L`omofobia internalizzata: una spina davvero profonda
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L`omofobia internalizzata: una spina davvero profonda
Formazione dell’identità omosessuale e l’omofobia D.ssa Angela Gesuè Da qualche anno sto riflettendo con un piccolo gruppo di colleghe (appartenenti all’APSA-onlus) sul lavoro clinico effettuato, in prevalenza presso un Centro di consultazione per adolescenti, ma anche nel privato, con giovani collocati tra l’adolescenza e l’età adulta, e che chiedevano aiuto per problemi connessi ad una difficile assunzione dell’identità di genere. Quanto mi appresto a riferire riguarda le problematiche poste dal manifestarsi della preferenza omosessuale in adolescenza, gli interrogativi da essa suscitati in termini di specificità di percorsi di sviluppo che possano influire nel determinarla, i nodi specifici, qual’è quello dell’omofobia che, a mio giudizio, costituisce un punto importante nel panorama psicologico di questi giovani. Naturalmente l’adolescente che arriva per chiedere aiuto, qualunque tipo di adolescente, ha una storia infantile sua irripetibile entro cui sono inscrivibili le caratteristiche della sua personalità e di cui porta quelle tracce che in adolescenza si faranno evidenti ed acquisteranno nuova conformazione e spessore. Non darò spazio in questo testo ne alla disamina delle numerose teorie sulla psicogenesi dell’omosessualità, ne alla lettura dei percorsi di sviluppo di questi giovani pazienti facendo riferimento privilegiato all’una o all’altra di esse, ma partirò da una descrizione, per così dire ingenua, delle caratteristiche, delle modalità di presentazione, degli squarci sui mondi interni sia di questi adolescenti sia dei loro genitori chiedendomi quanto di specifico e quanto di comune potevo riscontrare in loro. Nella fase di avvio di questa ricerca è stata fonte di sorpresa questa duplice constatazione: erano soprattutto i ragazzi quelli che chiedevano aiuto, o, per essi, i loro genitori per l’emergere di un disagio connesso al manifestarsi di una preferenza omosessuale. Erano ancora i ragazzi, soprattutto, a portare ciò come qualcosa vissuto in modo drammatico, con cui avevano bisogno di misurarsi. Le ragazze non erano solo in numero minore, ma la preferenza omosessuale veniva riferita come uno dei motivi alla base della richiesta d’aiuto, spesso non il principale né quello vissuto con maggiore angoscia. La quantificazione del fenomeno non può avere rilevanza statistica. Tuttavia mi sembra importante segnalare questo dato, perché esso è in accordo con l’impressione generale che si ricava quando ci si trova a discutere con altri colleghi di questo fenomeno. Due ordini di ragioni potrebbero essere alla base di esso: alcune di carattere più specifico aventi a che fare con le problematiche degli adolescenti in questione, alcune di carattere generale aventi a che fare con le ideologie prevalenti, differenti per l’omosessualità maschile e femminile. Una differenza tra gli adulti omosessuali che si rivolgono ad un terapeuta e gli adolescenti è la seguente: nessuno degli adulti, come segnalano J. McDougal (1964) e F. Petrella (1992) confermando nei loro scritti l’esperienza di altri autori, chiedono aiuto per curare l’omosessualità, ma per altri disturbi: depressioni, agorafobie, stati d’ansia. Per quanto concerne i ragazzi in questione, venivano al primo colloquio portando problemi di vario tipo: difficoltà scolastiche, attacchi di panico, depressione, ma rapidamente, soprattutto i maschi, facevano capire che la loro fonte di disagio era l’emergere di un orientamento omosessuale con cui a quel punto, diventava irrimandabile fare i conti. Esiste una strutturazione interna ed una storia familiare tipica? Di storie familiari tipiche non si può parlare. Ci sono elementi in comune, ad esempio esperienze di separazione che il nucleo familiare del ragazzo/a ha dovuto affrontare nel corso della sua storia. Ma tali esperienze erano differenti sia per tipo che per entità: distacchi della famiglia d’origine dei nonni, separazioni temporanee nella coppia dei genitori per patologia di uno dei coniugi, separazioni definitive per conflitti. Tali eventi si erano verificati in momenti diversi dello sviluppo dei pazienti e quindi, presumibilmente, avevano esercitato un’influenza variabile. In altre famiglie non erano presenti eventi particolari. Per quel che concerne il mondo interno dei pazienti sono rilevabili combinazioni sui generis dei seguenti elementi: bisogno di vicinanza, investimento idealizzato di una figura parentale, adesività o, al contrario, disinteresse, distacco, freddezza, rigidità potevano caratterizzare la descrizione delle figure genitoriali e le relazioni con esse. Tutto ciò aveva caratterizzato la storia dei ragazzi/e fin dall’inizio ed in maniera più o meno costante, oppure a partire da qualche evento, esteriormente più o meno apprezzabile, ma che per quella famiglia aveva invece segnato una frattura profonda. La variabilità e la maggiore o minore drammaticità dei vissuti o delle storie descritti possono essere messi in rapporto, secondo un modello multidimensionale bio-psico-sociale (Paris 1996), con lo sviluppo di un ventaglio di personalità che dall’area nevrotica può arrivare fino a quella borderline o psicotica. In generale, le persone esposte a vicende come quelle sovra indicate possono avere un orientamento eterosessuale, qualche volta bisessuale, qualche volta esclusivamente omosessuale. Non è quindi possibile sostenere che l’omosessualità sia una risposta a problematiche precoci di separazioneindividuazione, come sostiene Socarides (1968). E’ più convincente che questi problemi caratterizzino lo sviluppo di una personalità borderline. Ci possono essere omosessuali borderline, narcisisti, perversi, nevrotici eccetera, così come eterosessuali borderline, narcisisti, perversi eccetera. Mi sento quindi più vicina a quella parte del movimento psicoanalitico costituita da autori come Mitchell (1978, 1981), Bion (1975), J. McDougall (1986), Kohut (1987), Bollas (1992), che hanno spostato l’accento sul considerare prioritario il livello di organizzazione della personalità all’interno del quale l’orientamento sessuale è parte inscindibile, trova la sua espressione, n’ è influenzato e l’influenza. I primi incontri con i ragazzi/e, con i genitori. Riflettendo sui primi colloqui con questi ragazzi/e, mi sono chiesta se c’era qualcosa nel tipo di comunicazione che si stabiliva con loro che poteva essere d’aiuto nel distinguere se si trattava di un orientamento omosessuale, con cui a quel punto era diventato inevitabile fare i conti, oppure di una temporanea sperimentazione omosessuale, com’è possibile in gioventù. Nel primo caso, la comunicazione di questa preferenza suggeriva l’idea di qualcosa di profondo, che si sa da tempo, a volte fin dall’infanzia, non riconosciuto come tale, ma che sta alla base di una sensazione di diversità. Qualcosa che lotta per venire fuori, contro qualcosa che si oppone. In questi casi si coglie nella relazione con lo psicoterapeuta una richiesta d’accoglimento, un’estrema vulnerabilità a qualunque risposta che possa essere percepita come latrice di un giudizio negativo. Quando questo outing può essere compiuto e trova un’adeguata risposta segue una sensazione di sollievo, di verità, di autenticità nel rapporto con se stessi e con altri. Naturalmente lo stato d’animo descritto è temporaneo ed il percorso che porta dal rifiuto all’accettazione è come se dovesse ripetersi più e più volte, mai uguale, ma ripartendo da punti fino allora inesplorati. Quanto descritto è tipico di quei giovani in cui l’orientamento omosessuale è prevalente, sufficientemente egosintonico e fondato sul desiderio di relazioni affettive e sessuali intense. Nella mia esperienza non soltanto con adolescenti, ma anche con giovani tra i 20 ed i 30 anni, ho invece più volte avuto modo di constatare come un orientamento omosessuale evidente e persistente possa essere drammaticamente egodistonico. Oggetto, nei casi più gravi, di una scissione permanente perché contenitore di aspetti profondamente disprezzati del sé. In questi casi anche l’investimento sull’eterosessualità è modesto quando non del tutto assente ed il paziente trasmette una profonda sensazione di vuoto, o d’obbligata convivenza con un intruso disprezzato e da eliminare, a volte anche a costo di gesti estremi. Naturalmente tra questi due poli esistono gradazioni che rendono ciascuno un caso a sé stante, e l’esperienza di lavoro con lui complessa e fornita di qualità peculiari. Per quanto concerne quei ragazzi/e per cui l’orientamento omosessuale fa parte di una sperimentazione adolescenziale, colpiscono sia la modalità dell’esperienza che la qualità del vissuto ad essa associato. Per essi l’esperienza omosessuale dà l’idea di un passare attraverso, non certo a cuor leggero, ma con un contrasto di emozioni, a volte fino allo smarrimento, ma diretti altrove. Tutto ciò è ben diverso dall’essere fermati da un qualcosa che assomiglia ad una “rivelazione” così la descrivono Gide(1902), Baldwin(1957), Yourcenar (1988) difficile da riseppellire del tutto anche se imbarazzante e scomoda, e doverle non solo trovare un posto all’interno della propria vita, ma riuscire a sentirla come un nucleo vitale. Per quanto concerne i genitori, il loro atteggiamento si distribuiva secondo una gradazione di sfumature che, dall’evitamento e dal diniego, andava alla denuncia della responsabilità di terzi nell’orientamento sessuale dei figli. Le reazioni di disapprovazione erano più accese nei confronti dell’omosessualità dei maschi piuttosto che delle femmine, in famiglie di livello socio-culturale medio basso ed inserite in contesti più allargati in cui era più facile che i genitori fossero a loro volta oggetto di un giudizio sociale non favorevole. Dei due genitori, era, a volte, quello dello stesso sesso ad osteggiare maggiormente il figlio/la figlia, soprattutto se, a sua volta, aveva avuto problemi di omosessualità non ammessi e rapidamente sepolti in un matrimonio convenzionale da cui erano nati più figli, portati a riprova di un proprio buon funzionamento eterosessuale, e della famiglia nel suo complesso. Raramente è stato possibile constatare nei genitori, soprattutto nella fase iniziale, una reazione dettata da una presa di coscienza di quello che ai figli/e stava succedendo, ma anche da vicinanza, seppur accompagnata da una dolorosa sorpresa. La richiesta dei genitori allo psicoterapeuta, quando riescono a formularne una, è per lo più quella di far sì che il figlio o la figlia possano trovarsi un partner dell’altro sesso. Molto spesso, dopo la turbolenza iniziale genitori/figli, quando per questi ultimi l’identità omosessuale prende corpo più consistentemente, e se nel frattempo sono diventati maggiorenni, si sviluppa un progetto d’allontanamento dalla famiglia giustificato con motivi di studio o di lavoro. In realtà esso è prodotto dal bisogno di mettere una distanza che attenui i conflitti. Ciò può avvenire per quei/quelle giovani sufficientemente solidi da desiderare una separazione che permetta loro di sperimentarsi con maggiore libertà, e per quei genitori che riescono a contenere il bisogno di controllo e sfruttare il compromesso di un distacco, sia per riavviare una rielaborazione, tenendosi lontano dal trauma del confronto quotidiano, sia per riseppellire il problema rimandando la possibilità di affrontarlo a tempi strettamente dipendenti dalla storia e dalle dinamiche di ciascuna famiglia ristretta e/o allargata. Le dinamiche precedentemente descritte, soprattutto quando molto aperte ed esplicite, sono caratteristiche di quelle situazioni in cui ci sono giovani e famiglie non troppo patologici. Quando invece c’è un alto livello di patologia collettiva i giochi sono più confusi e complessi. Il problema dell’orientamento sessuale non è in questi casi un fatto a sé stante, ma s’incastra all’interno di un puzzle molto articolato. L’omofobia interiorizzata La presenza di un uno spettro composito di emozioni, assemblato per ognuno in maniera strettamente personale, corrispondente a ciò che in letteratura viene chiamato omofobia interiorizzata, costituisce invece la nota comune di situazioni assai diverse tra loro e che si snodano da una relativa sanità, a gradi sempre più accentuati di patologia. Il termine omofobia è stato coniato da Weinberg (1972) allo scopo di definire il timore e l’odio irrazionali che gli eterosessuali provano nei confronti degli omosessuali (omofobia esterna) e l’atteggiamento di disprezzo che gli omosessuali provano nei confronti di se stessi (omofobia interiorizzata). Come sottolinea Lingiardi (2006, pg 41), Weinberg “sembra considerare l’omofobia alla stregua di un disturbo psichiatrico, e la prospettiva che emerge dai suoi scritti mostra ingegnosamente come un teorico del XX secolo sia in grado di costruire a tavolino una sindrome clinica chiamata ‘omofobia’ esattamente come i teorici del XIX secolo avevano costruito una malattia chiamata omosessualità.” Tale inversione di prospettiva suggerisce un cambiamento importante sia dal punto di vista teorico che clinico: non è più il disturbo chiamato omosessualità al centro dell’attenzione, ma la fobia di essa. E’ soprattutto negli scritti di alcuni psicoanalisti nordamericani che troviamo un approfondimento di questo tema. Friedman & Downey (1995) richiamano l’attenzione sull’influsso dell’ambiente omofobo ed eterosessista nello strutturarsi di una cattiva valutazione di sé del bambino e dell’adolescente che diventerà omosessuale. Moss (2002) a partire da un testo letterario illustra nei dettagli la nascita dell’omofobia internalizzata e sostiene che “il più importante uso clinico di questo termine dipende dalla sua applicabilità ad ogni uomo, senza limitazioni per quelli la cui prima scelta d’oggetto è omosessuale”(pg 21). Rougthon (2000, citato da Moss) si contrappone a questo uso estensivo del termine omofobia internalizzata e propone di riservarlo soltanto a ciò che accade alle persone omosessuali perché “destinare lo stesso termine ai perpetratori reali dell’abuso sembrava banalizzare l’esperienza reale delle persone gay (...) Fa qualche differenza se uno è stato abusato di fatto o ha soltanto la fantasia di essere potenzialmente abusato”(pg 26). Che l’omofobia internalizzata sia un elemento traumatico specifico nelle persone gay e lesbiche ben si accorda con quanto osservato nei pazienti cui facevo riferimento. Moss aggiunge di voler limitare la sua attenzione all’omofobia internalizzata negli uomini perché è in loro che essa può generare “estremi ed insopportabili stati della mente – la disperazione suicida ed omicida, le private e pubbliche emergenze”(pg, 21). Non mi sentirei di sottoscrivere pienamente un’affermazione così netta. Sta di fatto, però, che le donne costituivano soltanto un terzo dei giovani considerati e la loro richiesta d’aiuto psicologico non era quasi mai principalmente legata al manifestarsi di una preferenza omosessuale, ma a disturbi psicologici d’altro tipo. L’attrazione per persone dello stesso sesso ed i problemi di coppia ad essa connessi erano materia di lavoro, ma l’impatto con questo tipo di contenuti non era vissuto con la stessa drammaticità che si registra nei coetanei maschi. Questo probabilmente grazie alla minore disapprovazione sociale nei confronti dell’omosessualità femminile. ). Le ragazze esaminate erano ben lontane dall’aver raggiunto un’importante posizione nella vita, tuttavia la loro preferenza sessuale diventava apertamente oggetto di biasimo quando il loro aspetto infrangeva in maniera più o meno marcata gli stereotipi del genere femminile. Le possibili radici dell’omofobia A questo punto vorrei richiamare alcuni elementi che, a mio giudizio, si condensano nello sviluppo dell’omofobia, solo per comodità espositiva descrivendoli separatamente. -Alcuni degli adolescenti presi in cura riferivano di essere stati oggetto di segnalazione ai servizi sociali, e di scherno da parte dei compagni perché non adeguati al ruolo di genere, fin dalla scuola materna. Erano bambini/e che si sentivano smarriti, diversi, isolati. Un ragazzo mi dirà: “Gli altri avevano capito, ero solo io che non sapevo”. Contribuiva a questa sensazione di spaesamento il doppio messaggio che il bambino riceveva: l’ambiente esterno rilevava la sua diversità, ma questa era oggetto di diniego da parte dei genitori, o delle figure che si occupavano più strettamente di lui. Con quali conseguenze sulla strutturazione di una parte così profonda ed embrionale di sé? Tutto ciò impone di considerare, accanto alla precocità della formazione dell’identità di genere nucleare - sono maschio, sono femmina (Stoller, 1968, 1985) – anche una precocità dell’influsso dei disturbi dell’identità di ruolo - sono maschio o femmina in modo socialmente adeguato, oppure no -, con le inevitabili ricadute a catena tra bambino, famiglia, ambiente, mondo interno, mondo esterno e formazione di precipitati identitari profondamente influenzati dall’insieme di tali pressioni. Porre il problema in questi termini rende dialettico il rapporto tra disturbi dell’identità personale e disturbi dell’identità di ruolo: un’esperienza d’incongruità e d’isolamento, seppure in quest’area circoscritta, si rovescia facilmente sulla tenuta e sulla coesione della più ampia identità personale. Essere ‘così’ nell’identità di ruolo, nel contesto sociale che c’è proprio, è facilmente un potenziale traumatismo che espone ad ulteriori traumatismi. ((-Un altro dei frammenti depositati nel vissuto omofobico può essere prodotto dagli esiti del trauma transgenerazionale nei gruppi e nel singolo. Il concetto di transgenerazionale (Kaës, Faimberg, Enriquez, Baranes, 1993) mette in discussione la psiche come unità monadica, e rimette in tensione il rapporto tra la dimensione interiore della realtà psichica e la sua produzione intersoggettiva. Della “Preistoria intersoggettiva” - tessuta dal gruppo in cui siamo nati – “l’inconscio ci avrà fatto contemporanei, ma noi ne diventeremo i pensatori solo per gli effetti dell’après coup” (Kaës, citato). Pensando all’omofobia esterna ↔ interna, nella nostra esperienza sono due i filoni di angosce transgenerazionali che dalla preistoria intersoggettiva sembrano in essa depositati. Uno concerne il vissuto della passività omosessuale maschile come minaccia all’identità, come un essere inermi che espone alla persecuzione ed all’annientamento. Mi è sembrato di cogliere un manifesto di questo atteggiamento nella dura costituzione dell’anno 390 d.C., in cui Valentiniano, Arcadio e Teodosio lamentano “che la città di Roma, madre di tutte le virtù, sia più a lungo macchiata dalla contaminazione dell’effeminatezza virile” e la perdita della “forza agreste, che discende dai fondatori, mollemente infranta dal popolo” (E. Cantarella, 1995, pg,226). Non mi è sembrato casuale che essa compaia nel bel mezzo dello sforzo imperiale di contenimento della pressione barbarica. Ma non è solo questo. Un padre, cui un figlio ha appena comunicato la propria omosessualità, risponde: “Ti prego, non dirlo a nessuno; altrimenti tutti i tuoi colleghi di lavoro scapperanno via”. Ma perché dovrebbero scappare? Non è forse leggibile in queste parole il terrore di un’infezione-seduzione contagiosa, da cui ci si difende facendo il vuoto intorno all’untore? Il secondo filone d’angosce rilevante nella mia esperienza è espresso da frasi ricorrenti come: “Ma se tutti fossero come me, il mondo finirebbe!”, oppure: “Ma io voglio avere una famiglia e dei bambini!”. Due genitori, a cui il figlio ha reso esplicita la propria omosessualità, mi riferiscono di essere entrati in un periodo di profonda depressione perché accecati nella fiducia che potesse avere un qualunque tipo di futuro. In Alexis M. Yourcenar fa dire al suo giovane protagonista: “Se l’amore di una donna è degno di un rispetto che l’altro amore non merita, è forse unicamente perché esso contiene l’avvenire”. Ciò porta ad ipotizzare, sottesa all’omofobia, anche l’angoscia per la natura non generativa della sessualità‘omo’. Ritornando all’autrice, colpisce che nel momento in cui parla di una sessualità, come la propria, che non dà avvenire, pone le basi per il proprio avvenire dando alla luce un opera che di essa tratta: davvero una potente sublimazione che sposta sul piano del simbolico la spinta alla creatività. Ma non per tutti è possibile o desiderabile questa via. Libri come quello di A. Cadoret (2002), espongono una ricerca sul campo concernente i vari modi in cui persone omosessuali cercano invece di realizzare concretamente il proprio desiderio di genitorialità e le numerose problematiche da ciò suscitate. Sembra dunque di poter cogliere nel transgenerazionale, come un potente filo rosso, un fantasma minaccioso: il fantasma di una seduzione che toglie forza al singolo, alla collettività, alla specie; la forza di affermarsi, difendersi, riprodursi, e per questa via potrebbe condurre il singolo, la collettività e la specie all’estinzione. Seguendo questo filo rosso è comprensibile la minore riprovazione sociale riguardo l’omosessualità femminile, quando la donna è consona al ruolo di genere: passiva, sensibile, recettiva. Così ponendosi, non minaccia ciò che caratterizza l’ordine identitario, e soprattutto smentisce di essere inadatta alla maternità.))inserire cap. omofobia -Tornando ai precipitati che compongono il vissuto omofobico, l’elemento intrapsichico che ha assunto ai miei occhi un valore discriminante è la qualità della scena fantasmatica a contenuto omosessuale. E’ dalle sue caratteristiche, dall’intreccio dei personaggi in gioco, dal tipo di emozioni presenti in essa, o dalla loro assenza, che può dipendere la gravità e la fissità del vissuto omofobico. L’insieme di questi elementi può rendere difficilmente integrabile la preferenza omosessuale, anche quando il desiderio verso persone dello stesso sesso è forte ed inequivocabile. Stefano, in analisi per un profondo disturbo d’identità che coinvolge anche la sfera sessuale, pur avendo sempre negato la propria omosessualità, così si esprime: “Quando incontro una coppia io guardo il ragazzo. Per la donna, nessun interesse”. Ma S. non guarda i ragazzi come possibili compagni. Attraverso internet si procura dei partner sempre diversi, ma consoni ad un canovaccio fisso. Ragazzi extracomunitari, bruni o di colore. Li immagina di strada, forti, capaci di cavarsela meglio di lui. Un fondo d’inadeguatezza e di frustrazione, temporaneamente anestetizzate da un potente desiderio sessuale e trasformate in voglia d’umiliazione, attivano la sua ricerca compulsiva. Gli incontri devono seguire un copione. S. recita costantemente la parte di un omosessuale passivo in un coito orale, attraverso il quale ha la concreta percezione di incorporare il pene e la forza dell’altro. Questa scena si svolge in un mondo parallelo: i giovani che incontra sono corpi senza storia. Qualunque richiamo ad una loro collocazione reale spegne l’eccitazione. Il gioco perde la sua funzione: fornire una sorta di completamento allucinatorio. Sembra di rileggere M. Khan (1979) quando sostiene che il pervertito pone un oggetto impersonale tra il proprio desiderio ed il proprio complice. Così facendo il pervertito finisce per essere alienato da se stesso, così come, ahimè dall’oggetto del suo desiderio. E ancora F. De Masi (1999), quando parla della tendenza a sviluppare “ritiri sessualizzati” in bambini che hanno vissuto situazioni di carenza, e così tendono illusoriamente a colmarle. Quando tutto finisce S. rientra nella quotidianità e l’esperienza della passività, prima attivamente perseguita, viene rivissuta come una forma di annientamento che non gli ha dato nulla, anzi l’ha impoverito. Di qui il rifiuto in blocco per quel sé stesso, per il mondo omosessuale, fatto coincidere con un insieme di pervertiti dediti a giochi avvilenti e pericolosi. Il muro dell’omofobia sembra proteggerlo dal precipitare in una dimensione talmente destabilizzante da farlo sconfinare a volte nello scompenso psicosomatico. Marco ha chiesto un aiuto psicologico quando, intorno ai vent’anni, gli era diventato inevitabile prendere in considerazione la propria omosessualità. Un profondo rifiuto di sé stesso, la convinzione che quanto faceva poteva non avere nessun valore se lui era gay, lo sforzo di comprendere meglio i suoi tentativi di legame in campo eterosessuale, sono stati oggetto di molti mesi di lavoro. Dopo il suo primo incontro con un ragazzo, fortemente cercato per mettere alla prova quanto sentiva, e agito in un clima di aperta rottura con i genitori, riferendomi della positività di quest’esperienza, paragona il partner ad un cavallo che aveva strigliato ed accudito in maniera attenta e prolungata. Tra loro si era creata un’intesa speciale. L’animale, quando da lui cavalcato, rispondeva alla sua stimolazione con altrettanta sollecitudine, affetto, puntualità. Con M. il contenimento dell’omofobia è stato meno drammatico che in altri casi, ed in un paio d’anni il giovane ha iniziato una relazione di coppia con un coetaneo, che continua tuttora. Ritengo che questo sia stato possibile perché la scena fantasmatica, sottesa alla sua omosessualità, evidenzia elementi di una simbiosi vitale. L’omofobia ed il controtransfert Per concludere mi sembra importante considerare il nodo dell’omofobia tra paziente e terapeuta, ed il contributo della relazione terapeutica alla sua elaborazione. Si raccomanda continuamente, ma anche un po’ genericamente, che il terapeuta abbia elaborato la propria omofobia internalizzata. Questo processo chiama in causa diversi fattori, alcuni di carattere personale, altri di natura professionale, che s’influenzano vicendevolmente e solo per comodità espositiva sono separabili. Possiamo articolare i fattori personali in diverse questioni: qual è la posizione del terapeuta circa la propria identità sessuale? Quanta soddisfazione può essergli derivata e continua a derivargli dalla sua vita affettiva e sessuale? Con quali nodi sente di avere fatto e di dovere continuare a fare i conti, e di potere o non potere fare i conti? Penso che questi interrogativi abbiano un peso diverso a seconda della fase della vita che il curante sta attraversando. Considerando i due estremi, se il terapeuta è una persona ancora giovane, com’è facile per il personale dei servizi pubblici o del privato sociale, il versante personale di queste domande può, entro una certa misura, sovrapporsi al problema dei pazienti. Per questi ultimi, il percorso identitario può essere più lungo, frammentato e drammatico di quello dei coetanei eterosessuali, e perciò è necessario che lo spazio per un’elaborazione abbia la possibilità di strutturarsi e mantenersi per un tempo sufficiente. Proprio a causa della contiguità anagrafica, tuttavia, può essere più difficile per il giovane terapeuta rimanere a lungo, e con un maggiore coinvolgimento personale, in presenza di vissuti concernenti la propria passività/attività, o dell’angoscia di non avere discendenza, o dell’angoscia di non volerne avere, senza che queste tensioni vengano rapidamente scaricate in un rifiuto omofobo, o in un’omofilia di superficie. Tali movimenti difensivi possono rispecchiare un’oscillazione analoga nel paziente. Ho avuto modo d’osservare che la collusione con l’uno o l’altro di questi atteggiamenti spesso è foriera di sospensioni dei trattamenti, e a volte di vere e proprie interruzioni. Questo perché, se è traumatizzante per il paziente percepire il rifiuto di un aspetto così importante di sé, non è accogliente qualcuno che non sappia ospitare le altre variabili del suo mondo interno. C’è bisogno di vedere accettata la propria omosessualità, ma anche le ragioni del proprio rifiuto nei confronti di essa. Per un terapeuta vicino all’età dei genitori del paziente possono acquistare peso altri elementi. Si è in un periodo della vita in cui capita di fare i conti con il limite di ciò che si è fatto, a volte a causa di problemi non risolti nell’area della sessualità, con paternità o maternità avute o mancate, soddisfacenti o dolorose, reali o frutto di sublimazione. Con un ancora possibile, ma non più con un tutto possibile. Problemi di lutto accompagnano tutta la vita, ma in alcune età - l’adolescenza, la tarda maturità - ed in particolari circostanze, esse hanno un peso maggiore ed una declinazione specifica. Quale scenario può animarsi dall’incontro tra un giovane o una giovane che l’orientamento sessuale minaccia di non avere figli, la forma più comune d’avvenire, ed un adulto cui il tempo impone un limite, e non solo alla capacità biologica di generare? In un punto questi due interlocutori potrebbero convergere: nel bisogno di realizzare tutto ciò che possa acquistare ai loro occhi il valore di cosa viva, vera, degna d’investimento – una sorta di filiazione riparativa o sublimata. Per questi pazienti una rinnovata considerazione di se stessi, del proprio orientamento sessuale e della capacità di costruire legami affettivi può sortire l’effetto di una rinascita. Per il versante ‘professionale’ del controtransfert, pensiamo in particolare al retroterra culturale del terapeuta. Con quale modello teorico-clinico, ufficiale o ufficioso, si avvicina alla comprensione di questi giovani? L’omosessualità è per lui natura o cultura? Variante possibile dello sviluppo sessuale, o di per sé patologica? A questa seconda ipotesi il pensiero psicoanalitico ha profondamente ed a lungo contribuito partendo da Freud (1905), che vedeva nel raggiungimento dell’eterosessualità il completamento dello sviluppo psicosessuale. Freud, tuttavia, mantiene un’area di dubbio circa la scelta misteriosa dell’oggetto d’amore: “Nel senso della psicoanalisi, anche l’interesse esclusivo dell’uomo per la donna è un problema che ha bisogno di essere chiarito e niente affatto una cosa ovvia” (1905, pag. 460, nota). Non altrettanto hanno fatto importanti autori dopo di lui (Ferenczi, 1911; Rosenfeld, 1949). Un gruppo di psicoanalisti americani degli anni ’60 (Bieber, 1965; Oversey, 1969; Socarides, 1968; Hatterer, 1970) arrivano a sostenere con particolare veemenza che l’omosessualità sia una patologia da trattare e trattabile con un approccio direttivosuggestivo, nel senso di un attivo influenzamento verso il cambiamento della condotta omosessuale in eterosessuale. Bisogna arrivare alla fine degli anni ’70 perché s’introducano, gradualmente, prospettive più rispettose, aperte e che fondano il dilemma sanità- patologia su parametri diversi. A questo proposito mi sembra importante citare il punto di vista di Bion che in Memoria del futuro(1975) così si esprime: BION:“l’amore reale non è funzione della cosa amata, ma della persona che ama. E’ parte della maturazione psichica o mentale e non è ostacolato dalle caratteristiche accidentali della persona o della cosa amata”. ME STESSO:” Tra queste caratteristiche che tu chiami ‘accidentali’ includi quindi ciò che noi chiamiamo il sesso della persona? BION: Certamente....(pag.182)”. L’autore, nella forma del dialogo che caratterizza questo scritto, si colloca su una posizione diametralmente opposta rispetto agli autori degli anni ’60, precedentemente citati. Svincola infatti l’amore reale dal raggiungimento della preferenza eterosessuale e lo pone in rapporto con la maturazione psichica, cioè con gradi progressivi di salute mentale. Vale la pena di ricordare anche la posizione di J. McDougall (1986) che a proposito del dilemma sanità-malattia sottolinea che la domanda da porsi è quando atti o preferenze diverse dalla norma devono essere considerati una versione della sessualità adulta o formazione sintomatica da indagare. Una domanda che l’autrice consiglia d’estendere sia alle eterosessualità che alle omosessualità. Collocandosi sulla linea del dibattito amore oggettuale-narcisismo, eterosessualità-omosessualità, Kohut(1987) ritiene che non sia possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra questi due poli ed evidenzia come ci possono essere relazioni eterosessuali fortemente narcisistiche e relazioni omosessuali in cui c’è amore pur nel reciproco riconoscimento della diversità. Ciò può essere determinato, secondo l’autore, dalle capacità empatiche reciproche dei singoli partner e non dalla loro diversità di genere. Tuttavia le difficoltà ad un contenimento dell’omofobia nel controtransfert non sembrano finite e possono ripresentarsi sotto forme diverse adeguandosi ai cambiamenti del clima culturale delle società psicoanalitiche dei diversi paesi. Blechner(1993), un autore nordamericano, fa notare che negli anni ’90 gli omosessuali che entrano in trattamento per modificare il loro orientamento sessuale sono molto diminuiti negli U.S.A. grazie al fatto che il movimento di liberazione gay e lesbico li ha aiutati a sentirsi soddisfatti del proprio orientamento sessuale. Tuttavia per gli incerti che chiedono un trattamento, la raccomandazione agli analisti, contenuta nel lavoro fondamentale di Mitchell (1981) di non abbandonare la posizione analitica tradizionale di neutralità, scoraggiando attivamente il comportamento omosessuale e incoraggiando invece quello eterosessuale, posizione quest’ultima messa in atto soprattutto da un gruppo di analisti appartenenti al già citato approccio direttivo-suggestivo, può essere disattesa. Secondo Blechner, in maniera diversa e persino più “perniciosa”, di quanto veniva fatto in precedenza. Più perniciosa perché “i pazienti gay e lesbiche degli anni passati dovevano sopportare un’umiliazione e un’influenza indebita da parte dei loro analisti. Ma quelli dei nostri giorni, in aggiunta devono sopportare l’elemento di doppio legame implicito in queste esperienze, mascherate da affermazioni di neutralità. In molti casi, gli analisti sembrano essere del tutto inconsapevoli dei loro pregiudizi, e i loro colleghi che magari condividono questi stessi pregiudizi, leggendo i loro resoconti clinici possono non riuscire a percepire a loro volta le grossolane deviazioni rispetto alla neutralità che un tale approccio comporta.” (pg.118) Già nell’1989, Isay, forse anche per combattere queste difficoltà nell’area del controtansfert, sostiene che “da un punto di vista clinico, è utile considerare l’orientamento sessuale come fattore costituzionale. Siccome gli sforzi di cambiare il comportamento omosessuale in eterosessuale sono dannosi all’autostima dei gay, e gli sforzi di cambiare il nucleo della sessualità sembrano essere inutili, percepire la sessualità come costituzionale consente al terapeuta di comprendere e di trattare l’orientamento omosessuale con la stessa neutralità con cui si tratta l’eterosessualità” (pg 20). Non concordo con questo suggerimento perché si basa su una forzatura, anche se dettata dalle migliori intenzioni: tenere a freno tentazioni omofobe e salvaguardare il rispetto dell’orientamento sessuale del paziente. Non concordo per due ordini di ragioni. La prima è che il controtransfert è una cosa spontanea, che dipende dall’inconscio del terapeuta. Si può conoscerlo ed elaborarlo, ma non forzarlo. Il secondo ordine di motivi è che non è appurato l’aspetto costituzionale dell’omosessualità. Le due più famose ricerche in tal senso, quella anatomopatologica di LeVay (1991) e quella genetica di Hamer & C. (1993) non sono affatto conclusive (Byne & Parsons, 1993; Horton, 1996). E’ un artefatto considerare l’omosessualità costituzionale, così come è stato un “artefatto storico” (Mitchell, 1978) l’ipotesi strettamente psicogenetica della sua origine. Il mistero resta e va conservato come tale. Altrettanto importante è l’apertura sull’omosessualità come forma possibile d’amore che in quanto tale va indagata, ma anche assistita nel suo sviluppo. La spina dell’omofobia è infatti profonda, ha profonde ragioni, a volte buone ragioni. In ogni caso, esse meritano di essere pazientemente ascoltate ed elaborate. Solo così può prodursi all’interno della relazione terapeutica una dimensione creativa, che pone, soprattutto il giovane omosessuale, al riparo dell’assunzione d’identità outsider (Lingiardi 1996), prima ancora di avere imparato a definire la natura della propria differenza. E’ questa dimensione creativa che ci auguriamo possa essere esportata nei rapporti della sua vita. BIBLIOGRAFIA. BALDWIN J. (1956) La stanza di Giovanni. Firenze, Le Lettere, 2001. BIEBER I. (1965) Clinical Aspects of Male Homosexuality. In J. MARMOR (a cura di) The Multiple Roots of Homosexuality,New York, Basic Books. BION W. R. (1975) Memoria del futuro. Il sogno. Milano, Cortina, 1993). 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Tuttavia per gli incerti che chiedono un trattamento, la raccomandazione agli analisti, contenuta nel lavoro fondamentale di Mitchell (1981): non abbandonare “la posizione analitica tradizionale di neutralità, scoraggiando attivamente il comportamento omosessuale e incoraggiando invece quello eterosessuale,( posizione quest’ultima messa in atto soprattutto da un gruppo di analisti appartenenti all’approccio direttivo-suggestivo Ovesey,1969;Hatterer,1970;Bieber;1965;Socarides,1969) può essere disattesa. Secondo Blechner, in maniera diversa e persino più “perniciosa”, di quanto veniva fatto in precedenza. Più perniciosa perché “i pazienti gay e lesbiche degli anni passati, infatti, dovevano sopportare un’umiliazione e un’influenza indebita da parte dei loro analisti. Ma quelli dei nostri giorni, in aggiunta devono sopportare l’elemento di doppio legame implicito in queste esperienze, mascherate da affermazioni di neutralità. In molti casi, gli analisti sembrano essere del tutto inconsapevoli dei loro pregiudizi, e i loro colleghi che magari condividono questi stessi pregiudizi, leggendo i loro resoconti clinici possono non riuscire a percepire a loro volta le grossolane deviazioni rispetto alla neutralità che un tale approccio comporta.” Blechner si riferisce a un caso pubblicato da Trop e Stolorow(1992a) su Psychoanalytic Dialogues di un uomo bisessuale e che era approdato dopo il trattamento psicoanalitico all’eterosessualità. Questo sviluppo è considerato un successo sia dagli autori che da Mitchell e Richards (1992) che pubblicano un commento ad esso sulla stessa rivista. L’autore evidenzia i seguenti elementi critici nella conduzione e nella discussione di casi come questo. Quasi mai la possibilità di evoluzione del paziente verso la capacità di stringere legami omosessuali e le relative angosce e difese in questa direzione è tenuta nello stesso conto della possibilità di evolvere in senso eterosessuale. (Quest’ultima soluzione è preconsciamente sostenuta attraverso la diversità della risposta interpretativa dell’analista che tende perlopiù ad assegnare alla fantasia o alla condotta omosessuale il ruolo di risposta ad angoscie primitive, mentre vengono puntualmente segnalati gli ostacoli che impediscono la realizzazione di legami con persone dell’altro sesso.) Raramente la critica più o meno apertamente espressa nel materiale di questi pazienti rispetto all’omofobia dell’analista viene autenticamente raccolta e diviene oggetto di un riesame profondo del proprio controtransfert. Come in precedenza affermato una neutralità in buona fede è spesso subdolamente sopraffatta da un pregiudizio inconsapevole. Colpisce a questo proposito il fatto che un dei discussant del lavoro di Trop e Stolorow considerato da Blechner altrettanto poco neutrale è S.A. Micthell, autore di un saggio fondamentale del 1981: Trattamento psicoanalitico dell’omosessualità:alcune considerazioni tecniche in cui si oppone apertamente ai trattamenti direttivi-suggestivi in nome di un ritorno a uno dei fondamenti della tecnica analitica: la tanto agognata neutralità.)) Spedire Enrico. Dialogando con la letteratura In un lavoro di F. Morghenthaler (1975) mi sembrano rilevanti i seguenti punti. Innanzitutto l’autore introduce una sua visione dello sviluppo omosessuale facendo riferimento ad un considerazione di H. Hartmann(1954) che mi ha molto colpito: “Quello che appare “patologico” in una sezione trasversale dello sviluppo, dal punto di vista longitudinale può rappresentare la migliore soluzione possibile di un determinato conflitto infantile”. La miglior soluzione possibile e che quindi come tale va tenuta in considerazione. Il conflitto infantile a cui si riferisce è una vera e propria pietra miliare dello sviluppo riguarda, seguendo il pensiero precoci esperienze di separazione individuazione D.ssa Angela Gesuè Psichiatra, psicoanalista, Membro Ordinario della SPI e dell’IPA. Oltre alla mia attività privata come psicoanalista e psicoterapeuta sia di adulti che di adolescenti lavoro da più di trent’anni nel servizio pubblico, prima come psichiatra, attualmente come psicoterapeuta presso il Progetto A. dell’A.S.L. Mi2, un Centro che si occupa di psicoterapia, di formazione e di ricerca nel campo dell’adolescenza. Ha già tenuto presso il Centro Milanese di Psicoanalisi un ciclo di conferenze su Narcisismo e Patologia. E’ autrice in particolare dei seguenti lavori, alcuni dei quali pubblicati sulla Rivista di Psicoanalisi. (2005): Quale conclusione per l’analisi di una paziente grave e difficile? Appunti a margine. In G. Berti Ceroni (a cura di) Come cura la psicoanalisi? Franco Angeli Milano. - (1992): La cerimonia degli addii: una riflessione sulle analisi che si interrompono. Rivista di Psicoanalisi, 38, 3. - (1995): Il “muro di silenzio”, il “muro del corpo”. La mente dell’analista e alcune gravi impasse della comunicazione. Rivista di Psicoanalisi, 41, 3. - (1997): Psicoanalisi, psicoterapie. I primi colloqui e le proposte di trattamento. Rivista di Psicoanalisi, 43, 2. - (2006): Un futuro per Eurialo e Niso. Significati e sviluppi possibili delle omosessualità tra adolescenza ed età adulta. Relazione presentata al 7°Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza, “Tra adolescente e giovane adulto: percorsi ed esiti”, Milano, 2006.