Giuditta, gloria di Gerusalemme e vanto del suo popolo
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Giuditta, gloria di Gerusalemme e vanto del suo popolo
Capitolo 34 Giuditta, gloria di Gerusalemme e vanto del suo popolo 1. Storia e midrash Il libro di Giuditta è una parabola sapienziale, scritta da un autore che, in un tempo difficile della storia del suo popolo, ha saputo creare una narrazione ricca di ironia e di elementi umoristici. Un midrash simbolico pieno di inesattezze storiche, ma che è pure un condensato della migliore tradizione agiografica biblica e che si propone di ridare al popolo la forza della speranza e il coraggio di una visione più alta di quella offerta dalla nuda apparenza delle cose. Il racconto appare ambientato in un’epoca antica, quella di un «Nabucodonosor, re di Assiria a Ninive» (!), ed è possibile che alla sua base si trovino alcuni fatti storici, non identificabili da noi e forse appartenenti al tempo della dominazione persiana, che abbiano fornito qualche materiale narrativo alla composizione. La data di questa, però, sembra quella della rivolta maccabaica contro l’ellenizzazione forzata del paese, con cui Antioco IV (metà del II sec. a.C.) attentava agli elementi vitali dell’identità di Israele, alla sua fede nel Signore. Ci si sentiva deboli e impotenti, schiacciati da un potere oppressivo che giungeva ad attribuirsi prerogative divine e, in virtù della sua forza, agiva contro Israele e il suo Dio. Il popolo era tentato di non confidare più nel Signore, di non credere più nella sua «onnipotenza», di dimenticare che la forza non consiste nel numero dei carri e dei cavalli, ma nella debolezza di chi si arma del timore e della bellezza del Signore. Altri autori propongono per la composizione del libro l’epoca asmonea, tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C., forse tra il regno di Giovanni Ircano e quello di Alessandro Ianneo. E pensano a qualche relazione con la campagna di Giovanni Ircano per la giudaizzazione della Samaria. Colpisce nel libro la libertà con cui l’autore tratta i materiali della storia e della geografia. Alcuni nomi importanti non identificabili nella storia e nella geografia rivelano una connotazione simbolica: per esempio il nome della protagonista, Giuditta, in ebraico significa «la giudea». Ella è il tipo del popolo che si mantiene fedele1. Il nome della città di Betulia, non menzionata in altre fonti, di cui si dice che fosse localizzata in un luogo particolarmente strategico nella valle di Esdrelon, visto che l’accesso a essa immetteva nella Giudea e apriva la via di Gerusalemme (Gdt 4,67; 8,21.24), evoca il nome di Betel, «la casa di Dio». Una città ideale per una donna ideale. La pianura di Esdrelon è stata teatro di efferati conflitti nel corso della storia di Israele, al punto che il monte di Meghiddo diventerà il simbolo del combattimento escatologico (Armaghedon: Ap 16,16). Il libro di Giuditta richiede a chi lo accosta la capacità di leggere il presente della propria storia, sapendo nel contempo trascenderla. Per questo il suo autore non si preoccupa dell’esattezza dei particolari storici e geografici, mirando a insegnare a proiettarsi oltre il tempo e lo spazio nella realtà delle cose, così come sempre esse permangono nelle mani del Re, Creatore e Signore dell’universo (Gdt 16,13-17). 2. Lo scenario introduttivo Vi sono analogie tra il libro di Giuditta e quello di Ester, che nel canone cristiano segue il primo. In entrambi i casi la salvezza è conseguita grazie a una donna. Nel libro di Ester il re La scelta del nome lascia trasparire un’allusione al sentimento di rivolta nazionalistica propria dei Maccabei, che sostenevano con forza l’originalità giudaica in un tempo in cui essa era seriamente minacciata. 1 persiano ha l’intenzione di sterminare e annientare tutti i giudei in un solo giorno (Est 3,13), mentre lo scenario con cui si apre il libro di Giuditta è quello di un re, Nabucodonosor, che, folle di un delirio di onnipotenza, intende distruggere niente meno che tutti i popoli della terra (Gdt 1,12; 2,13). Ironia tragica; assurdità di un progetto, che richiama alla memoria eventi reali della storia mondiale recente. Nabucodonosor ha pretese divine. Egli non sopporta di essere considerato un uomo qualunque (Gdt 1,11) e promette di vendicarsi contro tutta la terra, per affermare su di essa la propria regalità e signoria (Gdt 2,5-12; 6,14). Il suo progetto, per quanto considerato in un primo momento assurdo e irrealizzabile, sembra riuscire. E l’esercito di Oloferne, generale supremo e luogotenente del re, avanza distruggendo, dispiegando una potenza terribile e invincibile. Il risultato è che i popoli sono atterriti (Gdt 2,28). In preda alla paura, essi sono incapaci di opporre resistenza e si arrendono impotenti al nemico, che accolgono con danze e suono di timpani. Come ipnotizzati e succubi di questo potere dilagante, che annienta e distrugge, non reagiscono neppure quando Oloferne devasta i loro templi, «perché aveva l’ordine di distruggere tutti gli dèi della terra, in modo che tutti i popoli adorassero solo Nabucodonosor e tutte le lingue e le tribù lo acclamassero come dio» (Gdt 3,8). L’esercito, dunque, si accampa nella valle di Esdrelon, in territorio israelitico, di fronte alle grandi montagne della Giudea. È il momento della sfida per Israele (Gdt 3,9-10). La pretesa divina di Nabucodonosor è demente e ridicola. Si tratta, però, di una menzogna capace di mettere effettivamente in pericolo il mondo. Se Nabucodonosor riuscisse nel suo intento di venire adorato e di essere acclamato re e signore di tutta la terra, la salvezza dei popoli sarebbe in pericolo. Ciò equivarrebbe al trionfo del male e della menzogna sul bene e sulla verità. Non si può rimanere spettatori impotenti di fronte a una minaccia simile. Qui interviene Israele, con la sua missione specifica. Da quanto faranno o non faranno i giudei dipenderà la salvezza o la rovina, non solamente di essi, ma di tutti i popoli della terra. Finché, sulla faccia della terra esiste un popolo che resiste e non si prostra ad adorare gli idoli c’è speranza che il mondo intero non si perda. Lo scenario del grande combattimento è evocato con la menzione della pianura di Esdrelon. Qui la sfida risuona con caratteri decisivi e con sfumature escatologiche e apocalittiche. Si è in un luogo strategico in cui gli eserciti che si affrontano o vincono o perdono. Chi vincerà ora e con quali armi? I lettori della Bibbia sanno che nella piana di Esdrelon (o Yizre‘e’l = Dio semina) il Signore ha seminato con abbondanza la sua parola. Quasi la metà degli eventi più importanti della vicenda di Israele si sono svolti in questi luoghi. 3. La reazione di Israele Di fronte al nemico, Israele, come tutti gli altri popoli, ha paura. Esso è preso «da indescrivibile terrore all’avanzarsi di Oloferne, il comandante supremo di Nabucodonosor» (Gdt 4,2). Gli israeliti sono terrorizzati dal timore per la loro vita, per Gerusalemme e per il tempio del Signore, tanto più che la vita religiosa del popolo è ripresa da poco, dopo il ritorno dall’esilio e la riconsacrazione del tempio profanato (Gdt 4,3). A differenza degli altri popoli, che si sono arresi immediatamente, però, Israele resiste. Per il popolo di Dio l’autodifesa si identifica con la difesa di interessi divini. Qui, colui che vuole attentare alla sua vita intende esplicitamente distruggere il suo Dio, alla cui presenza Israele vive e che è colui di cui solo può vivere. Non gli rimane che fare, da parte sua, quanto gli è possibile per difendersi: disporre postazioni sui monti più alti, fortificare le città e raccogliere le vettovaglie necessarie al sostentamento in caso di assedio. A Betulia, situata all’imbocco della pianura da cui si apre la via di ingresso alla Giudea, spetta il compito della difesa decisiva. 2 Poi, dopo aver disposto i preparativi materiali alla difesa, non resta a Israele se non di rivolgersi al suo Dio con il grido, la supplica insistente e il digiuno. Come il popolo è solidale nello stato di allarme generale, tanto più lo è nella preghiera che tutti rivolgono con insistenza, uomini, donne, bambini, cingendosi i fianchi di sacco, in segno di penitenza, insieme agli ospiti, ai mercenari e perfino agli animali (cf. Gn 3,78). Essi sanno che il Signore onnipotente è vivo e presente nel suo santuario di Gerusalemme, e il grido intenso e insistente di un popolo solidale viene ascoltato dal Signore, il quale vede la sua tribolazione (Gdt 4,13). Come già nei giorni dell’uscita dall’Egitto, il Signore non è insensibile al grido del suo popolo oppresso: ascolta, rivolge lo sguardo, si prende cura e salva (Es 2,23-25). Come l’esodo era stato un dramma doloroso, in cui il popolo aveva dovuto affrontare angosce mortali prima di intonare il canto della salvezza e della vittoria, così qui il popolo viene lasciato all’oscuro dell’esito della vicenda. La sofferenza che lo attende può indurlo a dubitare di Dio stesso. Il Signore è pronto a correre questo rischio. 4. La reazione del nemico. Achior Non appena viene a conoscenza dei preparativi guerreschi di Israele, Oloferne si adira e convoca i popoli alleati per avere da loro informazioni riguardo a questo popolo temerario che, a differenza di tutti gli altri, non si arrende di fronte alla sua potenza. Vuole sapere da dove esso attinga la forza, chi sia il loro re e il condottiero del loro esercito. Allora entra in scena Achior, capo degli ammoniti. Egli pronuncia un discorso in cui risponde punto per punto alle richieste di Oloferne. Per delineare la fisionomia del popolo d’Israele, prima di tutto ne rievoca la storia dalla chiamata di Abramo fino alla conquista di Canaan. Quindi rivela dove risieda la sua forza, enunciando un principio teologico che ritroveremo sulle labbra di Giuditta: la forza d’Israele sta nella fedeltà al suo Dio. Finché Israele non pecca contro Dio, è forte della forza stessa di Dio. Il peccato lo rende vulnerabile, sicché se in Israele oggi c’è qualche trasgressione alla legge del suo Dio, gli si dia pure battaglia. Come in passato è caduto nelle mani dei popoli che lo assediavano ed è stato deportato in esilio, ciò può ripetersi oggi, nel caso in cui Israele si sia macchiato di qualche colpa. Ciò significa che allora Oloferne risulterebbe vincitore contro Israele, non però contro il suo Dio. Se, invece, non c’è alcuna trasgressione in Israele, si passi oltre, perché il Signore in persona si farebbe loro scudo e i suoi nemici diverrebbero oggetto di scherno davanti a tutta la terra. Achior ha detto il vero (Gdt 5,5) ma, dopo che egli ha pronunciato il suo discorso, gli ufficiali di Oloferne e i popoli alleati, tra cui i moabiti, si accaniscono contro di lui, proponendo di ucciderlo. Egli ha detto il vero e Oloferne interpreta bene il suo intervento come profezia (Gdt 6,2). Eppure, è proprio questa verità quella a cui il superbo generale intende opporsi tenacemente. Non c’è altro dio se non Nabucodonosor. È lui il signore di tutta la terra e le sue parole non possono essere smentite. Il suo arsenale militare e la forza dei suoi cavalli basteranno a spazzare via il popolo eletto come un solo uomo. La potenza bellica è il distintivo di un dio. Nella mente dei conquistatori un dio che non arma efficacemente le mani dei suoi prodi non è in grado di salvarlo. Non si può fare a meno di notare l’ironia a cui l’autore del libro ricorre nel presentare il personaggio di Achior. Questi fa parte di uno dei popoli storicamente ostili a Israele. In un’evidente stilizzazione, tutti i nemici storici di Israele in questa vicenda si alleano con l’esercito di Oloferne, formando una coalizione con l’intento di distruggere Israele (Gdt 5,2). Achior è un comandante ammonita, che da un lato si è alleato con Oloferne, ma dall’altro, quando questi chiede informazioni su Israele, non può fare a meno di dire la verità circa il popolo di cui è nemico. Se quello che dice non fosse stato vero, non avrebbe potuto dirlo. Quella che concerne Israele è una verità che si impone e fa il suo corso indipendentemente dai 3 sentimenti umani. Certamente Achior sa che, dicendo la verità, mette in pericolo la propria vita e, di fatto, complottano per ucciderlo. Tuttavia non si può sottrarre dal dirla. Egli ci ricorda Raab, la prostituta di Gerico (Gs 2), e l’indovino pagano Balaam, l’uomo dall’occhio penetrante, che, convocato dal re di Moab per maledire Israele, non riesce a pronunciare sul suo conto se non parole di benedizione (Nm 22,22-24,25). Alla fine Oloferne decide di consegnare Achior nelle mani dei cittadini di Betulia perché condivida la loro sorte quando il suo esercito la distruggerà. Egli viene legato e condotto presso la città, dove è confortato e accolto con parole di lode per aver reso testimonianza alla potenza del Dio vivente che annienta i superbi. Ozia, figlio di Mica della tribù di Simeone, uno dei capi della città (Gdt 6,15), gli offrirà alloggio nella sua casa (Gdt 6,10-21). Achior è un personaggio importante del libro. Lo ritroveremo, a vicenda conclusa, quando Giuditta stessa, tornata vittoriosa, lo manderà a chiamare. Prima di lanciarsi all’assalto del campo nemico per annientarlo, è necessario immortalare la persona di questo uomo che da nemico e lontano è diventato amico e vicino del popolo eletto, al punto di giungere alla professione di fede esplicita nel suo Signore, facendosi circoncidere e venendo aggregato definitivamente alla casa di Israele (cf. Gdt 14,10). Colui che non si sottrae alla verità, e per essa si consegna alla morte, trova alloggio presso il popolo degli eletti che credono nel nome del Dio vivente. La superbia del nemico va annientata, perché la salvezza lo possa raggiungere, come ha raggiunto Achior. Egli è un ponte tra la cattiveria e la brutalità di Oloferne e la bontà e la bellezza di Giuditta. Alla fine, ella lo fa chiamare perché veda la potenza di Dio che distrugge i malvagi e innalza gli umili. È importante, perciò, introdurre il personaggio di Achior prima che i nemici si lancino all’attacco contro gli israeliti (Gdt 7). Benché appartenga a un popolo pagano e nemico di Israele, egli manifesta un coraggio che supera quello degli stessi israeliti, dal momento che l’affermazione della verità lo espone a un pericolo che non teme di correre fino in fondo. Achior non trema e non si abbatte. Invece, quando le schiere di Oloferne circondano la città di Betulia, il panico si impadronisce degli abitanti. Come in molte altre storie belliche della Bibbia, a partire da quella dell’esodo, nel testo viene fatta risaltare l’enorme sproporzione tra le forze del nemico, la sua moltitudine, la potenza dell’arsenale bellico, rispetto alla debolezza della piccola città assediata (Gdt 7,17.1720; cf 9,7). I nemici, specialmente quelli più vicini a Israele, come Edom, Moab, e quelli che abitano la costa, conoscono le strategie più efficaci da utilizzare. Basterà occupare la sorgente dell’acqua alle pendici del monte, su cui la città è posta per indurre alla resa gli abitanti stremati dalla sete. Gli israeliti in preda allo spavento elevano suppliche al Signore. Si vedono sbarrata la strada da ogni parte e non rimane loro che volgere lo sguardo verso l’alto per aprirsi lì un varco e sperare nell’aiuto del Signore. Ma l’aiuto sembra non venire. Uno a uno cominciano a cadere sfiniti dalla sete i bambini, le donne e i ragazzi. Il popolo al completo si raduna davanti ai capi per protestare contro di essi e contro Dio che li ha messi in balia dei nemici per farli morire. Come al tempo dell’esodo egiziano gli israeliti, braccati dai nemici e avendo davanti il mare, si erano ribellati contro Mosè e contro Dio, preferendo la schiavitù in Egitto alla libertà nel deserto (Es 14,10-14), così qui il popolo preferirebbe essere preda dei nemici e diventare loro schiavo, piuttosto che morire di fame e di sete. A differenza di quando Mosè aveva incoraggiato il popolo a non arrendersi e lo aveva condotto attraverso il mare della morte, qui i capi non si mostrano molto eroici. Invitano il popolo a resistere ancora per cinque giorni per dare a Dio ancora un po’ di tempo per rivolgersi a loro favore2. Poi, se non fosse giunto alcun aiuto, si sarebbero arresi. Il quadro alla fine del capitolo 7 è piuttosto scorag2 L’assedio della città continua già da trentaquattro giorni. Aggiungendone altri cinque, si giungerebbe a trentanove. Quaranta è il tempo completo, di Dio, oltre i quale non si può andare. 4 giante. In quel tempo nessuno degli uomini di Israele manifesta il coraggio dei grandi uomini del passato, come Mosè. Il pagano Achior è finora l’eroe più grande, visto che, a servizio della verità, ha rischiato la vita. Il popolo, al completo, è fiaccato dalla sfiducia e dall’abbattimento. I capi dubitano dell’onnipotenza di Dio, giungendo a porgli condizioni. Se Dio non ci aiuterà, ci dovremo aiutare da soli. Allora si fa avanti Giuditta. 5. Giuditta In assenza dei grandi uomini che hanno guidato il popolo nel passato, la situazione non è disperata. Essa è, prima di tutto, nelle mani del Signore, i cui pensieri sovrastano quelli umani e che sa ricorrere a mezzi inauditi per raggiungere i suoi fini. Accanto al saggio eroe pagano Achior, l’autore dipinge il personaggio di una eroina ebrea, Giuditta, mediante la quale il Signore opererà grandi cose. Ella è di fatto il personaggio più autorevole di Betulia. Ciò che ella è e fa la rende una figura pienamente rappresentativa del popolo giudaico fedele, che si conforma alla volontà del suo Dio (Giuditta = la donna giudea), per l’intelligenza e la saggezza con cui interpreta la gravità del contesto storico in cui interviene, per l’abilità con cui sa ricorrere a tutti i mezzi a sua disposizione per annientare il nemico, per la fiducia totale che ripone nel suo Dio, che ella lascia operare in sé senza opporre resistenza. Ella si rende uno strumento docile nelle sue mani, sicché la forza di cui sarà capace sarà quella stessa di Dio. Anche la bellezza fisica, che è una delle armi di cui si serve, è in lei un riflesso di quella del Signore. Il coraggio e la forza di cui è capace ha rari precedenti. Il suo gesto cruento, ma incredibile, considerata l’enorme sproporzione delle forze in gioco, ci ricorda quello di Giaele, un’altra eroina che, accanto alla profetessa e giudice Debora, aveva annientato un altro temibile nemico d’Israele. L’evento, di cui era stata protagonista Giaele, si era verificato in un luogo non molto distante da quello che vede protagonista Giuditta. Allora Giaele aveva ucciso il potente e superbo Sisara, luogotenente di Iabin, re di Chatzor, conficcandogli nella testa un chiodo, mentre egli dormiva (Gdc 4-5). Giuditta approfitterà del sonno di Oloferne per tagliargli la testa. Due gesti che, presi per se stessi, ci fanno inorridire, ma grazie a essi il popolo di Dio consegue la salvezza, e le due donne saranno benedette ed esaltate per tutte le generazioni (Gdc 5,24; Gdt 13,19-20; 14,7). L’autorevolezza di Giuditta, poi, è fatta risaltare sin dall’inizio del racconto, quando si fa precedere la sua entrata in scena da una genealogia che risale a Giacobbe. Ella è una giudea purosangue (Gdt 8,12). Ci si può domandare come mai una creatura abbia raggiunto un tale livello di sapienza. I discorsi che Giuditta pronuncia davanti ai capi e agli anziani della città sono esempi di rara saggezza. Ella vi interpreta la situazione presente alla luce di una profonda conoscenza spirituale. Si direbbe che il sentire di questa donna è affine a quello di Dio stesso. Quando parla, sa di dire la verità. Di qui deriva l’autorevolezza del suo dire. Dinanzi a lei i saggi sono costretti a confessare la propria confusione (Gdt 8,28-29). Qual è dunque il segreto di questa donna? Ella è rimasta vedova in giovane età. Da tre anni e mezzo suo marito, Manasse, è morto per un’insolazione, e da allora ella vive in stato di vedovanza; digiuna molto, tranne che nei giorni di festa, perché è una donna che teme molto Dio (Gdt 8,28). Come già Noemi e Rut, Giuditta è una vedova che il molto soffrire e l’incessante preghiera hanno reso saggia. Ella è una donna che è passata attraverso il dolore della perdita di ciò che aveva di più caro, e che nell’esperienza della morte ha saputo aprirsi al conforto esclusivo che le proveniva dall’abbraccio del Signore. Ella diviene, così, l’unica interprete autorevole di ciò che sta accadendo al suo popolo; conosce le cose per esperienza, per esserci personalmente passata, e sa che, quando si è visitati dalla sofferenza, si è tentati di 5 abbattersi, di pensare che Dio ci punisca per i nostri peccati (Gdt 7,28), e di ritenersi oggetto della sua ira. Allora, si cerca con le proprie mani di mettere in salvo il salvabile, perché viene meno la fiducia in Dio. Va ancora notato che Giuditta è «bella d’aspetto» (Gdt 8,7) e questo nel contesto biblico è sempre legato a un progetto particolare di YHWH, all’essere limpidi, trasparenti, disponibili, senza che parole di invidia e cattiveria trovino appiglio. Giuditta aiuta il popolo a fare un discernimento su tutto ciò, perché non si abbatta e resista al nemico, tanto più che Betulia è la porta di ingresso a tutto il paese e sui suoi abitanti ricade la responsabilità maggiore della difesa della patria. Sembra che Giuditta abbia assorbito fino all’ultima goccia l’esperienza di Giobbe. In bocca a lei si trovano le parole che il libro di Giobbe pone in bocca a Dio, perché Giobbe si ravveda: «Ascoltatemi bene, voi capi dei cittadini di Betulia. Non è stato affatto conveniente il discorso che oggi avete tenuto al popolo, aggiungendo il giuramento che avete pronunziato e interposto tra voi e Dio, di mettere la città in mano ai nostri nemici, se nel frattempo il Signore non vi avrà mandato aiuto. Chi siete voi dunque che avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini? Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non ci capirete niente, né ora né mai» (Gdt 8,11-13)3. Una creatura che ha lungamente sofferto e incessantemente pregato acquista una sorta di connaturalità con Dio, che la abilita a parlare le parole di lui. Ora Giuditta vuole che il popolo, attraverso la confusione e lo smarrimento che la debolezza e la sofferenza producono, riacquisti la capacità di vedere l’onnipotenza di Dio, per fidarsi di lui incondizionatamente, senza porre limiti alla sua potenza, senza ridurlo a una misura umana, in un cammino di conversione che si è verificato prima di tutto in lei. La tentazione che tutti debbono vincere, stretti come sono da una situazione apparentemente disperata, è quella di racchiudere Dio nelle proprie immagini, di limitarne i piani alla propria capacità di comprensione, presumendo di afferrarne i pensieri e i disegni imperscrutabili. Dio, però, «non è come un uomo che gli si possan fare minacce e pressioni come a uno degli uomini» (Gdt 8,16). Se gli uomini non sono capaci di scorgere il fondo del cuore dell’uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potranno essi scrutare il Signore? Se non vorrà aiutare i suoi fedeli in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderli nei giorni che vuole o anche di farli distruggere da parte dei loro nemici. L’arma del popolo di Dio, in queste condizioni, deve essere unicamente la preghiera e il restare in attesa fiduciosa del suo aiuto, pronti a tutto, anche nell’evenienza che Dio non ascolti il loro grido, se non gli piacerà ascoltarlo (Gdt 8,1417). Un pensiero che aiuterà a trovare forza sarà ringraziare il Signore che oggi mette il suo popolo alla prova, come ha fatto in passato con i padri, Abramo, Isacco, Giacobbe. Egli li ha fatti passare per il crogiuolo di molte prove per vagliarne il cuore e per correggerli per il loro bene (Gdt 8,25-27). Fede limpida e totale quella di Giuditta! I capi riescono solo a dirle: «Prega tu per noi che sei donna pia e il Signore invierà la pioggia» (8,31); sperano solo in un po’ di respiro, in un addolcimento della situazione, non sperano la salvezza. Giuditta, però, non si accontenta di proclamare la verità. A tal punto ella si fida del Signore, che è pronta a esporre il proprio corpo e a consegnare la propria vita in una impresa destinata a venire ricordata per sempre (Gdt 8,32-35). 3 Cf. Gb 38,2; 40,1-8; 42,3. 6 6. I preparativi, le armi, l’incontro e l’annientamento del nemico La preghiera riempie la vita di Giuditta e qui ci è dato di vedere, prima di lanciarsi contro il nemico, come si immerge in essa con tutta se stessa (cap. 9). Ella ricorda il suo patriarca Simeone, che era stato, insieme a Levi, il vendicatore dello stupro subìto dalla loro sorella Dina a opera di Sichem, il figlio di Camor. La strage dei sichemiti, da loro perpetrata, era stata biasimata dal loro padre Giacobbe (Gen 34; 49,5-7), ma qui essa riemerge riabilitata nella memoria di Giuditta. Simeone aveva vendicato l’onore della sorella vergine, violentata da uno straniero. Giuditta, figlia di Simeone, esporrà la sua castità di vedova integerrima per difendere la verginità d’Israele dalla brutalità di Oloferne, uno stupratore ben più nefasto del figlio di Camor. La storia di Giuditta è, in certo modo, una rilettura della storia di Dina (Gdt 9,24). Quella di Giuditta non è una preghiera individuale, isolata. Si svolge nell’ora in cui nel tempio di Gerusalemme veniva offerto l’incenso della sera, quindi in comunione con la preghiera del suo popolo. Da qui ella attinge la forza di cui sarà capace poco dopo. Affiorano alla memoria molti brani biblici di «guerre del Signore» (Sir 46,3), ove, di fronte all’ostentazione di potenza dei nemici superbi, che si vantano per il numero dei cavalli e dei cavalieri, Israele oppone la forza che gli proviene unicamente dall’aiuto del Signore. Una forza di cui è sicuro, proprio perché è debole e indifeso4. Si tratta di guerre in cui la vittoria è tanto più certa quanto più si è disarmati e in condizioni di estrema debolezza. Facendo memoria di tutto ciò, Giuditta, la quale ha coscienza di essere una povera creatura, si lancia in un’impresa più grande di lei, rischiando tutto, anche sfiorando il limite di una condotta trasgressiva, che ricorre alle armi dell’astuzia per ingannare il nemico. Colui che consegna la propria vita al Signore, e i cui interessi coincidono con quelli divini, si espone a ogni rischio, compreso un incontro ravvicinato con il male. L’unica certezza è che il Signore farà ciò che a lui piacerà, e di ciò si diviene strumenti liberi e docili. A Giuditta piace ciò che piace al suo Dio. Ella si prepara, indossando l’unica arma di cui il Signore la dota: la bellezza. Perfino i capi del suo popolo, quando la vedono apparire trasformata nell’aspetto e con gli abiti mutati (prima indossava gli abiti del lutto, propri delle vedove) rimangono abbagliati dalla sua bellezza (Gdt 10,7). Gli uomini di Betulia la inseguono con lo sguardo mentre ella scende il monte accompagnata dall’ancella, fino a che essi non possono più scorgerla (Gdt 10,10). Le sentinelle del campo nemico la catturano e la interrogano. Poi, valutando insieme le sue parole e la sua abbagliante bellezza, sono conquistati dal suo fascino e l’accolgono per proteggerla e condurla a Oloferne. Giuditta appare loro come un miracolo di bellezza (Gdt 10,14). Ella sembra un’apparizione divina, a cui non si può resistere (cf. Gdt 10,19.23). In realtà, ella ha già cominciato a ingannarli con la sua bellezza folgorante: il nemico è incline a credere a quanto dice, perché spera di poterla sedurre. Giuditta gioca con questi sentimenti ambigui per realizzare il suo piano. Il nemico, affascinato da lei, si è già indebolito ed ella continua a ingannarlo con le sue parole. Come l’aspetto, così le parole fanno trasparire piani diversi, di verità e di falsità. Esse sono questa volta un capolavoro di ironia, in cui si manifestano l’astuzia e l’intelligenza di questa donna che, oltre che per il suo fascino, sarà infine ammirata anche dagli stessi nemici per la sua saggezza: «Le parole di lei piacquero a Oloferne e ai suoi servi, i quali tutti ammirarono la sua sapienza e dissero: “Da un capo all’altro della terra non esiste donna simile, per la bellezza dell’aspetto e il senno della parola”» (Gdt 11,20-21). Giuditta riesce a strappare dalla bocca di Oloferne, luogotenente di colui che si riteneva un 4 Cf. Es 14-15; Gs 6; Gdc 4-5; 6-7;1Sam 16-17; Sal 20,79; 33,16-19; ecc. 7 dio e il re di tutta la terra, il riconoscimento di quanto Dio ha fatto mandando Giuditta, e la promessa che, se ella facesse quanto si propone di fare, il Dio di Israele diventerebbe il Dio di Oloferne! «E Oloferne le disse: “Bene ha fatto Dio a mandarti avanti al tuo popolo, perché resti nelle nostre mani la forza e coloro che hanno disprezzato il mio signore vadano in rovina. Tu sei bella d’aspetto e saggia nelle parole; se farai come hai detto, il tuo Dio sarà il mio Dio e tu siederai nel palazzo del re Nabucodònosor e sarai famosa in tutto il mondo”» (Gdt 11,22-23). Senza saperlo Oloferne entra nel gioco dell’ironia, che lo condurrà alla morte. Giuditta ha a disposizione pochi giorni per portare a termine la sua impresa. Si mantiene in stato di purità. Si nutre esclusivamente dei cibi che ha portato con sé, certa di non terminare le riserve prima che il Signore compia per mano sua quello che ha stabilito (Gdt 12,14). Ella chiede a Oloferne di permetterle di uscire per la preghiera dopo mezzanotte. Il nemico, già soggiogato da lei, glielo permette. Ella prega «il Signore Dio di Israele di dirigere la sua impresa volta a ristabilire i figli del suo popolo» (Gdt 12,8). La preghiera di Giuditta è autentica. Tutto quanto ella dice e compie, lo dice e lo compie con una coscienza pura, ma l’inganno entra nelle sue parole e nei suoi gesti, perché questo è l’unico modo per annientare un nemico, che è schiavo della menzogna di ritenersi il re incontrastato del mondo, il dio a cui sarebbe dovuta l’adorazione di tutti i popoli. Anche la preghiera che Giuditta eleva a Dio di notte, e da cui veramente attinge forza per la sua impresa, sarà messa a servizio del suo gioco. Le servirà come alibi per abbandonare la tenda di Oloferne nella notte fatidica in cui si farà giustiziera del terribile nemico (Gdt 13,3.10). «Ed ecco, al quarto giorno, Oloferne fece preparare un rinfresco riservato ai suoi servi, senza invitare a mensa alcuno dei suoi ufficiali, e disse a Bagoa, il funzionario incaricato di tutte le sue cose: “Va’ e invita quella donna ebrea che è presso di te a venire con noi, per mangiare e bere assieme a noi, poiché è cosa disonorevole alla nostra reputazione se lasceremo andare una donna simile senza godere della sua compagnia; se non sapremo conquistarla si farà beffe di noi”» (Gdt 12,10-12). È la circostanza attesa da Giuditta per condurre in porto la sua impresa. È giunto il momento per lei di dispiegare al massimo le armi della bellezza e della seduzione. Ella sa di incamminarsi su di un terreno estremamente trasgressivo e pericoloso per il rischio che corre di venir contaminata da un eventuale rapporto con quell’uomo. Giuditta brillava per la continenza della sua vita dal tempo della morte del marito e, dopo l’impresa che l’avrebbe resa famosa in tutta la terra, ella non cederà per il resto dei suoi giorni ai molti pretendenti invaghiti di lei (Gdt 16,22). Anche se il testo non ci fornisce alcuna indicazione sugli stati d’animo di questa donna coraggiosa - non ci dice per esempio se ella aveva paura - si può immaginare l’ansia che deve averla afferrata. Oltretutto, non è nemmeno sicura di trovare la forza fisica necessaria per il gesto tanto feroce che sta per compiere. Per questo, ella non cessa di pregare e quando Oloferne giace sul divano presso di lei, ubriaco fradicio, si esprime in questi termini: «“Signore, Dio d’ogni potenza, guarda propizio in quest’ora all’opera delle mie mani per l’esaltazione di Gerusalemme. È venuto il momento di pensare alla tua eredità e di far riuscire il mio piano per la rovina dei nemici che sono insorti contro di noi”. Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: “Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento”. E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa. Indi ne fece rotolare il corpo giù dal giaciglio e strappò via le cortine dai sostegni. Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri e uscirono tutt’e due, secondo il loro uso, per la preghiera; attraversarono il campo, fecero un giro nella valle, poi salirono sul monte verso Betulia e giunsero alle porte della città» (Gdt 13,4-10). 8 Nulla si dice della paura e dell’orrore del gesto. Secondo la sua coscienza, in cui si riflette quella degli autori biblici che narrano la parabola, Giuditta agisce per l’esaltazione di Gerusalemme, per la salvezza del suo popolo. Se pensiamo al contesto in cui il racconto è stato composto, esso perde forse un poco dell’orrore che oggi produce in noi. Oloferne è un mostro, una sorta di personificazione del male, il cui proposito è di seminare stragi, distruzioni e terrore su tutta la terra. Distruggerlo vuol dire arrestare il flusso dilagante della violenza che egli ha innestato. Si darebbe un’interpretazione assai scorretta del libro se lo si leggesse come una giustificazione dell’uso della violenza. Qui si tratta di fermare il male ricorrendo non alla forza bellica ma alle armi della fede e della preghiera. La fragile persona di Giuditta, che si rende docile strumento nelle mani del suo Dio, è il modo più efficace per affermare in che cosa consista la forza che annienta il male. La spirale della violenza è arrestata non con il ricorso ad altra violenza, ma confidando nell’aiuto del Signore che stronca le guerre (cf. Sal 44,48). Detto questo, si deve considerare anche che quelli erano tempi in cui guerre cruente erano all’ordine del giorno, ed era cosa comune assistere alla decapitazione dei nemici (cf. 1Sam 17,51). Pratiche crudeli che, probabilmente, nella coscienza morale degli uomini e delle donne di quei tempi non suscitavano l’orrore che suscitano oggi in noi. Forse, nel dipingere la scena di Giuditta che tronca la testa di Oloferne, l’autore ha avuto l’intenzione di suscitare più il riso che il disgusto. Nel finissimo gioco dell’ironia la tragedia sfiora la commedia. 7. La vittoria e il canto di lode Giuditta, insieme all’ancella e con la testa di Oloferne nella bisaccia, ritorna a Betulia. Le prime parole che affiorano subito sulle labbra sono quelle della lode, del ringraziamento e del canto. Accerchiato dal temibile nemico, il popolo era stato tentato di non confidare più nel Signore, suo Dio. La potenza dell’avversario era tale da offuscare ai loro occhi quella del Signore. L’impresa di Giuditta fa riaprire gli occhi sulla verità: il braccio del Signore non si è accorciato, egli si manifesta oggi più che mai vivo e forte a favore del suo popolo contro i suoi nemici. Così le prime parole che Giuditta grida ai suoi alle porte della città sono le seguenti: «Aprite, aprite subito la porta: è con noi Dio, il nostro Dio, per esercitare ancora la sua forza in Israele e la sua potenza contro i nemici, come ha dimostrato oggi» (Gdt 13,11). La persona di Giuditta è più che mai quella di una piccola che magnifica la potenza del suo Dio, che si è compiaciuto di lei, umile donna, per compiere cose grandi. Ella esulta per la salvezza e trascina il popolo alla lode: «Lodate Dio, lodatelo; lodate Dio, perché non ha distolto la sua misericordia dalla casa di Israele, ma ha colpito i nostri nemici in questa notte per mano mia» (Gdt 13,14). «Tutto il popolo era oltremodo fuori di sé e tutti si chinarono ad adorare Dio, esclamando in coro: “Benedetto sei tu, nostro Dio, che hai annientato in questo giorno i nemici del tuo popolo”. Ozia a sua volta le disse: “Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ti ha guidato a troncare la testa del capo dei nostri nemici. Davvero il coraggio che hai avuto non cadrà dal cuore degli uomini, che ricorderanno sempre la potenza di Dio. Dio faccia riuscire questa impresa a tua perenne esaltazione, ricolmandoti di beni, in riconoscimento della prontezza con cui hai esposto la vita di fronte all’umiliazione della nostra stirpe, e hai sollevato il nostro abbattimento, comportandoti rettamente davanti al nostro Dio”. E tutto il popolo esclamò: “Amen! Amen!”» (Gdt 13,17-20). Si prega, si loda e si esulta alla presenza di Dio benedetto, con l’alternanza di voci collettive e individuali, a cui il popolo risponde «Amen!», come in un’azione liturgica. 9 Ozia benedice Giuditta e il Signore che l’ha guidata nell’impresa, rivolgendole parole che si imprimeranno indistruttibilmente nella memoria del popolo. In esse si conserva il ricordo delle parole che già Debora aveva rivolto a Giaele nel suo canto di vittoria: «Sia benedetta tra le donne Giaele, la moglie di Eber il kenita, benedetta fra le donne della tenda!» (Gdc 5,24). In Giuditta rivive la memoria delle altre grandi donne del popolo. L’evangelista Luca dipingerà la scena della visitazione di Maria a Elisabetta su questo sfondo. Alla vista di Maria, Elisabetta esulta e grida a gran voce: «Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). In Maria, la donna dei compimenti, queste grandi donne del passato rivivono tutte, senza che un solo iota si perda (Mt 5,17-18). Tornando a Giuditta, notiamo che ella, ora in qualità di guerriera del Dio che stronca le guerre, è abilitata a dare consigli militari, come un generale o un grande stratega. Gli israeliti dovranno simulare un attacco, ciò allerterà i nemici che cercheranno di organizzarsi alla guida dei loro comandanti e del loro generale supremo. Allora, scoprendo la verità della morte di Oloferne, verrebbero assaliti dal terrore, l’esercito si scompaginerebbe, ci sarebbe uno scompiglio e una fuga generale (Gdt 14,14; cf. 15,13). Giuditta è in grado di prevedere l’inconsistenza della potenza del nemico, che solamente poco prima terrorizzava Israele e appariva invincibile, non appena questi è posto di fronte alla propria verità. Si vedrà, allora, che Oloferne, il rappresentante di Nabucodonosor, non era un dio immortale, ma solamente un uomo, la cui testa è stata troncata, e che ha cessato di vivere. Si fa esperienza, così, di quanto la potenza umana non sia che menzogna, vanità e boria insensata, destinata a dissolversi in un istante. Più avanti, nel cantico di ringraziamento da lei elevato al Signore, Giuditta attribuirà lo spavento e lo sconvolgimento dei nemici al grido di guerra elevato dai suoi poveri, dai suoi deboli (Gdt 16,11). È questa l’esperienza tipica del popolo di Dio. Torna alla mente il crollo delle mura di Gerico (Gs 6,16.20); o l’«arma» che si trovava in mano all’esiguo numero degli israeliti che, sotto la guida del piccolo Gedeone, erano stati scelti per sconfiggere il potente esercito dei madianiti (Gdc 7,16-22); o ciò che era avvenuto in Giudea, al tempo del re Giosafat. Il Cronista narra che Giosafat e il suo popolo, allora minacciati da una moltitudine imponente di nemici, ne erano stati liberati non appena i cantori di JHWH avevano cominciato a intonare i canti di esultanza e di lode (2Cr 20,21-23). La Lettera agli Ebrei rileggerà opportunamente tutta la storia della salvezza affermando che il movente di ogni suo evento è stata la fede. Essa fu l’arma che fece crollare le mura di Gerico, annientò i nemici e guidò il popolo in ogni tappa della sua storia (Eb 11). In realtà, sembra che non sia nemmeno necessario affrontare il nemico in combattimento. Quando Israele arriva, quello è già distrutto. La missione di Israele è di far luce, di provocare un discernimento tra la verità e la menzogna sicché una volta che il male si sia visibilizzato esso si autodistrugga. Né Dio, né Israele agiscono. Mentre Dio è presente con il suo popolo, coloro che li osteggiano si manifestano nella loro verità, cioè nella vacuità e inconsistenza della loro menzogna. Nessun altro, se non la loro stessa arroganza, li distrugge. Qui, però, in mano a Giuditta si trova la testa di un uomo. Ella ha ucciso un uomo. Il testo lascia trasparire una qualche contraddizione. Ozia ha benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ha guidato Giuditta a troncare la testa del capo dei nemici d’Israele (Gdt 13,18). Ora, com’è possibile che colui che è amante di tutto ciò che esiste e nulla disprezza di quanto ha creato - nulla, infatti, esisterebbe senza essere stato creato da lui, e nulla avrebbe egli creato se non lo avesse amato (cf. Sap 11,24-26) - abbia potuto guidare una mano, per quanto debolissima, a distruggere una propria creatura? Il testo lascia trasparire la contraddizione, senza che a essa si cerchi di dare una risposta. L’uccisione di Oloferne, e poi 10 l’annientamento di tutti i nemici, erano necessari perché un popolo intero e perfino il mondo intero non perissero. Il male va riconosciuto come tale e quindi va radicalmente annientato. Le modalità, però, di questo annientamento sono ancora sconosciute al tempo dell’Antico Testamento, che si limita a farne risuonare alcune note parziali. Solamente nel compimento messianico del Nuovo Testamento la contraddizione si scioglierà e si diventerà capaci di vedere chiaramente che colui che va annientato non è il peccatore, ma il peccato, perché il peccatore si converta e viva. Negli ultimi capitoli, Giuditta si trova al centro dell’attenzione. Perfino il sommo sacerdote Ioakìm e il consiglio degli anziani vengono da Gerusalemme per vederla e rendere omaggio a colei nella quale si è manifestata la bontà del Signore per Israele (Gdt 15,8). «Appena furono entrati in casa sua, tutti insieme le rivolsero parole di benedizione ed esclamarono al suo indirizzo: “Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto di Israele, tu splendido onore della nostra gente. Tutto questo hai compiuto con la tua mano, egregie cose hai operato per Israele, di esse Dio si è compiaciuto. Sii sempre benedetta dall’onnipotente Signore”. Tutto il popolo soggiunse: “Amen!”» (Gdt 15,9-10). I grandi di Israele, i quali avevano guidato il popolo facendosi strumento di Dio in imprese mirabili, avevano poi intonato il canto della vittoria5. Allo stesso modo Giuditta, circondata dalle donne d’Israele che la ricolmano di elogi e hanno composto una danza in suo onore, precede tutto il popolo guidando la danza di tutte le donne, mentre gli uomini seguono in armi portando corone e cantando. Ella non solo ci ricorda Miryam, la sorella di Mosè che, dopo il passaggio del mare, era uscita per danzare con le donne di Israele e per far cantare loro il ritornello del canto della vittoria (Es 15,20-21). Giuditta qui assume in sé il ruolo del grande condottiero Mosè. Come lui, ella precede l’intero popolo e in mezzo a Israele fa intonare il canto di lode (cfr. Gdt 15,14-16,17). Così Giuditta canta in mezzo al popolo in una processione che ha termine a Gerusalemme, dove tutti si prostrano ad adorare Dio. Lì offrono i loro olocausti, le offerte e i doni. Giuditta offre al Signore gli oggetti del bottino di Oloferne che il popolo le aveva assegnati. Tutti sanno, per averlo appena cantato, che il vero sacrificio che il Signore gradisce è quello della propria vita offerta in olocausto nel timore amoroso del Signore (Gdt 16,16). La potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza (2Cor 12,9). Il libro di Giuditta ci ricorda che, qualunque sia l’oppressione e la minaccia di distruzione che il popolo di Dio soffra, il braccio del Signore non si è accorciato. Egli ricorre ai suoi propri mezzi per annientare i superbi. La debolezza di coloro che temono il Signore hoi tapeinoi, gli `anawim (Gdt 16,11), è l’arma segreta con cui Dio stronca le guerre. Giuditta è la rappresentante autorevole di questo popolo di piccoli, di inermi, di bimbi e di lattanti, delle cui bocche Dio si serve per affermare la sua potenza contro i suoi avversari e ridurli al silenzio (Gdt 16,4)6. È questa l’irresistibile bellezza di JHWH. La bellezza di questa donna è potente e non cessa di affascinarci7. 5 Cf. Es 15; Gs 10,12-13; Gdc 5; 1Sam 2,1-10; 18,6-7; 1Mac 4,24; ecc. Cf. Sal 8,3; Sap 10,209-21. 7 Giuditta sembra essere una personificazione di Gerusalemme, il cuore pulsante del popolo eletto. La usa bellezza è forse un richiamo dello splendore della città santa, in cui Dio ha posto la sua dimora (cf. Gdt 10,1-8; 15,9). Giuditta guida la danza delle fanciulle, come Gerusalemme, vergine di Israele, si ornerà dei suoi tamburi e uscirà fra la danza dei festanti (cf. Ger 31,4.13). Dopo il canto di lode, che ella intona come portavoce del popolo, il dramma del libro si scioglie nel momento in cui tutti raggiungono Gerusalemme e si prostrano ad adorare Dio nel santuario. Il movimento cessa e ci si distende nel riposo. Qui Giuditta è contemplata al centro della liturgia festosa del popolo in Gerusalemme, vicino al tempio (Gdt 16,18-20). Si odono riecheggiare gli oracoli profetici che ci parlano di una Gerusalemme devastata e sofferente, che si risolleva dalla morte, si riveste di luce, di bellezza e di uno splendore capace di attirare a sé il mondo intero; una Gerusalemme-serva sofferente 6 11 La Chiesa riferisce alla vergine Maria le parole di lode che Achior e i rappresentanti di Israele rivolgono a Giuditta (Gdt 14,7; 15,9). Ella è la gloria di Gerusalemme, il vanto di Israele, la tota pulchra, l’espressione compiuta della bellezza che salva il mondo. Siamo invitati a rileggere e meditare la vicenda di Giuditta, contemplandola nei cuori di Gesù e di Maria, chiedendo di sentire come essa risuonava dentro di loro. Guidati dallo Spirito vi ascolteremo già, come l’evangelista Luca, la musica del Magnificat. e trasfigurata di gloria (cf. Is 49; 54; ecc.) 12