La partizione del sensibile e le relazioni tra estetica e politica

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La partizione del sensibile e le relazioni tra estetica e politica
La partizione del sensibile e le relazioni tra estetica
e politica
di Jacques Rancière
È in uscita il 30 giugno per DeriveApprodi la prima traduzione
italiana dell'importante opera estetica di Jacques Rancière, La
divisione del sensibile. Estetica e politica. Qui pubblichiamo in
anteprima, per gentile concessione della casa editrice, il primo
capitolo.
1.
Della partizione del sensibile e delle sue relazioni tra estetica e
politica
Nel libro La Mésentente la politica viene interrogata a partire da ciò che lei chiama la
«partizione del sensibile». Un’espressione che a suo parere traduce il punto di congiunzione
necessario tra pratiche estetiche e pratichepolitiche?
Chiamo partizione (partage) del sensibile quel sistema di evidenze sensibili che rendono
contemporaneamente visibile l’esistenza di qualcosa di comune e le divisioni che, su tale
comune, definiscono dei posti e delle rispettive parti. Una partizione del sensibile fissa dunque
allo stesso tempo un comune condiviso e delle parti esclusive. Questa partizione delle parti e dei
posti si fonda su una ripartizione (partage) degli spazi, dei tempi e delle forme di attività che
determina il modo stesso in cui un comune si presta alla partecipazione e il modo in cui gli uni o
gli altri avranno parte a questa partizione. Il cittadino, scrive Aristotele, è colui che ha una parte
nel governo e nell’essere governato. Ma un’altra forma di ripartizione precede questo aver
parte: quella che determina chi potrà avere parte. L’animale parlante, scrive Aristotele, è un
animale politico. Lo schiavo, se anche comprende il linguaggio, non lo «possiede». Gli artigiani,
sostiene Platone, non possono occuparsi di affari comuni, perché non hanno il tempo per
dedicarsi ad altro che al loro lavoro; non possono essere altrove se non lì dove il loro lavoro li
aspetta. La partizione del sensibile rende visibile chi può avere parte al comune in funzione di ciò
che fa, del tempo e dello spazio nel quale la sua attività si esercita. Avere questa o quella
«occupazione» definisce così delle competenze o delle incompetenze in relazione al comune. Il
che definisce il fatto di essere o non essere visibile all’interno di uno spazio comune, di essere o
non essere dotato di un linguaggio comune, ecc. Alla base della politica c’è dunque
un’«estetica», che non ha niente a che vedere con quella «estetizzazione della politica»
dell'«epoca delle masse» di cui parla Walter Benjamin. Questa estetica non è da intendersi come
la cattura perversa della politica da parte di una volontà d’arte, da parte del pensiero del popolo
come opera d’arte. Se vi è un’analogia, è in senso kantiano – eventualmente rivisitato da
Foucault –, in quanto sistema delle forme a priori che determinano ciò che è dato da percepire. È
una suddivisione dei tempi e degli spazi, del visibile e dell’invisibile, della parola e del semplice
rumore a definire contemporaneamente il luogo e la posta in gioco della politica in quanto forma
di esperienza. La politica ha per oggetto ciò che può essere visto o ciò che può essere detto, chi
abbia la competenza per vedere e la qualità per dire; la politica ha per oggetto la proprietà degli
spazi e i possibili del tempo.
È a partire da questa estetica originaria che è possibile porre la questione delle «pratiche
estetiche»nel senso in cui le intendiamo, ovvero come forme di visibilità delle pratiche artistiche,
del luogo che occupano e di ciò che «fanno» in relazione al comune. Le pratiche artistiche sono
«dei modi di fare» che partecipano della distribuzione generale dei modi di fare, in relazione ai
modi di essere e alle forme di visibilità. Prima ancora di fondarsi sul contenuto immorale delle
favole, la messa al bando di Platone nei confronti dei poeti si fonda sull’impossibilità di fare due
cose contemporaneamente. La questione della finzione è anzitutto una questione di distribuzione
degli spazi. Dal punto di vista platonico, la scena teatrale, contemporaneamente luogo di
un’attività
pubblica e luogo di esibizione dei «fantasmi», confonde la ripartizione delle identità, delle attività
e degli spazi. Lo stesso è per la scrittura: finendo per rotolare a destra e a manca, senza sapere
a chi si possa o non si possa parlare, la scrittura demolisce il legittimo fondamento della
circolazione della parola, del rapporto tra gli effetti della parola e le posizioni dei corpi nello
spazio comune. Per questo Platone identifica due grandi modelli, due grandi forme di esistenza e
di effettività sensibile della parola, il teatro e la scrittura, che costituiranno anche le forme di
strutturazione dei regimi delle arti in generale. Le quali si riveleranno da subito compromesse
con un dato regime della politica, con un regime di indeterminazione delle identità, di
delegittimazione delle posizione di parola, di deregolamentazione delle divisioni dello spazio e del
tempo. Questo regime estetico della politica è quello della democrazia: il regime dell’assemblea
degli artigiani, delle leggi scritte e dell’istituzione teatrale. Al teatro e alla scrittura, Platone
oppone una terza forma, una buona forma dell’arte, la forma coreografica della comunità che
canta e danza la propria unità. In sostanza, Platone identifica tre modi attraverso i quali delle
pratiche della parola e del corpo propongono delle figure di comunità. C’è la superficie dei segni
muti: superficie di segni che sono, afferma, come delle pitture. E c’è lo spazio del movimento dei
corpi che a sua volta si divide in due modelli antitetici. Da un lato, c’è il movimento dei
simulacri della scena, che si offre all’identificazione del pubblico. Dall’altro, c’è il movimento
autentico, lo specifico movimento dei corpi comunitari.
La superficie dei segni «dipinti», lo sdoppiamento del teatro, il ritmo del coro danzante: siamo
alle prese con tre forme di partizione del sensibile che strutturano il modo in cui le arti possono
essere percepite e pensate in quanto arti e in quanto forme di iscrizione del senso della
comunità. Tali forme definiscono il modo in cui delle opere o delle performance «fanno politica»,
a prescindere dalle intenzioni che le hanno animate, dalle modalità di inserimento sociale degli
artisti o dal modo con cui le forme artistiche riflettono strutture o movimenti sociali. Al momento
della loro pubblicazione, Madame Bovary e L’educazione sentimentale sono immediatamente
percepiti come «la democrazia nella letteratura», nonostante la postura aristocratica e il
conformismo politico di Flaubert. Il suo stesso rifiuto di affidare alla letteratura un qualunque
messaggio è ritenuto testimonianza dell’uguaglianza democratica.
È democratico, dicono i suoi avversari, per la scelta di rappresentare anziché istruire. Questa
uguaglianza di indifferenza è la conseguenza di una scelta poetica: l’uguaglianza di tutti i
soggetti, che è la negazione di qualunque rapporto di necessità tra una forma e un contenuto
determinati. Ma cos’è in definitiva questa indifferenza? Se non l’uguaglianza stessa di tutto quel
che accade su una pagina di scrittura, disponibile allo sguardo di tutti? Questa uguaglianza
demolisce qualunque gerarchia della rappresentazione e istituisce in questo modo la comunità dei
lettori come comunità senza legittimità, una comunità disegnata unicamente dalla circolazione
aleatoria delle lettere.
Vi è allora una politicità sensibile che fin dall’inizio è attribuita alle grandi forme di ripartizione
estetica come il teatro, la pagina o il coro. Queste «politiche» seguono una loro specifica logica
e offrono i loro servizi a epoche e in contesti molto differenti. Pensiamo al modo in cui questi
paradigmi hanno funzionato all’interno del binomio arte/politica alla fine del XIX secolo e agli
inizi del XX. Pensiamo ad esempio al ruolo assunto dal paradigma della pagina nelle sue differenti
forme, che vanno ben oltre la materialità del foglio scritto: la democrazia del romanzo, ovvero la
democrazia indifferente della scrittura come è simbolizzata dal romanzo e dal suo pubblico. Ma
c’è anche la cultura tipografica e iconografica, quell’intreccio tra i poteri della lettera e
dell’immagine che ha avuto un ruolo così importante nel Rinascimento e che le vignette, i culsde-lampe e le diverse innovazioni della tipografia romantica fanno rivivere. Si tratta di un
modello che confonde le regole di corrispondenza a distanza tra dicibile e visibile, proprie della
logica rappresentativa. Confonde anche la divisione tra opere dell’arte pura e decorazioni
dell’arte applicata; ecco perché ha svolto un ruolo così importante – e in genere sottostimato–
nel rovesciamento del paradigma rappresentativo e delle sue implicazioni politiche. Mi riferisco in
particolare al suo ruolo nel movimento Arts and Craft e nelle sue derivazioni (Art Déco,
Bauhaus, costruttivismo), dove si è definita un’idea dell’arredo – in senso lato – della nuova
comunità, cha ha inoltre ispirato una nuova idea di superficie pittorica in quanto superficie di
scrittura comune.
Il discorso modernista presenta la rivoluzione pittorica astrattista come la scoperta da parte
della pittura del proprio «medium»: la superficie bidimensionale. La revoca dell’illusione
prospettivista della terza dimensione restituirebbe alla pittura la padronanza della sua stessa
superficie. Ma, per l’appunto, questa superficie non ha niente di specifico. Una «superficie» non
è semplicemente una composizione geometrica di linee. È una forma di divisione del sensibile.
Scrittura e pittura sono per Platone delle superfici equivalenti di segni muti, sprovviste
dell’afflato che anima e trasporta la parola viva. Il piano, in questa logica, non si oppone a alla
profondità, ossia al tridimensionale. Si oppone al «vivente». È all’atto di parola «vivo», portato
dal locutore verso il destinatario adeguato, che si oppone la superficie muta dei segni dipinti. E
l’adozione stessa da parte della pittura della terza dimensione è stata una risposta a questa
divisione. La riproduzione della profondità ottica, la si è ricondotta al privilegio della storia.
Durante il Rinascimento, è stata parte della valorizzazione della pittura, dell’affermazione della
sua capacità di cogliere un atto di parola vivente, il momento decisivo di un’azione e di una
significazione. La poetica classica della rappresentazione ha voluto, contro lo svilimento
platonico della mimesis, dotare di vita il «piatto» della parola o del «quadro», dotarlo di una
profondità specifica, come manifestazione di un’azione, espressione di un’interiorità o
trasmissione di una significazione. Tra parola e pittura, tra dicibile e visibile, ha instaurato un
rapporto di corrispondenza a distanza, fornendo all’«imitazione» uno spazio specifico.
Nella presunta distinzione tra bidimensionale e tridimensionale in quanto «proprietà» specifiche
di questa o quella arte è proprio questo rapporto a essere in questione. È dunque sulla superficie
piatta della pagina, nella variazione della funzione delle «immagini» della letteratura o nella
variazione del discorso dentro il quadro, ma anche negli intrecci tra tipografia, manifesto e arti
decorative, che si prepara in buona parte la «rivoluzione anti-rappresentativa » della pittura.
Questa pittura, maldestramente chiamata astratta e che si presume venga così ricondotta al suo
medium specifico, è in tutto e per tutto parte integrante della visione più generale di un uomo
nuovo, che abita nuovi edifici, che è circondato da oggetti diversi. La piattezza di questa pittura
è legata a quella della pagina, del manifesto o della tappezzeria. È quella di una interfaccia. La
sua «purezza» anti-rappresentativa si inscrive in un contesto nel quale si intrecciano arte pura e
arte applicata, che le conferisce immediatamente un significato politico. Non è la febbre
rivoluzionaria del quale è circondato a fare di Malevitch allo stesso tempo l’autore di Quadrato
nero su sfondo bianco e il cantore rivoluzionario delle «nuove forme di vita». E non è qualche
ideale teatrale dell’uomo nuovo a saldare la momentanea alleanza tra politici e artisti
rivoluzionari. È anzitutto nell’interfaccia che si viene a creare tra «supporti» differenti, nei
legami che si tessono tra il poema e la sua tipografia o la sua illustrazione, tra il teatro e i suoi
decoratori o i disegnatori dei suoi manifesti, tra l’oggetto decorativo e il poema, che può
prendere forma la «novità» che mette in relazione l’artista, che abolisce la figurazione, e il
rivoluzionario, che inventa la nuova vita. Questa interfaccia è politica, nella misura in cui essa
revoca la duplice politica connessa alla logica rappresentativa. Logica che da un lato separava il
mondo delle imitazioni artistiche e il mondo degli interessi vitali e delle grandezze sociopolitiche. Dall’altro, fissava per analogia rispetto all’ordine socio-politico la propria
organizzazione gerarchica – nella fattispecie il primato della parola/azione viva sull’immagine
dipinta. Con il trionfo della pagina romanzesca nei confronti della scena teatrale, con l’intreccio
egualitario delle immagini e dei segni sulla superficie pittorica o tipografica, con la promozione
dell’arte degli artigiani al livello della grande arte e la nuova pretesa di mettere dell’arte nel
decoro di ogni vita, con tutto questo è l’ordinata ripartizione dell’esperienza del sensibile a
essere stravolta.
È così che il «piatto» della superficie dei segni dipinti, quella forma di partizione ugualitaria del
sensibile stigmatizzata da Platone, emerge contemporaneamente come principio di rivoluzione
«formale» dell’arte e come principio di ri-suddivisione politica dell’esperienza comune. Si
potrebbe riflettere allo stesso modo anche sulle altre grandi forme, quella del coro e del teatro di
cui parlavo e su altre. Una storia estetica della politica, intesa in questo senso, deve tenere
conto del modo in cui tali grandi forme si contrappongono o si mescolano. Penso ad esempio al
modo in cui il paradigma della superficie dei segni/forme si oppone o si mescola al paradigma
teatrale della presenza, e alle diverse forme che questo paradigma ha assunto a sua volta, dalla
figurazione simbolista della leggenda collettiva al coro in atto dell’umanità nuova. È qui che la
politica diventa posta in gioco: come rapporto della scena con la sala, come significazione del
corpo dell’attore, come giochi della prossimità o della distanza. Le prose critiche di Mallarmé
mettono esemplarmente in scena il gioco dei rimandi, delle opposizioni o delle assimilazioni tra
queste forme, dall’intimo teatro della pagina alla coreografia calligrafica fino al nuovo «ufficio»
del concerto.
Da un lato, dunque, queste forme appaiono portatrici di figure della comunità sempre uguali a se
stesse, ma in contesti molto differenti. Dall’altro queste figure possono essere ricondotte a
paradigmi politici contraddittori. Prendiamo l’esempio della scena tragica. Per Platone, la scena
tragica è portatrice della sindrome democratica e contemporaneamente della potenza
dell’illusione. Isolando la mimesis nel suo spazio specifico e circoscrivendo la tragedia in una
logica dei generi, Aristotele ne ridefinisce, per quanto non sia questo il suo intento, la politicità.
E, all’interno del sistema classico della rappresentazione, la scena tragica sarà la scena di
visibilità di un mondo ordinato, governato della gerarchia dei soggetti e dall’adattamento delle
situazioni e dei modi di parlare a questa gerarchia. Il paradigma democratico si trasforma in
paradigma monarchico. Pensiamo anche alla storia lunga e contraddittoria della retorica e al
modello del «buon oratore». Per tutta l’età monarchica l’eloquenza democratica demostenica ha
significato un’eccellenza della parola, considerata a sua volta come l’attributo immaginario del
potere supremo, ma disponibile al recupero della sua funzione democratica quando presta le
proprie forme canonizzate e le proprie immagini consacrate alla trasgressiva comparsa sulla
scena pubblica di parlanti non autorizzati. Oppure pensiamo ai destini contraddittori del modello
coreografico. Alcuni studi hanno ripercorso le metamorfosi della scrittura del movimento
elaborata da Rudolf Laban, nata nel contesto di una liberazione dei corpi e poi diventata il
modello delle grandi manifestazioni naziste, prima di ritrovare, nella sede contestataria dell’arte
performativa, una nuova verginità sovversiva. La lettura benjaminiana della fatale estetizzazione
della politica nell’«era delle masse» forse dimentica il vecchissimo legame tra l’unanimità
cittadina e l’esaltazione del libero movimento dei corpi. Nella polis ostile al teatro e alla legge
scritta, Platone raccomanda di cullare senza sosta i lattanti.
Parlo di queste tre forme per il loro riferimento concettuale a Platone e per la loro costanza
storica. Ovviamente, non esauriscono l’insieme dei modi attraverso i quali delle figure di
comunità si trovano a essere esteticamente costituite. L’importante è cogliere che è a questo
livello, quello della divisione sensibile del comune della comunità, delle forme della sua visibilità e
della sua disposizione, che si pone la questione del rapporto tra estetica e politica. È a partire da
qui che possiamo pensare gli interventi politici degli artisti, dalle forme letterarie del
romanticismo di decifrazione della società fino alle modalità contemporanee della performance e
dell’installazione, passando per la poetica simbolista del sogno o la soppressione dadaista o
costruttivista dell’arte. Da qui è possibile rimettere in discussione le non poche storie
immaginarie della «modernità» artistica e i vani dibattiti sull’autonomia dell’arte o la sua
subordinazione politica. Che sia alle imprese del dominio o a quelle dell’emancipazione le arti
offrono solo ciò che possono offrirgli, ossia, semplicemente, ciò che con esse hanno in comune:
delle posizioni e dei movimenti dei corpi, delle funzioni di parola, delle ripartizioni del visibile e
dell’invisibile.E l’autonomia della quale le arti possono godere o la portata sovversiva che
possono attribuirsi poggiano sulla medesima base.