Castellanos
et al., 2001). Ad essa contribuisce una riduzione di volume della
SG e della SB cerebrale, del corpo calloso (Hill et al., 2003) e del
cervelletto. Tale riduzione di volume è diffusa ma non generalizzata:
ad esempio l’ippocampo e la SG orbito-frontale ed occipitale appaiono aumentate di volume. È interessante notare che l’aumento
di volume ippocampale si correla negativamente con la severità dei
sintomi, forse per un ruolo compensatorio (Plessen et al., 2006).
Neuroimaging funzionale
Il primo approccio allo studio del disturbo con metodiche di neuroimaging funzionale si è avvalso di metodiche medico/nucleari (SPECT
e PET) che hanno dato un notevole contributo alla comprensione
della patogenesi, suggerendo che una disregolazione del sistema
dopaminergico sia alla base del disturbo (Spencer et al., 2005).
Gli studi di fRMI hanno focalizzato l’attenzione sulle aree cerebrali normalmente coinvolte nelle funzioni esecutive, che regolano i
processi cognitivi di pianificazione, controllo e coordinazione. Tra le
alterazioni delle funzioni esecutive (memoria, orientamento, pianificazione, capacità di problem solving, ecc.) riscontrate nell’ADHD, i
deficit d’attenzione e d’inibizione di risposte automatiche risultano
rilevanti e sono stati i più indagati con metodiche di neuroimaging
funzionale.
In particolare si è evidenziata una minore attività dei sistemi di
inibizione ed un’iperattività dei sistemi di attivazione. Per esempio
attraverso il task di “Go-No Go”, che valuta l’abilità di un indivi-
duo ad inibire una risposta abituale, si è evidenziato un deficit funzionale della corteccia prefrontale (Durston, 2003). In particolare
un’ipoattivazione della corteccia dorsale cingolata anteriore (dACC)
sembra essere correlata a un’inefficiente capacità di decisione, ed
un aumento degli errori ad un aumento dell’attività della corteccia
cingolata anteriore perigenuale (pgACC) (Bush, 2005). Sempre con
lo stesso task di inibizione della risposta, Rubia et al. (2005) evidenziano un’ipoattivazione della corteccia prefrontale inferiore destra
durante l’inibizione riuscita e della corteccia cingolata posteriore e
del precuneo durante l’inibizione fallita.
Per quanto riguarda l’attenzione appare evidente un’alterazione funzionale di tutti i network che la sottendono. Ad esempio attraverso
un Attention Network Test è stata osservata una ridotta attivazione
dell’ACC durante lo stato di allerta, ed un’ipoattivazione del putamen
dx e della corteccia prefrontale sin durante il controllo esecutivo,
mentre durante la fase di orientamento della scelta un aumento dell’attivazione nel putamen dx e nel giro frontale dx e nell’insula di
sin. Mentre Rubia et al. (2007) valutando le risposte date quando il
task prevede l’individuazione di uno stimolo deviante (Odball) in una
serie temporale di stimoli identici, evidenzia una ridotta attivazione
della corteccia temporale, dell’insula, dei gangli della base e del lobo
parietale.
La composizione di questi e altri risultati (Fig. 6) ha permesso di
definire l’ADHD come un disturbo neurobiologico della corteccia
prefrontale e dei nuclei della base che si manifesta come un’alterata
elaborazione degli stimoli ambientali.
Dislessia
Cenni nosografici
La dislessia è un disturbo neurobiologico, con una larga componente ereditaria, che comporta una difficoltà specifica nell’acquisizione
della capacità di leggere in modo fluente e/o accurato e che in genere si associa a carente abilità nella scrittura.
Possono esservi anomalie sottostanti dell’elaborazione cognitiva
137
G.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Di Salle
Figura 6.
Esempi di task frequentemente usati nell’ADHD.
come ad esempio un deficit della percezione visiva o dello sviluppo
del linguaggio, prevalentemente nella sua componente fonologica.
Le stime della prevalenza dei disturbi dell’apprendimento variano
dal 2 al 10% (DSM-IV).
Conseguenze secondarie possono includere problemi di comprensione e ridotta pratica della lettura, con risvolti sull’ampliamento del
vocabolario e sul bagaglio di conoscenze culturali generali.
Neuroimaging morfometrico e strutturale
I dati degli studi di imaging morfologico appaiono poco omogenei
per le diversità metodologiche e per l’esiguità e l’eterogeneità dei
pazienti studiati (spesso adulti con conseguenti ulteriori variabili legate alla scolarizzazione o al ridotto esercizio di lettura negli
anni).
Le regioni cerebrali compromesse in bambini ed adolescenti sono
alquanto diffuse e includono il lobo frontale, parietale, temporale e il
cervelletto. Mediante tecniche di segmentazione manuale (Eckeret
et al., 2003) è stata riscontrata una riduzione di volume della pars
triangularis e del lobo anteriore destro cerebellare, correlate con il
deficit neuropsicologico. Correlazioni positive tra modificazioni del
volume della SG e performance sono state inoltre riscontrate nel
giro temporale inferiore sinistro (riduzione), precentrale bilaterale
(aumento, Vinckenbosk el al., 2005) e fusiforme bilaterale, nel cervelletto e nel giro sovramarginale destro (riduzione, Kronbichler et
al., 2007).
138
Figura 7.
Aree cerebrali coinvolte nel deficit di lettura. Nella maggior parte degli
studi di fRMI è riportata un’ipoattivazione della regione temporo-parietale dorsale, deputata all’analisi fonologica, della regione occipitotemporale ventrale responsabile dell’abilità di decodifica dell’ortografia.
Un aumento di attivazione è invece riscontrato nella regione frontale, in
particolare il giro frontale inferiore, associata alle funzioni di denominazione e articolazione.
Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale
Neuroimaging funzionale
Gli studi di imaging funzionale hanno permesso di identificare, come
responsabili di un mancato sviluppo di una lettura fluente, alterazioni
funzionali in regione occipito-temporale sinistra (Shaywtz et al., 2006).
In particolare il dato più frequentemente riscontrato è un’ipoattivazione
a sinistra della regione parieto-temporale (competenza fonologica) e
nel giro fusiforme (abilità di decodifica dell’ortografia), e un’iperattivazione dell’IFG (processo di compensazione) (Hoeft et al., 2007) (Fig. 7).
Un recente studio (Hoeft et al., 2006) evidenzia un’ipoattivazione del
lobo parietale inferiore sinistro, giro linguale e fusiforme, probabilmente in relazione con un’anomalia funzionale indipendente dal livello dell’abilità di lettura, mentre aree di iperattivazione (giro frontale sinistro
inferiore e medio, caudato sinistro e talamo destro) correlano con il
livello corrente dell’abilità di lettura. Inoltre le alterazioni morfologiche
evidenziate correlano solo con il pattern di ipoattivazione.
Uno studio recente (Booth et al., 2007), analizzando le capacità
semantiche di adolescenti, evidenzia che i dislessici presentano,
sia per task visivi che uditivi, una ridotta attività nel giro temporale medio e lobo parietale inferiore di sinistra, area dell’integrazione
dell’informazione semantica, e un’ipoattivazione del giro frontale
omolaterale, propria solo dello stimolo visivo.
L’identificazione delle sub-componenti che costituiscono i circuiti
neurali interessati dal deficit di lettura,rappresenta un traguardo importante anche se ancora incompleto.
Conclusioni
Per quanto gli studi di neuroimaging funzionale siano suggestivi ed
estremamente promettenti, al momento non si prospetta per tali
indagini un chiaro ruolo diagnostico. L’utilizzazione che viene fatta
attualmente del neuroimaging consiste in genere nello sfruttare le
potenzialità dell’imaging strutturale tradizionale per escludere patologie organiche.
Tuttavia appare evidente che la convergenza di informazioni morfometriche e funzionali in un approccio multimodale, possa contribuire notevolmente all’identificazione dei circuiti neurali interessati nei
diversi disordini.
Di estremo interesse risulta la possibilità che i risultati del neuroimaging possano avere un’influenza diretta sulla scelta e sul monitoraggio delle strategie neuroriabilitative, per la possibilità di valutare
direttamente la normalizzazione dei circuiti neurali interessati dai
DSA e dall’ADHD.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima...
L’autismo per molti decenni è stato considerato un disturbo affettivo, risultante da precoci esperienze di attaccamento e inadeguata promozione dell’interazione sociale, statico nel corso della vita.
Il disturbo da deficit d’attenzione e iperattività, definito prima “disordine ipercinetico” o Minimal Brain Dysfunction, fino a pochi anni fa veniva diagnosticato raramente, soprattutto in Italia, pur rappresentando uno dei disordini psichiatrici più frequenti in età evolutiva. Ciò è dovuto ai differenti criteri di
classificazione e alle difficoltà di identificarne il nucleo patogenetico.
Numerosi sono stati, nel corso degli anni, i tentativi di comprendere le basi neuropsicologiche della dislessia, ma le teorie che si sono susseguite (teorie
del processamento rapido, visiva, cerebellare, magnocellulare, ecc.), non sono sufficienti a chiarire la natura del disturbo.
Cosa sappiamo oggi...
Negli ultimi anni le tecniche di neuroimaging hanno dato un notevole contributo alla comprensione delle basi neurobiologiche di alcuni disordini dell’età
evolutiva (disturbo autistico, disturbo da deficit d’attenzione e iperattività, dislessia). Una revisione della letteratura sull’uso delle tecniche di neuroimaging mette in evidenza risultati spesso eterogenei legati sia alla ridotta numerosità che alla disomogeneità delle popolazioni studiate, ed anche a
variabili dipendenti dalle metodiche stesse.
Tuttavia acquisizioni interessanti sono state prodotte da tecniche di morfometria in risonanza magnetica, dalla possibilità di valutare in vivo metaboliti
cerebrali con la spettroscopia (MRS), e soprattutto dalla possibilità di una valutazione funzionale (fMRI) dei circuiti neurali. Ad esempio, i DSA sono
adesso riconosciuti come espressione di un disordine organico dello sviluppo cerebrale pre- e post-natale e gli studi di morfometria hanno avuto un
ruolo cruciale nell’identificazione di sottili modifiche morfometriche tipiche, con diversa espressione con l’età. Gli studi funzionali hanno poi evidenziato
la presenza di alterazioni tipiche delle funzioni cerebrali implicate nello sviluppo e nella gestione delle relazioni sociali, e il ruolo cruciale che assume
un diffuso deficit di connessione a lungo raggio ed interemisferica.
L’applicazione di queste metodiche ha permesso, tra l’altro, di definire l’ADHD come un disturbo neurobiologico della corteccia prefrontale e dei nuclei
della base, e la dislessia come una disfunzione del processing fonologico nel cui sviluppo intervengono fattori genetici e/o ambientali.
Quali ricadute sulla pratica clinica...
Per quanto gli studi di neuroimaging siano suggestivi ed estremamente promettenti, al momento non si prospetta per tali indagini un chiaro ruolo
diagnostico. L’utilizzazione che ne viene fatta consiste in genere nell’esclusione di patologie lesionali.
Tuttavia appare evidente che la convergenza di informazioni morfometriche e funzionali in un approccio multimodale, possa contribuire notevolmente
all’identificazione dei circuiti neurali interessati nei diversi disordini, possa ben presto essere di aiuto nell’identificazione di bambini a rischio e, soprattutto, nelle valutazioni prognostiche e nel monitoraggio dei trattamenti.
Di estremo interesse la possibilità che i risultati del neuroimaging abbiano un’influenza diretta sulla scelta e sul monitoraggio delle strategie neuroriabilitative, per la possibilità di monitorare direttamente la normalizzazione dei circuiti neurali interessati dai DSA e dall’ADHD.
139
G.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Di Salle
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Brambilla P, Hardan A, di Nemi SU, et al. Brain anatomy and development in
autism: review of structural MRI studies. Brain Res Bull 2003;61:557-69.
Accurata review sugli studi MRI strutturali nei DSA, con rilievo di evidenze convergenti di anomalie nei network neurali comprendenti il sistema fronto-temporo-parietale, limbico ed il cervelletto, manifesti nei primi anni di vita. Focalizza
la necessità del rigore metodologico e della correzione dei dati per fattori di
confound quali età, sesso e QI, sulla base della discordanza dei risultati nei vari
studi.
**
Bush G, Valera EV, Seidman LJ. Functional neuroimaging of attention deficit hyperactivity disorder: a review and suggested future directions. Biol Psychiatry
2005;57:1273-84.
Attenta review che prende in considerazione sia studi di SPECT, PET che di
fRMI e le aree cerebrali interessante da un punto di vista funzionale nell’ADHD.
**
Casanova MF, Buxhoeveden, DP, Switala AE, et al. Minicolumnar pathology in
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Courchesne E, Karns C, Davis HR, et al. Unusual brain growth patterns in early
life in patients with autistic disorder: an MRI study. Neurology 2001;57:245-54.
Studio condotto su un’ampia popolazione con DSA che evidenzia l’anomalia
del pattern di crescita del volume totale, della sostanza grigia e bianca e del
cervelletto.
**
Dapretto M, Davies MS, Pfeifer JH, et al. Understanding emotions in others: mirror neuron dysfunction in children with autism spectrum disorders. Nat Neurosi
2006;9:28-30.
È il primo studio fMRI che indaga il sistema dei neuroni specchio in bambini
con DSA fornendo forte supporto all’ipotesi di una precoce disfunzione di questo
sistema, verosimile substrato del deficit di empatia.
**
DeVito TJ, Drost DJ, Neufeld RW, et al. Evidence for cortical dysfunction in autism: a proton magnetic resonance spectroscopic imaging study. Biol Psychiatry
2007;61:465-73.
Durston S. A review of the biological bases of ADHD: what have we learned from
imaging studies? MRDD 2003;9:184-95.
Ampia analisi che correla aspetti clinici, neurofarmacologici, genetici e di neuroimaging dell’ADHD, con particolare attenzione agli studi anatomici e funzionali.
**
Ecker MA, Leonard CM, Richerds TL, et al. Anatomical correlates of dyslexia:
frontal and cerebellar findings. Brain 2003;126:482-94.
Dettagliata review che analizza lo stato dell’arte in merito agli studi morfometrico-strutturali sulla dislessia.
**
Hardan AY, Muddasani S, Vemulapalli M, et al. An MRI study of increased cortical
thickness in autism. Am J Psychiatry 2006;163:1290-2.
Herbert MR, Ziegler DA, Makris N, et al. Localization of white matter volume increase in autism and developmental language disorder. Ann Neurol
2004;55:530-40.
Questo studio caratterizza le modificazioni volumetriche della sostanza bianca
dimostrando che solo quella sottocorticale è ingrandita, con una deviazione rispetto alla norma soprattutto nei lobi frontali. Questo pattern volumetrico è simile
a quello dei soggetti con disturbi del linguaggio.
**
Hoeft F, Hernandez A, McMillon G, et al. Neural basis of dyslexia: a comparison
between dyslexic and non dyslexic children equated for reading ability. J Neurosci 2006;26:10700-8.
**
L’autore confronta pazienti dislessici sia con controlli omogenei per età che
140
controlli omogenei per abilità di lettura. Emergono quindi dati dipendenti dalla
dislessia e dati correlati alle abilità di lettura indipendenti dalla dislessia.
Hoeft F, Meyler A, Hernandez A, et al. Functional and morphometric brain dissociation between dyslexia and reading ability.PNAS 2007;104:4234-9.
Just MA, Cherkassky VL, Keller TA, Minshew NJ. Cortical activation and synchronization during sentence comprehension in high-functioning autism: evidence of
underconnectivity. Brain 2004;127:1811-21.
Questo studio mette in luce nei DSA il deficit di connessione funzionale fra aree
deputate al linguaggio e, integrando i questi risultati ai dati strutturali di studi
precedenti, l’autore formula la teoria dell’ipoconnettività.
**
Just MA, Cherkassky VL, Keller TA, et al. Functional and anatomical cortical underconnectivity in autism: evidence from an FMRI study of an executive function
task and corpus callosum morphometry. Cereb Cortex 2007;17:951-61.
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Kana RK, Keller, TA, Cherkassky VL, et al. Sentence comprehension in autism: thinking in pictures with decreased functional connectivity. Brain 2006;129:2484-93.
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attention deficit/hyperactivity disorder: evidence from an Event-related fuctional
magnetic resonance imaging study. Biol Psychiatry 2006;59:643-51.
Kronbichler M, Wimmer H, Staffen W, et al. Developmental dyslexia: gray
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2008;29:613-25.
Levitt JG, Blanton RE, Smalley S, et al. Cortical sulcal maps in autism. Cereb
Cortex 2003;13:728-35.
Munson J, Dawson G, Abbott R, et al. Amygdalar volume and behavioral development in autism. Arch Gen Psychiatry 2006;63:686-93.
Questo studio, condotto su 45 bambini tra 3 e 6 anni di età con DSA, dimostra
che l’incremento volumetrico dell’amigdala di destra a 3-4 anni è associato con
un decorso clinico più severo ed una prognosi peggiore nelle età successive.
**
Plessen KJ, Bansal R, Zhu H, et al. Hippocampus and amygdala morphology in
attention-deficit/hyperactivity disorder. Arch Jen Psychiatry 2006;63:795-807.
Redcay E, Courchesne E. When is the brain enlarged in autism? A meta-analysis
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Questa meta-analisi mostra che l’incremento volumetrico cerebrale postnatale
è un fenomeno presente in molti studi. Nonostante i diversi metodi di acquisizione, quando le dimensioni cerebrali sono corrette per l’età risulta un chiaro
pattern di aumentato accrescimento cerebrale con ridotto o normale volume
alla nascita, rapido accrescimento nei primi 2-4 anni e successivo forte rallentamento di crescita.
**
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Accurata analisi che spiega il ruolo della fRMi nella comprensione delle basi
neuronali della dislessia, evidenziando anche la disomogenità dei risultati.
**
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Spencer TJ, Biederman J, Madras BK, et al. In vivo neuroreceptor imaging in attention-deficit/hyperactivity disorder: a focus on the dopamine transporter. Biol
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Attenta review confronta studi PET e SPECT, effettuati in centri diversi e con
sonde diverse, ne risulta che nella maggior parte degli studi è evidente un significativo aumento dei recettori dopaminergici in bambini e adulti con ADHD in
particolare a livello dello striato, probabilmente come compenso di una disregolazione della dopamina.
**
Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza magnetica funzionale
Vinckenbosch E, Robichon F, Eliez S. Gray matter alteration in dyslexia: converging avidence from volumetric and voxel-by-voxel MRI analyses. Neuropsychologia 2005;43:324-31.
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Studio condotto su 80 bambini con DSA. Le istruzioni esplicite a prestare attenzione alle espressioni facciali ed al tono di voce, possono evocare un incremento di attività della corteccia prefrontale mediale che è parte del network
per la conoscenza delle intenzioni degli altri. Questi risultati suggeriscono una
strategia per future ricerche su interventi neuroriabilitativi.
**
Corrispondenza
dott.ssa Giovanna Stefania Colafati, Dipartimento di Diagnostica per Immagini, Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, largo S. Onofrio 4, 00165 Roma
• Tel. +39 06 68592487 • Cell. +39 349 6972982 • E-mail: [email protected]
141
Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 142-151
FRONTIERE
Alterata regolazione della via di trasduzione
del segnale RAS-MAPK come meccanismo
unificante delle sindromi di Noonan, LEOPARD,
Costello e cardiofaciocutanea:
le sindromi neurocardiofaciocutanee
Giuseppe Zampino*, Marco Tartaglia**
Servizio di Epidemiologia e Clinica dei Difetti Congeniti, Istituto di Clinica Pediatrica, Università Cattolica del Sacro
Cuore, Roma; ** Dipartimento di Biologia Cellulare e Neuroscienze, Istituto Superiore di Sanità, Roma
*
Riassunto
In questa revisione si riassumono le recenti evidenze sperimentali che dimostrano il coinvolgimento della via RAS-MAPK, da tempo nota per il suo ruolo
centrale nell’oncogenesi, nella patogenesi di un gruppo di sindromi malformative (le sindromi di Noonan, di Costello, LEOPARD e cardiofaciocutanea, e la
neurofibromatosi di tipo 1) che condividono caratteristiche cliniche, tra cui dimorfismi facciali, difetti cardiaci congeniti, anomalie dell’apparato scheletrico,
coinvolgimento ectodermico, deficit d’accrescimento e cognitivo e, in alcuni casi, predisposizione a specifici tumori o emopatie maligne, giustificando il loro
raggruppamento in un’unica famiglia di sindromi “neurocardiofaciocutanee”. Saranno discussi gli eventi molecolari responsabili dell’alterata regolazione
del flusso di informazioni promosso dalla via RAS-MAPK e il loro significato funzionale. Presenteremo le evidenze molecolari e biochimiche che dimostrano
la diversa capacità delle mutazioni trasmesse per via germinale o acquisite come eventi somatici di alterare quei processi cellulari che controllano lo sviluppo embrionale e l’oncogenesi, e delineeremo gli aspetti clinici più importanti relativi ai diversi geni coinvolti.
Summary
Here we review recent molecular and biochemical evidence supporting the major role of dysregulared RAS-MAPK signalling in the pathogenesis of a group
of clinically related developmental disorders, namely Noonan, LEOPARD, Costello and cardiofaciocutaneous syndromes and neurofibromatosis type 1. These
conditions share a number of features, including facial dysmorphisms, congenital heart defects and hypertrophic cardiomyopathy, skeletal anomalies,
ectodermal involvement, defective linear growth, variable cognitive deficit and predisposition to certain malignancies, and have collectively been termed
“neurocardiofaciocutaneous syndromes”. In this review, we report on the molecular causes, i.e. missense mutations in the PTPN11, SOS1, HRAS, KRAS,
NF1, BRAF, RAF1, MEK1 and MEK2 genes, which are responsible for dysregulation of the RAS-MAPK pathway, as well as the accumulating data indicating
the strict correlation between the identity of mutations and their recurrence as a somatically acquired vs. germline transmitted event. Their differential
perturbing role on protein function and signal flow will be discussed. We also summarize the most relevant clinical features associated with each individual
gene involved.
Introduzione
La trasduzione del segnale è un processo di trasferimento e integrazione dell’informazione necessario alla cellula per rispondere in
maniera appropriata agli stimoli esterni. Nel contesto della singola
cellula, le vie di trasduzione del segnale controllano virtualmente
tutti i processi metabolici, così come lo stesso destino cellulare. A un
livello superiore, esse rappresentano il meccanismo attraverso cui
le cellule coordinano lo sviluppo embrionale e la crescita dell’organismo. Non sorprende perciò che un numero sempre più cospicuo di
malattie genetiche sia causato da alterazioni del flusso di segnalazione intracellulare, così come la disregolazione di una stessa via di
trasduzione possa essere alla base di malattie dello sviluppo tra loro
correlate e contribuire all’oncogenesi.
Le proteine RAS (Rat Osteosarcoma) sono trasduttori del segnale che
funzionano come interruttori molecolari nel controllo della risposta
cellulare a stimoli esterni. Esse giocano un ruolo chiave nel controllo
142
della proliferazione, del metabolismo e del destino differenziativo
delle cellule, accoppiando l’attivazione di recettori di superficie cellulare a diverse vie di segnalazione intracellulare che hanno come
ultimo bersaglio la modulazione dell’espressione genica. La loro scoperta, la delineazione del loro ruolo nella regolazione delle funzioni
cellulari e l’identificazione dell’attività aberrante di queste proteine
come uno degli eventi più frequenti che contribuisce all’oncogenesi, hanno fornito un importante contributo per la comprensione dei
complessi meccanismi molecolari che regolano la comunicazione tra
cellule. Sorprendentemente, le scoperte effettuate negli ultimi anni
hanno documentato che una distinta classe di mutazioni in queste
proteine e in trasduttori del segnale che ne controllano la funzione
o ne propagano il segnale, rappresenta la causa molecolare di un
gruppo di malattie dello sviluppo clinicamente correlate che include
la sindrome di Noonan (SN; OMIM 163950) (Box 1), la sindrome cardiofaciocutanea (SCFC; OMIM 115150) (Box 2), la sindrome di Co-
Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK
Box 1 - La sindrome di Noonan
Incidenza
1:2000
Sviluppo psicomotorio
Difficoltà di apprendimento (25%), ritardo psicomotorio lieve (10-15%). Performance verbali più
basse di quelle motorie.
Crescita
Peso: normale alla nascita, rallentamento nei primi mesi di vita per difficoltà alla deglutizione,
recupero entro 18 mesi. Statura: alla nascita normale, in seguito il 50° centile segue il 3° centile
del bambino normale fino alla pubertà quando lo spurt puberale nel paziente con SN sembra meno
intenso. L’età ossea è ritardata permettendo una crescita potenziale fino ai 20 anni.
Caratteristiche craniofacciali
Si modificano con l’età, gli elementi salienti sono: ipertelorismo, epicanto, rima oculare verso il
basso, palpebra ptosica e/o ispessita, padiglioni auricolari a basso impianto, ruotati posteriormente
con elice ripiegato, sella nasale ipoplasica e punta bulbosa. Nel tempo il volto diventa triangolare
con fronte ampia e mento appuntito.
Caratteristiche cardiovascolari
Stenosi della valvola polmonare (20-50%), spesso displasica; cardiomiopatia ipertrofica (20-30%);
DIA, DIV, coartazione aortica, tetralogia di Fallot; disturbi del ritmo.
Caratteristiche scheletriche
Collo corto, torace carenato superiormente escavato inferiormente, cubito valgo.
Caratteristiche ectodermiche
Cheratosi follicolare sulla superficie estensoria degli arti e sul volto, lentiggini e macchie caffèlatte.
Altro
Pterigio del collo, criptorchidismo, epatosplenomegalia, diatesi emorragica, linfedema dorso mani
e piedi che tende a scomparire, anomalia di Chiari, ipoacusia.
La presenza di lentigginosi, ipoacusia, cardiomiopatia ipertrofica orientano verso la sindrome LEOPARD.
La presenza di macchie caffè-latte, neurofibromi e noduli di Lish orientano verso la condizione neurofibromatosi-sindrome di Noonan.
Box 2 - La sindrome cardiofaciocutanea
Incidenza
Rara
Sviluppo psicomotorio
Ritardo psicomotorio moderato-grave; epilessia a volte farmacoresistente.
Crescita
Peso e lunghezza neonatali normali; difficoltà alla deglutizione e problemi gastrointestinali (RGE)
determinano rallentamento della crescita ponderale; bassa statura.
Caratteristiche craniofacciali
Macrocefalia relativa, fronte alta, costrizione bitemporale, arcate sopraorbitarie ipoplasiche, ipertelorismo, telecanto, epicanto, ptosi, naso piccolo con ipoplasia della radice e narici anteverse, padiglioni
auricolari a basso impianto, angolati posteriormente, con digitazioni sul lobo, filtro profondo, relativa
micrognatia.
Caratteristiche cardiovascolari Stenosi polmonare, difetti settali, cardiomiopatia ipetrofica, displasia valvolare, disturbi del ritmo.
Caratteristiche scheletriche
Collo corto, deformità del torace.
Caratteristiche ectodermiche
Iperchetarosi palmo-plantare, ulteritema ophrogene, ittiosi; capelli sparsi, ricci, fini e radi; sopracciglia ipoplasiche; unghie distrofiche.
Altro
Criptorchidismo, malformazione di Chiari tipo 1, idrocefalo.
stello (SC; OMIM; 218040) (Box 3), la sindrome LEOPARD (SL; OMIM
151100) e la neurofibromatosi di tipo 1 (NF1; OMIM 162200) (Gelb e
Tartaglia, 2006; Kratz et al., 2007; Schubbert et al., 2007). Tali sindromi malformative condividono numerose caratteristiche cliniche,
giustificando il loro raggruppamento in un’unica famiglia di sindromi
“neurocardiofaciocutanee”. In questa revisione sarà presentata una
breve descrizione della via di trasduzione del segnale mediato dalle
proteine RAS e dalle MAPK (Mitogen-Associated Protein Kinase), degli eventi molecolari responsabili dell’alterata regolazione della via e
del loro impatto nello sviluppo e nell’oncogenesi.
Le proteine RAS e la cascata MAPK
Le proteine RAS sono piccole GTPasi, cioè enzimi che idrolizzano
la guanosina trifosfato (GTP) a guanosina difosfato (GDP), in grado
di assumere due conformazioni alternative che dipendono dal loro
legame con i due nucleosidi guaninici (Barbacid, 1987). Nella loro
conformazione attiva esse legano GTP, mentre nella conformazione
funzionalmente inattiva legano GDP. Tali legami sono estremamente
specifici e stabili, e il corrispondente cambiamento conformazionale richiede la loro interazione con proteine che agiscono come
catalizzatori, sia per la reazione di idrolisi del GTP a GDP che per il
rilascio di GDP (Wittinghofer e Waldmann, 2000). L’attivazione delle
proteine RAS avviene in risposta alla stimolazione indotta da una
molecola segnale, quale un fattore di crescita o una citochina. Il
legame di tali molecole a recettori della superficie cellulare promuove infatti la creazione di siti di legame per proteine adattatrici e
proteine con funzione regolatoria nella porzione citoplasmatica dei
143
G. Zampino, M. Tartaglia
Box 3 - La sindrome di Costello
Incidenza
1:2000
Sviluppo psicomotorio
Difficoltà di apprendimento (25%), ritardo psicomotorio lieve (10-15%). Performance verbali più
basse di quelle motorie.
Crescita
Peso: normale alla nascita, rallentamento nei primi mesi di vita per difficoltà alla deglutizione,
recupero entro 18 mesi. Statura: alla nascita normale, in seguito il 50° centile segue il 3° centile
del bambino normale fino alla pubertà quando lo spurt puberale nel paziente con SN sembra meno
intenso. L’età ossea è ritardata permettendo una crescita potenziale fino ai 20 anni.
Caratteristiche craniofacciali
Si modificano con l’età, gli elementi salienti sono: ipertelorismo, epicanto, rima oculare verso il
basso, palpebra ptosica e/o ispessita, padiglioni auricolari a basso impianto, ruotati posteriormente
con elice ripiegato, sella nasale ipoplasica e punta bulbosa. Nel tempo il volto diventa triangolare
con fronte ampia e mento appuntito.
Caratteristiche cardiovascolari
Stenosi della valvola polmonare (20-50%), spesso displasica; cardiomiopatia ipertrofica (20-30%);
DIA, DIV, coartazione aortica, tetralogia di Fallot; disturbi del ritmo.
Caratteristiche scheletriche
Collo corto, torace carenato superiormente escavato inferiormente, cubito valgo.
Caratteristiche ectodermiche
Cheratosi follicolare sulla superficie estensoria degli arti e sul volto, lentiggini e macchie caffèlatte.
Altro
Pterigio del collo, criptorchidismo, epatosplenomegalia, diatesi emorragica, linfedema dorso mani
e piedi che tende a scomparire, anomalia di Chiari, ipoacusia.
La presenza di lentigginosi, ipoacusia, cardiomiopatia ipertrofica orientano verso la sindrome LEOPARD.
La presenza di macchie caffè-latte, neurofibromi e noduli di Lish orientano verso la condizione neurofibromatosi-sindrome di Noonan.
recettori stessi. La formazione di questo complesso attivato favorisce la traslocazione in membrana di proteine GEF (Guanine Nucleotide Exchange Factor) che, interagendo direttamente con le proteine
RAS, ne facilitano il rilascio di GDP, promuovendone il legame con
GTP, presente a più alte concentrazioni nella cellula (Fig. 1). RAS
legante GTP assume una conformazione in grado di interagire con
numerosi effettori intracellulari per regolare diverse vie di trasduzione dell’informazione che promuovono le risposte cellulari al segnale. Il flusso dell’informazione è controllato da un meccanismo di
regolazione attuato dalle proteine GAP (GTPase Activating Proteins)
che, stimolando l’attività catalitica di RAS, promuovono l’idrolisi del
GTP a GDP e, conseguentemente, il ripristino della conformazione
inattiva.
Figura 1.
La via di trasduzione del segnale RAS-MAPK e i geni coinvolti nelle
sindromi neurocardiofaciocutanee.
144
La modalità attraverso cui le proteine RAS controllano il flusso dell’informazione è complessa (Malumbres e Barbacid, 2003) ed è in
parte mediata dalla cascata MAPK. Questa via di traduzione comprende le proteine RAF (Rat Fibrosarcoma) ad attività serina/treonina
chinasica, effettori di RAS, in grado di fosforilare e attivare le proteine
MEK (Mitogen-Activated and Extracellular Signal-Regulated Kinase),
chinasi a doppia specificità che a loro volta attivano le proteine ERK
(Extracellular Signal-Regulated Kinase), serina/treonina chinasi che
regolano la funzione di proteine citoplasmatiche e nucleari, inclusi
numerosi fattori di trascrizione.
Mutazioni somatiche e germinali dei geni HRAS e
KRAS
I tre geni RAS codificano per quattro proteine di 21 kD, HRAS, NRAS,
KRASA e KRASB, le ultime due originate da un diverso processamento dello stesso trascritto. I quattro membri della famiglia sono
caratterizzati da una regione N-terminale altamente conservata che
comprende le regioni di interazione con le proteine effettrici e regolatorie e la tasca che lega GTP/GDP, e una corta porzione C-terminale altamente divergente che contiene motivi di riconoscimento per il
complesso processamento postraduzionale richiesto per direzionare
queste proteine sulla superficie citoplasmatica della membrana cellulare e delle altre membrane intracellulari.
Le mutazioni somatiche attivanti nei geni RAS si osservano in circa il
30% dei tumori solidi e leucemie. Nella grande maggioranza dei casi
le mutazioni che promuovono le proteine RAS a divenire oncoproteine
causano singole sostituzioni aminoacidiche di un numero esiguo di residui che pregiudicano l’attività catalitica GTPasica della proteina e/o
conferiscono resistenza all’azione delle proteine GAP. In entrambi i casi,
queste mutazioni promuovono il mantenimento costitutivo della conformazione attiva legante GTP in grado di interagire con i diversi effettori e
di conferire un comportamento aberrante nella cellula tumorale.
Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK
Tabella I.
Lista dei geni implicati nelle sindromi neurocardiofaciocutanee, fenotipo associato e rilevanza clinica delle mutazioni somatiche dei geni coinvolti.
Gene
Sindrome e prevalenza delle mutazioni Caratteristiche cliniche
PTPN11
Sindrome di Noonan (40-50%); sindrome Stenosi della polmonare, deficit cognitivo lieve JMML, leucemie acute
LEOPARD (85%)
(25%)
SOS1
Sindrome di Noonan (10%)
Normale sviluppo cognitivo e accrescimento, Non descritte
anomalie ectodermiche
KRAS
Sindrome di Noonan (3%); sindrome
cardiofaciocutanea (5-10%)
Fenotipo clinico variabile, ritardo mentale lieve Tumori del colon, polmoni, pancreas, ovarici e
o moderato, coinvolgimento ectodermico
tratto biliare, leucemie acute
HRAS
Sindrome di Costello (85-100%)
Marcato deficit di crescita, cardiomiopatia Tumori della vescica e della tiroide, melanomi
ipertrofica, coinvolgimento articolare, predisposizione a tumori
NF1
Neurofibromatosi tipo 1 (100%)
Macchie caffè-latte, lentigginosi atipica, neu- JMML, leucemie acute, neurofibromi,
rofibromi, glioma ottico, noduli di Lisch, lesioni astrocitomi, feocromocitomi
ossee distintive
BRAF
Sindrome cardiofaciocutanea (32-80%)
Ritardo mentale moderato/grave, epilessia, Melanomi, tumori del tratto biliare, del colon e
coinvolgimento ectodermico
della tiroide
RAF1
Sindrome di Noonan (3-5%); sindrome Cardiomiopatia ipertrofica, deficit cognitivo e Non descritte
LEOPARD (3-5%)
di accrescimento, lentigginosi
MEK1
Sindrome cardiofaciocutanea (5-10%)
Ritardo mentale moderato/grave, epilessia, Non descritte
coinvolgimento ectodermico
MEK2
Sindrome cardiofaciocutanea (5%)
Ritardo mentale moderato/grave, epilessia, Non descritte
coinvolgimento ectodermico
Studi condotti negli ultimi tre anni hanno dimostrato che mutazioni
germinali nei geni HRAS e KRAS sono state identificate essere la
causa molecolare rispettivamente della SC (Aoki et al., 2005) e di una
condizione fenotipicamente eterogenea con caratteristiche e segni
clinici ricollegabili alla SN, ma sovrapponibili a quelli caratterizzanti
la SCFC e la SC (Carta et al., 2006; Niihori et al., 2006; Schubbert et
al., 2006). Sebbene studi indipendenti abbiano documentato una diversa prevalenza delle mutazioni di HRAS tra i pazienti con diagnosi
di SC (Aoki et al., 2005; Estep et al., 2006; Gripp et al., 2006; Kerr et
al., 2006; Zampino et al., 2007) (Tab. I), l’opinione di chi scrive è di
limitare la diagnosi di questa entità nosologica ai soggetti con mu-
Neoplasie associate a mutazioni somatiche
tazioni in eterozigoti di HRAS. Questa considerazione è supportata
dalla marcata omogeneità del fenotipo associato a queste mutazioni
e tiene conto dell’importante significato prognostico associato alla
presenza di una mutazione nel gene HRAS relativo alla predisposizione a neoplasie. Nella SC le mutazioni germinali sono generalmente missenso, cioè responsabili di singole sostituzioni aminoacidiche,
e coinvolgono preferenzialmente il codone 12 (Tab. II). Queste mutazioni sono state osservate solo raramente nei tumori. Il diverso
spettro mutazionale e l’evidenza sperimentale di una più debole
proprietà trasformante delle sostituzioni identificate in pazienti con
SC, suggeriscono che le mutazioni ricorrenti nell’oncogenesi non si
Tabella II.
Spettro molecolare e relativa prevalenza delle mutazioni germinali e somatiche ricorrenti dei geni HRAS e KRAS.
Proteina
HRAS
KRAS
Sostituzione aminoacidica o residuo coinvolto
Evento germinale
Evento somatico
Gly12Ser
85%
5%
Gly12Ala
8%
< 1%
Gly12Val
1%
44%
Gln61His/Leu/Arg/Lys
–
33%
Altre
6%
18%
Gly12
–
87%
Gly13
–
10%
Val14Ile
18%
–
Gln22Glu/Arg
9%
–
Pro34Leu/Arg/Gln
14%
–
Gly60Arg
9%
–
Asp153Val
22%
–
Phe156Ile/Leu
9%
–
Altre
19%
3%
Fonti dei dati molecolari: Carta et al., 2006; Niihori et al., 2006; Schubbert et al., 2006; COSMIC, http://www.sanger.ac.uk/genetics/CGP/cosmic/.
145
G. Zampino, M. Tartaglia
Figura 2.
Mutazioni dei geni RAS nelle sindromi neurocardiofaciocutanee. A)
Struttura cristallografica di HRAS e localizzazione dei residui coinvolti
nella sindrome di Costello. È evidenziata la tasca di legame al GTP/GDP
(porzione legante il gruppo trifosfato in giallo, rosso e arancio; porzione
legante l’anello purinico in celeste, blu e viola) e i residui mutati nella
sindrome di Costello. B) Struttura genomica di KRAS e localizzazione
delle mutazioni missenso specifiche dell’isoforma KRASB. In grigio sono
evidenziati gli esoni coinvolti nel diverso processamento del trascritto
(splicing alternativo) che codificano per la porzione C-terminale della
proteina. Gli esoni codificanti non sottoposti a splicing alternativo sono
evidenziati in nero.
osservano come evento germinale in quanto incompatibili con lo
sviluppo embrionale o fetale. Differentemente dalle sostituzioni aminoacidiche ai codoni 12 e 13 che causano una riduzione significativa
dell’attività GTPasica di RAS e/o conferiscono resistenza all’azione
delle GAP, le sostituzioni identificate ai codoni 117 e 146 disregolano
la funzione della proteina con un diverso meccanismo molecolare
(Clanton et al., 1986; Der et al., 1986; Walter et al., 1986). Infatti, entrambi i residui si affacciano nella tasca che accoglie l’anello
purinico del nucleotide (Fig. 2) e studi biochimici suggeriscono che
queste sostituzioni aminoacidiche indeboliscono il legame di RAS
per il GTP/GDP, favorendo la dissociazione del complesso e promuovendo l’associazione di RAS con GTP, presente nella cellula a una
concentrazione più elevata.
Mutazioni germinali missenso di KRAS ricorrono in una piccola per-
centuale di pazienti con SN. L’espressione fenotipica di queste mutazioni è ampia e abbraccia condizioni con classici dimorfismi craniofacciali, bassa statura, macrocefalia relativa, collo corto/pterigio,
ritardo mentale lieve e stenosi della polmonare, fino a quadri in cui
il deficit di crescita ponderale, la cardiomiopatia ipertrofica e la cute
lassa generano il sospetto di SC o in cui il ritardo mentale moderato
e il coinvolgimento ectodermico con capelli sparsi e sottili senza
ipercheratosi e ittiosi, ricordano la SCFC (Tab. I) (Carta et al., 2006;
Niihori et al., 2006; Schubbert et al., 2006; Zenker et al., 2007a).
Le mutazioni di KRAS introducono sostituzioni aminoacidiche che
non sono generalmente osservate come evento somatico nei tumori
(Tab. II). La caratterizzazione delle conseguenze funzionali di alcune
di queste mutazioni ha dimostrato che esse sono attivanti, ma più
deboli rispetto a quelle oncogeniche (Schubbert et al., 2006). Alcune
delle sostituzioni aminoacidiche di KRAS (Val152Gly, Asp153Val e
Phe156Ile) coinvolgono residui localizzati lontano dalla tasca di legame con il nucleoside guaninico e coinvolgono esclusivamente una
delle due isoforme della proteina (Fig. 2). Sulla base di studi di modeling molecolare è stato proposto che queste mutazioni possano
causare un riarrangiamento conformazionale locale della proteina
in grado di destabilizzare il legame con GTP/GDP, favorirne la dissociazione, similmente a quanto osservato per le mutazioni di HRAS
ai codoni 117 e 146. L’identificazione di questo secondo gruppo di
mutazioni germinali conferma i dati sperimentali precedentemente
ottenuti su modelli murini knock-out che hanno dimostrato il ruolo
primario della isoforma KRASB nello sviluppo embrionale (Plowman
et al., 2003).
Mutazioni germinali e somatiche del gene PTPN11
Mutazioni in eterozigosi del gene PTPN11 si osservano in circa il
40-50% dei pazienti con SN (Tartaglia et al., 2001, 2002). PTPN11
codifica per la proteina SHP2, un trasduttore del segnale ad attività
tirosina fosfatasica che modula positivamente la funzione di RAS
(Neel et al., 2003). La sua struttura è caratterizzata da due dominii
SH2 (SRC Homology 2) disposti in tandem nella regione N-terminale
e un singolo dominio catalitico (Protein Tyrosine Phosphatase [PTP])
nella porzione C-terminale (Fig. 3). Attraverso il riconoscimento di
brevi motivi aminoacidici contenenti un residuo di tirosina fosforilato, i dominii SH2 mediano il legame di SHP2 a recettori di membrana
e proteine adattatrici. La traslocazione in membrana è accoppiata
all’attivazione catalitica della proteina.
Figura 3.
Le mutazioni somatiche e germinali del gene PTPN11. A) Schema della struttura di SHP2 e delle sostituzioni aminoacidiche identificate come evento somatico (sopra) o germinale (sotto). B) Struttura cristallografica di SHP2 e residui aminoacidici coinvolti nelle sindromi di Noonan e LEOPARD
(sinistra) e nelle leucemie (destra). I colori identificano i diversi dominii della proteina (N-SH2, verde; C-SH2, celeste; PTP, rosa) e le diverse classi
delle mutazioni in accordo con Tartaglia et al. (2006).
146
Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK
Con pochissime eccezioni rappresentate da delezioni trinucleotidiche, le mutazioni identificate nella SN sono sostituzioni nucleotidiche missenso (Fig. 3) (Tartaglia et al., 2006). PTPN11 è più frequentemente mutato tra i pazienti con stenosi della valvola polmonare
(70,6% vs. 46,2%, p = 0,008) e meno frequentemente in quelli con
cardiomiopatia ipertrofica (5,9% vs. 26,2%, p = 0,004). Le mutazioni
di PTPN11 sembrano essere inoltre associate con deficit accrescitivo, anomalie scheletriche, facies caratteristica e deficit cognitivo
lieve o assente (Tartaglia et al., 2002; Zenker et al., 2004; Jongmans
et al., 2005). Più recentemente, queste sono state identificate in due
sindromi malformative clinicamente correlate alla SN. Tartaglia et al.
(2002) e Lee et al. (2005) hanno dimostrato che mutazioni in questo
gene, precedentemente descritte in soggetti con SN, si riscontrano
in circa il 50% dei pazienti con fenotipo ricollegabile alla SN ma caratterizzato da lesioni multiple a carico del tessuto osseo associate
alla presenza di cellule giganti multinucleate. Tale condizione, inizialmente considerata come un’entità nosologica distinta (Noonanlike sindrome with multiple giant cell lesions, OMIM 163955), alla
luce dei dati molecolari dovrebbe essere considerata come parte
dello spettro fenotipico della SN. Un ristretto numero di mutazioni
missenso di PTPN11 sono state infine identificate in circa l’85% dei
pazienti con SL (Digilio et al., 2002; Legius et al., 2002). L’osservazione che queste mutazioni non ricorrano nella SN suggerisce
la presenza di una loro specifica associazione con cardiomiopatia
ipertrofica, difetti di conduzione, sordità, lentiggini e macchie caffèlatte. Tra queste, due mutazioni (386° > G, Tyr279Cys; 1403C > T,
Thr468Met) rappresentano circa l’80% dei casi con PTPN11 mutato
e sono specifiche di questa condizione.
Come osservato per i geni RAS, una distinta classe di mutazioni missenso si osserva come evento somatico in diverse emopatie maligne
(Tartaglia e Gelb, 2005). In particolare, queste mutazioni risultano
contribuire alla patogenesi della leucemia mielomonocitica giovanile (JMML; OMIM 607785), una rara malattia mieloproliferativa della
prima infanzia, in circa il 35% dei casi (Tartaglia et al., 2003), e con
frequenza variabile in diverse forme leucemiche e pre-leucemiche
dell’età pediatrica, incluse le sindromi mielodisplastiche e le leucemie acute della linea mieloide e linfoide (Tartaglia et al., 2003,
2004, 2005). Tali mutazioni, sebbene coinvolgano residui localizzati
nelle superfici d’interazione dei dominii N-SH2 e PTP, non ricorrono
come eventi germinali nella SN (Tartaglia et al., 2006) (Fig. 3). Va
sottolineato che una specifica sostituzione aminoacidica (Thr73Ile),
raramente osservata in pazienti con SN o come evento somatico
nelle leucemie, rappresenta circa il 60% dei casi con SN associata
a JMML. Questa osservazione suggerisce che durante la prima infanzia, pazienti con questa mutazione possono essere predisposti
a disordini mieloproliferativi transienti o JMML. È infine d’interesse
sottolineare che PTPN11 solo raramente è stato identificato essere
mutato nelle leucemie dell’adulto o in altre condizioni neoplastiche
(Bentires-Alj et al., 2004; Martinelli et al., 2005).
La maggioranza delle mutazioni missenso osservate come eventi germinali e somatici coinvolge residui localizzati nelle superfici esposte
e interagenti dei dominii N-SH2 e PTP che stabilizzano la conformazione inattiva della proteina. Questo suggerisce che il meccanismo
patogenico promosso da queste mutazioni coinvolga un’interazione
difettiva dei due dominii con conseguente spostamento dell’equilibrio
tra la conformazione attiva e quella inattiva della proteina a favore
della prima (Tartaglia et al., 2002). In accordo con questa ipotesi, le
mutazioni associate alla SN e a leucemie sono attivanti e inducono
una ipersensibilità a fattori di crescita e citochine con iperattivazione
della via RAS-MAPK (Tartaglia et al., 2003, 2006; Chan et al., 2005;
Keilhack et al., 2005). Questa funzione aberrante di SHP2 è più marcata nel caso delle mutazioni associate a neoplasie, indicando che, da
un lato, le mutazioni germinali identificate nella SN non promuovono
un guadagno di funzione di SHP2 in grado di comportare un vantaggio
proliferativo per il clone leucemico, dall’altro, che le mutazioni identificate nelle leucemie non sono compatibili con lo sviluppo embrionale
o la sopravvivenza del feto. Una terza classe di mutazioni raggruppa le
sostituzioni aminoacidiche identificate nella SL. Tre studi indipendenti
hanno infatti dimostrato che queste mutazioni determinano una profonda riduzione dell’attività catalitica della proteina (Kontaridis et al.,
2006; Hanna et al., 2006; Tartaglia et al., 2006).
Mutazioni germinali di SOS1 e sindrome di Noonan
SOS1 codifica per una proteina GEF specifica per RAS (Fig. 1). La sua
struttura è piuttosto complessa e conta diversi dominii con funzione
Figura 4.
Struttura della proteina SOS1 e sostituzioni aminoacidiche identificate nella sindrome di Noonan. A) Rappresentazione schematica della localizzazione dei dominii funzionali caratterizzanti la proteina (HF, Histone Folds; DH, DBL Homology; PH, Pleckstrin Homology; REM, RAS Exchange Motif;
CH, CDC25 Homology) e dei residui coinvolti. B) Struttura cristallografica di SOS1 e localizzazione di alcuni dei residui aminoacidici mutati nella
sindrome di Noonan
147
G. Zampino, M. Tartaglia
regolatoria, catalitica e di interazione proteina-proteina (Fig. 4). In
assenza di stimolazione, SOS1 ha una localizzazione citoplasmatica autoinibita. L’attivazione di SOS1 richiede la sua traslocazione
in membrana, la rimozione del blocco inibitorio e il legame di RASGDP/GTP a un sito regolatorio. Quest’ultimo evento promuove un
cambiamento conformazionale che consente l’interazione di una
seconda molecola RAS-GDP con il sito catalitico e il conseguente
rilascio di GDP da quest’ultima. Le mutazioni di SOS1 si osservano
in circa il 10% dei pazienti con SN (Roberts et al., 2007; Tartaglia et
al., 2007). Queste sono missenso e coinvolgono nella maggioranza dei casi regioni della proteina che partecipano al meccanismo
inibitorio o che hanno un importante ruolo nel mantenimento della
conformazione globale della proteina (Fig. 4). In accordo con questa
ipotesi, studi biochimici hanno dimostrato il ruolo attivante di queste
mutazioni la cui espressione in colture cellulari determina una iperattivazione di RAS e della cascata MAPK.
Le mutazioni di SOS1 sono identificate sono associate a un fenotipo
caratteristico. Lo sviluppo psicomotorio e staturo-ponderale sono
normali, il coinvolgimento scheletrico è quasi sempre presente con
anomalie sterno-costali, cubito valgo, collo corto e pterigio, le caratteristiche craniofacciali e la loro evoluzione nel tempo sono quelle
classiche descritte nella SN mentre è presente coinvolgimento ectodermico con cheratosi pilare, ipoplasia delle sopracciglia e capelli
ricci. Mutazioni germinali di SOS1 non sono state identificate in pazienti con SCFC (Zenker et al., 2007b). Similmente, non sono state
identificate mutazioni somatiche dello stesso gene con possibile
ruolo nell’oncogenesi.
Mutazioni germinali della neurofibromina
Il gene NF1 codifica per una GAP specifica per RAS (Martin et al.,
1990; Xu et al., 1990). Mutazioni inattivanti o delezioni del gene in
eterozigosi sono la causa molecolare sottostante la neurofibromatosi di tipo 1 (NF1; OMIM 162200), una sindrome malformativa a
trasmissione autosomica dominante, a prevalente coinvolgimen-
Figura 5.
Le sostituzioni aminoacidiche delle proteine BRAF e RAF1 identificate
essere implicate nelle sindromi neurocardiofaciocutanee e nell’oncogenesi. Il pannello mostra le mutazioni germinali (in nero, sopra lo schema
di ciascuna proteina) e somatiche (in rosso) di RAF1 e BRAF in accordo
con Pandit et al. (2007). Gli schemi mostrano le regioni omologhe delle due proteine (CR, Constant Region), i dominii funzionali (RBD, RAS
Binding Domain; CRD, Cysteine Rich Domain; AS, Activation Segment)
e i due residui di serina (S259 e S621) implicati nella regolazione dell’attivazione di RAF1.
to ectodermico con predisposizione per l’insorgenza di uno spettro caratteristico di neoplasie (Tab. I) (Riccardi, 1992). Il ruolo della
neurofibromina come oncosoppressore è stato dimostrato dall’osservazione che le cellule tumorali di pazienti con NF1 presentano
l’inattivazione di entrambi gli alleli (Shannon et al., 1994) e che la
perdita della funzione di questa proteina causa un’iperattivazione
del segnale mediato da RAS e conseguente disregolazione della
proliferazione cellulare (Bollag et al., 1996). Mutazioni nel gene NF1
possono essere associate a un fenotipo con caratteristiche cliniche
ricollegabili alla SN, ed è stato suggerito che questa associazione
rappresentasse una entità nosologica distinta (Neurofibromatosis/
Tabella III.
Valutazioni clinico/strumentali richieste per un’efficace assistenza dei pazienti con sindromi neurocardiofaciocuanee in accordo con il difetto
molecolare causativo.
Valutazioni clinico/strumentali
PTPN11
SOS1
RAF1
KRAS
HRAS
BRAF
MEK1/MEK2
Esame clinico e neurologico
+
+
+
+
+
+
+
Test psicometrici
+
+
+
+
+
+
+
Quantificazione crescita
+
+
+
+
+
+
+
Quantificazione intake/spesa
energetica
-
-
-
+
+
+
+
Ecocardiogramma con
quantificazione spessore setto
e pareti
+
+
+
+
+
+
+
ECG-Holter
+
-
+
-
+
-
-
Valutazione oculistica
+
+
+
+
+
+
+
Valutazione audiologica
+
-
+
-
-
-
-
Prove di coagulazione e
sanguinamento
+
+
+
+
-
-
-
RMN cerebrale
-
-
-
+
+
+
+
Eco addominale
+
+
+
+
+
+
+
Polisonnografia
-
-
-
+
+
+
+
148
Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK
Noonan syndrome; OMIM 601321). Recentemente è stato dimostrato che pazienti con questa condizione generalmente sono eterozigoti
per mutazioni intrageniche o delezioni di NF1 ma non di PTPN11 (De
Luca et al., 2005), anche se in una minoranza di casi è stata riportata una condizione di eterozigosi per mutazioni in entrambi i geni
(Bertola et al., 2005). Lo screening molecolare di NF1 condotto su un
ampio numero di soggetti con SN suggerisce che questo gene non
sia mutato in questa condizione sindromica (De Luca et al., 2005).
Mutazioni germinali e somatiche degli effettori di
RAS e dei loro substrati
A oggi, mutazioni in quattro geni che codificano per trasduttori del
segnale che agiscono a valle delle proteine RAS e partecipano alla
cascata MAPK sono state identificate nelle SN, SCFC e SL. Due di
queste proteine, BRAF e RAF1, sono effettori di RAS con attività chinasica specifica per residui di serina e treonina; le altre due proteine
coinvolte, MEK1 e MEK2, sono chinasi a doppia specificità, substrati
delle precedenti, che regolano positivamente la funzione delle proteine ERK (Fig. 1).
Le mutazioni germinali di BRAF rappresentano il principale evento
molecolare sottostante la SCFC (Niihori et al., 2006; Rodriguez-Viciana
et al., 2006). In precedenza, mutazioni somatiche dello stesso gene,
in particolare la sostituzione Val600Glu, erano state identificate con
alta frequenza nei melanomi e nei tumori della tiroide, del colon-retto
e dell’ovaio (Davies et al., 2002; Garnett e Marais, 2004). Differentemente dalle mutazioni somatiche che appaiono localizzate prevalentemente nel dominio catalitico, quelle identificate in pazienti con
SCFC sono distribuite in diverse regioni della proteina (Fig. 5). Come
osservato per SHP2, HRAS e KRAS, queste sostituzioni aminoacidiche
solo raramente sono riportate nei tumori, ancora una volta a suggerire
le diverse proprietà attivanti caratterizzanti le due classi di mutazioni.
Come dimostrato per la sostituzione oncogenica Val600Glu, le mutazioni associate alla SCFC promuovono generalmente un aumento
dell’attività catalitica basale di BRAF, con conseguente iperattivazione
della cascata MAPK (Rodriguez-Viciana et al., 2006). Il fenotipo associato a BRAF è quello che classicamente contraddistingue la SCFC.
Mutazioni in un secondo membro della famiglia RAF, la proteina RAF1,
sono state recentemente identificate in pazienti con SN e SL (Pandit
et al., 2007; Razzaque et al., 2007). Queste mutazioni sono missenso
e coinvolgono un piccolo numero di residui localizzati in tre distinti
dominii funzionali della proteina. Nel 75% dei casi le sostituzioni aminoacidiche ricadono nella sequenza “ArgSerThrSer259ThrPro” che, in
presenza dello stato fosforilato del residuo Ser259, costituisce uno dei
due siti di legame delle proteine 14-3-3 a RAF1 (Muslin et al., 1996;
Wellbrock et al., 2004). Nei casi restanti, le mutazioni coinvolgono
aminoacidici localizzati in una regione regolatoria del dominio chinasico o nella porzione C-terninale della proteina. La caratterizzazione
biochimica di un pannello di mutanti rappresentativi suggerisce un
diverso effetto delle mutazioni sulla funzione della proteina, la mag-
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catalitica di RAF1 e l’iperattivazione della cascata MAPK (Pandit et al.,
2007). Questi studi hanno anche dimostrato che le mutazioni al sito
di legame delle 14-3-3 determinano l’incapacità di queste proteine
regolatorie a legare RAF1 in maniera appropriata, indebolendo significativamente la stabilità della conformazione cataliticamente inattiva
della chinasi. Differentemente da quanto dimostrato per il gene BRAF,
solo raramente le mutazioni somatiche di RAF1 sono state documentate nei tumori (Fig. 5). Studi di correlazione genotipo-fenotipo hanno
documentato che le mutazioni di RAF1 definiscono la cardiomiopatia
ipertrofica come elemento caratterizzante il quadro clinico e la prognosi.
Infine, un esiguo numero di mutazioni missenso nei geni che codificano per le proteine MEK1 e MEK2 sono state identificate in una
piccola percentuale di pazienti con SCFC (Niihori et al., 2006; Rodriguez-Viciana et al., 2006). Queste proteine sono chinasi a doppia
specificità in grado di fosforilare le proteine ERK in specifici residui
regolatori, modulandone l’attività catalitica. Le mutazioni in MEK1 e
MEK2 sono associate a un fenotipo che si distingue poco da quello
determinato dalle mutazioni in BRAF. È presente ritardo psicomotorio
moderato-grave associato a ritardo di crescita, coinvolgimento ectodermico e caratteristiche craniofacciali dismorfiche simili. I pochi
casi descritti mostrano naso corto con sella ipoplasica, narici anteverse e filtro lungo come elementi particolari.
Conclusioni
La recente identificazione dei meccanismi molecolari alla base della
SN, SL, SC e SCFC, ha permesso: 1) di confermare la stretta relazione esistente tra queste sindromi malformative ipotizzata precedentemente sulla base delle similitudini cliniche; 2) di definire con più
precisione le caratteristiche cliniche legate a ogni gene mutato; 3) di
delineare la storia naturale e la prognosi dei quadri clinici associati
ai geni coinvolti. Le ricadute assistenziali sono notevoli poiché è oggi
possibile calibrare i bilanci di salute in relazione alle differenti problematiche cliniche legate alla genotipizzazione del paziente. Ad esempio
il bambino con mutazioni in HRAS o RAF1 avrà una più stretta sorveglianza cardiaca per il maggior rischio di sviluppare cardimiopatia
ipertrofica, mentre il bambino con mutazioni in BRAF avrà una più
stretta sorveglianza neurologica per il più importante coinvolgimento
cerebrale e per la possibilità di sviluppare epilessia (Tab. III). Queste
scoperte infine giustificano la speranza di poter utilizzare farmaci che
possano ripristinare la regolazione della cascata RAS-MAPK riducendo le problematiche evolutive, quali la cardiomiopatia ipertrofica.
Ringraziamenti
Gli studi condotti nei laboratori degli autori sono stati finanziati da fondi
per la ricerca elargiti da Telethon-Italy (GGP04172 e GGP07115) e dal
“Programma di Collaborazione Italia-USA per le malattie rare”.
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di una frazione di casi di sindrome di Noonan e sindrome LEOPARD caratterizzati
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Lo studio ha dimostrato che le mutazioni germinali di RAF1 sono responsabili
di una frazione di casi di sindrome di Noonan caratterizzati dall’alta ricorrenza
della cardiomiopatia ipertrofica.
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Lo studio ha dimostrato che le mutazioni SOS1 rappresentano una delle cause
molecolari della sindrome di Noonan.
Lo studio ha dimostrato che le mutazioni germinali di BRAF, MEK1 e MEK2 sono
responsabili della maggioranza dei casi di sindrome cardiofaciocutanea.
Lo studio ha dimostrato che KRAS è mutato in una piccola percentuale di pazienti con sindrome di Noonan.
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Corrispondenza
dott. Giuseppe Zampino, Servizio di Epidemiologia e Clinica dei Difetti Congeniti, Dipartimento di Scienze Pediatriche Medico-Chirurgiche e Neuroscienze dello Sviluppo, Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia, l.go F. Vito 1, 00168 Roma • E-mail: [email protected]
151
Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 152-161
FOCUS SU:
Acido folico che cosa è, a che cosa serve
Iris Scala, Renata Bortolus*, Pierpaolo Mastroiacovo**
Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli; * Azienda Ospedaliera “Istituti Ospitalieri”, Verona;
** Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects, Roma
Riassunto
L’acido folico (vitamina B9, acido pteroilglutammico) è una vitamina idrosolubile del gruppo B. È un prodotto sintetico che non si trova in natura ed è il principale composto utilizzato nei prodotti multivitaminici e nella fortificazione di farine e cereali. I folati sono i composti dell’acido pteroilglutammico presenti
in natura e, poiché non sintetizzabili nell’uomo, sono alimenti essenziali. Verdure a foglia larga, frutta e cereali fortificati sono le principali fonti alimentari di
folati. I folati sono necessari per la moltiplicazione cellulare, particolarmente in periodi di rapida crescita quali la gravidanza e la prima infanzia. Decenni di
studi hanno ormai dimostrato che un’assunzione adeguata di acido folico nel periodo periconcezionale riduce il rischio di alcune malformazioni congenite,
in particolare di difetti del tubo neurale. Questi risultati hanno indotto azioni di salute pubblica che hanno portato alla formulazione di raccomandazioni per
assicurare un adeguato apporto di acido folico nelle prime settimane di gravidanza. Pertanto, alle donne che programmano la gravidanza o che non ne
escludono attivamente la possibilità, si consiglia l’assunzione di cibi fortificati o la supplementazione con acido folico oltre ad una dieta ricca di folati per
ridurre il rischio di malformazioni congenite. La Recommended Dietary Allowance (RDA) per donne in gravidanza è di 600-800 microgrammi, circa il doppio
della normale RDA di 400 microgrammi consigliati al di fuori della gravidanza.
Le implicazioni della supplementazione/fortificazione con acido folico per altre patologie quali le patologie vascolari, i tumori, la fertilità sono ugualmente
discusse.
Summary
Folic acid and folate (the anion form) are forms of the water-soluble vitamin B9. These occur naturally in food and can also be taken as supplements. Leafy
vegetables, fortified cereal products, and certain other fruits and vegetables are rich sources of folate. Folate is necessary for the production and maintenance of new cells, especially during periods of rapid cell division and growth such as infancy and pregnancy. Decades of studies have demonstrated that
adequate folate intake during periconceptional period helps protect against a number of congenital malformations, including neural tube defects. These
findings have led to recommendations and actions to ensure adequate folate intake in the first weeks of pregnancy. Hence, women who could become
pregnant are advised to eat foods fortified with folic acid or take supplements in addition to a folate-rich diet to reduce the risk of some serious birth defects.
The Recommended Dietary Allowance (RDA) for folate equivalents for pregnant women is 600-800 micrograms, twice the normal RDA of 400 micrograms
for women who are not pregnant.
Implications of folic acid supplementation/fortification in diseases other than congenital defects, such as heart disease/stroke, cancer, fertility are also
discussed.
Premessa
Quale è la relazione tra folati alimentari e acido folico?
Per sintetizzare in poche pagine alcuni concetti chiave e i principali
articoli degli oltre 14.000 citati su PubMed con le parole chiave “folic
acid OR folate” di cui il 35% negli ultimi tre anni (e 1600 solo quelli
con le parole chiave nel titolo), gli autori hanno scelto un approccio
di domanda e risposta. Per ulteriori domande, saranno lieti di rispondere alle mail inviate a [email protected].
Recentemente negli Stati Uniti è stato introdotto il concetto di “folati
equivalenti” basato sulla biodisponbilità. Poiché la biodisponibilità
dei folati alimentari è del 50%, quella dei folati aggiunti agli alimenti
è dell’85%, ed infine quella dell’AF preso per os è del 100%, ne
deriva che 100 mcg di folati alimentari, corrispondono a 170 mcg
di AF usato nella fortificazione e 200 mcg di AF usato nella supplementazione.
Che cosa è l’acido folico? e i folati?
L’acido folico (folacina o vitamina B9 o acido pteroilglutammico) è
una vitamina idrosolubile del gruppo B. È un prodotto sintetico che
non si trova in natura ed è il principale composto utilizzato nei prodotti multivitaminici e nella fortificazione di farine e cereali. I folati
sono varie sostanze (derivati poliglutammici, folati ridotti e tetraidrofolati) presenti negli alimenti che contengono l’acido pteroilglutammico 1. Il 5-metil-tetraidrofolato (5-metil-THF) è la forma con la
maggiore attività biologica ed è la molecola nella quale deve essere
trasformato l’acido folico (AF) per svolgere la sua funzione biologica
nell’organismo.
1
In quali alimenti si trovano i folati?
I folati sono presenti in un’ampia varietà di alimenti in quantità variabile
per 100 g di alimento: elevata (100-300 mcg) nelle verdure a foglia
larga verde scuro (ad es. asparagi, carciofi, broccoli, cavoli), nel fegato
e rene; intermedia (44-99 mcg) nelle verdure (ad es. spinaci, bieta,
rape rosse), nella frutta fresca (ad es. arance, mandarini, kiwi), nella
frutta secca (ad es. mandorle e noci), nei formaggi (ad es. parmigiano, gorgonzola, taleggio), nei legumi (ad es. ceci e fagioli) e nelle uova
(Ruggeri et al., 2006). Il pane ha un contenuto moderato di folati (20-39
mcg). La quantità di folati fornita da vari studi è solo orientativa perché
In questo articolo quando non specificato con il termine folati si intende l’insieme di folati alimentari e acido folico sintetico.
152
Acido folico che cosa è, a che cosa serve
la quantità introdotta dipende dai molti anelli della catena alimentare
e della preparazione del cibo. A noi interessa sapere quanti folati
introduciamo giornalmente, nella nostra alimentazione usuale.
Quanti folati dovremmo assumere?
La più recente indicazione è fornita da un gruppo di esperti riuniti dalla
Food and Agriculture Organization (FAO) e World Health Organization
(WHO) nel 2002, che ha adottato le raccomandazioni del 1998 fornite
dall’Institute of Medicine (IOM) degli Stati Uniti: per l’adulto 400 mcg/
die, per la donna in gravidanza 600 mcg/die (WHO/FAO, 2004)
L’Institute of Medicine ha inoltre indicato che negli studi di popolazione il livello accettabile di assunzione di folati per gli adulti è di 320
mcg/die (Dietary Reference Intakes for Groups [DRI]).
Quanti folati assumiamo in Italia?
Secondo una ricerca dell’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) è stato stimato che la popolazione italiana assume
mediamente 213 mcg/die di folati alimentari (Ruggeri et al., 2006). Utilizzando uno studio caso-controllo sulla relazione tra folati alimentari e
cancro dell’ovaio, condotto su 2411 donne di controllo si evince che la
mediana di assunzione in Italia è di 250 mcg/die, che il 20% delle donne
assume meno di 186 mcg/die, il 60% tra 187 e 316 mcg/die e il 20% più
di 316 mcg/die (Pelucchi et al., 2005). Il valore medio osservato in alcuni
paesi europei si attesta tra 217 e 325 mcg/die (Finglas, citato da Ruggeri
et al., 2006). Infine, in uno studio australiano (Bower et al., 2006) è stato
rilevato che il 66% delle donne assume più di 326 mcg/die. Questi dati
indicano che la popolazione Italiana, contrariamente a quanto si crede,
assume meno folati di quanto dovrebbe e meno di altre popolazioni!
Come incrementare la quantità di folati con gli alimenti?
Per incrementare l’assunzione di folati alimentari è utile osservare
che frutta, verdura e cereali contribuiscono per circa il 60% dell’introito di folati (Ruggeri et al., 2006). Ovvero chi vuole aumentare
“realmente” l’assunzione di folati alimentari deve adottare un’alimentazione ricca di questi alimenti, in particolare di spremute di
arance, che rappresentano la modalità più “comoda” per assumere
ampie quantità di folati alimentari.
A che cosa servono i folati?
I folati agiscono come cofattori di enzimi coinvolti nel metabolismo
degli amminoacidi, nella sintesi del DNA e dell’RNA (sintesi di purine
e pirimidine) e, insieme alla vitamina B12, nelle reazioni di metilazione di acidi nucleici, proteine e lipidi. Di particolare interesse, per le
ripercussioni in medicina, è la relazione tra folati e il metabolismo
dell’omocisteina/metionina. L’omocisteina è un amminoacido solforato generato dall’idrolisi dell’s-adenosil-metionina nel ciclo metabolico della metionina, un amminoacido assunto normalmente con
il cibo e derivante soprattutto dalle proteine animali (Fig. 1). L’omocisteina non viene utilizzata nella normale sintesi proteica e viene
metabolizzata attraverso due vie metaboliche: la transulfurazione
per produrre cistationina e la rimetilazione per produrre metionina.
La transulfurazione consiste nella condensazione dell’omocisteina
con la serina mediata dall’enzima cistationina-beta-sintasi (CBS), il
cui cofattore è il piridossal-fosfato (vitamina B6). La rimetilazione a
metionina è un meccanismo più complesso che necessita dell’enzima metionina-sintasi (MTR), della cobalamina (vitamina B12) come
cofattore e del 5-metilTHF come donatore di gruppi metili; infine,
la metionina sintasi-reduttasi (MTRR) mantiene l’enzima MTR nella
sua forma attiva. La metionina viene successivamente attivata ad
s-adenosil-metionina, un intermedio cruciale perché donatore universale di gruppi metilici nelle reazioni di metilazione cellulare, in
particolare di DNA, RNA e proteine.
Figura 1.
Ciclo metabolico della metionina.
153
I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo
Nel ciclo dei folati, il donatore di metili 5-metilTHF origina dal 5,10-metileneTHF mediante l’enzima metilenetetraidrofolato reduttasi (MTHFR), vitamina B2 dipendente. Dopo la rimetilazione dell’omocisteina a
metionina, il THF viene nuovamente convertito in 5,10-metileneTHF
durante la conversione della serina in glicina. L’enzima MTHFR ha
un ruolo chiave nella regolazione del pool di folati in quanto, grazie
ad una cinetica sensibile a una serie di fattori di regolazione, regola
l’equilibrio tra il ciclo di omocisteina/metionina e sintesi di purine e
pirimidine (Fowler, 2001). Dalla complessità di questa via metabolica
con il gran numero di enzimi e cofattori coinvolti, si può facilmente
comprendere come difetti di singoli geni dei vari enzimi, la carenza di
certi nutrienti o la combinazione di questi possano causare deficit di
folati e/o incrementi di omocisteina (iperomocisteinemia moderata).
Senza poi considerare l’influenza delle abitudini di vita (ad es. fumo,
caffè, tipo di alimentazione) sui vari processi metabolici.
Come si valuta se l’assunzione di folati è appropriata?
Classicamente attraverso il dosaggio dei folati nei globuli rossi (per
valutare lo stato globale) e nel siero (per valutare una situazione
più limitata nel tempo). Un buon indicatore, anche se non specifico perché influenzato anche da altri fattori (ad es. vitamina B12, B6,
età, sesso, fumo) è il dosaggio dell’omocisteina, che è correlata in
modo inversamente proporzionale alla folatemia. I limiti di normalità
per questi parametri sono: AF nei globuli rossi > 305 nmol/L (140
ng/mL); AF nel plasma > 7 nmol/L (3 ng/mL) e omocisteina < 12 micromoli/L. Tali valori tuttavia vanno considerati “valori limite”; infatti
valori vicino al limite stanno emergendo in molti studi come fattori di
rischio per la salute umana.
L’iperomocisteinemia moderata è un fattore di rischio per la
salute umana?
L’iperomocisteinemia moderata (IOC) è ancor oggi mal definita. Livelli
superiori alla norma (intorno a 10-12 micromoli/L) sono stati riscontrati più frequentemente in numerosissime patologie umane: patologie vascolari dell’adulto (ad es. trombosi delle vene profonde, infarto,
ictus, vasculopatie occlusive della retina, occlusione extra-cerebrale
della carotide), patologie vascolari della placenta (e sue conseguenze: aborti, aborti ripetuti, pre-eclampsia, abruptio placenta, ritardo di
crescita intrauterina), tumori, varie malattie neurologiche, disfunzioni
cognitive dell’anziano, depressione, osteoporosi, infertilità maschile e
femminile. L’ipotesi (e la speranza!) che l’IOC sia l’anello causale nella
patogenesi di queste malattie (Fig. 2), e non semplicemente un epifenomeno di natura ancora oscura, non è stata ancora confermata.
Un aumentato apporto di acido folico può essere utile?
Le applicazioni cliniche tradizionali dell’AF sono numerose e ben conosciute: terapia dell’anemia megaloblastica in associazione alla vitamina
B12, prevenzione della carenza di folati in occasione di certi trattamenti
farmacologici (ad es. difenilidantoina, carbamazepina, contraccettivi
orali e chemioterapici antitubercolari), nel morbo di Crohn. L’utilizzo
più massiccio è stato ed è “nel corso della gravidanza” (generalmente
dopo il terzo mese) per la prevenzione dell’anemia macrocitica, conseguente alle aumentate esigenze nutrizionali della donna in gravidanza.
2
3
Figura 2.
Ipotetico meccanismo patogenetico legato all’iperomocisteinemia di
molte patologie umane quali patologie vascolari dell’adulto, patologie
vascolari della placenta (e sue conseguenze: aborti, aborti ripetuti, preeclampsia, abruptio placenta, ritardo di crescita intrauterina), tumori,
varie malattie neurologiche, disfunzioni cognitive dell’anziano, depressione, osteoporosi, infertilità maschile e femminile.
Più recentemente un aumentato apporto di AF è stato unanimemente raccomandato da tutte le società scientifiche e da tutte le organizzazioni di sanità pubblica del mondo per la riduzione del rischio
dei difetti del tubo neurale.
Quali sono le prove di efficacia alla base dell’unanime raccomandazione di aumentare l’apporto di folati con 0,4 mg/die di
acido folico nel periodo peri-concezionale 2 oltre a quelli assunti con una corretta alimentazione, per la riduzione del rischio
dei difetti del tubo neurale? 3
Le prove di efficacia alla base della raccomandazione sono numerose
e robuste. Nella Tabella I sono presentati gli studi più robusti. In Europa è stato eseguito un solo studio di valutazione dell’efficacia della
supplementazione, che ha dato risultato negativo (Kallen, 2007). Infine
due studi svolti recentemente in Europa (nessuna nazione ha fortificato!) non hanno osservato un decremento di difetti del tubo neurale
(DTN) negli anni più recenti, indicando che la raccomandazione non ha
avuto nessun effetto, come ipotizzabile dalla percentuale molto bassa
di donne che assumono vitamine a base di acido folico nel periodo
pre-concezionale (Busby et al., 2005; Botto et al., 2005).
Un sufficiente apporto può essere assicurato soltanto con l’alimentazione?
Per rispondere a questa domanda bisogna dapprima capire su che
cosa intendiamo per aumentato apporto. Gli studi di fortificazione
hanno dimostrato che anche un apporto modesto (in media alla popolazione pari 0,15 mg/die) può essere utile. Ma… in media, per tutta
la popolazione! Sappiamo che la media nasconde un range molto am-
Si ricorda che il periodo peri-concezionale è un periodo molto ampio che inizia dal momento in cui la donna desidera o non esclude la possibilità di una gravidanza, fino alla fine del terzo mese di gravidanza. La frequente indicazione che il periodo peri-concezionale sia limitato a 1 mese prima e a 3 mesi dopo il concepimento è solo l’indicazione “operativa” utilizzata negli studi di valutazione dell’efficacia della supplementazione peri-concezionale per definire gli “esposti al
trattamento”.
Si preferisce usare questa terminologia piuttosto che “prevenzione” per sottolineare che, come vedremo, l’AF non previene la patologia (tutti i casi), ma riduce
solo il rischio di una patologia che comunque si verificherà anche tra coloro che hanno seguito la raccomandazione di carattere preventivo. Ciò non avviene in
altre situazioni, ad esempio: prevenzione del morbillo con la vaccinazione, prevenzione dello scorbuto con la vitamina C.
154
Acido folico che cosa è, a che cosa serve
Tabella I.
Studi più robusti che dimostrano la possibilità di prevenire i difetti del tubo neurale (DTN) con acido folico (AF) con o senza altre vitamine (MV).
Autore, anno
di pubblicazione
Area dello studio
Tipo di studio
Trattamento
Riduzione
% del
rischio*
IC 95%
Frequenza DTN x
1000 nel gruppo
di controllo
Inghilterra
Coorte; sulla ricorrenza
AF 0,36 mg + MV
86%
53-96%
47,2
MRC Vitamin Study Research Group, 1991
Europa, in particolare
in Inghilterra
TCR; sulla ricorrenza
AF 4 mg ± MV vs.
placebo
84%
40-97%
39,2
Czeizel et al., 1992, 2004,
Czeizel e Vargha, 2004
Ungheria
TCR + coorte;
sull’occorrenza
AF 0,8 mg + MV
93%
53-99%
2,8
Cina del Nord†
Cina del Sud†
Intervento su popolazione;
sull’occorrenza
AF 0,4 mg
85%
40%
62-94%
+2% -60%
4,8
1,0
Canada
Studio di popolazione
pre-post fortificazione
AF medio 0,15 mg
46%†
40-51%
1,6
Smithells et al., 1983
Berry et al., 1999
De Wals et al., 2007‡
TCR = trial clinico randomizzato.
*
1-RR (rischio relativo); † Range di decremento tra 22% e 83% con correlazione con la frequenza pre-fortificazione; ‡ È indicato lo studio più recente ed
interessante, altri studi sull’efficacia della fortificazione sono reperibili su [email protected]
Nota: In tutti gli studi di supplementazione l’AF (± MV) era stato assunto nel periodo peri-concezionale ovvero dal momento in cui la donna desiderava
una gravidanza fino alla fine del terzo mese (o comunque almeno da un mese prima del concepimento), infatti poiché il tubo neurale si chiude entro 28
giorni dal concepimento, ogni supplementazione eseguita dopo il concepimento è del tutto inutile.
La fortificazione è stata eseguita con quantità tali da assicurare alla popolazione un incrementato apporto di AF tra 0,2 e 0,4 mg: i livelli più bassi di
quelli utilizzati nella supplementazione individuale hanno coniugato il vantaggio di raggiungere tutte le donne che iniziano una gravidanza, anche se non
prevista, e il possibile svantaggio di incrementare l’assunzione di AF nelle fasce che non ne hanno bisogno o che teoricamente potrebbero averne un
danno (mascheramento del deficit di vitamina B12), come quelle anziane.
pio e non sappiamo se l’efficacia è da attribuire alle dosi più elevate.
Di fatto sappiamo che 0,4 mg/die riducono il rischio, ed è questa la
dose che dobbiamo ritenere come “aumentato apporto”. Ebbene, se
teniamo conto della biodisponibilità dell’AF, doppia di quella dei folati
alimentari, con l’alimentazione una donna che desidera una gravidanza dovrebbe assumere 0,8 mg/die di folati, oltre quelli che dovrebbe
assumere normalmente (0,6 mg/die in gravidanza). Ad esempio dovrebbe assumere “in più, a pranzo e a cena una porzione di asparagi,
una di lattuga + un mandarino e un kiwi, oppure una porzione di spinaci e una di rape rosse + un pompelmo e un’arancia bionda, oppure
un’aranciata di 6 arance rosse (due volte al giorno)”.
Perché esiste una così ampia variazione dell’efficacia della
supplementazione peri-concezionale e della fortificazione con
acido folico?
Le spiegazioni della variabilità dell’efficacia dell’aumentato apporto
di AF possono essere numerose, quelle meglio note sono tre:
1. La correlazione positiva tra frequenza di base nella popolazione
di DTN e la riduzione osservata (la spiegazione più importante e
chiara) mostrata nella Figura 3.
2. La correlazione inversa tra quantità di folati assunti (Werler et
al., 1993; Shaw et al., 1995; Moore et al., 2003) e quindi di folatemia (Daly et al., 1995), e frequenza di DTN. Questa relazione,
osservata principalmente con i folati alimentari, è stata ulteriormente elaborata da Wald et al. (2001) con ulteriori dati (ad es.
quelli del trial clinico randomizzato [TCR] del Medical Research
Council [MRC] sulla ricorrenza dei DTN) che hanno suggerito con
precisione i valori della correlazione tra folatemia, quantità di AF
assunto e riduzione del rischio di DTN (Tab. II).
4
5
3. L’interazione con altre vitamine del gruppo B, in particolare
B12, come evidenziato dalla modesta e non statisticamente significativa, ma non trascurabile, efficacia di prodotti a base
di altre vitamine (MV) senza AF nei confronti del placebo nel
TCR sulla ricorrenza citato sopra (MRC Vitamin Study Research
Group) 4, dagli studi che suggeriscono un effetto di riduzione
del rischio di DTN con buoni livelli di B12, indipendentemente da quello dell’AF (Ray et al., 2007; Oakley, 2007), e infine
dall’ampia riduzione ottenuta nello studio di Smithells e negli
studi ungheresi che avevano utilizzato (oltre a dosi variabili di
AF 0,8 mg/die [Czeizel e Dudás, 1992] e 0,036 [Smithells et al.,
1983]) anche altre vitamine.
Un aumentato apporto di AF nel periodo peri-concezionale può
ridurre il rischio di altre malformazioni?
La risposta è positiva ma non conclusiva ed è basata sui seguenti dati:
• Uno studio osservazionale svolto in Danimarca negli anni 198386 ha osservato una riduzione del 34% (IC 95% 1-56%) di malformazioni gravi e a insorgenza embriologica precoce (escluse
anomalie cromosomiche; frequenza apri a 0,9%) in donne che
avevano iniziato prima del concepimento (1562) o nelle prime
settimane di gravidanza (3783) a prendere 0,1-2,5 mg/die di
AF in confronto a donne (8026) che non avevano preso o preso
tardivamente AF (Ulrich et al., 1999).
• Il TCR effettuato in Ungheria aveva osservato, seppure come esito secondario, una riduzione del rischio di altre malformazioni,
esclusi i DTN, del 33% 5 nelle donne che avevano assunto AF 0,8
mg/die + MV (Czeizel et al., 1992).
Nell’analisi per trattamento tra le donne informative vi sono state 7/234 DTN (3,0%) che avevano assunto MV vs. 10/243 (4,11%) tra quelle che avevano assunto
placebo (RR = 0,73).
28/2090 vs. 41/2032.
155
I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo
Tabella II.
Relazione tra folatemia di base e riduzione prevedibile del rischio di DTN.
Folatemia ng/mL di base
AF mg/die
2,5
5,0
10,0
0,2
36%
23%
13%
0,4
52%
36%
23%
1,0
71%
57%
41%
3,0
87%
78%
66%
5,0
91%
85%
75%
Da Wald et al., 2001.
– In Canada e in Cile non è stato osservato un decremento né
della labiopalatoschisi né della sindrome di Down (Ray et al.,
2003a, 2003b; Castilla et al., 2003).
• Sono disponibili 3 metanalisi basate almeno su 5 studi. Indicano
una riduzione per palatoschisi e labiopalatoschisi rispettivamente di 20% 8 e 28% 9 (Badovinac et al., 2007) e per cardiopatie del
22% 10 (Goh et al., 2006) nelle donne che avevano assunto nel
periodo peri-concezionale AF + MV (più spesso).
• La revisione sistematica effettuata su altre malformazioni, basata su meno di 5 studi suggerisce una riduzione del rischio anche
per: idrocefalo, difetti del tratto urinario, atresia anale, ipo-agenesie degli arti, onfalocele (Goh et al., 2006).
• Uno studio caso-controllo condotto in Ungheria suggerisce una
riduzione del 60% (IC 95% 30-80%) di sindrome di Down con
una dose di 6-9 mg di AF (Czeizel e Puhò, 2005).
Figura 3.
Correlazione tra prevalenza DTN ed efficacia acido folico.
• Uno studio di coorte svolto in Ungheria aveva osservato una
riduzione del rischio di tutte le malformazioni eccetto DTN del
23% 6 nelle donne che avevano assunto AF 0,8 mg/die + MV
(Czeizel et al., 2004).
• Uno studio caso-controllo svolto con dati raccolti nel registro
delle malformazioni del Center for Disease Control and Prevention (CDC) ad Atlanta indica una riduzione del 16% 7 di altre malformazioni (esclusi DTN) nelle donne che avevano assunto MV +
AF (dose più frequente 0,4 mg/die) (Botto et al., 2004).
• Gli studi sugli effetti della fortificazione non forniscono in modo
sistematico informazioni su tutte le malformazioni ma solo sulle
più comuni, in particolare:
– Negli Stati Uniti in uno studio su 15 malformazioni selezionate (Canfield et al., 2005) è stato osservato un decremento
statisticamente significativo, oltre che per i DTN, per: trasposizione dei grossi vasi (ma non altre cardiopatie studiate), palatoschisi, labiopalatoschisi, agenesia renale, difetti
ostruttivi del tratto urinario, ipo-agenesie degli arti, onfalocele. Da segnalare che il decremento delle schisi orali è stato
descritto anche in un altro studio (Yazdy et al., 2007) e che la
sindrome di Down non ha mostrato alcun decremento.
8
9
126/3056 vs. 164/3056.
OR = 0,84; IC 95% 0,72-0,97. Dati più precisi non forniti.
OR = 0,80; IC 95% 0,69-0,92. Stima basata su 10 studi.
OR = 0,72; IC 95% 0,58-0,87. Stima basata su 11 studi.
10
OR = 0,78; IC 95% 0,67-0,92. Stima basata su 5 studi.
6
7
156
L’insieme degli studi citati suggerisce, ma non prova definitivamente, l’efficacia dell’AF nei confronti di altre malformazioni perché i
risultati del TCR ungherese erano esiti secondari e non primari; la
gran parte degli studi disponibili è di tipo caso-controllo, con tutti i
limiti di interpretazione tali studi; lo studio ungherese sulla sindrome
di Down è isolato e peraltro ripetibile con difficoltà poiché dosaggi
elevati di AF non si usano comunemente in altri paesi nel periodo
periconcezionale e infine perché negli scarsi studi ecologici postfortificazione la riduzione di altre malformazioni non è risultata così
chiara ed evidente come necessario per stabilire prove conclusive.
Per questo motivo è necessario attendere uno o più TCR disegnati
ad hoc (la cui realizzazione è estremamente complessa per l’elevata
numerosità di donne che dovrebbero essere studiate).
Quale riduzione dei DTN e di altre malformazioni ci possiamo
attendere in Italia?
Come indicato nella Tabella III, considerando che la stima della frequenza di DTN in Italia (attraverso i registri di malformazioni congenite regionali attivi, che tiene anche conto di una modesta sottoregistrazione di interruzioni di gravidanza dopo diagnosi prenatale), è di
0,75 per mille (totale 413: 193 anencefalie + 220 spine bifide tra i
550.000 nati) e considerando la correlazione esistente tra frequenza
nella popolazione ed efficacia (Fig. 3), la stima più ragionevole della
percentuale di riduzione in Italia per i DTN è intorno al 20% (ammettendo una efficacia identica per anencefalia e per spina bifida). Per
quanto riguarda le altre malformazioni accettiamo una stima di riduzione del 20% come in altri paesi (non essendo noti per il momento
motivi per ritenere l’Italia diversa da altri paesi).
Nella Tabella III vengono fornite le stime del numero di casi che si
potrebbero osservare, e quindi il numero di casi in meno, sotto tre
diversi scenari, sia per quanto riguarda i DTN (con dati più certi) che
per tutte le altre malformazioni (con dati molto più incerti).
Un aumentato apporto di AF nel periodo peri-concezionale può
ridurre il rischio di altre patologie infantili e di altri esiti avversi
della riproduzione o della gravidanza?
Sì, è probabile ma servono ulteriori studi. Tralasciando tutti gli studi
Acido folico che cosa è, a che cosa serve
Tabella III.
Scenari ipotizzabili in Italia a seguito della supplementazione con 0,4 mg/die o con la fortificazione con acido folico.
Attuale
Frequenza totale DTN (n. casi)
413
Decremento di … casi
Frequenza di anencefalia, totale
Scenari ipotizzabili
Fortificazione o
supplementazione del
100% delle donne
Supplementazione del
50% delle donne
Supplementazione del
25% delle donne
330
371
392
-83
-41
-21
193
154
173
183
Nati
19
15
17
18
Interruzioni di gravidanza
173
139
156
165
Frequenza di spina bifida
220
176
198
209
Nati
66
53
59
63
Interruzioni di gravidanza
154
123
139
146
16.500
13.200
-3300
14.850
-1650
15.675
-825
Frequenza totale malformazioni
Dati per calcolare i diversi scenari. Nati in Italia = 550.000. Frequenza totale DTN (anencefalia e spina bifida) in Italia = 7,5 per 10.000. Anencefalia 3,5
per 10.000, spina bifida 4,0 per 10.000. Dato calcolato dai dati dei registri di malformazioni tenendo conto di una quota di possibile sotto-registrazione
soprattutto delle interruzioni di gravidanza dopo diagnosi prenatale. Percentuale di interruzioni di gravidanza dopo diagnosi prenatale 90% per l’anencefalia e 70% per la spina bifida. Frequenza totale di malformazioni 3%. Riduzione attesa di DTN attribuibile all’acido folico = 20%. Riduzione attesa di
malformazioni attribuibile all’acido folico 20%.
di associazione tra le varie patologie della gravidanza (ad es. aborto
spontaneo ricorrente, ritardo di crescita intrauterina, pre-eclampsia,
distacco di placenta) con IOC moderata, bassa folatemia o con i polimorfismi di geni coinvolti nel metabolismo dell’AF, che generano
soltanto un’ipotesi, seppure suggestiva, di una possibile riduzione
dei rischi attraverso un aumentato apporto di AF, e concentrando
l’attenzione solo sugli studi che hanno valutato se un reale incrementato apporto nel periodo peri-concezionale di AF con o senza
MV sia associato ad una riduzione del rischio di queste patologie, gli
studi più importanti questa possibilità sono riportati di seguito.
Per la fertilità maschile:
Per i tumori infantili:
• Un TCR svolto in Olanda ha osservato un aumento del numero di
spermatozoi negli uomini subfertili trattati con zinco solfato (66
mg/die) e 5 mg/die AF per 6 mesi. Stranamente tale effetto era
limitato agli uomini con genotipo MTHFR normale. Non è stato
studiato se le partner sono rimaste incinta (Wong et al., 2002).
• Una revisione sistematica di studi caso-controllo svolti in Canada, Stati Uniti e Australia indica per i nati da donne che avevano
assunto MV + AF nel periodo peri-concezionale una riduzione
del rischio di tumori cerebrali, leucemia e neuroblastoma rispettivamente del 27%, 39% e 47% (Goh et al., 2007).
• Uno studio su 89 uomini svolto in California ha osservato che
il numero di aneuploidie negli spermatozoi degli uomini era inversamente correlato alla quantità di folati assunta (range 1141150 mcg/die) (Young et al., 2008).
• Uno studio condotto in Canada nel periodo post-fortificazione
ha osservato un’incidenza di neuroblastoma di 6,2 per 100.000,
più bassa del 60% nei confronti del periodo pre-fortificazione
(French et al., 2003).
Per la prematurità, basso peso neonatale e ritardo di crescita intrauterino:
• Uno studio di coorte svolto nel 1983-86 in Danimarca ha osservato che le donne che prendevano AF (1,0-2,5 mg) prima del
concepimento avevano un rischio diminuito di prematuri (-19%),
di nati con peso -2500 g (-32%) e di nati piccoli per età gestazionale (-17%) (Rolschau et al., 1999).
• L’analisi secondaria di uno studio di coorte effettuato per valutare l’effetto di multivitaminici sulla pre-eclampsia, ha osservato nelle donne che prendevano regolarmente AF + MV nei
6 mesi precedenti il concepimento una riduzione non statisti-
camente significativa di SGA (OR = 0,64, IC 95% 0,40-1,03)
e una riduzione del rischio di prematurità, < 34 settimane del
71% (OR = 0,29, IC 95% 0,13-0,64). Non vi è stato invece
alcun effetto sulla prematurità tra 34 e 37 settimane (Catov et
al., 2007).
• La valutazione della frequenza di prematurità nel periodo postfortificazione negli Stati Uniti indica una frequenza del 7,7%, 4%
in meno (p < 0,05) di quella precedente (Shaw et al., 2004).
Un aumentato apporto di AF alla popolazione in generale può
ridurre il rischio di altre patologie umane?
Un gran numero di studi ha suggerito un’associazione tra rischio di
patologie vascolari (e non solo) e IOC. È ragionevole pensare che la
riduzione dell’omocisteina, che si può ottenere con AF (± MV) possa
ridurre il rischio di tali patologie. La prova definitiva deve essere prodotta da studi su esiti di salute importanti (ad es. mortalità e morbosità) e non su esiti surrogati (ad es. decremento dell’omocisteina) e
deve essere basata su studi robusti (TCR o studi osservazionali molto validi). Negli ultimi anni si sono resi disponibili i risultati di alcuni
TCR, che per convenienza di dimensione del campione da studiare
sono stati svolti su persone non più giovani e affette da patologie
157
I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo
Tabella IV.
Sintesi di studi clinici randomizzati effettuati per valutare l’efficacia di vitamine del gruppo B nella riduzione del rischio di patologie vascolari.
Primo autore, anno
Nome dello studio
Patologia dei pazienti Numero totale di
randomizzati
pazienti
Trattamento
sperimentale (TS)
Schnyder, 2002
Swiss Heart Study
Sottoposti a intervento 553
di angioplastica
AF 1 mg + 0,4 mg B12 + Placebo
10 mg B6 per 6 mesi
Lange, 2004
Germania
Sottoposti a intervento 636
di angioplastica
AF 1,2 mg + 0,06 mg B12 Placebo
+ 48 mg B6 per 6 mesi
Toole, 2004
VISP, multicentirco
Ictus in passato
AF 2,5 + 0,4 mg B12 + 25 AF 0,02 + 0,006 mg
mg B6
B12 + 0,2 mg B6
3680
Trattamento di
controllo (TC)
HOPE-2 Group (Ray, HOPE-2
2007)
Malattie vascolari o 5522
diabete
AF 2,5 mg + B12 1 mg + Placebo
B6 50 mg
Bonaa, 2006
NORVIT
Precedente infarto del 3749
miocardio
A = B6 40 mg; B = AF 0,8 Placebo
mg + B12 0,4; C = A + B
Bonaa, 2006
NORVIT
Precedente infarto del 3749
miocardio
A = B6 40 mg; B = AF 0,8 Placebo
mg + B12 0,4; C = A + B
Bonaa, 2006
NORVIT
Precedente infarto del 3749
miocardio
A = B6 40 mg; B = AF 0,8 Placebo
mg + B12 0,4; C = A + B
Jamison, 2007
USA, Veterans
Insufficienza renale
2056
AF 40 mg + B12 2 mg + B6 Placebo
100 mg
den Heijer, 2007
VITRO High HCY
Pazienti con TVP o EP
360
AF 5 mg + B12 0,4 mg + Placebo
B6 50 mg
den Heijer, 2007
VITRO Low HCY
Pazienti con TVP o EP
341
AF 5 mg + B12 0,4 mg + Placebo
B6 50 mg
TVP = trombosi vene profonde; EP = embolia polmonare.
Nota 1. L’analisi per efficacia ha dimostrato una riduzione del 21% di eventi gravi.
Nota 2. Morti per ictus = 0,75 (0,59-0,75). Angina instabile = 1,24 (1,04-1,49). Analisi successiva di TVP = 1,01 (0,66-1,53).
Tabella V.
Effetti collaterali descritti in letteratura in associazione alla supplementazione con acido folico.
Effetto collaterale descritto
Suggerito da…
Conclusione
Interazione con farmaci
Studi di farmacologia e osservazioni cliniche
AF interagisce con antiepilettici (in particolare fenilidantoina) e farmaci ad azione antifolica
Disturbi dell’umore, del sonno e sintomi
gastrointestinali
Studio controllato in aperto, AF 15 mg/die per un Possibile effetto di fattori confondenti. Studio non
mese (Hunter et al., 1970)
confermato
Effetti negativi sulla riproduzione o sui bambini
Principio di massima precauzione
Plagiocefalia posizionale (PP)
Analisi secondaria di pochi casi di PP (Michels Risultati non statisticamente significativi; studio con
et al., 2008)
possibili bias; pubblicato solo per segnalare ipotesi
Decremento soglia epilettogena
Studi in laboratorio
Ipersensibilità
Case report (Smith et al., 2007; Pfab et al., 2007)
Diminuita attività cellule NK
Studio trasversale su 105 donne post-menopau- Decremento dell’attività delle cellule NK correlato a
sa e obese (Troen et al., 2006)
AF non metabolizzato; di dubbio significato clinico
Malassorbimento zinco
Segnalazioni sporadiche
Ricorrenza adenomi colon (RAC)
TCR di prevenzione di RAC con AF e/o aspirina x Risultati non confermati in ulteriore TCR; neces6 mesi: incremento di RAC 3+ e lesioni più avan- sari altri studi (Logan et al., 2008)
zate (Cole et al., 2007)
Incremento Ca colon e prostata
TCR HOPE-2 (Lonn et al., 2006); TCR RAC (Cole Analisi secondarie; popolazione anziana; neceset al., 2007)
sari altri studi
Nessuna segnalazione suggestiva in TCR o altri studi
Attività epilettogena non confermata nell’uomo
*
Possibili allergie e crisi anafilattiche
Ipotizzato senza trovare conferme
Correlazione ecologica positiva tra fortificazione ob- Studio di correlazione ecologica in cui non è stato
bligatoria in Canada e Ca colon (Mason et al., 2007) tenuto conto dell’incremento dello screening
Incremento Ca mammella pre-menopausa
Osservazione in studio di coorte (Lin et al., 2008) Ipotesi da valutare meglio. Rischio non aumentato
per Ca mammella in generale (Larsson et al., 2007)
Incremento di parti gemellari di-zigoti
Due studi in Ungheria (Czeizel et al., 1994; Czei- Ulteriori verifiche non hanno confermato i risultati
zel e Vargha, 2004) e due studi in Svezia (Ericson ma hanno dimostrato l’effetto confondente (non conet al., 2001; Kallen, 2004)
siderato negli studi iniziali) dei trattamenti a donne
subfertili (Vollset et al., 2005; Berry et al., 2005)
TCR = trial clinico randomizzato.
*
Segnalazioni più recenti.
158
Acido folico che cosa è, a che cosa serve
Esito primario
Durata follow-up
Frequenza esito
primario con TS
Frequenza esito
primario con TC
RR
IC 95%
Esito composto: morte + infarto + 11 mesi (media)
re-intervento di angioplastica
15,4
22,8
0,68
0,48-0,96
Ricorrenza stenosi coronarie
6 mesi
34,5
26,5
1,30
n.i.
Ricorrenza ictus
2 anni
9,2
8,8
1,05
0,8-1,3
Nota 1
Morti per malattie cardiovascolari 5 anni
o ictus
18,8
19,8
0,95
0,84-1,07
Nota 2
Esito composto: ricorrenza infarto 3,5 anni
+ morte cardiaca + ictus
70,1
67,2
1,14
0,98-1,32
Trattamento A
Esito composto: ricorrenza infarto 3,5 anni
+ morte cardiaca + ictus
66,9
67,2
1,08
0,93-1,25
Trattamento B
Esito composto: ricorrenza infarto 3,5 anni
+ morte cardiaca + ictus
81,6
67,2
1,22
1,00-1,50
Trattamento C
Morte
3,2 anni
n = 448
n = 436
1,04
0,91-1,18
Ricorrenza TVP e EP
2,5 anni
1,14
0,65-1,98
Ricorrenza TVP e EP
2,5 anni
0,58
0,31-1,07
vascolari in precedenza. Non è stata quindi valutata l’efficacia nella
prevenzione primaria delle patologie di interesse ma la “prevenzione
della ricorrenza” della patologia o delle sue sequele. I risultati tutti
negativi, con l’eccezione di una riduzione di ictus cerebrale, sono
sintetizzati nella Tabella IV. Da segnalare infine una riduzione della
mortalità per ictus cerebrale osservata in Canada e Stati Uniti dopo
la fortificazione (Yang et al., 2006).
Il problema della relazione tra AF e tumori
Un ampio numero di studi osservazionali ha dimostrato che un più elevato apporto di folati è associato a un minor rischio di tumori di vario
tipo. Questi studi sono corroborati dalle conoscenze sul meccanismo
d’azione dell’AF: sintesi del DNA necessario per la replicazione e riparazione; danno cromosomico in carenza di AF; ruolo importante nella
sintesi di S-adenosilmetionina, il donatore universale di metili, necessari per la metilazione del DNA e sua integrità. Nonostante le evidenze
osservazionali e le considerazioni patogenetiche manca ancora però
la prova decisiva che fornisca l’evidenza della possibilità di prevenire
i tumori con AF ± MV. Recenti osservazioni sperimentali e sull’uomo
suggeriscono che il fattore critico è il momento in cui si assumono
folati o AF (Ulrich e Potter, 2006; Smith et al., 2008). L’assunzione di
AF ± MV prima della esistenza di lesioni pre-neoplastiche potrebbe
prevenire lo sviluppo di tumori, mentre dopo che la lesione si è già
stabilita potrebbe aumentare il rischio di carcinogenicità.
Annotazioni
Un aumentato apporto di AF può avere effetti collaterali?
Il più noto effetto collaterale dell’acido folico è il mascheramento di
deficit di vitamina B12, con rischio di peggioramento dei segni neurologici. Sulla base di un centinaio di casi clinici riferiti in letteratura prima
degli anni ’60, l’Institute of Medicine, Board of Nutrition ha indicato che
il livello più basso per osservare l’effetto di mascheramento (LOAEL)
va considerato di 5 mg di AF. Tuttavia per un principio di massima di
precauzione ha indicato un fattore di incertezza di 5 e suggerito come
dose massima tollerabile quella di 1,0 mg/die di AF sintetico. Non vi
sono altre indicazioni per stabilire la dose massima tollerabile.
Tutti gli altri affetti collaterali ipotizzati e reperibili in letteratura sono
sintetizzati nella Tabella V.
Crediti
Il presente lavoro è stato svolto nell’ambito del Progetto “Implementazione di strategie utili a favorire l’assunzione ottimale di acido folico nelle donne in età fertile e nella popolazione generale” finanziato
dal Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (CCM),
Ministero del Lavoro, della Salute e Poliche Sociali, Roma e del Programma “Surveillance and prevention of birth defects” Cooperative
Agreement Number U50/CCU207141-15 con i Centers for Disease
Control and Prevention (CDC), Atlanta, United States.
Si ringrazia Emanuele Leoncini ed Emanuela Piemonte per l’aiuto
fornito.
159
I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo
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Corrispondenza
prof. Pierpaolo Mastroiacovo, Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects, via Carlo Mirabello 19, 00195 Roma • Tel. +39 06 3701905 • Fax
+39 06 3701904 • E-mail: icbd@ icbd.org
161
Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 162-174
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150LINEE
• Pp. GUIDA
XX-XX
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico
pediatrico in fase acuta.
Linea Guida SIP-SIMEUP-SINP 2007
Coordinatori
Antonella Palmieri, Salvatore Savasta*, Stefania Zampogna**
U.O. di Pronto Soccorso Medicina d’Urgenza DEA, Istituto “G. Gaslini”, IRCCS Genova; * Clinica Pediatrica, Policlinico
“S. Matteo”, Pavia; ** UO di Pediatria, Ospedale “Ciaccio”, Catanzaro
Gruppo di lavoro
A. Cama, C. Gandolfo1, A. Rossi1, A.C. Molinari2, A. Moscatelli3, M. Tumolo3, A. Rimini4,
M. Agostini5, A. Laverda6, U. Raucci7, A. Tozzi7, R. Longhi8, P. Di Pietro9
Società Italiana di Neurochirurgia Pediatrica, U.O. di Neurochirurgia, Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 1 Associazione Italiana di Neuroradiologia, U.O. di Neuroadiologia, Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 2 Società Italiana di
Emato-Oncologia Pediatrica, Centro regionale di riferimento per le coagulopatie, Dipartimento di Emato-Oncologia,
Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 3 Società Italiana di Anestesiologia e Rianimazione pediatrica, U.O. di Anestesia
e Rianimazione, Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 4 Società Italiana di Cardiologia Pediatrica, U.O. di Cardiologia,
Istituto “G. Gaslini”, IRCCS, Genova; 5 DEA, Ospedale “Regina Margherita”, Torino; 6 Dipartimento di Pediatria, Università di Padova; 7 Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, IRCCS, Roma; 8 Coordinatore Commissione Tecnica Linee
Guida della Società Italiana di Pediatria; 9 Presidente Società Italiana di Pediatria
Presentazione
Lo stroke in età pediatrica è stato, per anni, una patologia poco conosciuta e studiata, sebbene costituisca una delle prime dieci cause
di morte in questa fascia di età 1. Numericamente inferiore a quello
dell’adulto, può comportare, per i possibili esiti, un notevole impegno per il paziente in età evolutiva e la sua famiglia, non solo per
gli aspetti clinici, ma anche per le ripercussioni emotive, sociali ed
assistenziali 2-6.
Nel passato, la gestione clinico-terapeutica è stata ricavata essenzialmente dall’esperienza e dagli studi sull’adulto.
Tuttavia, le profonde differenze dal punto di vista eziopatogenetico e
fisiopatologico dello stroke nell’adulto e nel bambino hanno indotto
alla realizzazione di studi multicentrici e registri nazionali in età pediatrica come in Canada o in Svizzera 7 8.
In Italia, non sono disponibili dati epidemiologici su base nazionale,
ma solo casistiche di pazienti.
Esistono due Linee Guida (LG) per lo stroke ischemico pediatrico,
entrambe pubblicate alla fine del 2004: quelle inglesi, del Paediatric
Stroke Working Group 9, decisamente più ampie in quanto comprensive dei diversi aspetti della gestione del bambino con stroke e quelle statunitensi-canadesi dell’American College of Chest Physicians
(ACCP) che, nell’ambito di una LG per la terapia delle più comuni
condizioni trombotiche del bambino, includono anche una sezione
sullo stroke ischemico 10 50.
Entrambe le LG, però, si soffermano poco sugli aspetti peculiari della
gestione del bambino in fase acuta, essendo basate su studi con-
162
dotti sull’adulto e su pochi studi pediatrici non randomizzati o su
esperienze anedottiche.
Scopo della Linea Guida
Fornire raccomandazioni per la diagnosi ed il trattamento dello
stroke ischemico in fase acuta. La presente LG non considera l’età
neonatale.
È certamente necessario dichiarare che proprio la mancanza in età
pediatrica di dati epidemiologici certi e di studi controllati ha condizionato spesso la forza delle raccomandazioni.
Destinatari
Pediatri ed altre figure professionali, con competenza pediatrica,
coinvolte nel processo diagnostico-terapeutico dello stroke.
Implementazione
• Presentazione e discussione ai Congressi della Società Italiana di
Pediatria (SIP) e delle Società affiliate;
• pubblicazione sul sito internet della SIP;
• pubblicazioni su riviste pediatriche;
• corsi di formazione ed aggiornamento (presentazione teorico-pratica a piccoli gruppi di discenti).
Valutazione di efficacia
Monitoraggio di indicatori, appositamente scelti, che vadano a valutare l’effettiva efficacia della LG.
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
Aggiornamento
Nessuno degli estensori ha ricevuto finanziamenti di alcun genere
per la stesura di questa LG o ha indicato potenziali conflitti di interesse.
come una “sindrome clinica basata sulla rapida insorgenza di segni
neurologici focali o di una disfunzione cerebrale diffusa della durata
di almeno 24 ore o con esito mortale, senza cause apparenti al di
fuori di un’origine vascolare” 4 12 13.
Si definisce invece attacco ischemico transitorio (TIA) un “deficit
neurologico acuto focale o diffuso, transitorio, riferibile ad un territorio di distribuzione arteriosa, in un paziente in cui la RMN non
mostra segni di ischemia, ma la storia clinica e le indagini cliniche e
strumentali suggeriscono una origine vascolare” 9 16 17.
Metodologia
Epidemiologia
Per la redazione della presente LG, è stata effettuata una revisione
sistematica della letteratura, ricercando i lavori scientifici, sulla base
della piramide delle evidenze, considerando in ordine di priorità:
• revisioni sistematiche;
• studi randomizzati controllati in doppio cieco;
• studi randomizzati controllati;
• studi di coorte;
• studi caso-controllo;
• serie di casi;
• case reports;
• editoriali-review, report di congressi, opinioni di esperti.
Inoltre, sono state considerate le raccomandazioni espresse su LG
sullo stroke pediatrico già esistenti, in accordo al livello di evidenza
riportato.
Per il reperimento delle fonti (identificazione e analisi della letteratura), è stata effettuata una ricerca bibliografica mediante parole
chiave (Pediatric stroke, Pediatric arterial stroke, Pediatric ischemic
stroke, Childhood stroke, Epidemiology, Emergency Department,
Therapy) variamente combinate sulle banche dati Medline tramite
motore di ricerca Pubmed, Embase e Cochrane Library dal 1994 al
2007. Inoltre, sono stati ricercati altri documenti rilevanti della letteratura, attraverso motori di ricerca generici e le LG già pubblicate
sull’argomento.
Gli articoli individuati, dopo una verifica sulla congruità del contenuto, sono stati selezionati e sottoposti ad una valutazione sulla qualità
metodologica e riassunti in una scheda di valutazione. Le schede
sono state inviate a tutti i componenti del gruppo di redazione della
LG (Allegato A).
Per la stesura della LG è stato consultato il manuale metodologico
del Programma Nazionale per le LG (PNLG) dell’Istituto Superiore di
Sanità (ISS) (www.pnlg.it) 11. Le prove di efficacia e le raccomandazioni contenute nella LG, utilizzate per redigere il testo, sono state
classificate basandosi sui livelli di evidenza del PNLG (Allegato B).
Tali livelli hanno lo scopo di riflettere il grado di validità dei risultati
e delle conclusioni riportate nei singoli lavori utilizzati, portando alla
formulazione della forza delle raccomandazioni (Allegato C).
L’incidenza di stroke ischemico arterioso nel bambino al di sopra dei 28 giorni di vita, riportata in letteratura, varia tra 1,2 e 7,9
casi/100.000 bambini per anno 4 7 8 22-24.
Tuttavia, negli ultimi vent’anni, si è registrato un aumento dell’incidenza dello stroke ischemico, in relazione probabilmente alla
maggiore attenzione verso questa patologia, alla disponibilità di tecniche neuroradiologiche più sensibili e alla maggior sopravvivenza
dei bambini con patologie primitive che predispongono allo stroke.
D’altro canto, l’introduzione di misure di prevenzione primaria può
ridurre significativamente lo stroke in patologie selezionate, come
ad esempio l’anemia falciforme, in cui l’incidenza rimane elevata
(11% prima dei venti anni di età) 3 5 6 17 25-27.
Per quanto riguarda l’outcome, più del 50% dei bambini con stroke
presenta esiti neurologici motori e/o cognitivi, crisi epilettiche e/o disturbi psichici. La mortalità varia dal 5 al 28%. Il rischio di ricorrenza
è intorno al 20-30% 3 4 6 27 28.
Negli anni, la creazione e il consolidamento di registri epidemiologici
(in Italia un esempio è dato dal Registro delle Trombosi infantili – RITI
recentemente costituito) porterà certamente ad un incremento delle
conoscenze.
Ogni 3 anni, se non intervengono prima segnalazioni di particolare
rilevanza in letteratura in grado di modificare, in misura sostanziale,
la base delle conoscenze sulla malattia.
Finanziamenti e conflitti di interesse
Definizioni
Lo stroke è una sindrome clinica caratterizzata dalla presenza di
un deficit neurologico riferibile al territorio di perfusione di un’arteria cerebrale e dall’evidenza neuroradiologica di una lesione
ischemica.
Questa definizione, basata sulla nozione che le indagini neuroradiologiche, in particolare la Risonanza Magnetica Nucleare (RMN),
sono oggi irrinunciabili per definire l’origine cerebrovascolare della sintomatologia 9 14 15 17, completa quella eminentemente clinica
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che definisce lo stroke
Eziologia
I fattori di rischio dell’infarto cerebrale in età pediatrica differiscono
significativamente da quelli dell’adulto, nel quale sono soprattutto
legati alla malattia aterosclerotica e cardioembolica. Sono stati individuati nel bambino oltre 100 fra fattori di rischio e cause di stroke;
i più frequenti sono le cardiopatie, le vasculopatie, i disordini ematologici e le infezioni 7 19 21 29-33 117-119 121 (Tab. I). Tuttavia, nel 11-25%
dei pazienti, non viene identificato alcun fattore di rischio e si parla
di stroke criptogenetico 4 8 18 34.
Il ruolo dei fattori protrombotici acquisiti e congeniti nella eziopatogenesi dell’infarto ischemico è stato indagato in numerosi studi, con
risultati non univoci. Anomalie protrombotiche vengono riportate nel
20-50% dei bambini con stroke, spesso in associazione ad altri fattori di rischio. I dati più consistenti riguardano la presenza di deficit
di fattore V Leiden, deficit di proteina C, elevati livelli di lipoproteina
(a). Ci sono evidenze che i bambini con alcune anomalie protrombotiche sono a maggior rischio di recidiva. Tuttavia, non è ancora
chiaro se queste anomalie abbiano un diretto nesso causale con
l’infarto o contribuiscano a determinarlo in presenza di altri fattori
genetici o ambientali 29 35-41.
L’associazione di più fattori di rischio sembra correlare con una
prognosi sfavorevole in termini di esiti neurologici, di recidiva, di
mortalità. È importante, quindi, non fermarsi al riscontro di un primo
fattore, ma completare l’iter diagnostico per giungere ad un’accurata diagnosi eziologica, alla luce anche della possibilità che alcune
condizioni siano trattabili 8 36.
163
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
Raccomandazione 1
Il bambino con stroke ischemico deve essere sottoposto ad un completo work up diagnostico, in quanto possono sussistere più cause
e/o fattori di rischio (Tab. I).
Raccomandazione di grado A.
Livello di evidenza V.
Presentazione clinica
La presentazione clinica dello stroke ischemico è età- e sede-dipendente.
Nel lattante e nel bambino più piccolo può essere aspecifica, con segni
clinici focali scarsi e sintomatologia più frequente rappresentata da: convulsioni, febbre, irritabilità o cefalea, distonie, alterazione del sensorio.
Nella seconda infanzia e nelle età successive, la presentazione
clinica prevalente consiste in un deficit neurologico acuto focale
quale una emiparesi associata o meno a convulsioni 9 15 20 46-49.
Uno studio, condotto in Svizzera su 40 soggetti con stroke di età
compresa fra 1 mese e 16 anni, riporta emiparesi nel 30% dei pazienti, paralisi del VII nervo cranico nel 20%, cefalea o alterazione
dello stato di coscienza (sonnolenza e stanchezza) nel 15%, disfasia
in circa il 13%; meno frequentemente, alterazioni del tono e della
sensibilità, crisi epilettiche, atassia, nausea, sintomi oculari, vertigini, disfagia, disturbi del comportamento 8.
Tabella I.
Cause e fattori di rischio dello stroke arterioso ischemico del bambino (da de Veber 2006 13, mod.).
Malattie sistemiche
Disordini ematologici
Emoglobinopatie (anemia falciforme)
Porpora trombocitopenica autoimmune
Trombocitosi
Policitemia
Leucemia o altre neoplasie
Porpora trombocitopenica trombotica
Disordini metabolici
Iperomocistinemia
Iperlipidemia
Aumento della lipoproteina A
Disordini mitocondriali (MELAS)
Omocistinuria
Malattia di Fabry
Condizioni protrombotiche congenite o acquisite
Sindrome da antifosfolipidi
Alterazioni lipoproteine
Deficit antitrombina
Deficit di proteina S
Deficit proteina C
Deficit di plasminogeno
Mutazione fattore V Leiden
Mutazione della protrombina G20210A
Polimorfismi della metiltetraidrofolato reduttasi
Contraccettivi orali, assunzione di L-asparaginasi
Gravidanza e periodo post-partum
Malattie sistemiche
Aterosclerosi precoce
Diabete
Malattia di Ehlers-Danlos
Pseudoxantoma elasticum
Traumi
Erniazione cerebrale, Compressione arteriosa
Dissezione arteriosa post-traumatica
Trauma intra-orale
Legatura della carotide (ECMO)
Arteriografia
Embolismo liquido amniotico/placentare
Embolia gassosa/adiposa o gassosa
Embolia iatrogena da corpo estraneo
Cateterismo cardiaco
Cardiopatie
Malattie cardiache congenite
Coartazione
Difetti complessi congeniti
Difetti settali ventricolari/atriali
Pervietà del dotto arterioso
Pervietà del forame ovale
Stenosi aortica o mitralica
Malattie cardiache acquisite
Cardiomiopatia e miocardite
Disaritmie
Endocardite batterica
Malattia reumatica
Mixoma atriale
Rabdomioma cardiaco
Valvola cardiaca protesica
Patologie vascolari
Vasculopatie
Angiopatia post-varicella
Arteropatia transitoria cerebrale
Displasia arteriosa fibromuscolare
Malattia di Moyamoya
Vasculopatia post-radiazioni
Disordini vasospastici
Emicrania
Intossicazioni da sostanze ergotamine-alcaloidi (Ergot poisoning)
Vasospasmo con emorragia subaracnoidea
164
Vasculiti
Abuso di droghe (cocaina, anfetamina)
Angite primitiva del SNC
Arterite di Takayasu
Artrite reumatoide
Dermatomiosite
LES
Meningite
Patologia infiammatoria intestinale
Poliarterite nodosa
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
Tabella II.
Sintomatologia clinica in rapporto al territorio vascolare interessato.
Sintomi
Distretto vascolare
Afasia
Emianopsia
Convulsioni
Emiparesi
Arterie cerebrali media-anteriore
e carotide int.
Atassia
Disturbi del respiro
Disturbi del sensorio
Nistagmo
Opistotono
Tremori
Vertigini
Vomito
Arteria basilare
Alterazioni del sensorio
Cefalea
Deficit motori
Episodi aspecifici (febbre, vomito)
Segni cerebellari
Arteria cerebellare
Un altro studio, basato sui dati del registro canadese, riporta, come
segni d’esordio, emiplegia nel 51% dei bambini, disturbi del linguaggio nel 17% e crisi epilettiche nel 48% (7).
La sintomatologia clinica, oltre all’età, è correlata al territorio vascolare coinvolto. Il distretto più colpito è quello dell’arteria cerebrale
media (Tab. II).
La rapidità di insorgenza dei sintomi correla fortemente con la patogenesi dell’evento ischemico. L’insorgenza non improvvisa (> 30
minuti) orienta per un meccanismo trombotico (p.e. arteriopatia infiammatoria), mentre l’esordio improvviso è legato prevalentemente
ad un evento embolico (dissezione, cardiopatia). L’orientamento clinico deve guidare la priorità delle indagini diagnostiche e il trattamento iniziale (terapia anticoagulante vs. antiaggregante) 49.
Raccomandazione 2
L’infarto cerebrale ischemico cerebrale va sempre sospettato in
caso di:
• deficit neurologico acuto;
• alterazione dello stato di coscienza;
• prima crisi epilettica focale;
• qualsiasi sintomo neurologico di nuova insorgenza in un bambino
con anemia falciforme.
Raccomandazione di grado A.
Livello di evidenza V.
Diagnosi differenziale
Nel bambino che presenti un deficit neurologico acuto, devono essere prese in considerazione, oltre all’infarto ischemico, anche le altre
patologie cerebrovascolari (infarto emorragico, trombosi dei seni
venosi), nonché altre condizioni morbose.
Tra le cause più frequenti di emiplegia acuta, vi sono la paralisi di
Todd e l’emicrania. Una crisi epilettica focale, infatti, può essere
seguita da monoparesi o emiparesi, senza alterazione dello stato
di coscienza o altri segni di malattia. Molto raramente, un deficit
motorio focale può essere l’unica manifestazione della crisi 51. Anche l’emicrania emiplegica può mimare un incidente vascolare. In
genere, in questo caso, il deficit motorio segue a sintomi visivi e/o
sensitivi e precede tipicamente la cefalea. Un’emiplegia acuta legata
ad una meningoencefalite è spesso associata a febbre, cefalea e
alterazione della coscienza. Anche una emorragia in sede di tumore
può manifestarsi con un deficit focale improvviso.
Altre cause di deficit neurologico acuto sono la leucoencefalite acuta
disseminata, la cerebellite, l’encefalopatia posteriore reversibile (da
tossicità da farmaci o da ipertensione arteriosa), l’emiplegia alternante, gli infarti metabolici (malattie mitocondriali, in cui le aree di
alterato segnale alla RMN non corrispondono ad un territorio vascolare), l’ipoglicemia. Vanno tenuti presenti, infine, i disturbi di origine
psicogena 16 48.
In un bambino che si presenti con deficit neurologico acuto, pertanto, è sempre indicato eseguire tempestivamente una valutazione
clinica e strumentale completa, in particolare la RMN per chiarire la
diagnosi 16 19.
In caso la RMN non sia disponibile, va eseguita una Tomografia assiale computerizzata (TAC) cerebrale 67.
Diagnosi
Pur essendo auspicabile che il paziente pediatrico sia sempre assistito da personale medico ed infermieristico con competenze pediatriche, le differenti caratterizzazioni della rete pediatrica in Italia,
variabile da Regione a Regione, rendono impossibile fornire raccomandazioni puntuali e precise sull’opportunità del trasferimento di
questi pazienti in centri pediatrici di III livello.
Il paziente con sospetto stroke deve essere sottoposto a:
• valutazione clinica con esame obiettivo che miri ad una precoce
rilevazione dei danni neurologici e ne stabilisca la sede;
• anamnesi personale, familiare, fisiologica, patologica che devono
mirare alla rilevazione di fattori di rischio importanti nel guidare
l’iter diagnostico. A questo proposito, una particolare attenzione
deve essere riservata alla tempistica dell’insorgenza dei sintomi
e alla modalità di presentazione degli stessi, con la rilevazione di
informazioni da testimoni/genitori o dal paziente stesso, se l’età
e le condizioni lo permettono;
• prelievo venoso volto alla valutazione di selezionati parametri
ematochimici (esame emocromocitometrico, PCR, glicemia,
azotemia, creatinina, funzione epatica, LDH, ionogramma sierico, emogasanalisi, PT, PTT, fibrinogeno);
• accertamenti neuroradiologici (che verranno trattati in dettaglio
di seguito);
• accertamenti cardiologici (che verranno trattati in dettaglio di
seguito);
• esecuzione di ulteriori esami ematochimici di approfondimento
diagnostico. A seconda dei casi, può essere importante lo screening trombofilico, la valutazione dello stato immunitario (profilo
anticorpale, Ab antifosfolipidi, ANA, ANCA; ENA, C3, C4), metabolico (colesterolo totale, trigliceridi, APO-A1, APO-B, lipoproteina
A, omocisteinemia) e lo screening tossicologico su urine;
• eventuali altri accertamenti sono indicati sulla base della eziologia e della sede dello stroke (EEG e potenziali evocati visivi) 15.
Accertamenti neuroradiologici
L’accertamento neuroradiologico di elezione è la RMN. Le problematiche organizzative e la complessità dell’esame spesso, però, ne
limitano l’utilizzo in urgenza; nondimeno, essendo necessaria una
diagnosi precoce, è opportuno non indugiare e sottoporre il piccolo
paziente, con segni e sintomi suggestivi di stroke, ad indagine con
TAC senza mdc 4 18 64-67 70.
Questo esame, infatti, pur essendo dotato di minore sensibilità e
specificità nell’evidenziare focolai ischemici, consente di escludere
165
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
la presenza di eventuali focolai emorragici (ESA e/o emorragia intraparenchimale) ed eventualmente altre patologie responsabili della
sintomatologia (“stroke mimics”: neoplasie, patologie degenerative,
patologie malformative o infettivo- infiammatorie). È da tenere comunque presente che la TAC può essere completamente negativa
nelle prime ore dall’evento.
Raccomandazione 3
Il gold-standard per lo studio dello stroke è, allo stato attuale, la
RMN 68.
Raccomandazione di grado A.
Livello di evidenza V-VI.
La RMN è infatti in grado di svelare precocemente la lesione utilizzando, oltre le sequenze routinarie (FLAIR, SE e FFE- T2) 4 69, sequenze più sensibili 66 69 della durata complessiva di circa un minuto
come DWI e ADC.
Escludendo da questa trattazione i dettagli tecnici atti a migliorare
l’attendibilità e la sensibilità dell’esame, di cui ogni neuroradiologo
deve essere a conoscenza, basti qui ricordare che, ad una generica
richiesta specialistica di “RMN encefalo in sospetto ictus”, priva di
ulteriori specificazioni, deve corrispondere un protocollo codificato
che comprenda sia sequenze pesate in diffusione (DWI e ADC) che sequenze Angio-RM arteriose (della durata di circa 4 minuti) con studio
esteso alle diramazioni arteriose distali, per escludere eventuali fistole
artero-venose durali (FAVD) 71 e venose (della durata di circa 2 minuti), e una Angio-RM venosa, qualora si sospetti una trombosi dei seni
venosi 4 68. Entrambe le sequenze non necessitano obbligatoriamente
della somministrazione di mdc 4 68 che viene effettuata dal neuroradiologo solo in caso di dubbio diagnostico.
Nel sospetto di dissecazione arteriosa molto prossimale (a carico
della carotide comune, del tratto extracranico della carotide interna o della arteria vertebrale), è necessario specificare tale possibile
causa al neuroradiologo il quale provvederà a studiare opportunamente il circolo extracranico interessato con Angiografia digitale
(DSA) o Doppler o Angio-RMN del collo 4 66 67.
In caso di sospetto persistente di lesione ischemica e discrepanza
tra quadro clinico e neuroradiologico, esiste la possibilità di approfondimento dello studio dell’encefalo con software avanzati di
risonanza magnetica. Qualora la macchina a disposizione lo consenta, si può studiare la perfusione cerebrale (PWI) con somministrazione di gadolinio (il mezzo di contrasto in risonanza magnetica), a elevata velocità di flusso, per mezzo di un accesso venoso
di dimensioni appropriate (generalmente agocannula da 16-18 GA,
somministrazione in pompa di doppia dose di mdc a 2 ml/s di
flusso).
Tali procedure consentono di escludere con sicurezza la presenza di
ICTUS, così come di deficit perfusivi 69 70.
Alcune lesioni ischemiche possono essere passibili di terapia endovascolare e quindi necessitano di una confidenza diagnostica
maggiore 67 72 73 che solo la angiografia digitale (DSA) può dare
(Box 1).
Accanto alle possibilità di approfondimento diagnostico, in caso di
patologia vascolare complessa, la DSA permette numerose opzioni
terapeutiche che devono essere conosciute dal clinico ed eventualmente prese in considerazione: trattamento di una flap dissecante,
dilatazione di stenosi critiche intracraniche anche distali o trattamento disostruttivo (per esempio trapping di embolo o disostruzione
meccanica con devices neurointerventistici dedicati); queste manovre devono tuttavia essere eseguite da personale, con esperienza in
166
Box 1
La DSA è una tecnica che permette di visualizzare endovascolarmente la vascolarizzazione del SNC (cranio-encefalo e rachidemidollo). In età pediatrica viene praticata in anestesia generale
e, attraverso un introduttore (generalmente posizionato nei vasi
femorali), viene fatto scorrere, lungo i grossi vasi dell’organismo,
un sottile catetere di materiale plastico che viene posizionato
all’inizio del distretto vascolare da studiare. Dopodiché viene
iniettato del mezzo di contrasto iodato (iodio) e durante questa
fase acquisite una serie di radiografie che permettono di documentare la vascolarizzazione dell’organo oggetto di studio.
ambito pediatrico, in grado di mutuare le indicazioni e le tecniche
dalla letteratura sullo stroke nell’adulto e di adattarle alle peculiarità
del bambino.
L’uso di fibrinolitico intrarterioso in età pediatrica (da eseguirsi previo posizionamento di catetere in prossimità del trombo) attualmente non è codificato in letteratura; i singoli case report descritti 73-75
evidenziano esiti discordanti e ne consigliano l’utilizzo in casi superselezionati e in centri dedicati.
Raccomandazione 4
L’utilizzazione dell’angiografia con tecnica convenzionale è riservata
a casi selezionati 77.
Raccomandazione di grado B.
Livello di evidenza V.
Accertamenti cardiologici
In molti pazienti con stroke, una patologia cardiaca può essere misconosciuta 21 36. Il più importante meccanismo di stroke peculiare
delle cardiopatie congenite cianogene e delle malformazioni vascolari è l’embolia paradossa.
Essa è definita come un evento embolico sistemico dovuto a passaggio, nella circolazione arteriosa sistemica, attraverso una comunicazione anomala, di materiale embolico (trombotico, aria, grasso
ecc.) che ha avuto origine dal compartimento ematico venoso e che
abbia saltato il filtro capillare polmonare 90-93.
Possono potenzialmente essere causa di stroke le cardiopatie congenite, in particolare quelle cianogene 81-83 96, così come deve essere
presa in considerazione, quale altra potenziale concausa di stroke in
età pediatrica, anche la pervietà del forame ovale, con o senza aneurisma del setto interatriale, in un cuore peraltro normale 84 85 94-98.
Nei pazienti affetti da cardiopatia cianogena, il costante passaggio
del sangue venoso nella circolazione arteriosa rende questi soggetti particolarmente suscettibili all’embolia paradossa. Nei bambini con cardiopatia congenita, con shunt sinistro-destro o in caso
di forame ovale pervio, l’inversione temporanea dello shunt, quale
può verificarsi in caso di aumento della pressione intratoracica
(esercizio fisico, soprattutto di tipo isometrico o durante manovre
tipo Valsalva o la tosse), può favorire l’evento embolico paradosso,
se tale episodio di inversione del flusso ematico dovesse casualmente coincidere con la presenza di materiale embolico nel cuore
destro 87 98.
Possono infine ancora essere causa di stroke l’endocardite infettiva,
la patologia delle valvole cardiache (es. valvole cardiache protesiche
ecc.), le aritmie (es. fibrillazione atriale), la cardiomiopatia dilatativa,
le fistole artero-venose polmonari 96 97.
Nei bambini con stroke ischemico, va eseguita una valutazione cardiologica pediatrica comprensiva di ECG ed ecocardiografia transto-
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
racica qualora non vi siano evidenti cause non cardiologiche dell’evento ischemico 98 100.
L’ecocardiografia transesofagea è indicata in tutti i casi in cui informazioni diagnostiche significative non possano essere ottenute con
l’ecocardiografia transtoracica. In generale l’ecocardiografia transesofagea è la metodica che fornisce le maggiori informazioni, sia
riguardo l’identificazione di materiale embolico nelle camere cardiache, sia l’individuazione di potenziali passaggi anatomici 88-90.
I maggiori svantaggi dell’ecocardiografia transesofagea sono l’invasività
e la necessità di sedazione che riduce la cooperazione del paziente ed
impedisce l’effettuazione di una appropriata manovra di Valsalva.
Se una fonte cardiaca emboligena è svelata dall’ecocardiografia
transtoracica, non risulta giustificato il disagio, per il paziente, dell’ecocardiografia transesofagea. La possibilità di identificare un forame ovale pervio può essere incrementata dalla tosse o praticando
una manovra di Valsalva e dall’iniezione di mezzo di contrasto.
La manovra di Valsalva è attualmente considerata la manovra dinamica necessaria al fine di rilevare uno shunt destro-sinistro durante
l’esecuzione di un’ecocardiografia transtoracica, transesofagea o
transcranica 101 102.
L’iniezione di mezzo di contrasto (in età pediatrica solitamente soluzione fisiologica agitata), durante l’esecuzione di ecocardiografia
transtoracica o transesofagea o Doppler transcranico, è una metodica di imaging sicura, semplice e riproducibile con una provata
accuratezza per svelare shunts cardiovascolari non rilevabili al color
Doppler, poco utile, però, nell’individuare shunts destro-sinistri a
causa della loro bassa velocità e transitorietà 87 101 102.
Anche lo shunt causato da fistole artero-venose polmonari può essere rilevato, mediante metodica eco-contrasto, dalla comparsa di
microbolle presenti nell’atrio sinistro dopo che sono già passate nell’atrio destro in seguito ad iniezione endovenosa 99.
Il Doppler transcranico può essere utilizzato per individuare la presenza di shunt destro-sinistro, come la presenza di pervietà della
fossa ovale, nei pazienti in cui l’ecocardiografia transesofagea sia
negativa, o in soggetti che abbiano una controindicazione ad eseguire l’ecocardiografia transesofagea 86 102-105.
Controindicazioni assolute all’ecocardiografia transesofagea sono
costituite da stenosi esofagee, sanguinamento gastrico in atto, perforazione viscerale, fistola tracheo-esofagea non corretta, grave insufficienza respiratoria e inadeguato controllo delle vie aeree 106.
L’ecocardiografia dovrebbe essere eseguita, entro 48 ore dalla presentazione dell’evento, in tutti i bambini affetti da stroke ischemico
arterioso 87.
Il trasferimento presso un centro di III livello potrebbe rendersi necessario se non fossero presenti in loco le opportunità per effettuare
un adeguato, completo ed esaustivo imaging. In caso di problematiche riguardanti l’acquisizione e/o l’interpretazione dell’ecocardio-
grafia pediatrica, sarebbe opportuno richiedere una consulenza cardiologica-pediatrica presso un centro di III livello.
Raccomandazione 5
Nei bambini con stroke ischemico va eseguita valutazione cardiologica con ECG ed ecocardiografia transtoracica o transesofagea.
Raccomandazione di grado A.
Livello di evidenza V-VI.
Terapia
La variabilità delle condizioni del paziente con sospetto stroke richiede modalità di intervento diverse.
Nel paziente critico, il trattamento delle condizioni generali deve
seguire le regole dell’A, B, C, D secondo le LG ILCOR (International
Liaison Committee on Resuscitation) 52-56.
Nella stragrande maggioranza dei casi, i pazienti non necessitano di
assistenza intensiva, ma debbono essere ricoverati in letti di degenza che assicurino l’attento monitoraggio clinico e parametrico.
Qualora però le condizioni lo richiedano, è opportuno l’intervento del
rianimatore (Tab. III).
L’opportunità di ricoverare in terapia intensiva solo i casi più severi deriva dall’osservazione che, nell’adulto, l’outcome non pare significativamente diverso, a seconda che il paziente venga ricoverato o meno
in terapia intensiva, se lo stroke è moderato o lieve (NIHSS ≤ 16) 57-63.
Raccomandazione 6
Il bambino con stroke cerebrale in fase acuta va ricoverato in reparti
che assicurino un monitoraggio clinico e parametrico continuo. Il ricovero in terapia intensiva deve essere riservato a casi selezionati.
Raccomandazione di grado B.
Livello di evidenza VI.
Nel paziente con sospetto stroke i provvedimenti terapeutici sono:
a) Stabilizzazione;
b) Terapia anticoagulante-antiaggregante.
Stabilizzazione
• Posizionamento accesso venoso;
• infusione di liquidi sulla base dei risultati degli esami eseguiti
(controllo della ipoglicemia);
• terapia di supporto, se indicata (controllo della ipertermia, terapia anticonvulsiva, antibatterica ecc.).
Viene iniziata, quindi, a stroke accertato, una terapia mirata.
Tabella III.
Condizioni che richiedono il ricovero in terapia intensiva.
A (Airway): inadeguato mantenimento della pervietà delle vie aeree con perdita dei riflessi di protezione per depressione dello stato di coscienza o deficit
a carico dei nervi cranici, tali da richiedere intubazione tracheale.
B (Breathing): inadeguata ventilazione o ossigenazione (ipossia e ipercapnia sono causa di importante vasodilatazione cerebrale e possono aggravare il
danno secondario e l’ipertensione endocranica), tali da richiedere il ricorso a ventilazione meccanica.
C (Circulation): instabilità emodinamica con inadeguata CPP, necessità di monitoraggio emodinamico avanzato e supporto inotropico. Disturbi aritmici
gravi, segni di ischemia miocardica e/o shock cardiogeno, shock ipovolemico.
D (Disability): National Institute of healt stroke (NIHSS) > 17, deficit neurologici progressivi, segni di ipertensione endocranica (deterioramento dello stato
di coscienza (Glasgow coma scale GCS < 12), ipertensione, bradicardia, respiro irregolare), segni di erniazione cerebrale (anisocoria, decerebrazione,
decorticazione).
167
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
Tabella IV.
Trattamento stroke pediatrico secondo le LG UK e ACCP 9 10.
Ictus ischemico
acuto:
UK
ACCP
ASA 5 mg/kg
ENF o EBPM per 5-7 giorni o finché siano stati
esclusi cardioembolismo e dissezione
Terapia di mantenimento:
Generale
ASA 1-5 mg/kg/die
ASA 2-5 mg/kg/die dopo il termine della
terapia anticoagulante
Dissezione
Considerare terapia anticoagulante
fino a ricanalizzazione o per 6 mesi
Dopo 5-7 giorni di ENF o EBPM, terapia
con EBPM o anticoagulanti orali per 3-6 mesi
Cardioembolia
Considerare terapia anticoagulante dopo
consulenza cardiologica
Dopo 5-7 giorni di ENF o EBPM, terapia con
EBPM o anticoagulanti orali per 3-6 mesi
Arteriopatia
ASA 1-3 mg/kg/die
ASA 2-5 mg/kg/die dopo terapia anticoagulante
ASA = Acido acetil salicilico; EBPM = Eparine a basso peso molecolare; ENF = Eparina non frazionata
Trattamento anti-trombotico dello stroke arterioso ischemico
I risultati incoraggianti ottenuti negli ultimi anni nel trattamento dello
stroke ischemico dell’adulto comportano, per il pediatra, la necessità
di confrontarsi con tale esperienza clinica e terapeutica, pur nella consapevolezza delle notevoli differenze etiopatogenetiche esistenti tra la
patologia ischemica dell’adulto e quella del bambino 43-45 (Tab. IV).
Come emerge dalla Tabella, le differenze sono minime ed essenzialmente ridotte all’impiego di eparina a basso peso molecolare (EBPM)
consigliata nei primi giorni di inquadramento dalle LG ACCP.
Il parere degli esperti del gruppo propende per i suggerimenti delle
LG ACCP, considerato che la diagnosi eziologica di tipo cardioembolico potrebbe non essere immediata.
La letteratura disponibile consente di ritenere le EBPM sicure nei
bambini con stroke non emorragico in base all’esperienza riportata
in totale su 123 pazienti trattati sia con dosi profilattiche che terapeutiche di Enoxaparina e Dalteparina 115 129 130.
Raccomandazione 7
I bambini con stroke ischemico arterioso in assenza di importanti
infarcimenti emorragici devono essere trattati con EBPM a dose terapeutica per 7-10 gg (Box 2).
Raccomandazione di grado A.
Livello di evidenza III.
Gli estensori della presente LG concordano con il suggerimento di
Monagle, Chan, De Veber, Massiccotte sull’esecuzione di una TAC in
III giornata di terapia con EBPM per escludere complicanze emorragiche 132.
Raccomandazione 8
In III giornata di terapia con EBPM, si raccomanda l’esecuzione di
una ulteriore TAC per escludere complicanze emorragiche.
Raccomandazione di grado A.
Livello di evidenza III.
Raccomandazione 9
Dopo i primi 5-7 giorni, o da subito, in caso di esclusione certa di
dissecazione arteriosa e/o embolia cardiogena, va somministrata
aspirina per 5 aa dall’evento, a 3-5 mg/kg/die.
Raccomandazione di grado B.
Livello di evidenza III.
Insuccessi della profilassi con aspirina sono stati riportati con una
percentuale variabile dal 6,6 al 15% di pazienti trattati 122.
168
Nei pazienti intolleranti all’ASA, come anti-aggregante, è stato utilizzato con buoni risultati il Clopidogrel al dosaggio di 1 mg/kg per
giorno fino a un massimo di 75 mg 122.
Raccomandazione 10
Nei bambini che non tollerano l’aspirina può essere utilizzato come
anti-aggregante il Clopidogrel.
Raccomandazione di grado B.
Livello di evidenza III.
Box 2
Le eparine a basso peso molecolare
Le eparine a basso peso molecolare (EBPM) possono essere
somministrate per via sottocutanea senza effettuare controlli;
comportano minor rischio di piastrinopenia e di osteoporosi
rispetto all’eparina standard e hanno minori interferenze con
farmaci e dieta rispetto agli antagonisti della Vit.K.
I bambini molto piccoli e soprattutto i neonati necessitano di dosi
maggiori e potenzialmente di infusioni di plasma per i fisiologici
bassi livelli di Antitrombina 10. Pertanto, in casi selezionati, può essere
necessario monitorare gli effetti della terapia. Le EBPM, in generale,
a differenza della eparina standard, inibiscono molto di più il Fattore
X della trombina (da 3 a 8 volte) e non alterano i comuni test di
screening della coagulazione (PT e aPTT); il test da utilizzarsi è il
dosaggio della attività anti-FXa; il dosaggio va eseguito almeno 4-6
ore dalla iniezione sottocutanea con metodica tarata sul farmaco in
uso; il range terapeutico è 0,5-1,2 U/ml e quello profilattico 0,20,4 U/ml 10. Le EBPM, per via della somministrazione sottocutanea,
comportano qualche problema di compliance; per migliorare
l’accettazione della terapia da parte dei bambini e delle famiglie, può
essere utilizzato un dispositivo sottocutaneo che può permanere
una settimana 107; tale prodotto (Insuflon, Unomedical, Danimarca)
è recentemente stato introdotto anche in Italia. In alternativa, può
essere utilizzata una crema anestetica da applicarsi sulla sede
dell’iniezione circa un’ora prima 108. Le EBPM che sono state
utilizzate in pediatria, e per le quali si possono trovare pubblicate
LG o raccomandazioni per i dosaggi, sono l’enoxaparina, la
dalteparina, la tinzaparina e la reviparina 10. Tra queste la più
utilizzata in pediatria è l’enoxaparina. 1 mg contiene 100-120 UI
anti-FXa. A seguire viene schematizzata la gestione della terapia
sottocute con EBPM in fase di attacco e l’aggiustamento delle
dosi nei periodi successivi.
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
assenza di controindicazioni generali ed in centri opportunamente
attrezzati.
Pertanto non può essere raccomandata allo stato attuale.
Box 2 segue
Dosi iniziali di EBPM.
Farmaco
Paziente
Dose
terapeutica
Dose profilattica
Enoxaparina ≤ 2 mesi
150 U/kg/12h
75 U/kg/12h
> 2 mesi
100 U/kg/12h
50 U/kg/12h
Dalteparina
Dose unica 129 ±43 U/
Kg/24h
92±52 U/
kg/24h
Reviparina
≤ 5 kg
150 U/kg/12h
50 U/kg/12h
> 5 kg
100 U/kg/12h
30 U/kg/12h
Modifiche del dosaggio della EBPM sulla base dei dati di
laboratorio.
anti-FXa
U/ml
Attendere
per dose
successiva
Modifiche
Successiva
della dose misurazione anti-FXa
< 0,35
--
+25%
4 h dopo dose
successiva
0,35-0,49
--
+10%
4 h dopo dose
successiva
0,5-1,0
--
--
Dopo 24 h, quindi
dopo 7 gg
1,1-1,5
--
-20%
Prima della dose
successiva
1,6-2,0
3 ore
-30%
Prima della dose
successiva
> 2,0
Finché
anti-FXa =
0,5 U/ml
-40%
Prima della dose
successiva
Trombolisi
In letteratura, sono riportate limitate esperienze con agenti trombolitici nei bambini e, al momento, non esistono indicazioni sull’uso di
tali farmaci in questa fascia di età.
La rarità dell’ictus pediatrico può dare luogo ad una percentuale di
errori diagnostici, in fase acuta, maggiore rispetto all’adulto, essendo necessario considerare, nella diagnosi differenziale, patologie
molto più frequenti in età pediatrica come le epilessie, l’emicrania,
le somatizzazioni.
La diagnosi di stroke viene quindi posta ben oltre l’intervallo di tempo in cui la trombolisi intravenosa o intra-arteriosa possano essere
effettuate 14 109-111.
Vi sono, comunque, diverse segnalazioni (ma nessuno studio,
neppure di coorte) di trombolisi sistemica o intra-arteriosa con
rt-PA (non registrato per l’uso pediatrico in Italia) condotte con
successo nell’ictus pediatrico, ma sono riportati episodi di sanguinamento 72-74 111-115.
Tale terapia si ritiene eventualmente ipotizzabile solo in soggetti
con sottotipo eziopatogenetico noto, nella finestra terapeutica, in
Raccomandazione 11
La terapia trombolitica non è da attuare nel paziente pediatrico.
Raccomandazione di grado D.
Livello di evidenza V-VI.
Indicazioni terapeutiche per pazienti selezionati
In alcune aree geografiche italiane, vi è una prevalenza di pazienti
affetti da anemia falciforme, nei quali l’evenienza stroke è particolarmente elevata 116 117.
Il trattamento in urgenza dello stroke in questi pazienti non prevede
terapia antitrombotica ma:
• una exanguino trasfusione urgente per ridurre l’HbS a meno del
30% e aumentare l’emoglobina a 10-12 g/dl;
• se il paziente ha presentato uno stroke nel contesto di una severa anemia (esempio sequestro splenico o crisi aplastica) o se la
exanguino trasfusione potrebbe essere eseguita solo dopo 4 ore
dall’evento, procedere invece ad una trasfusione di emazie 116 117.
Raccomandazione 12
Nei pazienti con HbS si raccomanda, in caso di stroke, una exanguino trasfusione entro 4 ore dall’evento. Oltre tale periodo, e in caso
di severa anemia, si raccomanda una trasfusione di emazie concentrate.
Raccomandazione di grado B.
Livello di evidenza III.
In questi pazienti, la terapia antitrombotica andrà presa in considerazione solo in presenza di fattori di rischio trombotico aggiuntivi
(es. trombofilia).
Nei pazienti con meningiti tubercolari, la terapia specifica, in associazione a desametasone, si è vista avere un effetto preventivo sugli
infarti cerebrali, con un meccanismo ancora da chiarire 107.
Invece, il trattamento ottimale delle lesioni cerebrovascolari associate
a varicella rimane non chiaro, per la variabilità degli approcci terapeutici. Alcuni report sull’associazione di steroidi e di antipiastrinici hanno
documentato un miglioramento delle alterazioni vasculitiche 108.
Il ruolo di agenti antivirali in questa situazione rimane irrisolto, ma
la variabile relazione tra infezione ed esordio dei sintomi neurologici
suggerisce che tale trattamento può avere un ruolo limitato 32.
Conclusioni
Purtroppo, la letteratura sullo stroke in ambito pediatrico è gravemente carente.
Non esistono, inoltre, omogenei comportamenti nell’approccio diagnostico-terapeutico allo stroke ischemico in età pediatrica.
Si sente sempre più forte, pertanto, la necessità di studi collaborativi
multicentrici, non solo per valutare con precisione la validità delle
terapie più adottate, ma anche per tentare, su ampi numeri, nuovi
approcci terapeutici.
Certamente, allo stato attuale, questa LG sullo stroke ischemico in età
pediatrica, pur non potendo contare su inequivocabili basi di evidenza,
sembra rappresentare la posizione più condivisa di pediatri e specialisti
di settore, riguardo la gestione della fase acuta di tale patologia 125-128.
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Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
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Corrispondenza
dott.ssa Antonella Palmieri, U.O. di Pronto Soccorso, Medicina d’Urgenza DEA, Istituto G. Gaslini - IRCCS, Largo G. Gaslini 5, 16147 Genova • E-mail:
[email protected]
172
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
Allegato A.
Scheda di valutazione della qualità della bibliografia.
Titolo:
Rivista:
Autori:
Anno:
Parole chiave:
Riassunto
Obiettivo del lavoro:
Popolazione/scenario
Tipo di studio epidemiologico
Risultati
Commenti
Qualità
Alta*:
Media**:
Bassa***:
= soddisfatti tutti i criteri
= soddisfatta la maggior parte dei criteri
***
= fornite informazioni insufficienti
*
**
Allegato B.
Livelli di evidenza o di prova
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o da revisioni sistematiche di studi randomizzati.
Prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato.
Prove attenute da studi di coorte non randomizzati con controlli concorrenti o storici o loro metanalisi.
Prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o loro metanalisi.
Prove ottenute da studi di casistica (serie di casi) senza gruppo di controllo.
Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato in LG o consensus conference, o basata su opinioni
del gruppo di lavoro responsabile di queste LG.
Allegato C.
Forza delle Raccomandazioni
A. L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata. Indica una particolare raccomandazione
sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II.
B. Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura o intervento debba essere sempre raccomandata, ma si ritiene che la sua
esecuzione debba essere attentamente considerata.
C. Esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento.
D. L’esecuzione della procedura non è raccomandata.
E. Si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura.
173
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta
174
Luglio-Settembre 2008 • Vol. 38 • N. 151 • Pp. 175-189
CONSENSUS CONFERENCE
I vaccini anti-papillomavirus
Consensus Conference dell’Area Pediatrica
Aggiornamento Giugno 2008
Partecipanti
G. Bartolozzi (Firenze), G. Bona (Novara), M. Ciofi (Roma), G. Conforti (Genova),
M. de Martino (Firenze), P. Di Pietro (Genova), M. Duse (Roma), S. Esposito (Milano),
L. Mariani (Roma), G. Marostica (Torino), F. Paravati (Crotone), A. Plebani (Brescia),
N. Principi (Milano), A. Ugazio (Roma), C. Zotti (Torino), G.V. Zuccotti (Milano),
P.A. Tovo (Torino)
Introduzione
Il tumore della cervice uterina è la più frequente causa di morte per
cancro nelle donne in tutto il mondo, dopo il cancro del seno 1. La
peculiarità di questa neoplasia è di avere come elemento indispensabile per il suo sviluppo l’infezione, acquisita prevalentemente
per via sessuale, da papillomavirus umano (Human Papillomavirus
[HPV]) 2 3, che è considerato il cancerogeno più potente della nostra
specie. Ne deriva la possibilità di impedire la comparsa del tumore
tramite la prevenzione primaria dell’infezione con l’impiego di vaccini. La recente sperimentazione nell’uomo ha portato allo sviluppo
di vaccini dimostratisi ben tollerati, altamente immunogeni ed efficaci nel prevenire le infezioni e le lesioni intraepiteliali causate dai
tipi di HPV in essi contenuti.
Le infezioni da papillomavirus sono responsabili anche di altre neoplasie della sfera ano-genitale, oltre che dei condilomi acuminati 4,
lesioni benigne che richiedono un trattamento doloroso, costoso e
hanno frequenti recidive.
Poiché la popolazione a cui primariamente sono destinati i vaccini
contro l’HPV è rappresentata da bambine pre-puberi o adolescenti non ancora contagiate attraverso rapporti sessuali, ai pediatri è
spesso richiesta un’opinione in proposito o di effettuare la vaccinazione. Vengono qui riassunte le informazioni più rilevanti sul tema e
le osservazioni emerse dalla discussione fra un pannello di esperti
onde fornire, attraverso una revisione critica della letteratura, elementi utili per pediatri o altri operatori sanitari a formulare un parere
razionale sui vaccini disponibili anche in Italia.
Figura 1.
Genoma virale.
Il genoma circolare di HPV è composto da circa 8000 basi appaiate ed
è suddiviso in tre regioni: 1) regione di controllo a lungo termine (LCR);
2) regione delle proteine precoci (E1-E7) e 3) regione delle proteine
tardive (L1, L2).
Il papillomavirus umano (HPV)
Il virus
L’HPV è un virus a DNA in grado di infettare la cute e le mucose. Il
DNA è costituito da circa 8000 coppie di basi e si trova all’interno
di un capside, formato principalmente da proteine, una delle quali
(L1) usata per la preparazione degli attuali vaccini (Fig. 1). Sono stati
identificati oltre 120 tipi di HPV, di cui 40 possono causare infezioni
genitali. Fra questi, 15 sono considerati ad alto rischio oncogeno e
virtualmente responsabili di tutti i tumori del collo dell’utero e delle
lesioni precancerose connesse 5 6.
Il virus, penetrato attraverso le mucose o alterazioni della cute, raggiunge le cellule basali degli strati più profondi dell’epitelio ove si
replica lentamente; giunto agli strati superficiali si diffonde più attivamente e, in seguito allo sfaldamento delle cellule epiteliali, passa
nell’ambiente e contagia, per contatto diretto, altre persone.
Alcuni genotipi virali (High Risk [HR]) sono maggiormente associati
all’insorgenza di tumori (Fig. 2) 7: i genotipi HPV 16 e HPV 18 sono
quelli più importanti per la carcinogenesi cervicale, poiché identificati nel 70% dei tumori squamosi (nel 60% l’HPV 16 e nel 10% l’HPV
18) senza grandi differenze geografiche 2 5 8. L’adenocarcinoma, for-
175
I vaccini anti-papillomavirus
Figura 2.
Storia naturale dell’infezione da HPV.
ma più rara e di difficile identificazione perché spesso endocervicale, è in crescita in alcuni paesi industrializzati 9 10 e le percentuali
vedono un aumento relativo del tipo 18 (coinvolto in circa il 30% dei
casi) rispetto al 16 (circa il 40%) 11.
I genotipi virali a basso rischio oncogeno (Low Risk [LR]), fra cui HPV
6, 11, 40, 42, 43, 44, 54, 61, 70, 72, 81, causano, invece, lesioni
benigne come i condilomi ano-genitali e il papilloma laringeo 12.
Epidemiologia
L’HPV è di solito trasmesso in seguito a rapporti sessuali, talora anche
non completi 13-15: per tale motivo l’uso del profilattico non garantisce la protezione 16. È ritenuta l’infezione a trasmissione sessuale
più frequente al mondo. La prevalenza è correlata all’età della donna
ed è direttamente proporzionale al numero di partner sessuali 7 17 18.
Circa la metà delle infezioni avviene fra i 15 e 25 anni 19-21 e l’80%
delle donne sessualmente attive è contagiato entro i 50 anni 22. La
prevalenza dell’HPV in donne senza alterazioni citologiche varia dal
9% in Europa al 24% in Africa 23; inoltre, la frequenza dell’infezione
risente degli stili di vita e dei comportamenti 24. Un’indagine negli
Stati Uniti 25 mette in rilievo che un quarto delle donne fra i 14 e
59 anni risulta positivo per l’HPV, anche se la prevalenza dei ceppi
contenuti nei vaccini è relativamente bassa. Va sottolineato che gli
studi epidemiologici sottostimano la frequenza dell’infezione da HPV,
poiché questa può non essere diagnosticata in quanto di durata relativamente breve e non necessariamente associata ad una risposta
anticorpale. È possibile, anche se avviene di rado (4,3/100.000) 26, la
trasmissione madre-bambino durante il passaggio attraverso il canale del parto ed è stata ipotizzata (ma non dimostrata) la trasmissione
indiretta attraverso oggetti.
Evoluzione e stadi dell’infezione
L’infezione da HPV è di solito autolimitante: viene in genere superata
nel corso di 4 mesi per i tipi a basso-rischio e di 8-12 mesi per
quelli ad alto-rischio; di fatto, entro 2 anni il 90% delle donne supera
176
l’infezione 6. Se non eliminato il virus può replicarsi oppure rimanere
silente all’interno delle cellule basali dell’epitelio cervicale per un
periodo variabile da un minimo di 8 mesi ad un massimo di 10 anni.
In tal caso è presente all’interno della cellula come episoma, non si
replica e l’epitelio rimane normale (Fig. 2). Esso può, però, riattivarsi
e la fase produttiva può condurre ad alterazioni dell’epitelio cervicale (Low-Grade Squamous Intraepithelial Lesion [LSIL], High-Grade
Squamous Intraepithelial Lesion [HSIL]) a seconda del genotipo virale (alto o basso-rischio) 27-29.
Dal 20 al 30% delle infezioni del collo dell’utero sono dovute a più
di un tipo di HPV, indipendentemente dalle alterazioni indotte sull’epitelio 8 30.
HPV e cancro
Il modello di carcinogenesi cervicale segue un percorso plurifasico
multifattoriale. La causa necessaria (ma non sufficiente) è l’infezione persistente da HPV, specialmente HPV 16 e 18 (Fig. 3). Anche se
la distinzione fra ceppi di HPV LR e HR non è assoluta, l’infezione
con genotipi LR può dar luogo ad una lesione clinicamente rilevabile,
LSIL, definita anche come CIN 1 (Cervical Intraepithelial Neoplasia
1) o displasia lieve (Fig. 2). Questa categoria, che corrisponde a una
lesione displastica limitata al terzo inferiore dello strato epiteliale
squamoso, comprende anche il condiloma cervicale. La percentuale
di regressione spontanea dell’LSIL è molto elevata (90%), specie
nelle donne giovani (< 30 anni). In termini oncologici l’infezione da
HPV a basso-rischio non ha, quindi, risvolti significativi. Anche l’infezione da genotipi HR può dar luogo a LSIL ma con il persistere
dell’infezione questa può progredire verso HSIL. Si tratta di lesioni
displastiche estese ai due terzi (CIN 2) o all’intero strato epiteliale
squamoso (CIN 3). Le lesioni ad alto rischio sono i precursori del
cancro del collo dell’utero. Si stima che il tempo medio fra infezione
e insorgenza di HSIL sia di 7-12 anni e quello per il tumore invasivo
di 20 anni o più. Pur se raramente, è anche possibile un’evoluzione
rapida delle lesioni, che in 1-2 anni evolvono in HSIL e successiva-
I vaccini anti-papillomavirus
Figura 3.
Prevalenza dei tipi di HPV nei carcinomi del collo dell’utero in Europa.
Da Smith JS, Lindsay L, Hoots B, et al. Human papillomavirus type distribution in invasive cervical cancer and high-grade cervical lesions: A metaanalysis update. Int J Cancer 2007, mod.
mente in carcinoma, senza la tappa intermedia dell’LSIL 31. Alcune
di queste lesioni a rapido sviluppo sono responsabili dei carcinomi
scoperti dopo pochi mesi da un Pap test negativo.
Non tutte le infezioni persistenti da genotipi ad alto rischio evolvono
in lesioni precancerose e di queste solo una frazione (1-12%) progredisce verso il tumore 32 33. Sono segnalate regressioni spontanee
di lesioni CIN 2 in un terzo dei casi 32 34. D’altro canto, quanto più a
lungo l’infezione persiste tanto meno facilmente sarà eliminata 35. È
stato notato che l’infezione persistente da HPV 16 evolve più spesso
verso una lesione invasiva rispetto ad altri genotipi virali 32 34. Poiché
non tutte le donne infettate da virus oncogeni sviluppano il tumore,
debbono esistere altri cofattori, fra cui quelli genetici legati alla risposta immune. Un aumentato rischio di tumore è associato all’uso
a lungo termine di contraccettivi orali, a gravidanze ripetute, alla
presenza di altre infezioni a trasmissione sessuale, al fumo di sigaretta e all’immunosoppressione, come quella indotta da HIV 12 36 37.
Va sottolineato che l’HPV è associato, in proporzioni variabili, anche
ad altri tumori 38; in particolare al 60% dei carcinomi vaginali 39, al
40-60% di quelli vulvari 40, al 45-95% di quelli anali 12 36 41, al 30%
dei tumori della testa e del collo 42 43, oltre a quelli dell’uretra 44 e al
77% di quelli del pene 45.
La progressione da HSIL a carcinoma è modulata da una cascata
di eventi biologici 46-48; in primo luogo, dall’integrazione del genoma
virale ad alto rischio con quello dell’ospite. Ciò conduce a iperespressione dei geni virali E6-E7. Le proteine codificate da questi
geni alterano la capacità di replicazione della cellula ed esercitano
un’azione di blocco nei confronti di molecole ad azione anti-oncogena (ad es. p53 e pRB). La cellula diventa incapace di riparare o
eliminare i cromosomi con DNA danneggiato; ne deriva una proliferazione incontrollata con perdita dei processi di apoptosi e conse-
guente immortalizzazione cellulare. È indubbia la compartecipazione
di eventi epigenetici e di altri cofattori.
Lesioni benigne da HPV
I tipi di HPV 6 e 11 vennero inizialmente isolati da condilomi genitali (dette anche verruche ano-genitali o condilomi acuminati) in
entrambi i sessi e dai papillomi laringei del bambino. Gli HPV 6 e
11 sono responsabili del 90% di tali verruche 49 50, particolarmente
frequenti fra i giovani adulti.
La contagiosità è molto elevata (65% di trasmissione ai partner
sessuali). Il periodo d’incubazione varia da 3 settimane a 8 mesi.
Con il passar del tempo le lesioni possono diventare più numerose
ed estese, anche se in circa un quarto dei casi regrediscono spontaneamente dopo 4 mesi. Le verruche vengono vissute come un
elemento deturpante, si accompagnano a un senso di vergogna e
hanno un elevato costo economico 51.
Il papilloma laringeo, pur essendo una malattia rara (1,7-2,6/100.000
bambini negli USA), è l’infezione da HPV più frequente nel bambino:
si manifesta prevalentemente nelle prime epoche di vita e l’età mediana alla diagnosi è di 4 anni 52 53. È dovuto a trasmissione per
contatto in epoca peri- o post-natale 26 54 55. La presenza di un condiloma genitale materno aumenta di 200 volte il rischio di infezione
per il nascituro 51. A fronte dei molti bambini esposti al contagio
solo 4/100.000 sviluppano la malattia 56 e la modalità del parto non
interferisce sul tasso di trasmissione 57 58.
L’evoluzione clinica è variabile, ma spesso è caratterizzata da ripetute recidive. Sono spesso necessari interventi chirurgici ripetuti per
mantenere pervie le vie aeree e rimuovere le verruche che provocano sintomatologia ostruttiva 59 60. In rarissime circostanze il papilloma può evolvere verso forme carcinomatose 61 62.
177
I vaccini anti-papillomavirus
Altra infezione da HPV nel bambino è quella anogenitale la cui incidenza non è ben nota. Si manifesta in genere entro i 6 anni ed è
dovuta solitamente ad autoinoculazione, abuso sessuale da parte di
adulti infetti (3-35%) o a trasmissione non sessuale da condilomi
cutanei di adulti (soprattutto sierotipo 1 e 2) 53.
Terapia delle lesioni
Gli interventi terapeutici variano a seconda del tipo di lesione. Nel
caso di LSIL in donne di età < 20-25 anni è possibile la semplice osservazione nel tempo in virtù dell’elevata autorisoluzione della lesione. Nelle donne di età superiore si può decidere tra terapia chirurgica
escissionale o distruttiva. Questa può essere praticata anche nel caso
di HSIL, con istologia deponente per CIN 2, soprattutto se la lesione è
completamente visibile. Nel caso di CIN 2 e lesione parzialmente visibile oppure di CIN 3 o CIS (carcinoma in situ) si procede più spesso
con escissione (ansa diatermica) o, infine, conizzazione 63. Alcuni di
questi interventi terapeutici possono incrementare il rischio di complicanze al momento del parto (PROM e nascita pre-termine) 64. Deve
quindi essere posta attenzione, in caso di LSIL in donne in età fertile,
a intervenire il più possibile conservativamente e senza alterare le
capacità riproduttive della donna.
Nel caso del condiloma ano-genitale si procede a trattamento distruttivo (laser-vaporizzazione). Dopo l’intervento, i condilomi tendono a recidivare entro 3 mesi in un quarto dei casi 4 65. Il trattamento
farmacologico viene attuato solo per lesioni esterne.
Prevenzione secondaria del cancro del collo dell’utero: il Pap
test
La miglior strategia per la prevenzione secondaria del cancro della cervice rimane ad oggi lo screening colpo-citologico con Pap
test 66-68. Di fatto, il Pap test ha ridotto sensibilmente l’incidenza e
la mortalità per cancro della cervice nei paesi occidentali. La sua
efficacia deriva dal fatto che le lesioni precancerose sono citologicamente riconoscibili, evolvono di solito lentamente e possono
essere eliminate con interventi mirati. Il test va ripetuto regolarmente (viene consigliato almeno ogni 3 anni in donne dai 25 ai 65
anni); la sua sensibilità, riproducibilità e specificità non sono ottimali per cui può fornire risultati dubbi 66 69 70. La ricerca dell’HPV
DNA è un test più sensibile, raccomandabile come integrazione al
Pap test in donne che abbiano superato i 30 anni 71 72.
L’adesione allo screening istituzionale è modesta nel nostro paese
(la media è del 47%) e varia sensibilmente secondo le aree geografiche, con un’adesione del 50% al Nord e del 20% al Sud/Isole 73 74;
bisogna tener conto che questi dati non includono alcune regioni ove
lo screening organizzato non è stato attivato. È peraltro presente un
altissimo ricorso allo screening spontaneo (privato), di difficile quantificazione e valutazione per il beneficio connesso.
È ovvio che lo screening di massa non va assolutamente sospeso
a fronte di una campagna vaccinale. Andrà piuttosto con questa integrato per valutare i benefici della vaccinazione a lungo termine
sull’intera popolazione in base anche ai diversi fattori di rischio.
Frequenza ed evoluzione del cancro della cervice uterina
L’incidenza annuale di cancro della cervice nel mondo è stimata in
493.000 nuovi casi, con 274.000 morti 38 75. L’80% dei tumori si
manifesta oggi nei paesi in via di sviluppo, ove si raggiungono tassi
di incidenza di 50 casi per 100.000 donne, proprio perché la carenza
di informazione e risorse non ha permesso l’istituzione dello screening di massa 38 76. In Italia l’incidenza della malattia è passata da
15/100.000 del 1955 a 11/100.000 degli anni ’90, a 6,14/100.000
degli ultimi rilievi 75; ogni anno vengono diagnosticati circa 3500
178
nuovi casi e muoiono per tale patologia circa 1000 donne (Ministero
della Salute - Strategia per l’offerta attiva del vaccino verso HPV in
Italia, 20/12/2007). Esso rappresenta il 2% dei tumori femminili, è
all’ottavo posto per frequenza e colpisce prevalentemente donne in
età fertile. La forma prevalente, in Italia come in tutti gli altri paesi, è
quella a cellule squamose 73.
La sopravvivenza è del 55% con una più alta percentuale nei paesi
occidentali: 73% a 5 anni negli USA 77, 63% in Europa 73 e 30,5%
nei paesi in via di sviluppo 38 76. Essendo colpite donne relativamente
giovani, il cancro della cervice costituisce un’importante causa di
perdita di anni di vita, specie nei paesi in via di sviluppo ove è il più
comune dei tumori fra le donne 78. In Europa e negli USA muoiono
comunque ancor oggi circa 35.000 donne ogni anno per cancro della cervice 79.
I vaccini contro i papillomavirus
La finalità della vaccinazione anti HPV è prioritariamente quella di
prevenire il tumore del collo uterino, ma anche di ridurre l’incidenza
di altri tumori associati al virus e le lesioni benigne causate dallo
stesso.
La scoperta cruciale per lo sviluppo di vaccini anti HPV fu l’osservazione che proteine del capside virale (L1 da sola o L1 + L2), espresse in certi microrganismi, possono assemblarsi in particelle similvirali (Virus-Like Particles [VLP]) che mantengono epitopi in grado di
innescare nell’uomo la produzione di anticorpi neutralizzanti dopo
iniezione parenterale. Teoricamente possono essere prodotte VLP
derivanti da tutti i tipi di HPV, con possibilità di evocare una risposta
anticorpale specifica per ciascun genotipo virale.
Sono stati sviluppati due vaccini in grado di prevenire l’infezione da
HPV e le lesioni precancerose associate con effetti persistenti per
più anni. Entrambi i vaccini sono costituiti da proteine capsidiche L1
prodotte con tecniche di DNA ricombinante; non contenendo DNA
virale non possono causare infezioni né integrarsi con il DNA della
cellula ospite e risultare oncogeni 80.
Vaccino quadrivalente (Gardasil®, Sanofi Pasteur MSD)
Le proteine L1 vengono espresse in Saccaromyces cerevisiae e
generano VLP che mimano il capside di HPV 16, 18, 6 e 11 81. Le
particelle purificate sono adsorbite su alluminio idrossi-fosfatosolfato amorfo (AAHS) che agisce da adiuvante. Il vaccino è senza
conservanti e contiene 20 µg di particelle simil virali L1 HPV 6 e
18 e 40 µg di particelle simil virali L1 HPV 11 e 16. I protocolli
impiegati si basano su tre somministrazioni i.m. di 0,5 mL (a 0,
2 e 6 mesi) 82. Il vaccino è stato approvato dalla Food and Drug
Administration (FDA), dalla European Medicines Agency (EMEA) e
dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), ed è disponibile in Italia
(approvato dai 9 ai 26 anni).
Vaccino bivalente (Cervarix®, GlaxoSmithKline)
Per ottenere l’espressione di L1 VLP di HPV 16 e 18 viene utilizzato
un vettore baculovirus ricombinante. 20 µg di ciascun genotipo sono
addizionati a un adiuvante costituito da idrossido di alluminio più un
agente lipidico (liposoma = 3-O-desacyl-4’-monofosforyl lipide =
ASO4). Anche per questo vaccino il protocollo utilizzato prevede tre
somministrazioni i.m. di 0,5 mL (a 0, 1 e 6 mesi). Il vaccino è stato
approvato dall’EMEA e dall’AIFA, ed è disponibile in Italia (approvato
dai 10 ai 25 anni) 83.
Sicurezza dei vaccini
Durante gli studi randomizzati di fase II, entrambi i vaccini oggi in
I vaccini anti-papillomavirus
commercio non hanno evidenziato significativi effetti collaterali. Nello studio con vaccino quadrivalente furono notate reazioni avverse
locali al punto d’iniezione nell’86% dei vaccinati rispetto al 77% dei
controlli 78. Va sottolineato che fra le reazioni locali rientravano dolore,
gonfiore ed eritema nella sede di iniezione. Le reazioni sistemiche
(febbre, cefalea e nausea) furono simili nei due gruppi, con temperature > 37,8° nell’11,4% dei vaccinati e nel 9,6% dei controlli 52.
Cinque donne vaccinate svilupparono manifestazioni gravi (senza
apparente correlazione con il vaccino); due fra i controlli.
Non sono stati effettuati studi mirati sul vaccino in gravidanza. Durante il programma pre-registrativo relativo al vaccino quadrivalente, 2266 donne (vaccino = 1115, placebo = 1151) hanno presentato
almeno una gravidanza. Nel complesso, le gravidanze con esito negativo sono state sovrapponibili nei due gruppi 52 84. Fra le 56 donne
che divennero gravide entro 30 giorni dal vaccino, 5 ebbero bambini
con anomalie congenite rispetto a nessuna fra le 58 che ricevettero
il placebo; le anomalie, di vario tipo e senza correlazione fra di loro
(stenosi ipertrofica del piloro, megacolon congenito, idronefronesi,
displasia delle anche, piedi vari equini supinati), furono giudicate
non legate al vaccino 85. Per le gravidanze iniziate dopo i 30 giorni
dalla vaccinazione sono stati osservati 8 casi di anomalie congenite nel gruppo delle vaccinate rispetto a 12 nel gruppo placebo.
In generale, il tipo di anomalie osservate è sovrapponibile a quelle
che viene solitamente evidenziato in gravide di 16-26 anni 84. I dati
sulla somministrazione del vaccino quadrivalente in gravidanza non
hanno al momento fornito risultati sufficienti per la sua raccomandazione, che deve, pertanto, essere rimandata a dopo il parto 84.
Un totale di 995 madri in allattamento ha ricevuto il vaccino quadrivalente o il placebo senza differenza di reazioni avverse fra i due
gruppi. L’immunogenicità è risultata paragonabile fra le donne che
allattavano o non allattavano, per cui la vaccinazione può essere
effettuata in nutrici 84.
Anche gli studi in fase III (Tab. I) non hanno evidenziato particolari
effetti collaterali 86 87 della vaccinazione. In pochi soggetti (0,1%) gli
eventi avversi hanno causato l’interruzione del ciclo vaccinale. I più
comuni effetti collaterali sono stati quelli locali e la febbre. Le manifestazioni avverse gravi (indipendentemente dal loro rapporto con
la vaccinazione), sono risultate molto rare e sovrapponibili nei vaccinati (1,8%) e nei controlli (1,7%). Non si sono infine notati eventi
avversi in seguito a vaccinazione di donne già infettate da tipi di HPV
contenuti nei vaccini.
Per il vaccino bivalente negli studi di fase II 88 89 la grande maggioranza degli effetti collaterali furono di entità lieve o moderata. Le
reazioni locali furono del 94% fra i vaccinati e dell’88% fra i controlli,
con reazioni sistemiche sovrapponibili (4%). Il 16,6% dei vaccinati
ed il 13,6% dei controlli ebbe temperatura > 37,4°. Anche l’analisi
dello studio di fase III non ha evidenziato particolari effetti collaterali
nel gruppo di donne vaccinate rispetto al gruppo di controllo (90).
La maggior parte delle reazioni avverse sono state di lieve entità e
localizzate al sito di iniezione (Tab. I). Le reazioni gravi, indipendentemente dalla loro correlazione con la vaccinazione, si sono verificate nel 3,5% delle donne in entrambi i gruppi. In totale sono stati
osservati 5 decessi, nessuno dei quali associato alla vaccinazione.
Un’ulteriore analisi fu effettuata sulle donne diventate gravide durante il periodo di studio (665 nel gruppo vaccinate, 685 nel gruppo
placebo). Complessivamente la proporzione di donne in gravidanza
che hanno riferito un esito specifico era simile fra i due gruppi (nascita di bambino sano: 41% gruppo vaccino vs. 39% gruppo controllo; aborto: 10% vs. 7% rispettivamente; anomalie congenite 1% in
entrambi i gruppi). Gli studi sugli animali non hanno evidenziato effetti dannosi, diretti o indiretti, sulla fertilità, gravidanza, lo sviluppo
embrionale/fetale, il parto o lo sviluppo post-natale. Questi dati sono
comunque insufficienti per raccomandare l’utilizzo del vaccino bivalente in gravidanza; questo deve pertanto essere posticipato sino
a dopo il parto. Non è stato valutato l’effetto del vaccino bivalente
sui bambini allattati al seno in seguito a vaccinazione delle madri
nutrici.
Dopo l’immissione in commercio, i dati di farmacovigilanza statunitensi
(Vaccine Adverse Event Reporting System [VAERS]), riguardanti oltre 5
milioni di dosi distribuite, non hanno ad oggi mostrato segnali di allarme.
La maggioranza degli effetti collaterali ha riguardato reazioni nella sede
di iniezione. Per quanto attiene le reazioni sistemiche sono stati segnalati
13 casi di sindrome di Guillain Barré. In quattro soggetti si sono osservati decessi in associazione temporale con la vaccinazione, senza però
evidenza di rapporto causale: l’exitus è stato imputato a embolia polmonare, miocardite, disturbo della coagulazione e infezione da influenza B
complicata da stafilococcia 91. Da sottolineare che sono stati segnalati
dei casi di svenimento dopo vaccinazione 92 93, motivo per cui le norme
di buona pratica vaccinale prevedono la permanenza per almeno 15
minuti nell’ambulatorio dopo l’esecuzione della vaccinazione 94.
Immunogenicità dei vaccini
La misurazione degli anticorpi anti-L1 VLP è stato il principale parametro per valutare le risposte immuni indotte dai vaccini negli studi
clinici. Gli anticorpi sono tipo-specifici 95, anche se esistono omologie fra alcuni HPV che condividono uno o più epitopi (ad es. HPV
6/11, 31/33, 18/45 e 16/31) (Fig. 4).
Va sottolineato che durante l’infezione naturale molte donne non
sviluppano anticorpi dosabili: nel caso dell’HPV 16 i test evidenziano
sieroconversione solo in circa il 60% dei casi 96 97. Nelle infezioni la
presenza di anticorpi verso un determinato tipo di HPV viene ritenuta
conferire protezione 98, manca però una dimostrazione specifica e in
un lavoro viene segnalato che la protezione non è assoluta 99.
I vari studi documentano, invece, sieroconversione verso tutti i tipi di
HPV contenuti nel vaccino in più del 98% dei casi. Inoltre, i soggetti
immunizzati presentano risposte anticorpali sostanzialmente maggiori (almeno di 1-3 logaritmi) di quelle riscontrate in seguito a infezione naturale. Ciò è verosimilmente imputabile al fatto che i vaccini
L1 VLP, somministrati per via intramuscolare, raggiungono facilmente le cellule presentanti l’antigene nei linfonodi e danno luogo ad
una risposta umorale sistemica 100. Entrambi i vaccini contengono
un adiuvante che migliora la risposta immune. È stato sottolineato
Figura 4.
Albero filogenetico di 30 tipi di HPV.
Tratta da Wieland U, Pfister H. Papillomaviruses in human pathology: epidemiology,
phatogenesis and oncogenesic role. In: Gross G, Barrasso R, eds. Human papillomavirus infection: a clinical atlas. Berlin: Ullstein Mosby 1997: 1-18.
179
I vaccini anti-papillomavirus
Tabella I.
Sicurezza dei vaccini anti-HPV: dati principali degli studi in fase III.
Studio
Eventi avversi locali (lievi)
Eventi avversi a carico di vari organi o Eventi avversi gravi*
apparati (sistemici)*
FUTURE I 86
Numero di donne che hanno presentato:
Reazione in sede di iniezione:
Gruppo vaccino 2320/2673 (86,8%)
Gruppo placebo 2068/2672 (77,4%)
Risk difference 9,4 (CI 95% 7,3-11,5)
Eritema nel sito di iniezione:
Gruppo vaccino 659/2673 (24,7%)
Gruppo placebo 450/2672 (16,8%)
Risk difference 7,9 (CI 95% 5,6-10)
Dolore al sito di iniezione:
Gruppo vaccino 2281/2673 (85,3%)
Gruppo placebo 2014/2672 (75,4%)
Risk difference 10 (CI 95% 7,8-12,1)
Prurito al sito di iniezione:
Gruppo vaccino 109/2673 (4,1%)
Gruppo placebo 80/2672 (3%)
Risk difference 1,1 (CI 95% 0,1-2,1)
Numero di donne che hanno presentato
una o più reazioni sistemiche:
Vaccino 1745/2673 (65,3%)
Placebo 1701/2672 (63,7%)
Risk difference 1,6 (CI 95% -1,0-4,2)
Numero di donne che hanno presentato una o
più reazioni sistemiche* iniezione correlate:
Vaccino 1161/2673 (43,4%)
Placebo 1085/2672 (40,6%)
Risk difference 2,8 (CI 95% 0,2-5,5)
Numero di donne che hanno presentato
una o più reazioni gravi:
Gruppo vaccino 48/2673 (1,8%)
Gruppo placebo 45/2672 (1,7%)
Risk difference 0,1 (CI 95% -0,6-0,8)
Numero di donne che hanno presentato
una o più reazioni gravi vaccino correlate:
Gruppo vaccino 1/2673 (< 0,1%)
Gruppo placebo 0/2672 (0%)
Risk difference 0 (CI 95% -0,1-0,2)
Decessi†:
Gruppo vaccino 2/2673 (0,1%)
Gruppo placebo 2/2672 (0,1%)
Risk difference 0 (CI 95% -0,2-0,2)
Numero di donne che hanno presentato:
Reazione in sede di iniezione:
Gruppo vaccino 378/448 (84,4%)
Gruppo placebo 348/447 (77,9%)
Risk difference 6,5 (CI 95% 1,4-1,7)
Dolore in sede di iniezione
Gruppo vaccino 372/448 (83%)
Gruppo placebo 339/447 (75,8%)
Risk difference 7,2 (CI 95% 1,9-12,5)
Numero di donne che hanno presentato
una o più reazioni sistemiche:
Vaccino 275/448 (61,4%)
Placebo 268/447 (60%)
Risk difference 1,4 (CI 95% 5,0-7,8)
Numero di donne che hanno presentato
una o più reazioni gravi:
Vaccino 45/6,019 (0,7%)
Placebo 54/6,031 (0,9%)
Risk difference -0,1 (CI 95% -0,5-0,2)
Numero di donne che hanno presentato una
o più reazioni gravi iniezione correlate:
Vaccino 3/6,019 (< 0,1%)
Placebo 2/6,031 (< 0,1%)
Risk difference 0 (CI 95% -0,1-0,1)
Numero di donne che hanno presentato:
Dolore entro 7 giorni dalla vaccinazione:
Gruppo vaccino 2786/3077 (90,5%)
Gruppo placebo 2402/3080 (78%)
Arrossamento entro 7 giorni dalla
vaccinazione:
Gruppo vaccino 1348/3077 (43,8%)
Gruppo placebo 851/3080 (27,6%)
Tumefazione entro 7 giorni
dalla vaccinazione:
Gruppo vaccino 1292/3077 (42%)
Gruppo placebo 609/3080 (19,8%)
Numero di donne che hanno presentato:
Artralgia
Vaccino 633/3076 (20,6%)
Placebo 551/3080 (17,9%)
Febbre
Vaccino 381/3076 (12,4%)
Placebo 337/3080 (10,9%)
Febbre > 39†
Vaccino 18/3076 (0,6%)
Placebo 10/3080 (0,3%)
Cefalea
Vaccino 1665/3076 (54,1%)
Placebo 1579/3080 (51,3%)
Rash
Vaccino 312/3076 (10,1%)
Placebo 258/3080 (8,4%)
Orticaria
Vaccino 298/3076 (9,7%)
Placebo 244/3080 (7,9%)
Numero di donne che hanno presentato
una o più reazioni gravi:
Gruppo vaccino 330/9319 (3,5%)
Gruppo placebo 323/9325 (3,5%)
Numero di donne che hanno presentato una
o più reazioni gravi vaccinazione correlate:
Gruppo vaccino 9/9319 (0,1%)
Gruppo placebo 6/9325 (0,1%)
FUTURE II 87
PATRICIA 90
Alterazioni a carico di: cuore, occhio, sistema immune, sistema gastrointestinale, orecchio, sangue, fegato, vie biliari, sistema muscoloscheletrico, reni,
polmoni, cute e annessi, vasi sanguigni, SNC; alterazioni metaboliche, sviluppo si neoplasie o infezioni.
†
Gruppo vaccino = 1 incidente automobilistico e 1 suicidio; gruppo placebo = 1 trombosi venosa profonda + insufficienza renale + insufficienza polmonare e 1 incidente automobilistico
*
che l’uso dell’adiuvante lipidico (ASO4) usato nel vaccino bivalente
induce titoli di anticorpi neutralizzanti più elevati rispetto al semplice
idrossido di alluminio 101. Anche con l’adiuvante utilizzato nel vaccino
quadrivalente (AAHS) sono stati segnalati titoli anticorpali più elevati
rispetto all’idrossido di alluminio 102. Va rilevato che il significato clinico di una maggior risposta umorale al vaccino rimane da verificare; non è infatti stato ancora identificato il livello minimo di anticorpi
che inequivocabilmente indichi protezione (correlato di protezione) e
non esistono test anticorpali standardizzati: ogni produttore ha infat-
180
ti sviluppato un proprio test che viene quindi a quantificare anticorpi
non necessariamente sovrapponibili.
Il picco anticorpale viene raggiunto dopo un mese dalla terza dose,
poi si abbassa lentamente fino al 18°/24° mese. In generale, i titoli
anticorpali si riducono di 10 volte nei primi 2 anni e si stabilizzano
a 3-5 anni, mantenendosi a livelli di oltre 10 volte superiori a quelli
indotti dall’infezione 88 89 103. Non potendosi valutare l’efficacia clinica dei vaccini in soggetti sessualmente naive, è stata paragonata
l’immunogenicità del vaccino quadrivalente in ragazzi e ragazze di
I vaccini anti-papillomavirus
Tabella II.
Caratteristiche e risultati dei più recenti studi di fase II con vaccino bivalente o quadrivalente.
Vaccino
Bivalente (HPV 16-18)*
Quadrivalente (HPV 16-18-6-11)†
Tipo di studio
Doppio cieco randomizzato
Doppio cieco randomizzato
Pazienti arruolati
470 placebo
481 vaccinati
233 placebo
235 vaccinati
Età partecipanti
Range: 15-25 anni
Range: 16-23 anni
Follow-up
Media: 18 mesi
Massimo: 53 mesi
Media: 36 mesi
(241 per 5 anni)
Infezioni persistenti da HPV presenti nel vaccino
Vaccino 0
Placebo 9
Vaccino 2
Placebo 45
Lesioni condilomatose
Vaccino 0
Placebo 3
Sviluppo CIN 2-3 da HPV vaccinali
Vaccino 0
Placebo 5
Sviluppo CIN 2-3 da HPV non contenuti
nel vaccino
Vaccino 3
Placebo 9
Sieroconversione
> 98%
*
Vaccino 0
Placebo 3
100%
Harper et al. 89; † Villa et al. 107.
9-15 anni rispetto a donne di 16-26 anni in cui l’efficacia clinica è
dimostrata. I titoli anticorpali sono risultati più elevati fra gli adolescenti 104.
Da notare che i due vaccini non sono sovrapponibili, ma vanno tenuti
ben distinti e, in mancanza di dati specifici, si consiglia di iniziare e
terminare il ciclo vaccinale con lo stesso vaccino senza interscambio.
Efficacia dei vaccini
Poiché è eccezionale che il cancro del collo dell’utero compaia in
donne in età inferiore ai 30 anni, sarebbero necessari almeno 15-20
anni per quantificare gli effetti favorevoli della vaccinazione anti-HPV
sullo sviluppo della(e) neoplasia(e). A parte i tempi richiesti, vista la
possibilità di eseguire la prevenzione secondaria, non sarebbe etico
aspettare lo sviluppo di tumori in soggetti vaccinati e non. La verifica dell’efficacia dei vaccini si è pertanto basata sul confronto della
comparsa di lesioni pre-cancerose nei vaccinati e nei controlli.
Sei pubblicazioni hanno riportato i risultati di indagini randomizzate in fase II. Due studi riguardano un vaccino monovalente con
HPV 16 105 106; due il vaccino quadrivalente 78 107 e due il vaccino
bivalente 88 89 (i dati più recenti relativi ai vaccini in commercio
sono riportati in Tab. II).
Le indagini con vaccino quadrivalente hanno fornito risultati di sicurezza, immunogenicità ed efficacia tali da ottenere l’approvazione
del vaccino da parte della FDA, EMEA e AIFA per la prevenzione, in
donne dai 9 ai 26 anni, del tumore o della displasia del collo uterino,
della displasia vulvare e dei condilomi acuminati associati ai tipi di
HPV contenuti nel vaccino 84. L’efficacia tipo specifica contro CIN 2/
CIN 3 è risultata del 100%; la protezione verso i condilomi del 99%.
Nelle donne precedentemente infettate da altri tipi di HPV, il vaccino
quadrivalente si è dimostrato efficace nel prevenire lesioni precancerose del collo dell’utero dovute ai tipi di HPV in esso contenuti 108.
Efficacia sovrapponibile per la prevenzione di displasie del collo dell’utero è emersa in studi di fase II anche con il vaccino bivalente 88 89,
che è stato approvato dall’EMEA ed AIFA.
Sono stati recentemente pubblicati studi di fase III, sia per il vaccino
quadrivalente che bivalente, altri termineranno nei prossimi anni. Lo
studio FUTURE (Females United to Unilaterally Reduce Endo/Ectocervical Disease) I 86 riporta l’efficacia del vaccino quadrivalente nel
prevenire lo sviluppo di condilomi, di lesioni precancerose vulvari,
vaginali, cervicali e di adenocarcinomi in situ associati ai ceppi vaccinali in donne tra i 16 e i 24 anni. I risultati sono riportati in dettaglio
nella Tabella III. Lo studio FUTURE II 87 ha invece valutato l’efficacia
dello stesso vaccino nel prevenire l’insorgenza di lesioni cervicali di
alto grado (CIN 2/3) e di adenocarcinoma in situ associati ad HPV 16
o 18. Come riportato nella Tabella III, è stato osservato lo sviluppo di
una lesione displastica (CIN 3) in una sola paziente vaccinata, in cui
però era presente sin dall’inizio un altro HPV oncogeno.
Due analisi combinate degli studi randomizzati in doppio cieco relativi al vaccino quadrivalente 109 110 hanno valutato l’impatto della
vaccinazione su un numero maggiore di donne (18.174 e 20.583 rispettivamente), confermando la riduzione di lesioni vulvari, vaginali,
cervicali e di adenocarcinomi in situ emersi nei singoli studi.
L’analisi ad interim dello studio di fase III PATRICIA (Papilloma Trial
Against Cancer in Young Adults) 90 valuta l’efficacia del vaccino bivalente nel prevenire, a 15 mesi dall’inizio della vaccinazione, la
comparsa di lesioni precancerose causate da HPV 16 e 18 in donne
tra i 15 e i 25 anni e la possibile cross-protezione nei confronti di
altri ceppi virali oncogeni. I risultati sono riportati in dettaglio nella
Tabella IV. È stata sottolineata una riduzione del numero di infezioni
persistenti da ceppi di HPV 45 e 31, seppur in termini non statisticamente significativi; in proposito sono stati anche sollevati dubbi sulle
modalità di analisi dei dati 111.
Da sottolineare che l’ottima efficacia dei vaccini emerge quando
vengono valutate solo le donne risultate negative per i tipi di HPV
contenuti nel vaccino (naive) sia all’inizio dello studio che dopo le
tre dosi (o almeno una dose per lo studio PATRICIA), somministrate senza violazioni significative del protocollo. Nel caso del vaccino
quadrivalente è stata condotta anche un’analisi intention to treat, in
cui sono state considerate tutte le donne arruolate, purché avessero
ricevuto almeno una dose di vaccino o placebo, indipendentemente
quindi dall’aderenza o meno al protocollo e soprattutto dal fatto che
fossero inizialmente già infette con i tipi di HPV contenuti nel vaccino. Con questo tipo di analisi l’efficacia vaccinale verso le lesioni
pre-neoplastiche ovviamente si riduce e gli intervalli di confidenza al
95% scendono frequentemente sotto lo zero, risultando quindi non
significativi (Tab. III).
181
I vaccini anti-papillomavirus
Tabella III.
Vaccino quadrivalente: risultati dei principali studi di fase III.
FUTURE I
Caratteristiche dello studio
Studio randomizzato e controllato, in doppio cieco.
Donne sane, età 16-24 anni; ≤ 4 partner, non gravide, senza precedenti anomalie al Pap
test, in contraccezione efficace.
Follow-up medio: 3 anni dalla prima dose di vaccino; campione: 2723 vaccino;
2732 placebo
Efficacia
Analisi: secondo protocollo*
Condilomi:
Gruppo vaccino 0/2261
Gruppo placebo 48/2279
100% (95% CI 92-100)
VIN/VaIN 2+:
Gruppo vaccino 0/2261
Gruppo placebo 9/2279
100% (95% IC 49-100)
CIN 2:
Gruppo vaccino 0/2241
Gruppo placebo 21/2258
100% (95% IC 81-100)
CIN 3:
Gruppo vaccino 0/2241
Gruppo placebo 17/2258
100% (95% IC 76-100)
AIS:
Gruppo vaccino 0/2241
Gruppo placebo 6/2258
100% (95% IC 15-100)
Condilomi:
Gruppo vaccino 21/2723
Gruppo placebo 86/2732
76% (95% IC 61-86)
VIN/VaIN 2+:
Gruppo vaccino 5/2723
Gruppo placebo 13/2732
62% (95% IC < 0-89)
CIN 2:
Gruppo vaccino 36/2723
Gruppo placebo 51/2732
30% (95% IC < 0-56)
CIN 3:
Gruppo vaccino 39/2723
Gruppo placebo 44/2732
12% (95% IC < 0-44)
AIS:
Gruppo vaccino 1/2723
Gruppo placebo 6/2732
83% (95% IC < 0-100)
Efficacia
Analisi: intention to treat**
FUTURE II
Caratteristiche dello studio
Studio randomizzato e controllato, in doppio cieco.
Donne sane, età 15-26 anni; ≤ 4 partner, non gravide, senza precedenti anomalie al Pap
test, in contraccezione efficace.
Follow-up medio: 3 anni dalla prima dose di vaccino; campione: 6087 vaccino; 6080
placebo
Efficacia
Analisi: secondo protocollo*
CIN 2:
Gruppo vaccino 0/5305
Gruppo placebo 28/5260
100% (95% IC 86-100)
CIN 3:
Gruppo vaccino 1†/5305
Gruppo placebo 29/5260
97% (95% IC 79-100)
AIS:
Gruppo vaccino 0/5305
Gruppo placebo 1/5260
182
100% (95% IC < 0-100)
I vaccini anti-papillomavirus
Efficacia
Analisi: intention to treat**
CIN 2:
Gruppo vaccino 41/6087
Gruppo placebo 96/6080
57% (95% IC 38-71)
CIN 3:
Gruppo vaccino 57/6087
Gruppo placebo 104/6080
45% (95% IC 23-61)
AIS:
Gruppo vaccino 5/6087
Gruppo placebo 7/6080
28% (95% IC < 0-82)
Questo tipo di analisi considera le donne che hanno ricevuto le tre dosi di vaccino entro 12 mesi senza violazioni del protocollo, negative (per anticorpi
e ricerca del DNA virale) verso i tipi di HPV contenuti nel vaccino (6, 11, 16, 18 o solo 16, 18 in funzione degli studi) sia all’inizio che dopo un mese dalla
terza dose. La popolazione analizzata è quella che più si avvicina a quella delle 12enni, presumibilmente non ancora contagiate dall’HPV e nelle quali il
vaccino è atteso esercitare il massimo di efficacia.
**
In questo tipo di analisi sono incluse tutte le donne arruolate nello studio a cui è stata somministrata almeno una dose di vaccino, indipendentemente
dal fatto che esse abbiano completato il ciclo vaccinale oppure siano andate incontro a violazioni significative del protocollo. Vengono incluse anche
donne già inizialmente infettate da uno o più tipi di HPV vaccinali o con lesioni citologiche in atto. L’efficacia del vaccino viene quindi diluita dalla presenza
di donne già infette prima di iniziare la vaccinazione e rispecchia gli effetti del vaccino in una popolazione generale, che include donne talora già infettate
da uno o più tipi di HPV contenuti nel vaccino.
†
In questo soggetto è stato rilevato HPV 52 all’arruolamento ed in altri 5 prelievi durante il follow-up; HPV 16 è stato isolato in un solo prelievo durante
il follow-up.
FUTURE I: Garland et al. 86; FUTURE II: Future II Study Group 87.
CIN = neoplasia intraepiteliale cervicale; VIN = neoplasia intraepiteliale vulvare; VaIN = neoplasia intraepiteliale vaginale; AIS = adenocarcinoma in sito.
*
È importante tenere presente che in nessuno degli studi è stata valutata l’efficacia clinica in soggetti di età inferiore ai 15-16 anni.
I risultati degli studi di fase III possono comunque essere assunti
come validi anche per le dodicenni, che dovrebbero rappresentare
una popolazione naive, anche se non è possibile prevedere i risultati
reali.
Una preoccupazione teorica riguarda la possibilità che la vaccinazione verso alcuni genotipi di HPV possa favorire la diffusione di altri
ceppi, sia carcinogenici che non. Ciò appare concettualmente poco
probabile, ma tale fenomeno è attualmente sotto osservazione attraverso alcuni studi che potranno chiarire in futuro il dubbio 112 113.
so altri ceppi di virus e fornire così una protezione crociata sarebbe
indubbiamente vantaggiosa.
Con il vaccino bivalente è stata segnalata 89 90 una cross-reattività
immunologica fra i ceppi vaccinali e altri tipi di HPV filogeneticamente vicini (Fig. 4), in particolare fra HPV 16 e 31 e HPV 18 e 45. I
titoli degli anticorpi neutralizzanti verso genotipi non presenti nella
miscela vaccinale sono però più bassi di quelli specifici e, come
detto, non ci sono al momento evidenze significative a sostegno
della protezione verso lesioni precancerose sostenute da genotipi
diversi da quelli contenuti nel vaccino per nessuno dei due prodotti
in commercio.
Durata della protezione
Quando e chi vaccinare
L’infezione da HPV viene acquisita nel tempo dopo l’inizio dell’attività
sessuale. Gli attuali vaccini non sono in grado di far regredire le lesioni
in atto. Ne deriva che per ottimizzarne l’efficacia dovrebbero essere
vaccinate le ragazze pre-puberi o nel primo periodo adolescenziale,
così come le donne che non abbiano ancora avuto rapporti sessuali
(da ricordare che la trasmissione avviene anche per rapporti non completi). D’altra parte anche donne che hanno una vita sessualmente
attiva potrebbero giovarsi della vaccinazione, nel caso non fossero ancora state contagiate da uno o più dei tipi di virus contenuti nel vaccino 117. Il rapporto costo-beneficio pare tuttavia inversamente correlato
all’età della donna, ricordando l’incidenza rapidamente cumulativa
delle infezioni genitali da HPV in giovani donne 118-120.
L’Advisory Committee on Immunization Practices (ACIP) raccomanda
l’uso routinario del vaccino in ragazze di 11-12 anni (età minima 9
anni) e catch-up vaccination nelle donne di 13-26 anni, indipendentemente dal fatto che siano sessualmente attive. Inoltre, viene indicata
la possibilità di vaccinare, a discrezione del medico curante, bambine
di 9-10 anni sulla base del contesto sociale in cui vivono 52. Secondo
l’American Cancer Society 85, anche le coorti delle donne di 13-18
anni andrebbero vaccinate, per recuperare quelle non vaccinate in
precedenza o completare i cicli incompleti. Tali raccomandazioni
vengono riprese dall’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) che raccomanda, inoltre, la prima visita ginecologica
all’età di 13-15 anni.
Fra i quesiti ancora aperti relativi ai vaccini anti-HPV uno dei più
rilevanti riguarda la durata dell’effetto protettivo. Una protezione
transitoria necessiterebbe, infatti, di richiamo(i) e ciò verrebbe ad
incidere sul rapporto costo/beneficio.
La maggioranza dei dati disponibili sull’efficacia dei vaccini si riferisce a un follow-up medio di pochi anni con un massimo di cinque
dal termine del ciclo vaccinale. Non è pertanto possibile prevedere
se sarà necessaria, a distanza di anni, una dose di richiamo. Al
momento i risultati documentano una risposta elevata e prolungata 114. È stata inoltre dimostrata una pronta risposta anamnestica
dopo somministrazione di una dose di vaccino quadrivalente a
distanza di 5 anni dal ciclo vaccinale, inclusi soggetti nel frattempo sieronegativizzatisi, ad indicare la persistenza di memoria
immunologica 115. Questi dati suggeriscono una protezione di lunga durata anche in soggetti con caduta degli anticorpi specifici a
livelli non dosabili, supportata dall’assenza di infezioni da ceppi
vaccinali nei 60 mesi di follow-up. Sono in corso studi di fase III
e IV volti a valutare gli effetti protettivi a lungo termine; i risultati
saranno disponibili tra il 2015 e il 2020 116.
Protezione crociata verso altri tipi di HPV
Il 30% dei carcinomi e delle lesioni HR della cervice sono causati da
varianti di HPV non contenute negli attuali vaccini. La possibilità che
anticorpi neutralizzanti indotti dai vaccini possano cross reagire ver-
183
I vaccini anti-papillomavirus
Tabella IV.
Vaccino bivalente: risultati del principale studio di fase III.
PATRICIA
Caratteristiche dello studio
Studio randomizzato in doppio cieco
Donne sane, età 15-25 anni, ≤ 6 partner, in contraccezione efficace, con cervice intatta.
Follow-up medio: 15 mesi
Campione: 9319 vaccino bivalente; 9325 controllo (vaccino anti-epatite A)
Efficacia
Analisi ad interim prespecificata*
CIN 1+:
Gruppo vaccino 3†/7788
Gruppo placebo 28/7838
89,2% (97,9% CI 59,4-98,5)
CIN 2+:
Gruppo vaccino 2†/7788
Gruppo placebo 21/7838
90,4% (97,9% CI 53,4-99,3)
CIN 2+ causate da HPV 16 e/o 18 e da altri
HPV:
Gruppo vaccino 2/7788
Gruppo placebo 12/7838
Questa analisi considera tutte le donne vaccinate valutabili per l’efficacia, ossia tutte le donne inizialmente negative per gli HPV contenuti nel vaccino
che hanno ricevuto almeno una dose di vaccino, le donne potevano avere infezioni da altri tipi di HPV e/o lesioni citologiche di basso grado all’ingresso
nello studio.
†
Nelle tre donne vaccinate che hanno sviluppato lesioni displastiche associate a HPV16 (2 CIN 2;
1 CIN 1) erano presenti dall’inizio infezioni causate da altri HPV oncogeni che potrebbero aver causato le lesioni.
PATRICIA: Paavonen et al. 90.
CIN = neoplasia intraepiteliale cervicale.
*
In alcuni stati Americani è stato proposto di rendere obbligatoria la
vaccinazione per HPV per l’ingresso alle scuole medie, ciò ha però
suscitato molte perplessità 121.
In Italia è prevista la vaccinazione attiva e gratuita della coorte di
ragazze dodicenni (ossia dopo il compimento degli 11 anni) ed il
vaccino rientra fra i livelli essenziali di assistenza (LEA), mentre l’organizzazione pratica della vaccinazione attraverso le strutture del
sistema sanitario compete alle singole Regioni. A maggio 2008 tutte
le Regioni risultano aver stabilito i calendari per la somministrazione
dei vaccini verso i virus HPV 122. In alcune regioni, il programma di
intervento prevede che i vaccini vengano messi a disposizione attivamente non solo per le ragazze nel corso del dodicesimo anno di
vita, ma anche per altre coorti.
Va segnalato che nel nostro paese al compimento del 12° anno il
96,8% delle bambine ha già manifestato i primi segni di sviluppo puberale e che l’età media del menarca è di 12,4 anni 123. D’altra parte,
è indubbio che la vaccinazione conferisce una protezione massima se
eseguita prima dell’inizio dell’attività sessuale. Un lavoro italiano 124
riportava l’inizio dell’attività sessuale nel 25% dei giovani tra i 13 e 15
anni e nel 55% di quelli tra i 16 e 18 anni. Un’indagine recente segnala
che l’1% dei ragazzi ha rapporti sessuali entro i 12 anni e un terzo
entro i 17 anni 125. Alcuni adolescenti tendono a iniziare precocemente
l’attività sessuale 126 (Tab. V); in questi soggetti, come in certi gruppi di
immigrati le cui tradizioni culturali potrebbero favorire rapporti sessuali
precoci, dovrà quindi essere valutata l’opportunità di una vaccinazione
anticipata.
Il rischio di tumori associati ad HPV, nonché di forme diffuse di
condilomi, è particolarmente elevato nei soggetti immunodepressi,
come quelli con infezione da HIV o sottoposti a trapianti 127. Rimane
da verificare l’immunogenicità, l’efficacia e la sicurezza dei vaccini
verso HPV in questi gruppi di pazienti.
Vaccinazione nei maschi
Nei maschi la vaccinazione potrebbe proteggere dai tumori del pene
e da quelli anali o della testa e del collo, nonché dai condilomi acuminati causati dai tipi di HPV presenti nel vaccino quadrivalente. In
uno studio su 463 maschi tra i 18 e i 40 anni senza storia di lesioni
ano-genitali è stato evidenziato che il 65,4% era positivo per almeno
un tipo di HPV, il 29,2% per un tipo di HPV oncogeno e il 36,3% per
un HPV a basso rischio 128. Ciò evidenzia l’alta prevalenza di infezione da HPV in uomini asintomatici, che possono così contribuire alla
diffusione dei vari virus ai partner.
Anche se le risposte anticorpali al vaccino sono sovrapponibili nei
maschi e nelle femmine 104, non vi sono studi che documentino l’ef-
Tabella V.
Condizioni e fattori favorenti l’inizio precoce dell’attività sessuale negli adolescenti.
Fattori di rischio
Descrizione
Biologici
Anticipazione del menarca
Intrafamiliari
Storia multigenerazionale di genitorialità adolescenziale, situazioni di affido, genitori poco presenti o attenti
Socioculturali
Residenza in aree con alto tasso di povertà e disoccupazione, basso reddito
della famiglia
Intrapersonali
Storia di abuso sessuale o fisico
Da De Sanctis 115.
184
I vaccini anti-papillomavirus
ficacia dei vaccini in maschi, in cui oltretutto la maggioranza delle
infezioni genitali da HPV non sono mucose ma cutanee; nelle donne
il vaccino quadrivalente si è comunque dimostrato protettivo anche
nei confronti delle lesioni cutanee.
In conclusione, al momento non esistono indicazioni per vaccinare
i maschi. Alcune nazioni, come Messico e Australia, hanno tuttavia
raccomandato il vaccino per HPV in entrambi i sessi, anche in assenza di trial clinici specifici.
Vaccinazione HPV e Pap test
Dal momento che le lesioni cancerose, correlate a tipi di HPV diversi
da quelli presenti nei vaccini, si possono presentare anche in donne
vaccinate, è importante che tali lesioni siano identificate da un adeguato screening. Il Pap test deve essere pertanto mantenuto anche
nella popolazione vaccinata, secondo le attuali indicazioni. Lo screening può essere, inoltre, utile per verificare gli effetti nel tempo del
vaccino fra soggetti con fattori di rischio diversi 129 130. È quindi fondamentale spiegare alle donne la necessità di continuare la sorveglianza
per il carcinoma della cervice anche dopo la vaccinazione 131.
Vi è concordanza sul fatto che l’utilizzo di metodi per identificare
l’HPV DNA aumenti la sensibilità dello screening basato solo sulla
citologia 132-134.
Adesione alla vaccinazione e ruolo del pediatra nella strategia
vaccinale
Perché la vaccinazione verso HPV abbia successo, sono necessari
più fattori: un’adeguata informazione della popolazione e degli operatori sanitari, una chiara volontà politica, le risorse e una strategia
per la sua implementazione (incluse l’identificazione e la distribuzione del vaccino ai servizi) e una precisa programmazione dell’intervento in maniera sequenziale. Infine, è necessaria un’alta copertura
con sorveglianza nel tempo.
L’adesione alla vaccinazione passa, necessariamente, attraverso
una corretta informazione degli operatori. Onde uniformare il più
possibile il loro comportamento e integrarsi nelle specifiche competenze, questi potranno avvalersi delle raccomandazioni emanate
dalle società scientifiche delle professionalità coinvolte, rafforzando
in tal modo la campagna di informazione programmata dalle Regioni
e dal Ministero 135. Per quanto riguarda i pediatri, un’indagine condotta in Italia 136 ha confermato l’utilità che la campagna vaccinale
sia preceduta da un loro aggiornamento sull’argomento. In particolare, sebbene i pediatri coinvolti nello studio abbiano in generale
dimostrato una propensione a consigliare la vaccinazione ai propri
assistiti, è emersa la mancanza di alcune conoscenze mirate sull’infezione da HPV e la sua prevenzione, oltre alla necessità di ampliare
e approfondire ulteriormente la discussione sulle tematiche sessuali. Le difficoltà peculiari di questa vaccinazione, legate ai suoi aspetti
psico-sociali e all’età della popolazione di riferimento (ragazzine),
possono essere più facilmente affrontate e superate nella realtà assistenziale italiana, che prevede la figura del pediatra di famiglia da
cui vengono assistite oltre l’80% delle dodicenni. Il pediatra è scelto
sulla base di un rapporto di fiducia che decorre spesso fin dalla nascita ed i genitori attribuiscono grande importanza alla sua opinione
per l’esecuzione di qualsiasi tipo di vaccinazione. Quella verso HPV
ha indubbiamente aspetti più complessi ed articolati rispetto ad altre. Inchieste in diversi paesi hanno messo in rilievo che molte madri
di bambine di 8-14 anni sapevano pochissimo di HPV e cancro del
collo dell’utero 137-143 ed è ragionevole che ciò rispecchi anche la
realtà italiana. Trattandosi di un’infezione sessualmente trasmessa,
i genitori avevano inoltre molte perplessità sull’epoca ideale in cui
somministrare il vaccino, per il timore che, in bambine troppo giova-
ni, la vaccinazione potesse portare ad un eccesso di sicurezza con
comportamenti sessuali più aperti e a rischio 134 144-150. La continuità
del rapporto di fiducia del pediatra con la famiglia e la ragazza gli
consente di affrontare adeguatamente, nel corso degli anni, i temi
legati a corretti stili di vita, evidenze propedeutiche alla tutela della
salute anche in età adulta e in questo ambito si inseriscono l’informazione riguardante il vaccino anti-HPV e le problematiche sessuali
connesse.
Le visite programmate (bilanci di salute) prevedono un controllo proprio
in età pre-adolescenziale. In tale occasione, il pediatra avrà modo di
promuovere e rafforzare l’invito alla vaccinazione fatto dal centro di
Sanità Pubblica. Ove sussistano le condizioni, potrà egli stesso procedere a vaccinare attivamente, contribuendo così in modo sostanziale al
raggiungimento dell’auspicata copertura vaccinale.
Prospettive nei paesi in via di sviluppo
Non si può dimenticare che l’80% dei tumori del collo dell’utero si
riscontra nei paesi in via di sviluppo 1, dove i problemi di tipo economico ed organizzativo sono rilevanti. Ciascun paese dovrà valutare
l’importanza della vaccinazione anti-HPV nel contesto locale del rapporto costo/beneficio e rispetto ad altre priorità del sistema sanitario nazionale 130. Tuttavia, i vaccini in genere si sono rivelati efficaci
strumenti di salute pubblica, anche in paesi con risorse limitate ed è
in corso uno sforzo congiunto delle ditte produttrici e delle agenzie
internazionali per la distribuzione e il finanziamento dei vaccini, sì da
rendere disponibili, a un prezzo accessibile, quelli verso l’HPV in tutto il mondo. Questi possono, quindi, rappresentare uno straordinario
mezzo di profilassi primaria in grado di ridurre significativamente il
tumore cervicale anche nelle zone geografiche più svantaggiate o
fra la popolazione meno abbiente.
Prospettive future: altri vaccini in studio
Sono stati recentemente pubblicati vari studi relativi a nuovi vaccini
anti-HPV con scopi sia preventivi che terapeutici 151-158. Fra questi,
un vaccino sperimentato sull’animale e sull’uomo, è costituito da
particelle simil-virali chimeriche (L1 + E7) 151. Tale vaccino si è dimostrato efficace nel generare una risposta immune specifica umorale
e cellulare. Non si sono invece evidenziati effetti significativi per quel
che concerne l’aspetto terapeutico nell’uomo, anche se la popolazione in studio era troppo limitata per trarre conclusioni definitive.
Un altro vaccino, sperimentato sul topo, è costituito da DNA virale
codificante per una proteina di fusione rappresentata dalla proteina
umana calreticulina associata alle proteine precoci E6-E7 e dalla
proteina tardiva L2 152. Tale vaccino si è dimostrato in grado di generare non solo una risposta cellulare specifica nei topi sani vaccinati,
ma anche un significativo effetto anti-tumorale in topi malati. Lo sviluppo di nuovi vaccini potrebbe, in un futuro non così remoto, avere
effetti non solo sull’incidenza e la distribuzione del cancro uterino,
ma anche contribuire a una sua miglior terapia.
Conclusioni
Sono oggi disponibili, in commercio, due vaccini anti-HPV. Le loro
caratteristiche vanno mantenute distinte, anche se entrambi hanno
dimostrato ottima immunogenicità e sicurezza. Gli studi di efficacia di fase II e III coprono un arco di tempo ancora limitato, ma la
vaccinazione di ragazze e donne non infette dai tipi vaccinali si è
dimostrata in grado di prevenire in modo significativo la comparsa
di lesioni precancerose del collo dell’utero, nonché, nel caso del vaccino quadrivalente, di lesioni precancerose della vulva e di condilomi
acuminati.
185
I vaccini anti-papillomavirus
La vaccinazione va offerta prioritariamente a soggetti di sesso femminile prima, dell’inizio dell’attività sessuale. La scelta nel nostro
paese è di offrirla a tutte le ragazze nel 12° anno di vita. I vaccini
possono rivelarsi utili anche in ragazze e donne di età maggiore,
specie se ancora non sessualmente attive. Al momento non vi sono
i presupposti per una raccomandazione nei maschi.
L’implementazione della vaccinazione non deve ridurre la prevenzione secondaria del cancro della cervice attraverso lo screening di
massa con Pap test. Gli attuali vaccini proteggono, infatti, solo nei
confronti dei tipi di virus in essi contenuti e non possono, quindi,
eradicare il carcinoma cervicale.
Per avere successo, la vaccinazione non richiede solo l’impegno
della classe medica, ma deve essere preceduta e accompagnata da una chiara volontà politica, dalla disponibilità delle risorse
necessarie, da una implementazione razionale e da una campagna d’informazione mirata che renda accettabile e condivisa la
vaccinazione alla popolazione generale. Le attuali conoscenze sulle malattie associate all’infezione da HPV e in particolare al suo
ruolo cardine nel cancro del collo dell’utero sono, infatti, molto
frammentarie. È importante che venga sottolineato che la vaccinazione non protegge dalle altre numerose malattie sessualmente
trasmesse.
Il fatto che i vaccini si propongano di prevenire patologie di cui il
pediatra non ha esperienza diretta e che si manifesteranno a distanza di molti anni si inserisce in quella strategia preventiva con
cui il pediatra sempre più si trova ad operare per impedire o ridurre
l’insorgenza di malattie nell’adulto. Poiché si tratta di infezioni da
HPV che vengono trasmesse per via sessuale, oltre ad un conoscenza approfondita della tematica, si rendono necessari attenzione e
sensibilità nel dialogo con le ragazze ed i genitori, teso a chiarire gli
obiettivi della vaccinazione, anche vincendo una certa reticenza che,
talora, emerge da indagini specifiche.
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Corrispondenza
prof. Pier-Angelo Tovo, Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza, Università di Torino, piazza Polonia 94, 10126 Torino • Tel. +39 011
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