UNIVERSITA` DEGLI STUDI DI MACERATA LA

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UNIVERSITA` DEGLI STUDI DI MACERATA LA
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MACERATA
Dipartimento di Scienze dell’Educazione e della Formazione
Corso di Dottorato in Scienze psicologiche, sociologiche e dell’e-learning
Curriculum-Scienze del comportamento e delle relazioni sociali
Ciclo XXIV
LA FORMAZIONE NEI CONTESTI DI LAVORO
Una riflessione su un percorso formativo in azienda
Tutor
Dottoranda
Chiar.ma Prof.ssa Barbara Pojaghi
Dott.ssa Chiara Catini
Coordinatore
Chiar.mo Prof. Sebastiano Porcu
ANNO 2013
INDICE
PRIMA PARTE
FORMAZIONE E APPRENDIMENTO NELLE ORGANIZZAZIONI
INTRODUZIONE
I.
La formazione
1.1.
Significati condivisi
Cambiamento
Complessità
1.1.
Excursus storico
1.2.
La formazione: una realtà in transizione
Il paradigma modernista
Il paradigma neo-modernista
Il paradigma post-modernista
1.3.
II.
La formazione oggi: riflessioni in divenire
La formazione psicosociale
2.1.
Inquadramento concettuale
2.2. La concezione psicosociologica
Metodi e strumenti
2.3. La narrazione come strumento di costruzione della conoscenza
L’autobiografia
III.
L’apprendimento
3.1.
La prospettiva del “Self”
3.2. Definizioni di apprendimento e contributi teorici
Apprendimento metacognitivo
3.3.
Apprendimento in situazione
Apprendere partecipando
3.4.
La formazione basata sull’apprendimento e sul conoscere in pratica: il ruolo
dell’esperienza e della riflessione nell’apprendimento adulto
Riflessioni conclusive
SECONDA PARTE
LA FORMAZIONE E IL CAMBIAMENTO IN AZIENDA
IV.
Studiare le organizzazioni: il caso Lube Cucine – “Feuerstein in azienda”
4.1.
Le organizzazioni: la prospettiva psico-culturale
Cultura organizzativa
La conoscenza nelle organizzazioni: apprendimento e cambiamento organizzativo
4.2.
Lo studio delle organizzazioni: la metodologia qualitativa
4.3.
Presentazione del piano di ricerca
Linee generali
Focalizzazione delle teorie di riferimento
L’analisi del contesto e definizione del problema: gli interrogativi di partenza
Il piano di ricerca
L’individuazione delle ipotesi e gli obiettivi generali, Gli strumenti di ricerca, Le fasi della raccolta
dati, Elaborazione e interpretazione dei risultati
V.
“L’organizzazione che forma: storie di lavoro, storie di persone”: i risultati della ricerca
5.1. Il corso “P.A.S.”: contenuti, obiettivi e strategia formativa
Ricostruzione dei significati emergenti: osservazioni, questionari e discussioni di gruppo
5.2.
L’importanza dell’aspetto narrativo e del coinvolgimento diretto del Sé narrante:
ricomposizione dei vissuti personali, emozionali e professionali
5.3.
Rappresentazioni della formazione e cultura organizzativa: limiti e punti di forza
5.4.
Il gruppo come strumento di formazione e come esperienza dell’Altro diverso da sé
5.5.
La trasferibilità dei contenuti della formazione e l’operatività delle funzioni
cognitive. Pratica formativa e pratica lavorativa, comunità di apprendimento e
comunità di pratiche. Una riflessione alla luce del modello della formazione
psicosociale
5.6.
Apprendimento individuale e cambiamento organizzativo
Considerazioni finali e possibili prospettive
Bibliografia e sitografia
Appendici
2
INTRODUZIONE
Formare. Educare. Apparentemente sinonimi, sottendono una differenza chiaramente
terminologica e intrinsecamente concettuale. Spesso utilizzati in letteratura come se equivalenti,
tuttavia i due termini non sono del tutto sovrapponibili. Volendo motivare questa sottile
differenza di significato, potremmo affermare che l’educazione è quel processo di sviluppo delle
facoltà fisiche, intellettive e morali nei giovani in età evolutiva, mentre la formazione è quel
processo di affinamento di determinate competenze e capacità rivolto a soggetti adulti, molto
utilizzata in ambito lavorativo quindi professionale.
Il termine educazione deriva dal latino “e-ducere”, che letteralmente significa “tirare fuori”.
L’educazione infatti serve a tirare fuori dal bambino e dall’adolescente quelle qualità necessarie
per la vita all’interno della società di appartenenza. La metafora implicita nel termine è quella
dell'iniziazione con l'aiuto di un esperto, un capo (dux) che ha il ruolo di condurre l'iniziato dalle
tenebre dell'ignoranza alla luce della sapienza. Il discente viene guidato dal fuori disordinato,
senza legge e riferimenti saldi, al dentro di una nuova condizione di armonia e ordine a cui non
tutti possono accedere. Educare, quindi, etimologicamente parlando sottende un’azione
intenzionale, dirigistica di un soggetto su di un altro.
I greci identificavano il momento educativo con quello della paidéia. L'educazione per i greci
era infatti quel particolare periodo di vita in cui il fanciullo veniva staccato dalla madre e quindi
istruito, addestrato, iniziato alla vita adulta e alle armi, fino a quando non diventava un
“antropos” (uomo). Dopo di che i giovani nobili potevano frequentare le scuole dei filosofi, a
pagamento, con lo scopo principale di accrescere il bagaglio intellettuale e poter accedere ai
livelli più alti della dirigenza militare, politica e/o amministrativa. Potremmo identificare questo
secondo momento con quella che oggi definiamo “formazione”, un apprendimento volto ad
obiettivi specifici e a portata di mano, mirato, deciso in buona misura dallo stesso individuo.
L’origine della parola formare deriva da latino “fōrmare” ovvero dare una forma, modellare.
Seguendo l’evoluzione che il termine ha avuto nell’ambito delle scienze umane
1
(paideia/humanitas/Bildung) , formare significa favorire lo sviluppo organico del soggetto,
autonomo e regolato, visto come evento dinamico, appunto come “processo” in cui giocano un
ruolo importante le potenzialità e peculiarità di ogni soggetto e le rispettive intenzionalità di
1
Facciamo riferimento ad un contributo di F. Cassinari “Cultura, identità, formazione” in cui l’autore ricostruisce la
genealogia dell’ideale formativo e l’evoluzione della paidéia greca attraverso i concetti di “humanitas” (l’educazione
dell’uomo alla sua vera forma, alla vera umanità) e di “Bildung” (la cultura coincide con la formazione intesa come
sviluppo, progressione di potenzialità intrinseche) (Cassinari in Merlini, Bonoli, 2010).
3
formatore e formando. Tutte le parti coinvolte svolgono un ruolo attivo di co-costruzione della
conoscenza e della relazione formativa secondo un principio di circolarità sistemica degli
scambi comunicativi e intellettivi. Il coinvolgimento attivo del formando fa della formazione un
paradigma integrato, attento alle molteplici variabili che intervengono nei processi di crescita
degli individui in senso cognitivo e affettivo-relazionale, ma anche sociale e culturale.
La sovrapposizione di senso dei termini formazione ed educazione, comune nel linguaggio
odierno, costituisce quindi un fatto improprio, laddove, proprio per una questione etimologica,
formare sottende la metafora, “l’idea di una sostanza cedevole, plasmabile”, qualcosa che è già
presente ma che non esiste ancora nella sua forma finale, mentre educazione suggerisce “l’idea
che l’essere umano sia in possesso di un patrimonio innato da estrarre e sviluppare” (Laporta,
1976). Superando però il diverbio etimologico, il verbo formare viene utilizzato nella nostra
quotidianità come sinonimo di educare, addestrare, richiamando, come gli altri, la semantica
dell’apprendere. “La formazione è infatti molto simile all’apprendimento sebbene implichi
maggiore complessità e durata, risultando dalla continua ristrutturazione di assetti concettuali
preesistenti e dalla capacità di operare con le competenze acquisite, trasferendole nelle pratiche
quotidiane e professionali” (Pojaghi, Nicolini, in Zuczkowski, Bianchi, 2009). L’unicità
dell’esperienza di formazione sta esattamente nel bilanciamento delle conoscenze nuove con
quelle pregresse, degli apprendimenti formali con quelli informali propri dei diversi contesti
d’azione. I formandi sono persone adulte, spesse volte lavoratori competenti: hanno proprie
idee, credenze, opinioni, conoscenze implicite ed esplicite. L’adulto che apprende compie un
atto di volontà, una dichiarazione di disponibilità al cambiamento per il quale necessita di
consapevolezza e auto-direttività.
All’inizio di questo percorso di ricerca sulla formazione nei luoghi di lavoro, in prima istanza, è
stata immediata la constatazione della vastità della bibliografia esistente sul mondo della
formazione, una vastità che potremmo dire disorientante e spesse volte fuorviante. Numerose
sono le chiavi di lettura di uno dei temi più discussi in ambito politico, economico e sociale. 2
Fermo restando la necessità di rimanere in ascolto rispetto a ciascuno di questi canali
interpretativi, poiché indici della complessità dell’argomento in oggetto, se volessimo tentare di
raggrupparli in macro-aree potremmo denominare tre diverse tendenze: quella “funzionalista”
propria di coloro che guardano alla formazione come una leva del “business” e della
produttività, quella “tecnica” propria di coloro che a partire dall’esperienza sul campo
2
Si pensi alle recenti iniziative della Comunità Europea in materia di formazione espletate negli obiettivi di Lisbona
2000-2010 e nella Strategia Europa 2020. Cfr. B. Castagna, Educazione e Formazione in Europa 2020, Enaip
Formazione & Lavoro, n. 3, 2010. Per approfondimenti:
http://europa.eu/legislation_summaries/education_training_youth/lifelong_learning/index_it.htm
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approcciano alla formazione come “processo” specificando le peculiarità dei diversi momenti
costitutivi, in ultimo, quella “socio-culturale” propria di coloro che invece si rivolgono alla
formazione prima di ogni altra possibilità interpretativa come ad un’esperienza umana e di
significato. Al di là di tutte le definizioni valutabili nel panorama della letteratura odierna, è
opinione condivisa che la formazione presupponga fondamentalmente un vissuto di
cambiamento (di atteggiamenti, pensiero, comunicazione, emozioni verso se stessi e gli altri) e
per questo risulti strategica, ovvero costruttiva, sia dal punto di vista della crescita della persona
che delle comunità di carattere sociale e organizzativo entro cui essa si trova a partecipare.
Il presente progetto di ricerca rappresenta uno studio sulla formazione, nell’accezione sociale e
culturale sopra detta, condotto attraverso le dimensioni del formare, dell’apprendere e del
lavorare. Abbiamo assunto un approccio di tipo deduttivo, partendo nel primo capitolo
dall’analisi della formazione come concetto e come fenomeno. Onde evitare di proporre un
impianto teorico che rappresentasse l’attuale “clima” di disorientamento, si è avvertita la
necessità di dare un taglio storico-culturale alla nostra analisi. Pertanto, dalla profilazione di
cos’è la formazione per coloro che se ne occupano e per coloro che se ne vorrebbero occupare,
abbiamo scelto di procedere ad una ricostruzione storica del tema, evidenziando l’inestricabilità
del fare formazione con il mondo delle organizzazioni e del lavoro. A sostegno degli aspetti
socio-economici che hanno contribuito a connotare culturalmente e storicamente il termine
“formazione”, ci siamo avvalsi dei tre paradigmi-chiave “modernista”, “neo-modernista” e
“post-modernista”.
L’analisi di contesto e quella storico-culturale attorno al tema della formazione hanno favorito la
ricostruzione di un’immagine della formazione particolarmente variegata, a tratti variabile,
sicuramente complessa. La complessità, intesa come status, accanto alla propensione al
cambiamento costituiscono due peculiarità del formare declinato nel suo essere “attività” e
“apprendimento”. Per questa ragione, allineandoci con i fautori dell’epistemologia della
complessità, prendiamo atto che ciò che risulta complesso non può in alcun modo essere
ridimensionato o semplificato, piuttosto deve essere rispettato e valorizzato, e sulla base di ciò
una teoria generale della formazione ad oggi non risulta realizzabile, come sottolineato da
Quaglino (2005) nei suoi ultimi contributi, e forse non rappresenta più una prerogativa. Il
mondo della formazione, se intende cogliere le sfide del presente, in termini di complessità e
cambiamento, deve tornare a focalizzare la propria attenzione sul soggetto e in modo particolare
sulle questioni dell’apprendere. Dal nostro punto di vista, l’approccio psicosociale di cui ci
siamo occupati nel secondo capitolo ha in sé gli strumenti utili a fronteggiare questo tipo di
sfide, valorizzando con l’intreccio di tre possibili livelli di analisi, l’individuo, la comunità e
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l’organizzazione. L’approccio psicosociale e psicosociologico ai fini del nostro lavoro ci
permettono di delineare un contesto di analisi dei fenomeni del formare all’interno delle
organizzazioni e al tempo stesso ci offrono chiavi di lettura dei contesti di lavoro,
comunicazione e formazione in chiave situata ovvero rappresentazionale e conversazionale. La
narrazione, di cui parliamo nell’ultimo paragrafo, riveste nella prospettiva un ruolo
preponderante nella dinamica formativa, un strumento di mediazione sociale e culturale:
attraverso di essa si creano relazioni, si negoziano significati ovvero si costruiscono conoscenza
e identità individuali ed organizzative.
Il soggetto al centro dell’esperienza del fare formazione e dell’organizzazione di lavoro è il tema
portante del terzo capitolo. Se facciamo nostro l’invito di alcuni importanti autori di riferimento
per il nostro lavoro a ripristinare la centralità del soggetto in formazione, non possiamo fare a
meno di sostenere le questioni dell’apprendere entro quelle del formare. La prospettiva del
“Self” che apprende è multidimensionale: l’apprendimento coinvolge l’individuo sotto
molteplici aspetti, non solo cognitivi, ma anche psico-emotivi, sociali e culturali. È dal connubio
di tutti questi aspetti che è possibile ricostruire per il suo valore reale l’esperienza della
formazione e dell’apprendimento inteso come dinamica evolutiva ed essenza del cambiamento.
A partire dai contribuiti significativi della psicologia cognitiva, soprattutto in materia di meta
cognizione, abbiamo fatto nostra una prospettiva di analisi costruttivista, soprattutto sociale e
situata. Ripercorrendo la teoria dell’attività storico-culturale e la teoria dell’apprendimento
sociale vygostkiana, l’apprendimento di cui parliamo si apre necessariamente alla pratica e in
particolare alla pratica di comunità, definendosi come una questione di partecipazione e
condivisione, oltre che di riflessione.
Dopo un excursus sul contesto della formazione tra presente e passato e dopo aver attivato dei
legami concettuali tra il fare formazione, in una declinazione psicosociale, e l’apprendere, nel
quarto capitolo torniamo, con un grado di specificazione maggiore, alla dimensione del
contesto, ovvero alle organizzazioni intese come culture, luoghi di pratica e di apprendimento
individuale e organizzativo e possibile cambiamento. Tutta la seconda parte del nostro elaborato
è dedicata ad un progetto di ricerca condotto in ambito aziendale. Lo studio delle organizzazioni
in senso psico-culturale e il riferimento ai fondamenti dei così detti workplace-studies
costituiscono in apertura del capitolo una presentazione delle caratteristiche del mondo a cui ci
affacciamo e degli strumenti scelti per condurre la nostra indagine. Nel secondo paragrafo
faremo riferimento alla ricerca qualitativa e in particolare all’etnografia che, permettendo di
approcciare alle organizzazioni attraverso l’osservazione diretta sul campo e le analisi
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conversazionali, costituiscono a nostro avviso la scelta di metodo più funzionale a “tracciare” e
“trattare” i dati organizzativi emergenti. L’ultima parte del capitolo è dedicata alla presentazione
del lavoro di ricerca condotto in azienda e alla ricostruzione di tutte le fasi percorse. Lo studio
effettuato s’incentra sul monitoraggio di un corso di formazione P.A.S. (Programma di
Arricchimento Strumentale) incentrato sul metodo di R. Feuerstein.
Nell’ultimo capitolo ci siamo occupati di relazionare i risultati della nostra ricerca, ottenuti
attraverso le osservazioni collezionate durante lo svolgimento del corso di formazione P.A.S., le
attività di gruppo realizzate dopo la fine del corso e le interviste finali con tutti partecipanti.
L’analisi si basa su dati etnografici e conversazionali volti alla validazione delle ipotesi di
partenza e di quelle emerse in corso d’opera, ovvero al riconoscimento degli aspetti formali e
informali della vita organizzativa, al rilevamento del patrimonio di conoscenze, non solo
didattiche, apprese e trasferite nell’attività di lavoro. Centrale resta il tema del cambiamento che
rappresenta il cuore dell’analisi e della valutazione della formazione: infatti, facendo leva sugli
aspetti significazionali e sui riferimenti di meta-cognizione intra-conversazionali, è nostro
interesse verificare se e con quali prerogative il training osservato abbia prodotto dei
cambiamenti individuali e, attraverso di essi, un apprendimento e un cambiamento di tipo
organizzativo.
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PARTE PRIMA
FORMAZIONE E APPRENDIMENTO
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CAPITOLO PRIMO:
LA FORMAZIONE
1.1.
Significati condivisi
Definire il termine formazione è un’operazione che sottende un rischio evidente a tutti coloro che
si occupano di questo tema: il rischio sta nell’iniziare a tracciare un profilo caratteriale della
formazione e non riuscire a dare compiutezza al lavoro fatto.
La formazione ha un’anima polisemica e interdisciplinare: tanti sono i significati attribuibili e le
discipline che a vari livelli se ne occupano. Dalla pedagogia alla psicologia, dalla sociologia alla
teoria dell’organizzazione: sono tanti i campi del sapere che si occupano di questo argomento.
Inevitabilmente, a nostro avviso, vista l’importanza strategica della formazione nel panorama
economico e sociale attuale, sia in termini di sviluppo che di opportunità/competitività.
Il ricorso alla formazione come investimento e come strumento di sviluppo risulta vantaggioso sia
per gli individui che per le organizzazioni. Per quanto concerne gli individui “la formazione è
essenziale per favorire la preparazione ai nuovi mestieri e sviluppare le nuove attitudini
professionali e le relative competenze per mettere in atto determinate «performance». Altresì, per
quanto riguarda le organizzazioni la formazione gioca un ruolo importante nel rafforzamento della
loro posizione di concorrenza e nel rilancio dello sviluppo. Si tratta di un fattore chiave di riuscita
dei mutamenti e delle riconversioni produttive” (Battistelli, Majer, Odoardi, 2002, p. 39).
La sfuggevolezza, la poliedricità e al tempo stesso la trasversalità del tema hanno prodotto
numerosi tentativi da parte dei cultori della materia di circoscrivere la polisemia del termine entro
dei modelli il più possibile esemplificativi della situazione. Si veda a tal proposito la fig. 1
riportante la rete semantica del concetto di formazione elaborata da P. Goguelin (1973), indicativa
della complessa geografia di senso entro cui si muove il termine formazione e della prossimità dei
concetti di educare, istruire, insegnare.
La sovrabbondanza di modelli, tentativi di analisi e definizioni sembrerebbe indicativa del fatto che
non esiste ancora una sistematizzazione condivisa. Proviamo a valutare, senza pretesa di
esaustività, alcune definizioni proposte dalla letteratura in materia:
“il termine formazione assume il significato di azione mirante allo sviluppo della abilità dell’individuo
(cioè delle capacità nell’esecuzione del lavoro), alla trasmissione di informazioni (circa la cultura
organizzativa, il funzionamento, la produzione) e non ultimo all’acquisizione di un comportamento più
consono al raggiungimento dei propri obiettivi e a quelli dell’organizzazione” (Battistelli, Majer, Odoardi,
2002, p. 11).
11
“La formazione si presenta oggi come un campo di pratiche sociali eterogenee aventi come soggetti adulti
in situazione professionale” (Margiotta, Salatin, in Bellotto, Trentini, 2000, p. 11).
“La formazione è principalmente una attività organizzativa finalizzata al miglioramento delle prestazioni
di lavoro e al conseguimento di obiettivi produttivi. È al tempo stesso, una risposta per la gestione delle
risorse umane, che può favorire lo sviluppo individuale nelle organizzazioni, garantire la crescita,
innovazione e più soddisfacenti condizioni di lavoro” (Fraccaroli, 2007, p. 87).
Figura 1
(da P. Goguelin, La formazione permanente degli adulti, 1973, pag. 10)
“Formare implica un intervento profondo e globale che provoca nel soggetto uno sviluppo nel campo
intellettuale, fisico o morale e un cambiamento nelle strutture corrispondenti a questi campi, in modo che
questo sviluppo non sia sovrapposto alla struttura esistente, ma sia integrato in nuove strutture più generali,
che consentono ad ognuno di raggiungere, secondo le proprie capacità, un livello culturale
multidisciplinare, capace di fargli meglio comprendere i fenomeni della vita […]. Come tale, la
formazione non è più un semplice fenomeno di acquisizione come la concepiva la maggior parte dei
pedagoghi, ma ha come obiettivo una trasformazione della personalità, mettendo quindi in gioco dei
‘meccanismi’ psicologici in altro modo più vasti” (Goguelin, Cavozzi, Dubost, Enriquez, 1972, p. 15).
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“Formazione è attività educativa. Dunque il suo obiettivo è il sapere: la promozione, la diffusione,
l’aggiornamento del sapere. Nonché la promozione, la diffusione, l’aggiornamento dei modi di utilizzo di
tale sapere […]. Ma la finalità sottesa a un tale obiettivo va oltre: essa ha a che vedere con il significato
profondo dell’azione educativa come momento di crescita dei soggetti a cui si rivolge, volta a volta
culturale, sociale, professionale, personale. È in questi termini che l’attività educativa lega
inestricabilmente apprendimento e cambiamento a un primo e più generale livello” (Quaglino, 2005, p.
11) 3.
Nelle prime due definizioni risultano centrali i temi dello sviluppo dell’individuo inteso come
soggetto adulto lavoratore, quindi l’indissolubile legame della formazione con il mondo
dell’organizzazione, all’interno del quale le pratiche formative rispondono all’esigenza di creare,
ampliare o specializzare conoscenze funzionali alla crescita professionale ovvero competenze.
Nella terza, viene ribadito l’aspetto organizzativo della formazione e la sua importanza strategica in
termini di lavoro e qualità del lavoro; in più viene sottolineato come la formazione rappresenti una
risorsa per la gestione delle risorse umane e in quanto tale offra significative possibilità di sviluppo
e innovazione sul versante umano e della competitività tra organizzazioni.
Se nei primi tre riferimenti bibliografici il senso della formazione sembra ricadere entro la
relazione individuo-organizzazione di lavoro, nelle ultime due citazioni gli autori concentrano la
loro attenzione sullo sviluppo del Sé, in particolare sulla dimensione psicologica delle attività
formative, sul sapere 4 inteso come obiettivo e strumento al tempo stesso di un inevitabile processo
trasformativo in termini di crescita e cambiamento personale.
Il cambiamento, prodotto dell’apprendimento, è sicuramente individuale ma può essere anche
organizzativo.
Come
sottolinea
Quaglino
(2005),
mentre
per
i
soggetti
il
legame
apprendimentocambiamento è un dato di fatto, per le organizzazioni è solo possibile, ovvero
mentre per i soggetti il problema insito nella formazione è di essere disposti a cambiare, per le
organizzazioni il problema è invece di essere disposte ad apprendere e ad accogliere in toto le
implicazioni del cambiamento in atto.
Come si può evincere da questa prima analisi, definire la formazione non è un’operazione affatto
semplice: non solo per la pluralità dei contributi disponibili in letteratura, l’eterogeneità dei punti di
vista, la polisemia dello stesso termine, già di per sé indici di complessità, ma per la congiunzione
di tutti questi fattori insieme ad altri rintracciabili nella storia e nella cultura delle nostre società. Se
volessimo quindi circoscrivere entro poche battute quello che ci sembra fungere da trait d’union dei
molteplici punti di vista sulla formazione è il tema del cambiamento e insieme ad esso quello della
3
Il secondo livello a cui l’autore fa riferimento è quello organizzativo in cui il fine dell’attività educativa, al di là del
sapere dei soggetti, è il superamento di uno stato-problema.
4
Il concetto di sapere va declinato secondo la famosa triade “sapere, saper fare, saper essere” laddove per sapere si
intende indicare le conoscenze da acquisire, per saper fare le abilità da sviluppare e per sapere essere i comportamenti e
gli atteggiamenti a sostegno dei primi due.
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complessità, che come vedremo in più occasioni del nostro discorso, risulta essere un tratto
distintivo della teoria e della stessa pratica della formazione.
Soffermiamoci sui concetti di complessità e cambiamento. Utilizzeremo il primo come chiave di
lettura dell’importanza della formazione nel panorama socio-economico attuale proprio in virtù del
suo essere potenzialmente fautore della crescita del singolo e delle organizzazioni (la formazione,
seguendo questa logica, riveste un ruolo strategico capace di rispondere alle esigenze del sistema
sociale ed economico odierno), faremo riferimento al secondo per anticipare e in seguito
interpretare l’excursus storico del fenomeno della formazione attraverso le ere industriale e postindustriale fino ai giorni nostri e dare voce ad alcune correnti di pensiero a nostro avviso
particolarmente significative per riuscire ad interpretare la pluralità del tema in oggetto.
Cambiamento
Il binomio formazione-cambiamento si potrebbe così sinteticamente rendere: la formazione
cambia, il cambiamento trans-forma od anche conferisce nuova forma.
Se quindi la formazione è lo strumento mediante il quale è possibile produrre e/o guidare il
cambiamento (a partire da una progettualità e da una processualità date e insite nella natura stessa
dell’attività formativa), il cambiamento a sua volta produce delle modificazioni nell’individuo e nel
contesto in cui opera. Per questo motivo si parla di cambiamento individuale e di cambiamento
organizzativo. Se nel primo si esplicita l’essenza stessa della natura umana e del suo divenire
storico, nel secondo è possibile rintracciare la necessità delle organizzazioni moderne di modificare
i propri sistemi e sotto-sistemi organizzativi per poter sopravvivere nell’ambiente circostante
sempre più caratterizzato da incertezza e mutevolezza.
Pertanto, dato il valore strategico del cambiamento in ambito organizzativo e in generale nel
panorama economico odierno, tanto che la pratica del change management è entrata nel linguaggio
abituale di chi si occupa di gestione d’azienda, la formazione in quanto agenzia di cambiamento
(può fungere sia da medium che da veiculum a seconda che produca cambiamento o offra strumenti
di comprensione e accettazione del cambiamento) richiama l’attenzione di coloro i quali hanno
intenzione o necessità di guidare o semplicemente capire la transizione da uno stato di cose/sapere
ad un altro.
L’attenzione che dedicheremo al cambiamento è funzione del fatto che:
1- ogni atto formativo auspica in sé il cambiamento: non si può non parlare di cambiamento parlando
di formazione, così come non si può non parlare di apprendimento: come afferma Quaglino nella
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postfazione del famoso “Fare Formazione” (2005, p. 183), “una teoria per la formazione trova il
suo sostegno anzitutto nell’innesto del legame tra formare e apprendere”;
2- apprendimento e cambiamento sono indissolubilmente legati: “non c’è dubbio che la parola
‘apprendimento’ denoti un cambiamento di qualche tipo; dire quale tipo di cambiamento è una
faccenda delicata” (Bateson, 2005, p. 328);
3- il cambiamento ha una doppia valenza e come tale deve essere pensato e gestito: può avere luogo
nell’individuo, nel gruppo, nell’organizzazione;
4- la formazione è un’attività in grado di produrre cambiamento organizzativo.
Di seguito valuteremo un serie di visioni del cambiamento in ambito prevalentemente
psicologico/individuale nel tentativo di motivare l’inestricabilità del rapporto tra cambiamento e
uomo, tra cambiare e apprendere ovvero tra cambiare e formare/essere formati (chi forma è esso
stesso soggetto ad un processo di cambiamento in base al principio di circolarità
dell’apprendimento: citando Joseph Joubert, “insegnare, è apprendere due volte” 5).
Superando la visione comportamentista del cambiamento inteso come esito del condizionamento
secondo lo schema classico SR, funzionalmente al’impostazione di questo lavoro, facciamo luce
su due posizioni teoretiche particolarmente significative, quella sistemica e quella legata alla
psicologia culturale, proprie dell’ambito disciplinare cognitivista, entro il quale il cambiamento è
invece inteso come “trasformazione rappresentativa, che avviene primariamente a livello cognitivo
e che poi è in grado di influenzare anche il campo emotivo ed affettivo” (Demetrio, 1990, pag. 83).
La posizione sistemica, a cui faremo riferimento più volte nello sviluppo delle nostre riflessioni,
considera l’individuo nella complessità delle sue dinamiche comunicative e relazionali, ovvero
immerso in flussi continui di informazioni elaborate secondo due diverse modalità: la conoscenza
esplicita/dichiarata e la conoscenza tacita/sottesa. Mentre possiamo definire la prima come
l’insieme dei modelli espliciti di sé e del mondo elaborati tramite procedure di rappresentazione
verbale (è la modalità di rappresentare a se stessi e agli altri l’oggetto dell’elaborazione verbale), la
seconda è relativa alla componente emotiva-affettiva dell’individuo (le emozioni in questo senso
assumono un ruolo fondamentale nel processo di elaborazione della conoscenza). La conoscenza è
il risultato dell’interazione tra il sistema di elaborazione esplicito e tacito ed è un processo continuo
che si protrae durante tutto l’arco della vita del soggetto e che “appare come un inesauribile
processo generativo, sempre aperto, in cui cioè, non può mai essere raggiunto uno stato particolare
di maturità o di equilibrio ottimale per l’eccellenza” (Guidano, 1988, p. 41). Ciò a sostegno delle
5
Citazione da L. Onnis, Lo specchio interno. La formazione personale del terapeuta sistemico in una prospettiva
europea, Franco Angeli, Milano, 2010.
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tanto discusse iniziative di formazione continua (lifelong learning) rispetto alle quali l’individuo
risulta impegnato in un cammino evolutivo incessante e, ad età differenti e in situazioni di vario
genere, si trova a dover fronteggiare problemi sempre diversi. Questi accadimenti possono
innescare cambiamenti superficiali, in grado di modificare gli atteggiamenti del soggetto senza
però andare ad intaccare la sua immagine di sé, o cambiamenti profondi che agiscono sul senso di
identità del soggetto stesso. Il cambiamento profondo richiede una pausa di riflessione individuale
(del ruolo trasformativo della riflessione parleremo nel capitolo dedicato all’apprendimento):
attraverso la riflessione può essere attivato il processo di creazione di una nuova identità personale
che, nella continua dinamica con il contesto di riferimento, si organizza secondo nuove regole e
sulla base di esse risponde efficacemente alle sfide della realtà circostante (Battistelli, Majer,
Odoardi, 2002).
Volendo arrivare ad un livello di maggiore specificità della posizione sistemica, facciamo
riferimento a Gregory Bateson, fondatore della scuola sistemica e autore della posizione teorica
definibile come “ecologia della mente”. Negli scritti di Bateson (2005) è possibile rinvenire molti
spunti di riflessione rispetto al concetto di cambiamento, in particolare al cambiamento in relazione
ai processi di apprendimento.
“Un cambiamento indica un processo. Ma i processi sono a loro volta soggetti a ‘cambiamento’. Un
processo può accelerare, può rallentare, o subire altri tipi di cambiamento, dopo i quali si dirà che si tratta
di un processo «diverso»” (Bateson, 2005, pp. 328-329).
La mente “ecologica” è un sistema, un aggregato di parti interagenti contraddistinto da un livello
minimo di complessità al di sotto del quale non è più possibile considerarla tale. I processi mentali
che contraddistinguono il funzionamento circuitale del sistema “mente” subiscono il controllo
dell’informazione che è data da un insieme di segnali che codificano “le differenze” percepite
(“una differenza è un’idea” e in quanto tale può innescare un’ulteriore differenza) (Bateson, 2005,
p. 524).
In linea generale nell’ottica sistemica l’individuo è da intendersi come parte di un sistema e i suoi
processi mentali sono manifestazioni scaturenti dalla dialettica con il sistema stesso. Attraverso la
modificazioni di alcune variabili di sistema è possibile incidere sull’individuo. Pertanto, “il
cambiamento del soggetto dipende dalle retroazioni che si instaurano all’interno di un sistema,
quindi non è predeterminato” (Battistelli, Majer, Odoardi, 2002, p. 46).
Nella psicologia culturale l’individuo, fortemente caratterizzato e influenzato dalla propria
dimensione affettiva, sociale e storico-culturale, è visto come costruttore e de-costruttore della
propria realtà cognitiva e quindi della propria conoscenza. A differenza di quanto sostenuto da
Jean Piaget, al cui contributo molti esponenti della psicologia culturale fanno riferimento
16
nell’elaborazione della propria posizione epistemologica 6, il soggetto non procede nel cammino
della conoscenza seguendo linearmente una serie di stadi evolutivi, ma attraverso la scelta di
tattiche e strategie, mediate culturalmente, che conducono ad una costruzione attiva del proprio
sapere. Così facendo il cambiamento avviene attraverso procedure di meta-cognizione ossia di
valutazione attenta dei propri processi cognitivi e di elaborazione delle informazioni. Il
cambiamento è un processo di crescita ed ha natura relazionale: la dialettica e la retorica con
l’Altro diverso da sé, l’interazione con la realtà socio-culturale circostante rappresentano le
condizioni entro le quali l’individuo costruisce la propria identità nel corso della vita.
Uno dei modi più interessanti di vedere il cambiamento ai fini del presente lavoro di ricerca è dato
dall’approccio fenomenologico e dalla teoria del campo di Kurt Lewin (1972). Il campo è stato
definito dall’autore come una totalità di fatti coesistenti nella loro interdipendenza a partire dal
quale è possibile dedurre il comportamento di una persona o di un gruppo: per comprendere a
pieno qualsiasi tipo di fenomeno psicologico, tra cui il cambiamento, non è possibile escludere
nessuno dei fattori interagenti e costitutivi il campo psicologico stesso, siano essi di carattere
percettivo quindi consci che inconsci. 7 Qualsiasi comportamento o qualsiasi altro mutamento entro
un campo psicologico dipende soltanto dalla particolare configurazione del campo psicologico a
quel dato momento (principio di contemporaneità).
Lo sviluppo del soggetto è considerato da Lewin come “cambiamento dello spazio di vita” (1972) e
si esplica in una prospettica temporale tra passato e futuro attraverso un processo di
differenziazione delle regioni che costituiscono il suo campo psicologico. Con la crescita
l’individuo aumenta il numero di regioni che compongono il suo campo, acquisendo un grado di
complessità maggiore. Il cambiamento avviene quindi per aumento del numero delle regioni e
diversa combinazione o ricombinazione tra loro. “Un tale allargamento della prospettiva temporale
può essere visto come un tipo di mutamento della struttura cognitiva” (ibidem). Questo aspetto del
cambiamento interconnesso cioè alla dinamiche di apprendimento verrà trattato nel terzo capitolo.
Concludendo, quello che ci preme sottolineare è come questa visione dell’uomo abbia dato seguito
a tutta una serie di studi sui processi trasformativi che si verificano quanto l’individuo è inserito
all’interno di un gruppo. Lewin concepisce il gruppo come un grande campo, all’interno del quale
ogni individuo rappresenta una regione che, sulla base di quanto detto sopra, risulta interdipendente
6
Si veda D. Fabbri, B. Munari, Strategie del sapere. Verso una psicologia culturale, Dedalo, Bari, 1984.
Sulla base di quanto postulato dall’autore un determinato comportamento (C) è sempre funzione della persona (P) e
dell’ambiente psicologico in cui essa è inserita (A), in base all’equazione C = f (P, A) dove A e P costituiscono
variabili coesistenti e interdipendenti. La persona e il suo ambiente psicologico, suddivisi a loro volta in un certo
numero di unità o regioni (periferiche/zona percettivo-motoria e centrali/zona interno-personale), costituiscono il così
detto “spazio di vita” (Lewin, 1972 in Stella, Quaglino, 1982).
7
17
rispetto alle altre regioni/elementi del gruppo. L’interdipendenza della totalità dinamica creata
attraverso la relazione tra individuo, gruppo e ambiente circostante costituisce il campo del gruppo.
In virtù di questa forte interdipendenza il cambiamento del gruppo cambia anche l’individuo per
mezzo di situazioni conflittuali che se sapientemente gestite possono scaturire un “mutamento
programmato”, ossia un passaggio da uno stato iniziale a uno stato desiderato. “La teoria del campo
offre l’opportunità di interpretare il cambiamento secondo una visione strutturale sia dell’individuo
che del gruppo. Accettare le modificazioni degli equilibri presenti in una struttura individuale o di
gruppo costituisce la base del cambiamento” (corsivo nostro) (Battistelli, Majer, Odoardi, 2002, p.
46).
Il concetto di accettazione ci riporta alla formazione, il cui obiettivo unanimemente riconosciuto è
il cambiamento individuale ma che entro determinate condizioni, come postulato da Quaglino in
“Fare Formazione” (2005), può condurre al cambiamento organizzativo: se è vero infatti che gli
individui debbono essere disposti a cambiare, le organizzazioni a loro volta devono essere disposte
ad apprendere. Le condizioni di cui parla l’autore sono:
1- la formazione deve essere pensata e realizzata nei termini di processo: detto altrimenti ogni attività
formativa non può prescindere dall’individuazione di un sistema informativo (analisi dei bisogni e
valutazione dei risultati) e da un sistema operativo (progettazione e azione formativa);
2- la formazione deve condividere un significato e un orientamento strategico (rispetto al
progetto/meta/traguardo e non al problema), in quanto presidio dei processi di trasmissione del
sapere e adeguamento del know-how, veicolo di riqualificazione e crescita professionale, spunto di
riflessione e gestione delle recenti trasformazioni in materia di sistemi di relazioni e sistemi di
valore proprie delle organizzazioni e del mondo del lavoro;
3- la formazione deve richiede tecnologia adeguata ed espressione dei valori: “la formazione va
orientata secondo la configurazione della complessità. Essa richiede tecnologia adeguata: […]
attrezzatura più ricca, ma anche teoria più solida” (Quaglino, 2005, p. 16). Ciò che è sicuro è che
esclude ogni tendenza alla semplificazione. “La configurazione della complessità richiede tuttavia
non solo tecnologie più sofisticate ma anche espressione di valori” (ibidem). Il recupero dei valori
vuol dire anche e soprattutto recupero della centralità del soggetto all’interno del progetto
educativo. L’attività di formazione non deve mai perdere di vista colui che apprende, i suoi
bisogni, il contesto in cui si trova agire/interagire.
“Dunque la formazione come processo, orientamento strategico, tecnologia ed espressione dei
valori rappresentano le condizioni vincolanti ogni attività formativa al pieno raggiungimento delle
18
finalità individuate dal legame tra apprendimento individuale e cambiamento organizzativo”
(Quaglino, 2005, p. 17) la cui complessità può essere graficamente resa come nella fig. 2.
Figura 2
(da G.P. Quaglino, Fare Formazione, 2005, pag. 17)
Torneremo a parlare di cambiamento più volte nel corso di questo elaborato: in relazione alla sfera
individuale nel capitolo dedicato all’apprendimento e in relazione alla sfera organizzativa
nell’excursus storico del concetto di formazione che vede la pratica formativa come
inestricabilmente legata al mondo delle organizzazioni e del lavoro. La ricostruzione teorica della
formazione d’orientamento psicosociale, il tema dell’apprendimento e delle dinamiche di
socializzazione ad esso sottese ci permetteranno di circoscrivere una serie di argomentazioni
attraverso cui motivare e analizzare il cambiamento e il ruolo della formazione in questa delicata
dinamica di attori e contesti sociali.
Complessità
Il concetto di complessità è un argomento attorno al quale si accendono oggi importanti discussioni
in materia di sapere scientifico ed epistemologia. Emergendo da una tradizione contraria, quella del
riduzionismo, l’esigenza della complessità di concretizza come atteggiamento critico nei confronti
della logica della specializzazione e del razionalismo/empirismo della scienza classica e come
recupero della centralità del soggetto che processo conoscitivo. In questo senso, “il complesso
sorge come impossibilità di semplificare, là dove l’unità complessa si disintegra se la si riduce ai
19
suoi elementi, là dove si perdono distinzione e chiarezza nella casualità e nelle identità, là dove le
antinomie deviano il corso del ragionamento, là dove il soggetto osservatore sorprende il suo
proprio viso nell’oggetto della sua osservazione” (Morin, in Anselmo e Gembillo, 2002, p. 145).
Pertanto, “quello che il pensiero complesso può fare è fornire a ciascuno un promemoria, un
appunto: non dimenticare che la realtà è cangiante, non dimenticare che può sempre presentarsi
qualcosa di nuovo, che in ogni modo qualcosa di nuovo si presenterà. La complessità si pone,
infatti, come punto di partenza per un’azione più ricca, meno mutilante” (Morin, 1993, p. 83).
Coerentemente con questo nuovo visus, le vie della complessità, di cui Morin (1999) parla in
termini di “sfida”, la “sfida delle sfide”, ci apre alla molteplicità delle prospettive interpretative dei
fenomeni dell’umano, orienta il nostro approccio alla formazione e al tempo stesso fornisce degli
spunti di riflessione sui vissuti che la riguardano.
Dal punto di vista storico e teorico la sequenza a cui si è accennato nella parte introduttiva
paideia/humanitas/Bildung dimostra come la formazione (con essa anche l’attenzione riposta
nell’attività formativa) abbia attraversato la storia occidentale mantenendo intatta la sua identità
plurale e dinamica, a partire dalla quale mostrarsi oggi in tutta la sua complessità. Rispetto al
passato è però evidente che la formazione abbia subito un’opera di ridefinizione in chiave tecnicoscientifica, cedendo alla pragmatismo proprio della nostra epoca parte della sua umanità. Ha
sicuramente acquisito un grado di maggiore specializzazione e tecnicizzazione ma ha perduto i suoi
referenti socio-culturali immeditati sia come modello che come valore. “Certamente la condizione
è inquietante, complicata, non lineare. Ma qui il fascino attuale della categoria e il suo ruolo che ci
appare sempre più determinante. Inquietante e determinante insieme, proprio nella sua
complessità” (Cambi, in Agosti, 2006, p. 23).
Come riconoscono gli autori Margiotta e Salatin (“La formazione come fenomeno complesso” in
Bellotto, Trentini, 2000), la condizione di complessità in cui versa la formazione è espressione di
tutta una serie di aspetti maturati nel corso delle numerose trasformazioni che hanno investito le
società industriali e dei quali parleremo più avanti. Tra questi gli autori ne riconoscono alcuni:
-
il venir meno delle linee di demarcazione tradizionali dei fenomeni formativi: ferme restando le
distinzioni tra formazione iniziale e continua, non è semplice riuscire a riclassificare le pratiche
formative in base alle loro implicazioni sul versante economico, sociale e personale. Sentiamo
infatti parlare di formazione professionale, manageriale, aziendale, comportamentale, relazionale,
di gruppo, outdoor, ecc. Le definizioni sovrabbondano ma per interpretare adeguatamente la
complessità di cui stiamo parlando è evidente che vanno escluse procedure di semplificazione,
pensando la formazione come spazio trasversale ai sistemi e percorsi di vita, ovvero come pratica
20
sociale non interpretabile senza i suoi attori e fuori da un preciso “contesto” (organizzativo,
professionale, personale, culturale).
-
la reversibilità delle sfere d’azione professionale e non professionale, ovvero di lavoro e privata,
familiare, comunitaria, ecc. Nonostante non ci sia ancora disponibilità in questo senso da parte
delle organizzazioni, l’aspetto professionale e privato condividono inevitabili momenti di
continuità, la cui negazione toglie sicuramente forza alle pratiche formative attuali. La domanda di
formazione risponde infatti sempre meno alle richieste di integrazione della formazione iniziale e
sempre più alla necessità di sostegno e partecipazione alla transazione sociale in atto. Nonostante
l’offerta formativa sia aumentata a dismisura in modo sregolato e disfunzionale, le esigenze
crescenti di accompagnamento, tutela, ascolto, specializzazione, crescita individuale e
professionale restano spesso lasciate in sospeso. La problematicità maggiore sembra legata alla
crescente artificialità delle pratiche di formazione e al rischio di dissociazione tra attese individuali
e esigenze funzionali, tra momento formativo e ritorno alla vita quotidiana, tra acquisizione di
contenuti e produzione di sapere, tra cognizione e meta-cognizione, tra autoformazione volontaria e
formazione data.
Nelle società tecnologicamente avanzate come le nostre, anche dette società dell’informazione e
della conoscenza, lo spazio dedicato alla formazione è notevolmente aumentato sia dal punto di
vista della domanda e dell’offerta che dal punto di vista delle politiche del lavoro e dello sviluppo.
Essa è infatti sempre più considerata dagli esperti della materia come un fattore della produzione,
al pari del capitale e del lavoro (Margiotta, Salatin, in Bellotto, Trentini, 2000). La produttività
della formazione si misura con le aspettative di tipo politico e sociale: tra queste, innanzitutto
adeguare i profili scolastici e professionali a quelli di tipo tecnologico-scientifico dei processi di
innovazione odierni (si pensi alle tecnologie ICT “Information and Communication Technology”),
alzando e specializzando il livello medio di conoscenze socialmente necessarie nei settori del
lavoro e della vita quotidiana; colmare il divario esistente tra trasformazione organizzativoprofessionale ed evoluzione dei profili personali, ossia tra calendario economico e sociale; gestire
gli effetti della destabilizzazione derivante dalla complessificazione dei ruoli sociali (in termini di
responsabilità, competenze, scambi relazionali) e dalla pluralizzazione delle culture e dei valori.
Se pertanto nella società di tipo industriale la formazione veniva percepita come un diritto sociale
da conquistare, nella società post-industriale il formare/formarsi è innanzitutto una necessità alla
quale viene riconosciuto una valenza strategica bi-polare: “come luogo di adattamento alle nuove
esigenze, ai nuovi ritmi sociali, in un contesto di competizione e trasformazione, e come necessità
21
di sviluppo, di autonomia creativa, a partire dalla sfida delle tecnologie, della complessità, del
politeismo dei valori” (Margiotta, Salatin, in Bellotto, Trentini, 2000, p. 13).
Le complessità proprie del nostro sistema sociale non fanno che amplificare le storiche
problematicità e le ambiguità delle pratiche di formazione. Come già accennato, nel passaggio dalla
società di tipo industriale a quella post-industriale tante cose sono cambiate ma molte sono rimaste
in una situazione di sospensione e confusione tali da rendere difficile, oggi, la comprensione di
innumerevoli realtà ormai consolidate in materia di formazione. Da alcuni decenni proprio nel
tentativo di dare lettura di queste e altre ambiguità, diverse scienze umane hanno intrapreso un
percorso di studio e osservazione dei fenomeni formativi. Tra queste possiamo annoverare la
psicologia, la sociologia, l’economia, l’antropologia culturale, ecc. Ogni disciplina ha contribuito
ad offrire spunti di analisi diversi, articolando in modo esponenziale la pluralità e la dinamicità
caratteristiche della formazione, sempre meno circoscrivibile alla dinamica lineare e contenutistica
formatoreformando, sempre più “processo-di-processi” (Cambi, in Agosti, 2006) permeabile da
parte dei numerosi fattori di contesto e individuali, siano essi legati alla sfera dell’io,
dell’emotività, dell’esperienza che del mondo, cultura, società, storia a cui si appartiene.
1.3. Excursus storico
Se è vero che per offrire adeguata lettura ai fenomeni della formazione non si può fuoriuscire dalla
dinamica individuo-contesto e dalla dialettica oggi in atto tra approccio scientifico-empirico da un
lato e approccio riflessivo-filosofico (critico-interpretativo) dall’altro, è ancora più vero che il
ripercorrere le tappe salienti del divenire storico delle pratiche di formazione può offrirci solide
motivazioni a sostegno di questa nostra impostazione.
Innanzitutto va chiarito che in questo quadro di analisi storico/culturale/sociale seguiremo una
periodizzazione delle pratiche formative attraverso le fasi di sviluppo dell’industria in Italia e nel
mondo: fase pre-taylorista, fase taylorista/fordista, fase post-fordista o post-industriale.
L’attenzione è inevitabilmente focalizzata sui contesti di tipo organizzativo/aziendale quindi sulla
formazione di tipo lavorativo ovvero sulla formazione degli adulti intesa in senso socioprofessionale e socio-culturale.
“L’intera storia dell’umanità può essere rappresentata come storia del lavoro umano, dalle forme più
antiche, dirette a controllare e dominare le forze della natura, fino alle più recenti continue trasformazioni
dell’ambiente fisico e sociale. Su questa base si può comprendere l’attenzione con la quale è stato, sin dai
tempi più remoti, seguito il processo di formazione e di preparazione dell’uomo al lavoro” (Avallone,
2009, p. 11).
22
La formazione di massa è un fenomeno abbastanza recente. Fino all’800 istituzioni e opportunità di
formazione “qualificata” erano una prerogativa solamente di alcuni ceti sociali, quali militari,
ecclesiastici, funzionari di stato. L’evoluzione della società industriale e le rivoluzioni sociali e
politiche ad essa connesse hanno permesso la fuoriuscita della formazione dai confini d’élites e
attraverso sistemi di istruzioni pubblica, iniziative di educazione professionale, ha dato il via ad un
iter di progressiva democratizzazione delle attività formative. Nelle società tradizionali a base
economica agricola e artigianale, la preparazione al lavoro avveniva attraverso l’addestramento
diretto dei giovani all’interno dei contesti familiari o dei laboratori artigiani. Il fine delle partiche di
formazione era quindi prevalentemente consentire il passaggio delle conoscenze tecniche utili allo
svolgimento di un determinato lavoro. La situazione non cambia molto con l’avvento della
rivoluzione industriale. Nella fase pre-taylorista dell’organizzazione del lavoro, la formazione
consisteva nell’affiancamento del lavoratore, detentore di un mestiere che presentava ancora i tratti
peculiari della cultura artigiana. La formazione sostanzialmente era frutto di apprendistato e
accumulazione di esperienze.
Una modificazione strutturale importante dell’organizzazione del lavoro e della stessa formazione
si ha invece con l’avvento del Taylorismo e dello Scientific Management d’impresa. Durante i
primi decenni del XX secolo prima in America e poi in Europa, grazie all’applicazione delle teorie
razionaliste di Frederick Winslow Taylor (1856-1915) ed alla “produzione di massa” di Henry Ford
(1863-1947) la realtà organizzativa dell’azienda viene riletta e riformulata a partire dalla
conoscenza "scientifica" dei processi produttivi.
Il progetto enunciato da Taylor era di voler superare l’empirismo che fino a quel momento aveva
caratterizzato il sistema di lavoro e formazione, vale a dire la conoscenza implicita, derivante
dall’esperienza e dalla tradizione, promuovendo forme non spontaneistiche di addestramento.
Presupponendo che il lavoro manuale potesse essere razionalmente analizzato, parcellizzato e
scomposto in sotto-unità (task), il Taylorismo diviene un esempio concreto di applicazione dei
modelli scientifici all’organizzazione del lavoro. I principi di base della teoria taylorista possono
essere così brevemente riassunti: analizzare la mansione da svolgere scomponendola in singoli
passaggi; creare sulla base di questa analisi il prototipo del lavoratore adatto a quel tipo di
mansione; selezionare il lavoratore ideale, al fine di formarlo e introdurlo nell'azienda. È
indispensabile identificare per ogni mansione da svolgere un lavoratore adatto al raggiungimento
degli obiettivi prefissati, porre cioè l’uomo giusto al posto giusto (il questa logica l’uomo non è
altro che una macchina muscolare e in quanto tale descrivibile scientificamente mentre lavora). La
migliore produzione si determina quando ad ogni lavoratore viene affidato un compito specifico, da
23
svolgere in un determinato tempo e in un determinato modo. Quanto più un compito sarà
scomponibile e parcellizzabile, tanto più facilmente potrà essere standardizzato. Esiste cioè un solo
modo razionale e scientifico per svolgere un compito (“one best way”).
Nella logica della razionalizzazione di tutti i passaggi delle singole attività produttive, ogni figura
produttiva, all’interno della catena di lavoro, viene formata con l’obiettivo di renderla capace di
svolgere con esattezza le sue mansioni.
La riorganizzazione taylorista del lavoro non riguardò solo i processi di produzione ma anche
quelli decisionali ovvero manageriali, promuovendo una rigida divisione tra lavoro intellettuale e
manuale. Il taylorismo presupponeva una cultura manageriale secondo cui ciascun lavoratore era
affidato ad un supervisore-responsabile (manager). Dovere dei manager, che sulla base delle
verifiche empiriche stabilivano quale compito specifico ciascun lavoratore dovesse svolgere, era
fornire istruzioni dettagliate e una supervisione del rendimento del salariato.
L'applicazione pratica di questi principi apre la strada alla prima catena di montaggio, introdotta
negli stabilimenti della Ford Motors Company nel 1913, che di fatto modificava tutta
l'organizzazione del lavoro nelle industrie, superando il tradizionale modo di produrre. Da qui l’uso
dell’espressione Fordismo per questa nuova fase dell’organizzazione industriale, dove la fabbrica è
interamente progettata a partire dal sistema delle macchine.
Le caratteristiche salienti di questa nuova fase sono: 1) l’accentuazione della segmentazione del
lavoro in linea con le procedure tayloriste e la definitiva cancellazione del concetto di “mestiere”,
2) la rigida divisione del lavoro in intellettuale/manuale, direttivo/operativo e la conseguente
organizzazione gerarchico-funzionale delle aziende sulla base dei tre cardini “progettazione”,
“produzione”, “vendita”, 3) utilizzo di macchine dette “speciali”, semplici, veloci e poco flessibili
per le quali sono necessari operari sempre meno specializzati, 4) produzione di massa e seriale
basata sulla divisione tecnica del lavoro organizzata secondo la logica della catena di montaggio, 5)
crescita della produttività e corrispondente contenimento dei costi di produzione, 6) aumento dei
salari, compartecipazione agli utili, riduzione della settimana lavorativa, 7) riduzione dei prezzi dei
prodotti e accessibilità ai consumi da parte della classe operaia, 8) massificazione dei consumi.
Ciò che distingue il Taylorismo dal Fordismo è proprio la concezione del lavoratore, inteso da Ford
come artefice di un prodotto di cui diventa potenziale consumatore. Il Fordismo, pertanto, non è
stato solo un innovativo metodo di organizzazione del lavoro, ma, intervenendo sul sistema
tecnico-produttivo e sugli stessi lavoratori, anche un modello di trasformazione sociale dovuta al
rapporto tra produzione di massa e consumo di massa.
24
All’interno delle organizzazioni “fordiste”, la formazione cambia radicalmente fisionomia: diventa
addestramento rispetto a mansioni specifiche, funzionali all’uso ottimale dei macchinari.
L’obiettivo di base era far acquisire all'operaio una totale dimestichezza rispetto ad una singola
operazione così da eseguirla più rapidamente, riducendo i tempi di lavorazione. L’idea di qualità
del lavoro poteva essere sintetizzata attraverso i principi di standardizzazione e velocità. Così
facendo, la dimensione individuale soggiaceva a quella organizzativa e più specificatamente a
quella produttiva, secondo le logiche di economicità e razionalità. Tutto ciò portava però ad una
snaturalizzazione del processo lavorativo che causava una caduta di motivazione da parte
dell’operaio, il quale iniziò ad identificare nella sicurezza economica e nella poca fatica, gli unici
valori che lo portavano a proseguire nelle proprie mansioni (“orientamento strumentale al
lavoro” 8). Inoltre, il fatto di non riuscire a vedere il risultato conclusivo del proprio operato, ma
esclusivamente un passaggio del processo globale di produzione, lo portavano a sentirsi poco
partecipe in ciò che stava compiendo e ad agire in maniera semplicemente meccanica.
Per soddisfare queste nuove esigenze formative/addestrative ebbero origine numerose scuole
professionali, aziendali e non, pubbliche e private: le imprese potevano in questo modo
esternalizzare la gestione della formazione, come molto spesso avviene anche oggi, delegando agli
enti scolastici separati e distinti dal contesto di lavoro il delicato compito di trasmissione delle
conoscenze professionali e dei valori d’impresa. “La circostanza che le imprese si pongano solo
come entità che acquisiscono e gestiscono operativamente forza lavoro e che si sottraggono al
compito della formazione di base dei loro componenti non sembra rispondere solo alle esigenze di
contenimento dei costi ma a una più precisa scelta di politica imprenditoriale che, privilegiando il
momento produttivo, del fare, dell’esistente, del costituito, vuole rimanere estranea ai processi
soggettivi e collettivi di elaborazione o rielaborazione di una cultura professionale e, quindi, anche
ai processi di cambiamento che la formazione spesso consente di attivare ed esprimere”
(Manoukian, 1976, in Avallone, 2009).
Sarà a partire dagli anni ‘30 che, grazie all’individuazione della sostanziale importanza della
dimensione psico-sociale del lavoro, la formazione inizierà ad essere concepita al di là del prodotto
del lavoro. Si vedano in tal senso gli studi di Elton Mayo (1880-1956) sul rendimento in relazione
alla monotonia a la fatica 9. In polemica con il taylorismo, Mayo rivendica l’importanza dei fatti
8
Per approfondimenti: J.H. Goldthorpe, D. Lockwood, F. Bechhofer, The Affluent Worker: Industrial Attitudes and
Behaviour, Cambridge University Press, 1968.
9
Lo studioso grazie ad una serie di ricerche in campo aziendale mise in luce la possibilità di interpretare le realtà delle
organizzazioni di lavoro facendo riferimento ad aspetti, non tecnici o economici come era stato fatto fino a quel
momento, psico-sociali. Le note ricerche di Hawthorne condotte tra 1927 e 1932 hanno il merito di aver stabilito una
correlazione tra il fattore rendimento e la situazione sociale, emotiva delle lavoratrici osservate. A tal proposito di veda:
E. Mayo, I problemi umani e socio-politici di una civiltà industriale, Utet, Torino, 1969. Il pensiero di Mayo ereditato
25
psicologici nelle attività lavorative: a suo avviso l’azienda è un sistema di sentimenti e di
aspettative oltre che di produzione. Nonostante questa presa di coscienza, ancora poco condivisa
all’epoca, gli interventi formativi che non fossero puro addestramento (appannaggio di soli
dirigenti e quadri) pur manifestando sempre più un orientamento alle dinamiche di gruppo, erano
ancora lontani dall’investire attenzione su questo tipo di fattori.
Dalla seconda metà del ‘900, il modello fordista fu gradualmente soppiantato da una nuova
concezione del processo produttivo e della figura del lavoratore: il modello “post-fordista”, di cui
un’ulteriore evoluzione è rappresentata dal modello Toyota Production System ideato nel secondo
dopo-guerra nell’omonima industria giapponese. Entrambe i modelli sono rappresentativi di uno
stile organizzativo detto “post-industriale”.
Col “post-fordismo” si abbandona l’idea standardizzata di prodotto ed inizia una produzione più
flessibile, capace di rispondere alle crescenti esigenze del mercato. In contrapposizione con la
caratteristica rigidità del sistema fordista, la nuova idea di flessibilità viene perseguita dalle aziende
dell’epoca grazie all’impiego dell’Information and Communication Technology (ICT) nei sistemi
di produzione.
Questo nuovo modello ha provocato notevoli conseguenze non solo dal punto di vista
organizzativo ma anche sociale: 1) ha segnato il passaggio definitivo dal paradigma meccanista
(esecuzione di compiti fissi) a quello sistemico (controllo di processi complessi); 2) ha introdotto
tecnologie di nuova generazione, macchine automatiche, robot, e macchine a controllo numerico
che in parte si sono sostituite ai lavoratori procurando una inevitabile diminuzione del numero dei
dipendenti e un aumento del tasso di disoccupazione rispetto al periodo fordista; 3) ha contribuito a
cambiare il ruolo degli operai, trasformandoli da semplici esecutori in pluri-operatori, cioè in
tecnici polivalenti e multifunzionali dotati di competenze, conoscenze e abilità estese ad ambiti
differenti (produzione, riparazione, controllo della qualità, programmazione); 4) ha richiesto ai
lavoratori di essere meno passivi e più autonomi, di elaborare informazioni di diversa natura, di
saper prendere decisioni operative, elevando così il grado di motivazione nel lavoro, legato non
solo all’aspetto economico; 5) lo stile di comando dirigenziale è mutato in un sistema più
partecipativo nei confronti dei dipendenti, che contribuisca al mantenimento di un morale alto e
porti ad una loro elevata responsabilizzazione; 6) ha rivoluzionato l’immagine del lavoratore,
considerato capace di creatività e ingegnosità e quindi indispensabile allo sviluppo aziendale; 7) ha
permesso maggiore mobilità dei lavoratori all’interno e all’esterno delle aziende; 8) la forza delle
sotto il nome “scuola della relazioni umane” successivamente, a partire dal secondo dopoguerra, contribuirà ad
orientare l’approccio psicosociologico agli studi sulle organizzazioni noto come “Sviluppo Organizzativo” (Stella,
Quaglino, 1982).
26
imprese attuali è rappresentata proprio dal capitale umano e ciò si traduce in un maggiore potere
contrattuale da parte del personale in possesso di competenze chiave.
Il post-fordismo segna la fine del sistema di formazione orientato allo svolgimento di una specifica
mansione utile per l’intero arco della vita. Citando Avallone (2009, p. 13) a proposito di questo
periodo storico della formazione: “ nasce un nuovo interesse per la formazione, certamente
sollecitato dall’esigenza di adeguare il lavoro ai processi di automazione e di ristrutturazione; dalla
ricerca di più elevati livelli di efficienza nella conduzione dell’impresa; dalla necessità di
esaminare e comprendere i complessi rapporti all’interno dell’organizzazione e nell’ambiente
sociale, sui quali si fonda buona parte della capacità di sopravvivenza e rinnovamento delle
aziende; dall’opportunità di una effettiva valorizzazione della risorsa umana quale si cominciano a
richiedere – per lo meno a certi livelli di inquadramento – capacità critiche, creatività e
disponibilità al cambiamento”.
Grazie all’evoluzione dell’analisi psicologica del lavoro risalente agli anni ‘30 del Novecento
(all’interno della quale un ruolo deciso è stato giocato dalla teoria del campo di Lewin esaminata in
precedenza e dagli studi di Mayo sopra menzionati) 10, la formazione inizia un percorso di
diversificazione dei propri programmi a seconda dei ruoli e degli obiettivi organizzativi: da un lato
a sostegno del management nella funzione di facilitatore dei flussi di informazioni finalizzati
all’assunzione di decisioni strategiche e di organo dedito al coordinamento delle relazioni intra e
inter-gruppo/reparto, dall’altro a sostegno dei lavoratori, non più depersonalizzati, semplici
appendici di macchinari, ma motivati, in grado di compartecipare alle responsabilità di lavoro e
gestire gli aspetti tecnologici, culturali e relazionali delle proprie mansioni.
Cambiano quindi i contenuti: non più solo di tipo tecnico-operativo ma aperti ai temi organizzativi,
della psicologia, della sociologia, ritenuti strategici per il corretto funzionamento delle dinamiche
di lavoro. Tra questi: la comunicazione, la leadership, il gruppo, la motivazione, il conflitto, ecc.
Comunicare, interagire, apprendere sia frontalmente che attraverso i moderni mezzi elettronici ed
informatici si rivelano come risorse strategiche non solo per gli individui, ma anche per la società
stessa. Cambia l’immagine dell’adulto che lavora e si forma, “risorsa umana” strategica per
l’impresa, attore sociale in un mondo complesso in continuo cambiamento. Cambiano anche i
luoghi e i tempi della formazione, non più delegata solo a strutture esterne alle organizzazioni, alle
scuole professionali, ma anche ad agenzie interne alle organizzazioni stesse deputate alla gestione
10
“Il lavoro di Elton Mayo e l’apporto metodologico di Kurt Lewin costituiscono, unitamente alle formulazioni sul
comportamento umano espresse dalle teoria psicologiche del “behaviorismo”, il fondamento di quell’approccio
psicosociologico allo studio e all’intervento sulle organizzazioni noto come “Sviluppo Organizzativo” (Organizational
Development)”. (Stella, Quaglino, 1982, pag. 65).
27
del personale anche in questo senso. Inoltre la formazione degli adulti smette di essere un momento
antecedente all’ingresso nel mondo del lavoro o all’assunzione di un ruolo; infatti non solo può
rivolgersi alla totalità dei lavoratori ma rappresenta un’opportunità oltre che una necessità che
evolve insieme all’individuo e lo accompagna durante tutto l'arco della vita.
La formazione d’epoca post-fordista si dichiara attenta al soggetto, al soggetto inteso nella
dimensione di gruppo e nell’organizzazione, capace di valorizzare i percorsi formativi informali
andando ad attingere dalle esperienze di vita e dai vissuti di lavoro quotidiani (si pensi alle recenti
pratiche di formazione outdoor). Come vedremo però esistono molte lacune e incoerenze tra il
“dire” e il “fare” formazione. Nonostante infatti la pratica formativa e la stessa idea di formazione
siano evolute in modo significativo in tutto l’arco del ‘900, scandita dalla numerose conquiste della
tecnica e dell’industria, restano delle zone d’ombra ancora oggi presenti in molte occasioni.
Avallone in “Formazione psicosociale” (1989) parla del persistere di “una concezione colmativa”
indicativa del fatto che si fa formazione per sopperire alle lacune e inadeguatezze professionali del
lavoratore, sia esso operaio che tecnico, impiegato o manager; nella maggior parte dei casi si
continua a proporre una separazione tra sapere e sapere tecnico, tra esperienze lavorative ed extralavorative, tra formati e non formati, tra gerarchie professionali. In ultimo, onde evitare di scaturire
riflessioni che potrebbero risultare problematiche, si finisce per evitare ogni ruolo di analisi e
interrogazione sul sistema organizzativo che resta spesso ai margini della formazione, sui
significati soggettivi dell’esperienza lavorativa, sulle dinamiche profonde che percorrono la vita
organizzativa. Le organizzazioni che fanno formazione hanno bisogno di essere rassicurate rispetto
alle esigenze colmative individuate: fortemente legate alla dimensione del “fare”, del “toccare con
mano” chiedono alla formazione sapere e competenze, “risultati” subito spendibili in ambito
lavorativo. In questo modo però viene a mancare la cura e l’attenzione verso dinamiche profonde,
individuali, gruppali, organizzative, particolarmente significative per il successo delle stesse attività
formative e il cambiamento.
La formazione psicosociale rappresenta un settore di ricerca e attività sensibile a queste tematiche.
Ci occuperemo più approfonditamente di questa realtà nel prossimo capitolo, mentre torneremo
sull’aspetto colmativo della formazione nella parte dedicata al nostro lavoro di ricerca in azienda.
1.4. La formazione: una realtà in transizione
La formazione è innanzitutto una dinamica relazionale a più livelli (formatore-formando-gruppoambiente), a sua volta inserita all’interno di un più ampio contesto sociale, sia esso organizzativo
che istituzionale, che ne determina opportunità e vincoli. Si pensi ai vincoli imposti dalla
28
committenza in sede di pianificazione o ai vincoli economici di budget. Da qui il noto modello
triangolare committente-formatore-formando. In questa dinamica di natura individuale e collettiva
al tempo stesso, la formazione inevitabilmente diviene occasione di negoziazione e costruzione di
significati che permettano la riconoscibilità dei suoi tratti distintivi.
La complessità insita nel fenomeno della formazione risiede proprio in questo suo essere al tempo
stesso luogo d’incontro di differenze (individuo e collettività): in sede di analisi, a seconda della
lente che si va ad utilizzare, micro o macro, si hanno impressioni, informazioni, dati e risultati
diversi. Di qui la pluralità (dei significati), la sfuggevolezza (delle definizioni), l’ambiguità (delle
categorizzazioni), la problematicità (delle pratiche) e la contraddittorietà (dei fattori costitutivi) le
cui origini vanno ad iscriversi nel tomultuoso divenire storico delle pratiche di formazione e nelle
logiche nel sistema sociale attuale.
Le differenze a cui ci stiamo riferendo, insieme a tutte le altre accezioni quali complessità,
pluralità, ecc. seppur rendono difficile la gestione di questo tema tanto importante da essere
considerato di valenza sociale, ne rappresentano al tempo stesso le peculiarità distintive. Peculiarità
che non andrebbero evase o scavalcate nel tentativo di semplificazione; probabilmente è nella
stessa complessità, oggetto del nostro riflettere, che possiamo trovare le chiavi d’accesso alla
comprensione e all’interpretazione del fenomeno formazione.
“Descrivibile, non formalizzabile, la formazione è luogo sorgente della differenza: non spazio di
dimostrazione della verità. Infatti la sua spiegazione immiserisce ove la si confini entro dimensioni
cartesiane di analisi; mantiene intatto il suo potenziale di senso, invece, se e quando la si disloca nella
ricostruzione topologica delle trasformazioni avvenute o evenienti. Dire la formazione, infatti, significa
essenzialmente ricostruirne la storia” (Margiotta, Salatin, in Bellotto, Trentini, 2000, p. 58).
La trasposizione storica della nostra analisi ha messo in evidenza come la formazione sia una
pratica fattuale fondata sullo stretto coinvolgimento di azione formativa e processi organizzativi,
ovvero sull’esistenza di iniziative educative che interessano individui adulti e organizzazioni. Si
contraddistingue per avere un esplicito coinvolgimento nei confronti delle logiche economiche,
rappresentando un costo, quindi un investimento, e un fattore di produttività e sviluppo. Se
inizialmente la formazione era vista come veicolo dell’adattamento passivo degli individui
all’organizzazione (formazione come addestramento, passaggio di informazioni utili all’esecuzione
di mansioni – paradigma fordista), da alcuni decenni a questa parte prevalgono orientamenti inclini
a dare una lettura evolutiva in termini di sviluppo e apprendimento (formazione come cambiamento
individuale e organizzativo). Inoltre, se è un dato di fatto che i fenomeni delle “pratiche di
formazione continua” di tipo o a fini professionali siano le più diffuse, la distinzione tra formazione
“socio-culturale” e formazione “socio-professionale” seppur valida, non mostra dei confini rigidi e
i casi di commistione sono molteplici (ibidem).
29
Riprendendo in mano le riflessioni iniziali su cambiamento e complessità, focalizziamo in questa
sede alcuni passaggi del breve excursus storico realizzato nel precedente paragrafo e attraverso di
essi andiamo ad esplorare con un grado di approfondimento maggiore il processo di costruzione dei
contenuti concettuali e di metodo che caratterizzano le pratiche formative nelle organizzazioni.
Parleremo di “cultura della formazione”, nel tentativo di dare approfondimento ai meccanismi
mediante cui si è andato costituendo un linguaggio e un sapere condiviso sulla formazione. Per fare
questo tipo di analisi seguiremo la logica longitudinale dei paradigmi “modernista”,
“neomodernista”, “postmodernista” (così come formulata da Lipari, 2002; 2003). Una siffatta
successione delle argomentazioni ci permetterà di verificare come 1) le pratiche formative ed i loro
orientamenti teorici e di metodo seguano gli sviluppi delle teorie e dei modelli organizzativi più
significativi e su di essi si strutturino, a testimonianza dell’ormai più volte menzionata relazione di
reciprocità esistente tra formazione e organizzazioni; 11 2) alcuni passaggi storico-culturali siano
ancora assolutamente attuali e come abbiano alimentato e sostenuto l’insorgere di una serie di
problematiche che ad oggi costituiscono degli aspetti ancora irrisolti in questo campo.
Paradigma modernista
Nel paradigma modernista, rappresentativo dell’approccio taylorista e fordista dell’organizzazione,
la formazione ricopre una funzione trainante i processi di riproduzione tecnica e di funzionamento
dell’organizzazione stessa: essa garantisce le pre-condizioni affinché le capacità operative
dell’individuo rispondano alle necessità esecutorie dei compiti individuati e dettagliati per il suo
ruolo dalla direzione mediante tecniche di job/skill analysis. La formazione in quest’ottica è un
presidio delle scelte tecniche dell’organizzazione: la logica dell’adattamento meccanico
dell’individuo al sistema di lavoro prevale sopra ad ogni altra cosa e la formazione non può che
essere definita come mero addestramento. Le procedure di analisi dei bisogni, progettazione e
valutazione dei risultati della formazione quando praticate risultano appiattite alle esigenze
dell’organizzazione. Gli obiettivi della formazione e dello stesso apprendimento sono ridotti ai
minimi termini: analisi del lavoro intesa come sequenze di operazioni da svolgere e determinazione
della abilità necessarie a svolgerle, addestramento dei lavoratori rispetto ai compiti e capacità
individuate. La formazione manageriale, seppur diversa per finalità e contesti, si basa sulla stessa
logica: orientata a garantire i contenuti e l’ideologia della leadership, ha funzione di consolidare
l’orientamento gerarchico dell’organizzazione.
11
La formazione è identificabile con quel “variegato campo di sapere, culture e pratiche professionali” la cui analisi va
fatta “proprio a partire dalla relazione costitutiva con i processi organizzativi […] risultando le organizzazioni il
referente contestuale più rilevante delle azioni formative” (Lipari 2002, pp. 10-15; cfr. 2003).
30
Paradigma neo-modernista
Il paradigma neo-modernista interpreta la diversa visione del mondo delle organizzazioni
caratterizzante il periodo a cavallo tra la fase storico-culturale taylorista/fordista e quella postindustriale. In questi anni, infatti, la logica deterministica ed economicista della macchina e
dell’organizzazione inizia a venir meno, facendo spazio a concezioni meno razionaliste, orientate
alla dimensione relazionale dei processi organizzativi e ad un recupero dell’immagine
dell’individuo, poco a poco sempre più attore sociale di pratiche lavorative situate. Come vedremo
nel corso della nostra analisi, sarà proprio in questa fase che la cultura della formazione inizierà a
strutturarsi in senso “psicosociale” 12, ciò grazie a tutta una serie di contributi che hanno influenzato
in modo inequivocabile il suo divenire.
“È la crescita stessa delle soglie dimensionali delle imprese e l’intreccio delle relazioni tra le
imprese stesse e tra imprese e società che pone al centro la questione del loro funzionamento in
condizioni di crescente complessità e di crescente instabilità degli ambienti di riferimento rispetto
ai quali si pongono nuovi e più dinamici problemi di adattamento. Da qui la necessità di
riconoscere la rilevanza sociale delle organizzazioni e la loro caratteristica di sistemi sociali dotati
di specificità difficilmente governabili secondo i principi dello «scientific management»” (Lipari,
2003, pp. 3-4).
Questa nuova logica deve i suoi natali alla “Scuola delle Relazioni Umane” identificabile negli
studi di Elton Mayo e all’approccio psicosociologico allo studio delle organizzazioni identificabile
con l’orientamento noto come “Sviluppo Organizzativo”. Di origini americane, l’Organizational
Development (OD) prende spunto dai lavori di Mayo cercando di superarne i limiti. Il punto
dipartenza è il medesimo: la convinzione che le organizzazioni possiedano un lato umano e la
conseguente rivalutazione delle dimensioni umane, affettive e relazionali della vita affettiva. Di qui
l’esigenza di conciliare la logica dei sentimenti (dell’individuo) con la logica economica
(dell’organizzazione) e lo studio di temi ritenuti funzionali allo scopo quali ad esempio il gruppo,
le emozioni, il rapporto tra i contenuti del lavoro e la ricerca di soddisfacimento dei bisogni
individuali. Sostanzialmente, la psicosociologia statunitense degli anni ‘50/‘60 si sforza di cogliere
il modo in cui l’individuo vive e si comporta all’interno delle organizzazioni (Stella, Quaglino,
1982). L’uomo a lavoro non è più un semplice prolungamento della macchina, è piuttosto un essere
12
Quaglino parla di origine “psicosociale” del pensiero sulla formazione. Tra i contributi più significativi in questo
senso, quello di K. Lewin risalente agli anni ’30 in materia di ricerca-azione e cambiamento. Gli studiosi di ambito
psicosociale, agevolati dai contributi lewiniani, sono stati gli unici ad essersi avvicinati ad un progetto di fondazione
teorica dell’azione formativa. A tal proposito si veda G.P. Quaglino, Op. cit., 2005, pag. 173.
31
dotato di emozioni e bisogni, desideroso di autorealizzazione e capace di coinvolgimento attivo nei
confronti del gruppo di cui è parte e dell’organizzazione stessa.
Tra i contributi più noti allo Sviluppo Organizzativo e all’integrazione tra le motivazioni
dell’individuo e le esigenze dell’organizzazione vanno annoverati gli studi sulla motivazione e sui
bisogni di Abraham Maslow, in base ai quali viene postula una gerarchia dei bisogni il cui
soddisfacimento orienta l’agire umano e quello lavorativo, il modello organizzativo di Douglas Mc
Gregor (sviluppato in contrapposizione con il modello classico di tipo taylorista lascia emergere la
nuova filosofia dell’uomo d’orientamento psicosociologico), la classificazione delle tipologie di
organizzazione in base al concetto di autorità di Rensis Likert (l’autore declina quattro diversi
modelli
“repressivo-autoritario”,
gruppo”).
13
“paternalistico-autoritario”,
“consultivo”,
“partecipativo-di
Al di là degli esempi appena fatti, lo Sviluppo Organizzativo si propone come una vera e propria
strategia d’intervento psicosociologico volta al cambiamento delle organizzazioni. Ispirato a valori
di carattere ideologico quali la collaborazione e la democrazia, stabilisce le fondamenta del proprio
pensare ed agire su una serie di assunti scaturenti dalla realtà sociale dell’epoca, ovvero: la
turbolenza dell’ambiente sociale continuamente attraversato da mutamenti rapidi e inaspettati (si
parla di esplosione dell’istruzione, esplosione delle conoscenze e della tecnologia, esplosione delle
comunicazioni, esplosione economica, esplosione demografica); il declino del modello
organizzativo di tipo burocratico in quanto rigido e incapace di interpretare la variabilità e
instabilità del panorama sociale ed economico; l’inevitabilità di fare riferimento ad un nuovo
modello organizzativo, definito cooperativo-democratico rispondente all’esigenza di integrare da
un lato la ricerca di soddisfacimento dei bisogni personali nel lavoro e nell’espletamento dei
compiti e dall’altro gli obiettivi produttivi dell’organizzazione. 14
Accanto al modello cooperativo-democratico, a suggellare le tendenze ormai in atto, verso la fine
degli anni ‘50, maturano una serie di studi sulla circolarità delle relazioni tra organizzazione e
ambiente e la conseguente constatazione del ruolo fondamentale dei fattori ambientali nella
costituzione e mantenimento dell’equilibrio organizzativo. In contrapposizione con il concetto di
sistema meccanico d’epoca fordista emerge e si consolida l’idea che l’organizzazione sia un
“sistema organico” e, come tutti gli altri organismi viventi, è aperto e sensibile agli stimoli
13
Per approfondimenti: A. Maslow, Motivazione e personalità, Armando, Roma, 1973 (ed. orig. 1954); D. McGregor,
L’aspetto umano dell’impresa, Franco Angeli, Milano, 1972 (ed. orig. 1960); R. Likert, Nuovi modelli di direzione
aziendale, Franco Angeli, Milano, 1973 (ed. orig. 1961); R. Likert, Il fattore umano nelle organizzazioni, Isedi,
Milano, 1961, (ed. orig. 1967).
14
Per approfondimenti: W. Bennis, Il cambiamento organizzativo, Isedi, Milano, 1974 (ed. orig. 1966); R. Beckard,
Strategia e modelli di sviluppo organizzativo, Etas Kompass, Milano, 1972 (ed. orig. 1969); E.H. Schein, Culture
d'Impresa, Raffaello Cortina Editore, 2000 (ed. orig. 1999).
32
dell’ambiente. Il modello organico è un modello flessibile e in quanto tale permette
all’organizzazione di adattarsi alla turbolenza ambientale, garantendone la sopravvivenza.
L’approccio sistemico è considerato anche attualmente uno degli approcci più autorevoli nello
studio delle organizzazioni: il suo successo è imputabile ai ricercatori inglesi del Tavistock
Institute, autori di un approccio socio-tecnico all’analisi e progettazione delle organizzazioni. Si
tratta di una prospettiva di studio e intervento al tempo stesso rispetto alla quale risulta centrale il
tema del cambiamento organizzativo la cui realizzazione non può prescindere dalla combinazione
di fattori di tipo tecnico (tecnologie, strutture, ecc.) e sociale (capitale umano, cultura
organizzativa).
In questo clima di rinnovamento culturale, la formazione viene investita sempre più del ruolo di
attuare il recupero della dimensione relazione e sociale all’interno delle organizzazioni. Strumento
di gestione delle risorse umane, diviene parte integrante della vita organizzativa. Il modello
organico e l’orientamento psicosociologico dello sviluppo organizzativo ne influenzano i contenuti
e sulla base di essi inizia a delineare il profilo primordiale del proprio campo disciplinare, con un
proprio statuto metodologico (dotato di teoria, metodi e strumenti d’intervento) e con ruoli
professionali (i formatori) in via di accreditamento. La diffusione delle pratiche di formazione e i
vari contributi di ricerca sul campo contribuiscono a consolidare l’aspetto metodologico degli
interventi formativi, arrivando a stabilirne una configurazione di tipo processuale. Se negli anni ‘70
la formazione era ancora percepita come “prodotto”, negli anni ’80 matura l’idea di formazione
come “processo”, identificando l’attività educativa in una serie di operazioni tra loro interconnesse
da legami di flusso discendenti (Quaglino, 2003). Il processo di formazione, che come vedremo
rappresenta una formulazione ampliamente diffusa e consolidata in letteratura, prevede
un’articolazione di questo tipo: 1) una iniziale analisi dei bisogni, 2) la progettazione dell’attività
formativa, 3) la sua attuazione, 4) la valutazione finale dei risultati.
All’interno del paradigma neo-modernista, l’analisi dei bisogni è orientata al rilevamento delle
esigenze formative di individui e organizzazione, nel tentativo di determinarne una conciliazione
secondo la prospettiva triadica che vede il formatore come elemento mediatore delle posizioni di
committenza e utenza. Sulla base delle informazioni raccolte in questa prima fase e della proposta
di conciliazione realizzata, prendono il via le attività di progettazione delle azioni che andranno a
costituire l’intervento formativo stesso. La progettazione è anch’essa gestita come processo
rigidamente orientato al risultato e in quanto tale mostra caratteri di iper-razionalità sicuramente
contrastante con il principio di flessibilità organizzativa perseguito dal paradigma neo-modernista.
Lo stesso avviene nel caso della valutazione caratterizzata dal determinismo degli obiettivi stabiliti
33
inizialmente e dalla chiusura rispetto ai fenomeni emergenti durante lo svolgersi dall’iter formativo
e agli effetti prodotti dall’azione formativa all’interno dell’organizzazione. Ciò a conferma del fatto
che non sempre esiste una sicura specularità tra pratiche formative e modelli organizzativi e che i
modelli organizzativi vecchio stampo (taylorista/fordista) continuano a sopravvivere nelle
organizzazioni neomoderne anche attraverso particolari forme di ibridazione.
Il paradigma neo-modernista manifesta, come è evidente, un grado di complessità crescente. Le
variabili in gioco sono molteplici: da un lato l’ancora forte ancoraggio ai modelli di intervento
scolastici e la mancanza di compiutezza dal punto di vista teorico e metodologico inducono la
cultura della formazione a far proprio un modello procedurale fortemente strutturato attraverso cui
sopperire alle carenze identitarie che la caratterizzano; dall’altro le spinte alla stabilizzazione di
fondo di contenuti teorici e procedurali fanno sì che, nel bene e nel male, le tendenze in atto si
consolidino all’interno del tessuto connettivo della formazione stessa divenendo pratica e
conoscenza condivisa per gli addetti ai lavori. Come vedremo sotto alcuni di questi limiti
continueranno a persistere nel panorama della formazione attuale.
Paradigma post-modernista
L’epoca post-industriale è dominata dal paradigma post-modernista, vale a dire da una concezione
del mondo radicalmente rinnovata rispetto al passato, non solo dal punto di vista della pratica
organizzativa ma anche e soprattutto dal punto di vista dell’uomo e degli strumenti a sua
disposizione. Negli ultimi 20/30 anni infatti si sono verificate spinte evolutive molteplici sia
all’interno del sistema economico che sociale. Solo per citarne alcune: 1) il fenomeno della deindustrializzazione e la conseguente espansione delle attività terziarie; 2) l’innovazione e il peso
crescente ad essa conferito; 3) l’internazionalizzazione degli scambi economici e il fenomeno della
globalizzazione; 4) la crucialità dei processi di gestione delle informazioni e dei sistemi di
comunicazione; 5) la trasformazione della natura dell’occupazione sempre più orientata alla qualità
e alla flessibilità; 6) la forte instabilità dei mercati che mette in crisi ogni forma rigida di
pianificazione della produzione e la stabilità delle imprese tradizionali.
Tutto quanto appena detto si traduce in un elevato aumento di imprevedibilità e mutevolezza, vale
a dire di complessità, nel senso inteso dal sociologo tedesco N. Luhmann. Esiste cioè un eccesso di
possibilità di esperienze, di azione offerte dall’ambiente ai sistemi viventi, compreso l’uomo, e che
i sistemi viventi solo parzialmente possono realizzare. Onde evitare di soccombere a fronte della
crescente differenziazione delle opportunità provenienti dall’ambiente circostante, compresa
l’eccedenza culturale data dalla moltiplicazione di codici, simboli, modelli, ecc. propria della
34
nostra epoca, è necessario che l’uomo si dimostri capace di ideare strategie di selezione attraverso
cui gestire tutti questi stimoli. 15
In questo quadro di cambiamento e al tempo stesso di emergenza, la flessibilità alle istanze
ambientali si fa sempre più forte e rispetto ad essa divengono fondamentali le capacità di innovare
e trasformare. Qualsiasi organizzazione che voglia oggi sopravvivere alle turbolenze del nostro
sistema sociale deve potersi dire capace di leggere e interpretare il cambiamento, quindi innovarsi e
trasformarsi. Questo vale in modo particolare nel campo della conoscenza e della comunicazione e
informazione dove la creazione di sempre nuovi contenuti e la loro rapida obsolescenza comporta
la necessità di continui aggiornamenti. Nel mondo del lavoro la tendenza è la medesima: il rapido
“invecchiamento” di certi profili professionali e la conseguente esigenza di acquisire competenze
attuali, in linea con le richieste del mercato del lavoro, hanno stimolato la riflessione intorno ai
concetti di apprendimento e formazione continui.
Innovazione e trasformazione, pertanto, non parlano solamente il linguaggio della tecnologia ma
anche e soprattutto il linguaggio umano: è infatti una peculiarità dell’essere umano produrre
risultati in termini di innovazione e trasformazione, attraverso l’applicazione delle doti del
ragionamento, della creatività, della riflessione. A conferma di ciò possono essere presi in
considerazione alcuni studi sulle competenze manageriali elaborati in questa particolare fase:
spicca la necessità di possedere nuove capacità al di là di quelle tradizionali (ovvero la decisione e
la leadership) quali la creatività, la conduzione di gruppi, la disponibilità al cambiamento, ecc.
Contemporaneamente, accanto alle abilità per così dire “operative”, viene sottolineata
l’importanza, da un lato, delle competenze interpersonali di relazione e, dell’altro, delle qualità
personali della trasparenza, della determinazione, “della valorizzazione della propria esperienza
professionale in termini di auto-sviluppo delle potenzialità individuali” (Quaglino, 2003).
L’innovazione possiede quindi un significato tanto economico quanto socio-culturale: nella società
dell’informazione le moderne tecnologie (si pensi a quelle informatiche) hanno sicuramente un
ruolo insieme strutturale e funzionale ma allo stesso tempo favoriscono l’emergere o il modificarsi
di vere e proprie opportunità conoscitive, sia di formazione che di rappresentazione della realtà e
costruzione di senso. 16 L’investimento in strutture e in tecnologie da solo non è sufficiente a
fronteggiare le difficoltà della nostra epoca: occorre investire nel capitale umano, nella ricerca e
15
Per approfondimenti: N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1990; N.
Luhmann, Come è possibile l’ordine sociale, Laterza, Bari, 1985.
16
Rispetto all’importanza delle tecnologie informatiche nel campo della formazione basti pensare al ruolo svolto nelle
pratiche di e-learning o in generale nell’auto-formazione. L’avvento di internet o la stessa modalità ipertestuale di
fruizione dei contenuti, solo per fare alcuni esempi, hanno rivoluzionato la raggiungibilità e il concetto stesso del
“conoscere”.
35
nella conoscenza che, nella loro immaterialità, sono gli unici canali attraverso cui pervenire a
know-how innovativi e competitivi rispondenti alle logiche organizzative emergenti.
Il pensiero post-modernista appare così lontano dalle tradizionali istanze alla razionalizzazione e si
determina attraverso un’architettura eretta su quattro diverse leve: 1) capacità di innovazione, 2)
capovolgimento del rapporto quantità-qualità, 3) centralità della risorsa umana, 4) capacità di
ascolto e di apprendimento, quindi di relazione e formazione. “Le interconnessioni tra le categorie
di innovazione, qualità, risorsa umana e apprendimento sono in grado di rappresentare
adeguatamente le dimensioni che caratterizzano la cultura produttiva delle nostre società e che in
larga misura vincolano i loro sviluppi futuri” (Lipari, 2003, p. 7).
Anche il campo degli studi organizzativi si apre a questa prospettiva, dando il via ad un’intensa
collaborazione con le scienze sociali. Una delle tendenze più interessanti ai fini del nostro lavoro di
ricerca è rappresentato dall’integrazione della
prospettiva
del
Socio-Costruttivismo e
dell’Interazionismo Simbolico 17 all’interno delle procedure di analisi delle organizzazioni.
Diametralmente opposto alle vecchie tendenze di scomposizione delle organizzazioni in sotto unità
elementari, sulla base di questo nuovo approccio ogni azione è direttamente collegata al pensiero
che l’individuo elabora su di essa secondo un principio di circolarità e reciproca auto-alimentazione
(Carli, Paniccia, 1999).
Secondo la prospettiva simbolico-interpretativa dell’organizing, l’organizzazione è un fenomeno di
costruzione sociale della realtà: nell’interazione quotidiana gli attori costruiscono il significato del
loro agire attraverso continue operazioni di negoziazione. Viene così a crearsi un substrato di senso
comune implicito fortemente influenzante non solo le operazioni lavorative ma le stesse
rappresentazioni simboliche del lavoro e dell’organizzazione. Tali rappresentazioni vanno a
confluire all’interno di un bagaglio di significati condivisi (costitutivi la così detta cultura
organizzativa) attraverso cui gli attori organizzativi procedono ad interpretare e costruire la realtà
in cui si trovano ad agire e pensare. “Da questo punto di vista, analizzare le organizzazioni,
significa innanzitutto decostruire le rappresentazioni consolidate, accogliere la molteplicità dei
fenomeni connessi alle pratiche organizzative ed accedere alle narrazioni ed ai significati,
localmente dati, attorno ai quali gli attori costruiscono la loro esperienza e i loro apprendimenti”
(Lipari, 2003, p. 8).
17
Il riferimento è a Gorge Herbert Mead, fautore dell’interazionismo simbolico che trasformò il binomio del rapporto
tra mente individuale e mondo nel trinomio “Mente, Sé, Società”. Nella prospettiva meadiana Mente e Sé non sono
preesistenti rispetto al sociale, ma si formano attraverso uno scambio interattivo e dinamico con esso. Per
approfondimenti: G. H. Mead, Mente, Sé, Società, Editrice Universitaria G. Barbéra, Firenze, 1966.
36
È evidente a questo punto quanto possano essere importanti gli aspetti simbolici e culturali ai fini
della stessa formazione, non solo dal punto di vista della comprensione del contesto organizzativo,
ma anche dal punto di vista della stessa pratica. Recentemente infatti sono stati sviluppati studi di
natura psicosociale molto interessati sulla narrazione intesa come metodologia d’azione formativa
nelle organizzazioni. Approfondiremo questo aspetto più avanti.
Cogliendo le sfide insite nel paradigma post-modernista ed in particolare le nuove tendenze
simbolico-interpretative in materia di organizzazione, “la riflessione sulla formazione, così come la
stessa pratica formativa, muove verso una significativa revisione del suo bagaglio di teorie, di
tecniche e di metodi di intervento” (ibidem). Centrale in questo senso risulta l’attenzione riposta sui
temi dell’apprendimento, dell’apprendimento organizzativo, dell’apprendimento situato. In base a
quest’ultimo approccio, di cui parleremo nel terzo capitolo, viene conferito un valore edificante
all’esperienza diretta condotta nei luoghi di lavoro, ai problemi emergenti dagli scambi relazionali
quotidiani, alle modalità di problem-solving condiviso, ai sistemi di sapere che si vanno
consolidando nelle così dette “comunità di pratica”.
Il riconoscimento del valore dell’esperienza in termini di costruzione dei significati legati al Sé, al
lavoro, all’organizzazione e alla formazione stessa induce a rivede il ruolo dei contenuti del sapere,
saper fare, saper essere: seppur importanti, non sono gli unici a dover essere presi in
considerazione. Il senso della formazione, infatti, si lega sempre più indistricabilmente alla
riflessione e alla metacognizione, ovvero al ragionare sulle esperienze di lavoro dirette, sugli
aspetti problematici delle pratiche relazionali e professionali della vita organizzativa.
Dal punto di vista metodologico entra in crisi l’aspetto processuale della formazione, nella sua
accezione di rigida concatenazione di tecniche orientate al conseguimento dell’obiettivo stipulato:
in quest’accezione la formazione risulta carente nei confronti degli aspetti di contesto, siano essi di
natura contingente (eventi imprevisti) che simbolica (costrutti impliciti) ovvero intessuti all’interno
del linguaggio e dell’immaginario organizzativo. Viene avvertita la necessità di ripensare il
processo di formazione come flusso di azioni e di eventi interdipendenti la cui comprensione
necessita di un visus generale di sistema oltre che un’attenzione continuativa alle dinamiche di
contesto. Coerentemente con la logica di flessibilità propria del paradigma neo-modernista, il
processo di formazione deve potersi trasformare in corso d’opera, sulla base dei feedback
emergenti e della relazione bi-direzionale che si stabilisce tra formatore e formandi, all’interno
della quale lo stesso formatore non può dirsi esente dall’apprendere e costruire significati.
Negli anni ’90, pertanto, il concetto di processo evolve verso quello di “sistema di gestione”
(Quaglino, 2003, p. 192) finalizzato al raccordo di crescita individuale e cambiamento
37
organizzativo. Le quattro fasi di analisi dei bisogni, progettazione, svolgimento degli interventi e
valutazione dei risultati sono a loro volta riviste in ottica sistemica, ovvero come sistemi specifici e
interconnessi circolarmente che concorrono a sviluppare l’idea di una gestione integrata della
formazione.
Vengono così ad affermarsi nuove logiche metodologiche: l’elemento di novità sta nel distaccarsi
dagli esempi di iper-razionalismo dei metodi processuali e nell’aprirsi ad approcci pluralisti o di
tipo interpretativo. Chi realizza la formazione deve manifestarsi capace di cogliere le istante
qualitative provenienti dall’ambiente formativo e su di esse compiere scelte di metodo che
finiscono così per presentare i caratteri della soggettività, intersoggettività, creatività propri
dell’azione formativa. Da qui la minore enfasi riposta strutturazione sequenziale dei passaggi
dell’analisi dei bisogni, della progettazione e della valutazione della formazione.
“Si può ben dire che se la logica dei bisogni ha un significato innovativo negli anni Settanta e
Ottanta perché essa conferisce dignità tecnica alla formazione, oggi risulta sicuramente di minore
utilità” (Lipari, 2003, p. 9). La motivazione principale è da rintracciarsi: 1) nella problematicità
della relazione con l’ambiente dati i fenomeni di mutevolezza e forte instabilità, 2) nell’acquisita
consapevolezza della poca determinatezza di qualsiasi azione quando posta in un contesto
complesso in divenire, 3) nella rilevanza attribuita ai fattori impliciti, quali quelli cognitivi e
culturali, degli aspetti lavorati e organizzativi. Così facendo l’analisi dei bisogni classica, spesso
mera registrazione di esigenze predeterminate rappresentative più del committente che dei
lavoratori e del contesto, viene ripensata e incorporata all’interno di attività quali l’analisi
organizzativa e le iniziative di ricerca-azione e formazione-intervento, la valutazione delle forme
locali dell’apprendimento organizzativo o gli interventi di cambiamento organizzativo.
Una minore rigidità è ciò che caratterizza anche la fase di progettazione: come già detto sopra,
l’evidenza di non poter racchiudere le azioni della formazione entro uno schema preconfezionato,
chiuso agli aspetti contingenti che emergono dal contesto preso in considerazione e che in quanto
tali solo in corso d’opera possono essere rilevati, ha reso possibile che il percorso di individuazione
delle attività formative avvenga oggi in modo meno vincolante rispetto all’obiettivo prefissato,
mostrando una maggiore apertura a misurarsi con le incertezze del campo d’azione e a considerare
le emergenze e gli imprevisti non come problemi ma come risorse per l’apprendimento. “Appare
quindi sempre più limitato lo spazio per la modellistica della progettazione intesa come insieme di
formule rigide da applicare in qualsiasi contesto di azione: la progettazione è vista come un
processo d’azione aperto agli eventi” (ivi, p. 10).
38
Seguendo gli stessi orientamenti di pensiero, la fase della valutazione mostra minore interesse
verso l’obiettivo-risultato e verso le tecniche di misurazione quantitativa volte a considerare la
stessa valutazione in termini di scarto tra i risultati ottenuti e gli obiettivi prefissati. Qualsiasi atto
di accertamento valutativo che si dimostri rigidamente orientato al solo obiettivo risulta privo di
validità in quanto escludente tutte quelle variabili qualitative insite nei rapporti di formazione che
oltre a non poter essere misurate, non possono essere preventivamente prese in considerazione. La
valutazione efficace è “un processo di ricerca sociale applicata tendente a ricostruire
induttivamente – a partire dagli effetti (o risultati anche parziali o intermedi) dell’intervento – il
sistema di relazioni che gli attori implicati hanno generato” (ibidem).
Pertanto, l’iter valutativo se vuole farsi portavoce del cambiamento che l’azione formativa ha
generato deve innanzitutto andare al di là della semplice raccolta dei risultati finali e dalla
comparazione di questi con gli obiettivi iniziali (si veda la pratica oggi molto diffusa dei
questionari di gradimento): deve assumere una visione d’insieme rispetto all’intero flusso di
accadimenti, avanzando un’analisi che presti attenzione all’organizzazione (sia dal punto di vista
strutturale e funzionale che dal punto di vista culturale) e insieme alle dimensioni soggettive e
relazionali. Trascurando le informazioni di contesto, nessuna pratica di valutazione potrà dirsi
capace di interpretare il cambiamento sia esso individuale che organizzativo. Ciò a conferma di
quanto detto in varie occasioni in questa sede: il cambiamento non sempre è realizzabile,
soprattutto non è scontato che il cambiamento individuale inneschi il cambiamento organizzativo.
Le manifestazioni del cambiamento e del non-cambiamento, viaggiando spesso nella dimensione
dell’implicito, del sotteso, non sono di per sé facilmente leggibili: in ogni modo per farlo, ad onor
del vero, occorre un approccio valutativo multiplo capace di interpretare sia gli aspetti quantitativi
che qualitativi della formazione.
L’analisi del paradigma post-modernista ci dimostra come la cultura della formazione sia in pieno
divenire: le diverse fasi storico-culturali ripercorse in questi ultimi paragrafi sono indicative di
quanto sia stato fatto e di quanto ancora c’è da fare. Sotto molteplici punti di vista. Il primo tra tutti
è da circoscrivere entro la mancanza di un fondamento stabile nella teoria e nella metodologia. O
meglio: pur essendo molteplici in contributi in questo senso non esiste un’univocità di pensiero.
Probabilmente data la natura del fenomeno della formazione, complessa e plurale al tempo stesso,
una linearità di pensiero non è concepibile.
È interessante a questo punto fare riferimento al contributo di Gian Piero Quaglino a proposito di
questa situazione. Nel prima edizione di “Fare formazione” del 1985, testo divenuto
rappresentativo della riflessione sulla formazione in Italia, l’autore dedica il primo capito del suo
39
lavoro a motivare “la necessità di una teoria generale della formazione” a partire dalla quale nella
parte successiva del libro s’impegna a redarne una la cui articolazione potesse soddisfare il
requisito di “pienezza” (Quaglino, 2005, p. 9) a suo avviso indispensabile per poter parlare di
formazione.
“Il ricorso alla formazione è necessitante: vale la formula per cui fare formazione è inevitabile, non fare
formazione è impossibile. […] se il ricorso alla formazione è necessitante per le organizzazioni, il ricorso
alla teoria diviene necessitante per la formazione” (Quaglino, 2003, p. 168)
Ripercorrendo la riflessione iniziale di Quaglino, cronologicamente riferibile all’epoca in cui il
libro fu scritto, quindi agli anni ‘80, esiste un “vuoto di teoria” causa della situazione di “stallo” in
cui versa la formazione; o meglio esiste un “vuoto di consapevolezza della teoria” causa del “vuoto
di consapevolezza della formazione” (Quaglino, 2005, pp. 8 e 10). Nonostante, cioè, siano
disponibili molteplici punti di vista, contributi teorici, di metodo, riflessioni, esperienze, ecc. si
tratta di materiale estremamente eterogeno, difficilmente trattabile e riconoscibile, incapace di dare
sostegno e contenimento alle esigenze di chi studia e pratica la formazione e di rispondere quindi al
richiamo di una cultura della formazione autonoma e per questo riconoscibile come tale.
L’ultima edizione di “Fare formazione” del 2005 presenta una post-fazione in cui Quaglino
riprende in mano l’oggetto della sfida lanciata vent’anni prima, domandandosi se qualcosa sia
cambiato. L’autore afferma che nulla ancora è stato risolto. È cambiato lo scenario in cui ci si
muove, sono cambiate le priorità ed è aumentata la complessità dei fattori contestuali. Il progetto di
una teoria generale univoca della formazione non è più attuale. Ad oggi sembra un “paradosso”
(Quaglino, 2006, p. 119).
Seppur le condizioni in cui versa il “campo di lavoro” della formazione siano le medesime
(espansione della domanda, stallo dell’offerta, animazione della comunità degli operatori) (ivi, pp.
3-5), importanti cambiamenti hanno avuto luogo nel settore organizzativo: come già visto,
incertezza, discontinuità, turbolenza sono diventati i tratti distintivi del vivere quotidiano delle
organizzazioni. “Si potrebbe sostenere, con rapida formula, che il carattere dominante e assunto
dall’orizzonte organizzativo è di essere paradossalmente senza orizzonte” (ivi, p. 197). Dal punto
di vista delle richieste mosse alla formazione questo si è tradotto in un atteggiamento “oppressivo”
e “ossessivo” al tempo stesso, “nella ricerca ostinata dei tempi brevi e nell’attesa tenace quanto alla
strumentalità dei contenuti” (ibidem).
L’autore circoscrive tre “fattori/vettori” esemplificativi dell’accresciuta complessità del contesto in
cui la formazione si trova ad agire:
“[…] un primo fattore/vettore è rappresentato dallo stato di permanente cambiamento in cui sono
sprofondati i sistemi organizzativi e il più ampio ambiente sociale di riferimento. Il cambiamento è
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all’insegna dell’incertezza, della discontinuità, della turbolenza. Ogni sapere consolidato, utile ad
affrontare un tale cambiamento, ha vita sempre più breve. Ogni formazione finalizzata a trasferire sapere è
esposta a un’obsolescenza sempre più rapida”. Un secondo fattore/vettore è rappresentato dalla
conseguente perdita di “ancoraggio” di alcune categorie forti di riferimento organizzativo quali quelle di
mestiere, di mansione e di ruolo, categorie che trovano una rilettura tendenzialmente convergente nel
concetto sempre più onnicomprensivo di competenza. La formazione si trova a “inseguire” profili di
competenze flessibili, aperti, in continua ricombinazione, i cui contorni mostrano vistose aree di
sovrapposizione, ma il fatto che tutto ciò venga interpretato largamente e diffusamente nei termini di
“gestione” della conoscenza ci dice quanto, in definitiva, le questioni della competenza debbano essere
affrontate nel quadro più ampio cui il conoscere rinvia. Un terzo fattore/vettore rimanda agli stessi soggetti
che si trovano a dover fronteggiare la complessità in termini di discontinuità del ciclo di vita e continuità
di evoluzione delle competenze. La direzione è evidentemente quella della formazione permanente, ovvero
di un percorso di apprendimento life long. In questo senso il vantaggio della formazione sarà sempre meno
legato al determinismo e al finalismo dei suoi contenuti e sempre più alla qualità e all’innovatività dei suoi
metodi. In definitiva, se si vuole perseguire l’intento di ricerca di una teoria della formazione (per la
formazione), non si tratta di scontare soltanto il paradosso di cui si è detto, ma di predisporsi a ripensare
(proprio nella loro complessità) le categorie di fondo, individuali e organizzative, che sottendono la
declinazione della formazione, così com’è largamente intesa” (ivi, p. 119-120).
Quaglino riconosce alle organizzazioni odierne un orientamento sempre meno volto alla
“materialità” dei mestieri, dei processi, delle funzioni e sempre più all’immaterialità del knowledge
e del learning. Parla per questo motivo di “indebolimento della polarità organizzativa […] a cui
non può non corrispondere, per complementarietà, un rafforzamento della polarità e di una
radicalizzazione della formula della centratura sul soggetto dell’azione formativa […]” (ivi, p.
197). Se pertanto il mondo dell’organizzazione rappresenta un minor numero di istanze operative
da prendere in considerazione in vista di un lavoro di revisione teorico (da qui la logica del “fare”
formazione), la dimensione del Sé e in particolare quella dell’apprendere costituiscono i fronti
verso i quali necessariamente indirizzarsi viste le esigenze attuali di chi vive la formazione.
Pertanto, ferma restando l’eterogeneità delle risorse disponibili in materia, decade il principio di
una teoria unica che possa dare ordine e delineare i confini d’appartenenza. La necessità di reperire
un fondamento teorico capace di supportare la pratica è sicuramente ancora molto sentita e in
questo senso rappresenta un obiettivo. A tal proposito, in virtù di questo ridimensionamento,
Quaglino ipotizza una “teoria per la formazione” o meglio uno scenario di “teorie per la
formazione” (ivi, pp. 200-202) che sappia riposizionare l’idea di azione formativa entro i confini
dell’adulto che apprende, prendendo le distanze dalla polarità istruttiva e avvicinandosi alla polarità
educativa, evitando di incappare in qualsiasi forma di “riduzionismo organizzativo” (Quaglino,
2005, p. 173).
La postfazione di “Fare formazione” contiene un’interessante “Manifesto per una nuova
formazione” in cui è possibile intravedere una riflessione vocata a cogliere i tratti salienti della
formazione di oggi a partire dai quali poterle dare una connotazione futuribile. Ci occuperemo di
41
questa particolare proposta del prossimo paragrafo. Attraverso di essa cercheremo di stabilire dei
punti fermi sul come poter pensare la formazione oggi.
1.4. La formazione oggi: riflessioni in divenire
A partire dalle riflessioni fatte nei precedenti paragrafi, ciò che possiamo dire è che la formazione
rappresenta un campo di ricerca assolutamente aperto. “Essa è un crocevia, un crocevia sottostante
ad ogni evento di scoperta, di crescita, di padronanza” (Margiotta, Salatin, in Bellotto, Trentini,
2000, p. 58). Ogni tentativo di controllo o semplificazione risulta lontano dalla reale complessità
che caratterizza la situazione attuale quindi sicuramente poco realistico. La formazione, a nostro
avviso, avrebbe invece bisogno di concretezza, concretezza dei contenuti, delle proposte: una
concretezza che rispetti la varietà degli spunti di riflessione ma che al tempo stesso non perda di
vista il fine ultimo che è dato dall’uomo, a volte ingiustamente dimenticato nelle dispute di sistema.
Le problematicità sono molteplici e sono collocabili su diversi livelli. Pratico e teorico. Prendiamo
in considerazione il primo.
-
Eterogeneità della domanda e multiformità dell’offerta. La formazione è pensata sempre più nei
termini di “mercato”, domanda e offerta di beni e servizi formativi e in quanto tale, contravvenendo
alla natura della sua vocazione, risponde spesse volte alle logiche del business. Se da un lato si può
parlare di eterogeneità della domanda in quanto, in linea con l’andamento del mercato del lavoro,
crescono le richieste di formazione e, in modo particolare, le richieste di percorsi personalizzati e
qualificati, dall’altro lato la multiformità dell’offerta scaturisce da una pluralità dei poli formativi
ad ognuno dei quali è delegato ad uno o più tipi di formazione. Nelle così dette società postindustriali gli enti che fanno formazione (formazione iniziale quindi scolastica, aggiornamento e
riqualificazione professionale, formazione extra-professionale) sono circoscrivibili entro quattro
aree: I) istruzione obbligatoria di base e post-obbligatoria fino all’università; II) preparazione
professionale presso istituti (anche parascolastici) esterni alle aziende; III) formazione aziendale;
IV) educazione degli adulti e/o educazione continua (Margiotta, Salatin, in Bellotto, Trentini, 2000,
p. 26). Volendo fare degli esempi di proposte formative rappresentative della situazione di mercato
attuale, si potrebbe parlare di: master post-universitari, corsi di specializzazione, corsi
professionalizzanti, corsi di formazione-lavoro per l’inserimento o la riconversione professionale,
ecc. C’è da dire che l’abbondanza di soluzioni non è indicativo di uno standard di qualità elevato e
molte offerte risultano poco coerenti con le reali esigenze del mercato del lavoro o di chi intende
formarsi.
42
-
Contraddittorietà dei ruoli all’interno della triade formando-formatore-committenza. La richiesta
di formazione non sempre proviene dai formandi; molto spesso è frutto di un’iniziativa di tipo
organizzativo in cui “chi decide” manca di coinvolgere i partecipanti scelti nel processo di
negoziazione formativa. I formandi possono essere quindi più o meno motivati nei confronti della
formazione. Laddove non c’è imposizione, chi si forma è solitamente mosso da un bisogno, da un
desiderio di miglioramento, di crescita professionale e personale, spesso impliciti o comunque non
dichiarati. Le reazioni alla formazione possono essere di vario tipo: i formandi possono mostrare
attesa, timore, rifiuto, resistenza, ansia, ecc. In generale si può dire che la partecipazione attiva è
possibile solo laddove esiste una reale possibilità di “sviluppo personale” (Margiotta, Salatin, in
Bellotto, Trentini, 2000, p. 45). I formatori nonostante siano i promotori dell’azione formativa,
quindi della loro professionalità e autonomia, sono spesso costretti a subire il “tutoraggio” della
committenza e a scendere a compromessi. La committenza, a sua volta, non sempre risulta chiara e
facilmente interpretabile nelle sue richieste. Essa rappresenta un mondo sotterraneo di valori,
cultura, usanze, priorità che inevitabilmente vanno ad incidere sui processi di negoziazione e
decisione finali.
-
Il profilo del formatore è difficilmente delineabile. Esistono una varietà di accezioni inerenti lo
stato professionale del formatore, diverso da paese a paese nonostante il tentativo di individuare
una matrice comune di competenze. Pur esistendo una varietà di proposte, non esiste un percorso
formativo ufficiale per diventare formatore: coloro che praticano questo mestiere per lo più
provengono da esperienze professionali di vario genere e tipo: gestione del personale, psicoterapia,
direzione d’azienda, ecc. Questa eterogeneità esperenziale risulta strategica nel caso in cui il
formatore lavori in équipe, ovvero allorquando un certo numero di formatori, ognuno con la
propria specializzazione, collaborando insieme, possono dare un contributo di maggiore
completezza e significatività all’esperienza formativa.
-
Instabilità metodologiche. Nonostante l’importanza del metodo della pratica formativa, ad oggi
possiamo rilevare l’esistenza di una molteplicità di classificazioni e definizioni ma non una
sistematizzazione vera e propria che risulti condivisa e al tempo stesso funzionale a chi pratica la
formazione. La tendenza generale è quella di suddividere tra accademismo e attivismo, tra “metodi
strutturati” e “metodi destrutturati”: i primi sono rappresentativi di un tipo di formazione
fortemente programmata, ancorata ai contenuti e agli obiettivi da conseguire, alla fruizione classica
del sapere (frontalità, comunicazione unidirezionale, rigidità dei ruoli). I secondi sono invece
orientati alla destrutturazione del percorso formativo, privilegiano la partecipazione attiva,
l’esperienza, la dimensione individuale e di gruppo, il sapere di tipo aspecialistico, ovvero
proveniente direttamente dai processi di lavoro. All’interno di queste due macro-aree vanno a
43
posizionarsi le tecniche d’intervento vere proprie, rappresentative a loro volta di particolari modelli
di apprendimento: non sempre le differenzazioni stabilite risultano indicative, visto le possibili
commistioni e complessificazioni. “A ogni metodo corrisponde un percorso di apprendimento
comunque complesso, mai semplicisticamente riassumibile in un solo modello” (Quaglino, 2005, p.
135).
Queste naturalmente non sono le uniche problematicità che caratterizzano la pratica della
formazione odierna. Possiamo dire che risultano esemplificative al fine di immaginare il terreno in
cui ci si muove. Dal punto di vista della teoria e della concettualizzazione, la situazione non
cambia. Una delle problematiche che ci sembra interessante poter sottolineare è quella inerente il
rapporto tra formazione e organizzazione, nei termini di “riduzionismo organizzativo” di cui parla
Quaglino (ivi, 173). Si tratta di un problema sostanziale a dir poco vista la “coalizione” stabilita tra
formazione e organizzazione sul piano della teoria e della pratica nel corso dei secoli alla quale più
volte ci siamo riferiti nel corso di questo lavoro.
L’immagine della formazione che abbiamo potuto rilevare attraverso il nostro excursus storicoculturale è quella di una realtà fortemente ancorata all’organizzazione, tanto da evolvere in sintonia
con quelli che sono stati gli eventi e i cambiamenti culturali salienti delle società industriali e gli
stessi modelli di sviluppo organizzativo. Il dibattito sulla formazione degli ultimi trent’anni, come
si può evincere da un’analisi realizzata dall’autore, mette in evidenza tre diversi orientamenti: 1) la
formazione per le competenze, per la qualificazione professionale, ovvero per l’organizzazione; 2)
la formazione per il cambiamento, per lo sviluppo organizzativo, funzionale alla crescita della
relazione tra individuo e organizzazione; 3) la formazione per lo sviluppo personale: il progetto
del Sé oltrepassa l’organizzazione (ivi, p. 179).
Questi orientamenti fungono da indicatori di una tendenza già in atto, tendenza di cui abbiamo già
parlato perché rappresentativa della nostra stessa epoca post-industriale e post-modernista, vale a
dire la propensione all’incertezza, alla turbolenza, alla discontinuità, in una parola alla complessità.
I fattori di differenzazione sono sempre di più e l’instabilità del nostro sistema sociale ed
economico risponde con il cambiamento, spesso repentino. Vengono meno punti di riferimento,
l’ancoraggio ai saperi consolidati: la formazione come tutte le realtà culturali in parte si adegua alla
logica del rapido consumo, conformandosi, in parte da essa se ne distacca, superandola, trovando
proprio nei fattori ambientali circostanti la forza di ripensarsi.
Se il recupero della dimensione del Sé e la centralità assegnatole è ciò che contraddistingue e deve
contraddistinguere questa particolare fase storica della cultura della formazione, di conseguenza
occorre rivedere il legame con l’organizzazione. Quaglino parla di “sciogliere il nodo del legame
44
con l’organizzazione come passaggio obbligato verso una nuova e più matura stagione della
formazione stessa” (ivi, p. 180). Il legame con l’organizzazione non deve essere pensato come un
vincolo ma come una possibilità. Così facendo, la centralità del Sé insieme al ridimensionamento
del ruolo dell’organizzazione permettono di rifocalizzare l’attenzione degli esperti sulle questioni
dell’apprendere. “Il proposito di ricerca di una teoria per la formazione trova il suo sostegno
anzitutto nell’innesto del legame tra formare e apprendere: trova il suo fondamento là dove le
questioni della formazione siano efficacemente contenute entro i confini e le questioni
dell’apprendimento” (ivi, p. 182). Ripercorrendo le linee guida degli studi in materia di
apprendimento degli ultimi 20/30 anni, sulla base delle acquisizioni raggiunte, Quaglino introduce
il suo “manifesto per una nuova formazione”.
Si tratta di una proposta volta a delineare una configurazione eminentemente soggettiva della
formazione, la quale risponde all’esigenza di chiarire e approfondire alcuni aspetti peculiari.

Innanzitutto, ciò che la formazione è. Teorie del senso comune e teorie esperte contribuiscono a
delineare il terreno culturale e di senso entro cui si muove la formazione. A metà del campo
semantico, tra “educazione” e “istruzione”, ovvero tra l’approfondimento di questioni del Sé e
l’accumulazione di sapere, la formazione non può che essere considerata immersa in una pluralità
di significati che contribuiscono a delinearne profilo e campo d’azione, rendendola “plasmabile”
(rispetto alle esigenze di contesto) e “fragile” (rispetto ai tentativi di contenimento teorico) al
tempo stesso. Pertanto, coloro che si accingono allo studio della formazione è bene che non
sottovalutino gli aspetti positivi e negativi derivanti da questa sua medianità e prendano atto che: a)
la formazione è un intervento di lungo periodo rivolto a soggetti adulti che accettano di essere
coinvolti in un percorso di conoscenza ed insieme di sviluppo personale; b) pur opponendosi al
concetto di conservazione, può prevederne atto in quanto momento integrante la coltivazione
permanente degli insegnamenti; c) nella relazione tra formatore e formando si istituisce un contesto
generativo fatto di comunicazione, ascolto, scambio e collaborazione.

L’adulto a cui ci si rivolge. L’adulto rappresenta un mondo in divenire, non identificabile con una
età anagrafica prestabilita. Si tratta piuttosto di una fase di trasformazione necessaria e costitutiva
tra lo stato di “puer” che non si è più e lo stato di “senex” che non si è ancora. Gli eventi che si
collocano in questa fase della vita hanno il valore di esporre l’individuo al confronto diretto con gli
altri e alla riflessione che ne deriva, con un’attenzione a quanto accada fuori e dentro di sé.
“L’ascolto e l’interrogazione, accompagnate alla possibilità che la ricerca sia vana e il domandare
mai placato da alcuna risposta, risultano gli unici sentieri lungo i quali la ‘maturità cronologica’
può accompagnarsi ad una ‘maturità psicologica’” (ivi, 199). La formazione e l’auto-formazione
45
costituiscono due possibilità attraverso cui l’adulto può consolidare un equilibrio di status generale
tra le dimensioni del proprio Sé.

Il primato dell’esperienza. La formazione si realizza a partire dall’esperienza. L’esperienza ha in sé
il senso del provare/tentare, sbagliare/cadere in errore, viaggiare/errare, scoprire/avanzare senza
meta. Ognuno di questi termini contribuiscono a determinare l’essenza stessa del fare esperienza e
del fare formazione: la possibilità di apprendere, anche attraverso l’errore o percorsi di prova
caratterizzati da indeterminatezza. “La sensazione che se ne deriva pare quella di un girovagare
costantemente a confronto con le eventualità del caso: laddove la meta risulti eccessivamente
determinata non c’è autentica esperienza, bensì forse solamente esercizio e ripetizione […]” (ivi, p.
202). Il senso di indeterminatezza e il timore che ne deriva trovano conciliazione nel senso di
bisogno, nel desiderio e nella progettualità individuali ovvero nella disponibilità a conoscersi.
L’esperienza prende forma e sostanza, quindi valore conoscitivo e costruttivo del Sé, solo quando
sottoposta ad un processo di significazione interiore. L’attraversare le fasi della vita, la
trasformazione sottesa al passaggio da uno stato ad un altro, la ricerca di equilibrio tra il
cambiamento interiore ed esteriore caratterizzanti l’essere adulto trovano nel paradigma
dell’esperienza la dimensione ideale del formarsi. La formazione attraverso l’esperienza richiede la
disponibilità di un “metodo aperto: di quelli che si fanno con l’andare, che acquistano forma di pari
passo al fluire dell’esperienza, che ne sono derivati e al tempo stesso ispiratori” (ivi, p. 205).

Il ruolo della riflessione rispetto all’apprendimento esperienziale. La riflessione permette
l’interiorizzazione dei fatti formativi e in quanto tale, insieme all’esperienza, hanno un valore
fondamentale ai fini del passaggio dall’apprendimento alla trasformazione dell’adulto in
formazione. La riflessione favorisce l’avvicinamento e l’attraversamento di nuovi territori e
mediante essi l’inclinazione verso il proprio Sé. Il rispecchiamento delle immagini e dei significati
dell’esperienza nella dimensione dell’interiorità può provocare delle modificazioni nella visione
del mondo e di se stessi o perdita di senso. Tra presente e passato, il riflettere avanza senza fine:
nonostante la sensazione di smarrimento che ne deriva, si mostra quale processo interiore in grado
di supportare l’andare oltre l’esperienza e la pratica stesse che, seppur funzionali
all’apprendimento, da sole non ne permetterebbero la massima espressione.

L’interpretazione. Affinché si compia una autentica e reale trasformazione personale occorre
muovere dalla riflessione all’interpretazione, “come a dire non al campo dei concetti, ma a quello
dei significati” (ivi, p. 211). L’interpretare è un “andare oltre” a quanto permesso dalla riflessione,
farsi domande e trovare possibili risposte. In quanto “traduzione analitica”, “esegesi critica”,
permette di “esplorare e attraversare i retroscena di significato più impliciti” (ivi, pag. 212).
46
L’interpretazione nel suo essere prima di ogni altra cosa atto soggettivo è una vicenda senza fine
orientata alla conoscenza e comprensione profonda del Sé: attraverso di essa è possibile approdare
a livelli di significazione e quindi di apprendimento ulteriori rispetto a quelli a cui si accede
attraverso la sola riflessione. È un atto trasformativo ed insieme rigenerativo.

La narrazione, ovvero la conversione in forma romanzata dei contenuti di vita. I significati salienti
dell’esperienza diretta, dopo esser stati interiorizzati attraverso la riflessione e l’interpretazione,
vengono ricostruiti attraverso la narrazione. L’apprendimento trasformativo trova compimento
nella narrazione. Con narrazione il soggetto si riappropria del proprio ruolo di protagonista: ha
modo di riporre la sua attenzione laddove sente necessario, focalizzando particolari che altrimenti
rimarrebbero indiscussi. Narrando o ascoltando storie è possibile scoprire se stessi ed insieme
accedere alla propria dimensione interiore. “L’elaborazione di narrazioni è, detto altrimenti, una
modalità di restituzione all’interiorità del Sé di ciò di cui si è fatto esperienza, di quanto è stato
attraversato con la riflessione, di ciò che è stato afferrato sul piano simbolico dell’interpretazione.
Se manca una di queste tre tappe, la narrazione fallirà il traguardo trasformativo, o lo realizzerà
solo in parte” (ivi, p. 216). Il raccontare e il raccontarsi, che siano pensati come spazio di pensiero
intimo tra sé e sé o spazio di dialogo collettivo, rappresentano la strada d’accesso alla profondità
dell’Io, al cambiamento e alla trasformazione. La formazione di conseguenza necessita di storie, sia
per attivare il coinvolgimento dei soggetti chiamati un causa, sia per il successo dell’intervento
stesso dal punto di vista dell’apprendimento e della crescita personale.
L’evoluzione delle tematiche costitutive il manifesto per una nuova formazione di Quaglino ci
sembra un punto di arrivo e insieme di partenza: infatti se da un lato risulta indicativa di quanti
capovolgimenti ci siano stati nel corso dei secoli e dell’evoluzione della cultura formativa,
dall’altro propone una nuova sfida, degli obiettivi ben precisi, delineando un campo di sapere che
seppur ancora poco definito, sembra orientarsi sempre più verso la riappropriazione della
dimensione del Sé e la valorizzazione della dimensione psicologica dell’agire lavorativo e
formativo. Ciò dal nostro punto di vista non significa decontestualizzare la formazione o pensarla
al di fuori della dimensione organizzativa che fino ad oggi l’ha caratterizzata: il sodalizio tra
mondo dell’organizzazione e della formazione non è solamente una risposta utilitaristica alle
esigenze del mercato del lavoro, è anche e soprattutto un’opportunità in termini di apprendimento,
crescita, aggiornamento per tutti quei soggetti adulti che in quanto lavoratori si trovano in una
situazione fortemente caratterizzata e caratterizzante in cui l’azione sposa un ruolo costruttivo sia
dal punto di vista dell’immagine del Sé che del mondo a cui si appartiene. Formare adulti lavoratori
pertanto significa dar loro una prospettiva di sapere (sapere pratico, sapere intellettuale) ma anche
identitaria (essere un apprendista, essere un tecnico, essere capace di gestire lo stress, essere
47
competente nel prendere decisioni, essere motivato, ecc.). L’apprendimento, è chiaro, va oltre
l’accumulazione di contenuti. Può essere trasformativo ovvero può arrivare a modificare
l’individuo nella sfera del profondo e la formazione che lo promuove e sostiene ha in sé quindi le
potenzialità di arrivare toccare i luoghi remoti dell’Io, nella sua dimensione intrapsichica, cognitiva
e sociale.
Pertanto, ci sembra doveroso sottolineare la necessità di erigere l’individuo a fulcro del discorso e
della pratica formativi, ma allo stesso tempo ci sembra che sottostimare il valore del contesto e
della stessa organizzazione possa essere una perdita. In una prospettiva situata, le organizzazioni,
così come tutti i luoghi di lavoro risultano delle realtà privilegiate per lo studio e la ricerca in
materia di formazione. Costituiscono una risorsa. Ovviamente la centratura sul soggetto comporta
la necessità di rivedere modi e strumenti di queste stesse attività di studio e ricerca. Emergono con
forza, come abbiamo già visto, per il loro valore umano e per la loro costruttività, i temi
dell’esperienza diretta, della riflessione, dell’interpretazione e della narrazione oggi ritenuti a tutti
gli effetti passaggi fondamentali in un percorso di apprendimento che si possa dire orientato al
cambiamento e alla trasformazione.
La formazione in questo contesto di cose risulta concepita sempre più come leva per
l’empowerment ovvero strategia funzionale al cambiamento del singolo, del gruppo,
dell’organizzazione. In virtù di questa sua capacità di arrivare tanto al singolo quanto alla
collettività non può non essere pensata e impiegata all’interno della relazione individuo-contesto e
all’interno di questa relazione l’uomo deve poter essere riconosciuto e valorizzato per la sua
emozionalità e socialità. “Formare e formarsi, in quest’ottica, significa apprendere dall’esperienza,
implicarsi emozionalmente,
pensare
chi
si è,
dove si
sta, con
quali obiettivi e,
contemporaneamente, riflettere in modo criteriato sulle emozioni evocate dai rapporti formativi”
(Pagano, 2008, p. 228). Le emozioni e le parole, a loro volta sono contenitori d’emozioni, non
possono più essere considerate come risposte individuali a stimoli ambientali, ma sono fondanti il
rapporto tra individui e contesti organizzativi, favorenti lo scambio di significati tra cultura
individuale e quella dell’organizzazione all’interno della quale s’interagisce (Carli, Paniccia, 1999).
L’interazione ha funzione simbolica e insieme costruttiva: solo entro questa dinamica è possibile
recuperare il senso dell’individuo, l’individuo-attore sociale, l’individuo-lavoratore, l’individuoformando.
Nel capitolo che seguirà andremo ad approfondire il ruolo della dimensione psico-sociale nello
sviluppo del concetto di formazione e nell’articolazione della sua pratica. Parleremo di formazione
psico-sociale in quanto, a nostro avviso, è possibile rintracciare in questo particolare approccio
48
teorico una serie di strumenti utili, sia dal punto di vista della riflessione che della metodologia,
attraverso i quali dare approfondimento nella seconda parte di questo lavoro al nostro progetto di
ricerca finale.
49
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CAPITOLO SECONDO:
LA FORMAZIONE PSICOSOCIALE
2.1. Inquadramento concettuale
La frammentarietà del panorama di studi sulla formazione emersa nell’analisi storico-culturale
condotta nel primo capitolo e il disagio interpretativo che ne consegue ha indotto molti studiosi
della materia a cimentarsi in tentativi di semplificazione e riordino dei contributi presenti in
letteratura. Tra questi un esempio risalente agli anni ‘90 è quello di Bruno Maggi che nel volume
“La formazione: concezioni a confronto” (1991) propone una ricostruzione di posizioni teoriche e
insieme applicative e di metodo in chiave pluridisciplinare o anche interdisciplinare. L’obiettivo è
il confronto tra approcci alla formazione diversi e al tempo stesso rappresentativi delle tendenze in
atto. Tra le scelte epistemologiche prese in considerazione ci sono quelle di derivazione psicosociale, ovvero la psicologia sociale e la psicosociologia, l’approccio psicoanalitico, quello
pedagogico e le tesi sulla formazione come azione organizzativa. Il punto di partenza e il filo
conduttore dell’analisi trasversale curata da Maggi in collaborazione con altri autorevoli studiosi
del settore è dato dalla visione dell’attività di formazione come “attività organizzata, che è in
rapporto con una più ampia attività organizzata. Sempre è un sistema sociale, cioè
un’organizzazione, compreso in un più vasto e più complesso sistema sociale” (ivi, p. 10). L’autore
afferma che considerare la formazione in rapporto all’organizzazione consente di cogliere aspetti
che altrimenti rimarrebbero sottesi, indiscussi: “consente di non limitare l’attenzione alla situazione
tradizionale d’aula, di apprezzare invece nella loro specificità le più diverse situazioni formative.
Consente di apprezzare come viene attivata e come è gestita e utilizzata la formazione. Permette di
riconoscere prospettive diverse di formazione, a seconda di come viene concepito il sistema sociale
che la situazione di formazione rappresenta, e il sistema sociale in cui essa è immersa, di cui
costituisce un elemento” (ibidem).
La realtà della formazione, come abbiamo già visto in precedenza, subisce l’influenza del sistema
sociale entro il quale si trova a vivere (si veda a tal proposito la classificazione dei paradigmi
modernista, neo-modernista, post-modernista). Maggi propone una lettura della formazione come
essa stessa “sistema sociale”, ovvero entità organizzativa, inserita all’interno di un altro sistema
sociale od organizzazione. Da qui l’associazione con tre principali concezioni di sistema sociale
rintracciabili all’interno del dibattito delle scienze sociali: sistema meccanico, sistema concreto
frutto dell’agire sociale, sistema come processo ed azione organizzativa. A seconda che la
formazione si identifichi con un sistema piuttosto che un altro mostrerà caratteristiche e modalità di
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funzionamento diverse. Ogni diversità rappresenta un contributo e un punto di vista utile al
confronto auspicato dall’autore. Di seguito alcune citazioni attraverso cui suggerire il senso di
appartenenza delle diverse concezioni proposte da Maggi (1991):

il punto di vista della formazione come azione organizzativa: “la formazione è attività organizzata
mirante a promuovere conoscenze e capacità ritenute necessarie per regolare (mantenere,
migliorare, modificare) i processi di organizzazione” (Fabris, in Maggi, 1991, pag. 129).

il punto di vista della psicosocioanalitico: propone due topiche della formazione degli adulti, il
primo è identificabile nel triangolo “Committente-Cliente-Consulente” a partire dal quale poter
definire l’obiettivo formativo, il secondo “Io-Altri-Obiettivo” entro cui poter rintracciare il valore
dell’attore organizzativo; “su questa base il modello indica nell’Io il soggetto, l’attore
organizzativo in tale sua dimensione di progettualità, nell’Obiettivo il progetto concreto, di
sviluppo, derivante dall’esame di realtà, e collegato a circostanze storicizzate spaziali-temporali,
negli Altri il committente, i colleghi, il formatore che, con ruoli diversi ed in circostanze diverse,
condividono e contribuiscono alla realizzazione della progettualità” (Varchetta, in Maggi, 1991,
pag. 117).

il punto di vista pedagogico: “la formazione, seppure centrata su discipline formalizzate, va, per
questo, articolata in modo da consentire «innesti» di esperienza che vengano gradualmente
collegati al sapere generale, garantendo un progressivo controllo e autocontrollo, da parte del
soggetto, delle proprie risorse. È questa la condizione perché le conoscenze siano utilizzabili in
situazioni diverse da quelle in cui sono state acquisite, consentendo sia la soluzione di problemi sia
la presa di decisioni. È questo, altresì, il necessario prerequisito ad un orientamento rispetto al
lavoro che, in presenza di un’innovazione spesso rapida, va continuamente decodificato e
reinterpretato” (Meghnagi, in Maggi, 1991, pag. 177).

il punto di vista della psicologia sociale: “l’azione formativa, nei risultati che ottiene, non è infatti
solo espressione del programma del corso (diffidare anzi dell’onnipotenza del programma) ma
della teoria dell’apprendimento che ha «guidato il programma»: e, per essere più precisi, del più
complesso set di teorie definito appunto come Teoria Generale della Formazione” (Quaglino, in
Maggi, 1991, pp. 46-47).

il punto di vista della psicosociologia: “[…] ogni essere umano può vivere immerso nel suo
ambiente utilizzando le informazioni genetiche o assorbendo informazioni ecologiche per meglio
adattarsi ad esso, ma non per questo non potrà saperne di più sull’ambiente stesso. Dall’altra parte
un lavoro di ricerca su di sé e sulle pratiche lavorative nell’organizzazione, che implica sempre un
cammino di autocoscienza, si giustifica quanto si avverte la necessità di dover comprendere
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qualche cosa di estraneo o sconosciuto, o ricercare un senso nuovo a cose note. È questo il dato che
sposta l’attenzione metodologica dai «problemi al processo, alla formazione come processo» e
sposta obiettivi e risultati dall’area delle «cose» all’area delle «relazioni». L’area cioè della ricerca
di nessi tra cose, fatti o concetti all’interno di vincoli e legami tra persone o gruppo di persone.
Entro questa area il formatore può individuare, contrattare e proporre obiettivi di elaborazione”
(Kaneklin, in Maggi, 1991, pp. 97-98).
Cogliendo l’invito di Maggi, decidiamo di operare una scelta rispetto alle concezioni proposte e di
dare approfondimento agli ultimi due punti di vista, quelli di appartenenza psicosociale,
naturalmente senza alcuna pretesa di esaustività rispetto a quanto offerto dalla pluralità di
concezioni e prospettive ad oggi formulate sull’argomento. La valutazione dei contributi
d’appartenenza psicosociale ci permetterà di ricostruire una parte della base teorica che andrà a
sostanziare le ipotesi di lavoro sviluppate nella seconda parte di questo lavoro, vale a dire nella
sezione applicativa, in cui verrà restituito il resoconto di un progetto di ricerca sulla formazione in
ambito aziendale.
Come già visto in precedenza, la riflessione in senso psicosociale della formazione risale al periodo
compreso tra fordismo e post-fordismo, entro questo arco temporale vanno infatti a collocarsi gli
studi di K. Lewin e in seguito quelli di E. Mayo che rappresentano l’incipit del percorso neomodernista il cui sviluppo e la cui applicazione caratterizzeranno gli anni del secondo dopoguerra
per poi evolvere nel post-modernismo dei nostri giorni. Il contributo dell’approccio psicosociale è
risultato determinante al fine di recuperare la prospettiva di ognuno dei soggetti coinvolti
nell’esperienza di formazione, superando limiti fino a quel momento apparsi estremamente rigidi e
sotto certi versi fuorvianti: “è l’approccio della formazione psicosociale, che non si muove in
un’ottica colmativa di lacune o di inadeguatezze professionali né in una prospettiva di mera
integrazione e di sviluppo dei singoli e dell’organizzazione ma che si basa sulla possibilità di poter
riconoscere e analizzare la realtà individuale, gruppale, organizzativa e sociale come
multideterminata e composta secondo modalità complesse spesso ignote agli stessi attori della
scena organizzativa a causa dei processi anche inconsci di separazione e di falsificazione della
realtà” (corsivo nostro) (Avallone, 2009, p. 15).
La formazione in quest’ottica è molto lontana dall’immagine classica e storicamente consolidata di
trasmissione di conoscenze funzionali allo svolgimento di un compito, acquisizione di specifiche
abilità professionali, conformazione ad un modello prestabilito: oltrepassa il fine utilitaristico di
breve termine per proporsi come cammino di scoperta e riscoperta della dimensione del profondo.
Le ragioni convalidanti una formazione di questo tipo non sono in alcun modo riferibili alla
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classica trasmissione di sapere tecnico-pratico, ma alla necessità di indagare quindi sviscerare e
risolvere questioni di tipo relazionale o comunque psico-sociale le quali, spesse volte in forma
sottesa, possono compromettere il regolare funzionamento organizzativo, la produttività del singolo
o di un reparto e il benessere dell’intero sistema.
Bisogni, desideri, paure, atteggiamenti, motivazioni, ma anche significati condivisi, modelli di
comportamento, culture organizzative: tutto diviene oggetto di studio e ricerca applicata con
l’obiettivo di ricostruire i termini del coinvolgimento del singolo e dell’organizzazione rispetto le
problematiche osservate. Si ha piena consapevolezza che all’interno dei contesti organizzativi
esista un sotteso di relazioni, codici, appartenenze, significati fortemente caratterizzanti l’agire
lavorativo e le possibili problematicità che ne potrebbero derivare. In tal senso, ogni iniziativa di
problem solving così come ogni intervento di formazione non potrebbero non risultare influenzati
da questi contenuti di “non detto”. Da qui l’importanza del prendere coscienza del motivo per cui si
propone un percorso di cambiamento, ovvero di formazione e apprendimento.
“Nella prospettiva della formazione psicosociale si ritiene […] che l’apprendimento, per integrarsi nella
condotta di un individuo, debba essere compreso, accettato, condiviso e, in quanto tale, debba consentire
una ridiscussione di comportamenti e atteggiamenti individuali e collettivi, dei motivi soggettivi e
organizzativi che li hanno determinati, della possibilità di dar vita a condotte e a stili di gestione e di
relazione diversi” (ibidem).
Centrale è quindi il significato o meglio la comprensione del significato profondo di Sé e degli
altri: affinché si possa procedere con un intervento di formazione psicosociale è necessario che
ogni partecipante abbia chiaro il significato del proprio rapporto con il lavoro, del ruolo rivestito,
della rete di relazioni in cui è inserito, delle dinamiche organizzative a cui prende parte. La
consapevolezza è al tempo stesso un mezzo e un obiettivo: l’analisi dei processi individuali e
collettivi e dei relativi modelli relazionali rappresenta un passaggio obbligato per veicolare e
attivare il cambiamento. “In questa prospettiva l’evoluzione dei singoli e delle organizzazioni non è
realizzabile separatamente: il cambiamento è reso possibile e passa attraverso l’analisi e la
rielaborazione dei sistemi di valori, delle strutture personali e organizzative, della dinamica delle
loro istanze in conflitto” (ivi, p. 17).
Comprendere quindi per cambiare. Intervenire a livello profondo e globale per portare alla luce,
rendendoli temi di riflessione e discussione, tutti quei meccanismi di funzionamento decisionale ed
emozionale la cui cognizione costituisce il primo passo verso la realizzazione agli obiettivi di
efficacia ed efficienza del contesto lavorativo entro cui si opera. Il coinvolgimento attivo del
formando è basilare ai fini di una formazione, quella psicosociale, sempre meno legata alla
dimensione d’aula e alle semplice trasmissione di contenuti e sempre più focalizzata ai problemi
della realtà: così facendo, ogni soggetto coinvolto, indipendentemente dalla propria posizione
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lavorativa, svolge un ruolo di costruzione della pratica formativa attraverso l’espressione della
propria esperienza diretta di vita e lavoro. L’attività di lavoro e la conoscenza situazionale che ne
deriva sono parte integrante della formazione d’indirizzo psicosociale: non solo supporto,
riferimento mentale, ma oggetto di studio, analisi e rielaborazione.
Gli adulti in formazione, è bene sottolinearlo, non sono scevri di senso, hanno un loro bagaglio
culturale, sono già portatori di una propria esperienza psicosociale a partire dalla quale avviare un
processo di approfondimento delle conoscenze pregresse, ovvero una presa di coscienza del
significato dell’appartenenza ad una comunità professionale. La combinazione di formazione e
lavoro può dirsi a tutti gli effetti un plus il cui valore è indubbiamente strategico:
l’approfondimento di conoscenze e l’implementazione di capacità proprie dell’agire formativo
trovano nella pratica professionale un’occasione di verifica e sintesi, ma al tempo stesso attraverso
di essa diventano fonte di nuove domande in termini di analisi e comprensione che tornano a
riversarsi sul tavolo della formazione, secondo un principio di circolarità che trova fine nel
raggiungimento degli obiettivi individuati da organizzazione e utenza.
L’azione formativa si alimenta in corso d’opera, sulla base delle risposte raccolte direttamente sul
campo attraverso l’analisi della situazione organizzativa sia dal punto di vista dei processi che dal
punto di vista rappresentazionale. In virtù di questa sua flessibilità, contrariamente a quanto
avviene nelle situazioni di formazione costruite su di un modello o pacchetto di contenuti, non si ha
un intervento diretto ai problemi evidenziati dall’organizzazione mediante iniziative prestabilite: si
ha piuttosto uno studio attento alle dinamiche di contesto sia nella fase di analisi della domanda che
nel corso della formazione stessa dove l’esperienza del gruppo diviene una realtà privilegiata entro
cui testare le modalità di relazione, comunicazione e in generale di funzionamento lavorativo.
Il gruppo di formazione psicosociale è un piccolo gruppo in cui trovano voce la cultura,
l’esperienza, la creatività dei singoli partecipanti che confrontandosi attivamente gli uni con gli
altri lasciano emergere i tratti salienti del proprio ruolo, in particolare del proprio ruolo rispetto al
funzionamento organizzativo. Il gruppo è altresì “strumento volto ad istituire un setting in cui viene
sospesa la riproduzione automatizzata di modelli cognitivi ed affettivi, setting definibile tanto come
situazione atta a rifondare altri modelli nella ricerca di una nuova razionalità (tramite l’esplorazione
permessa dall’elevata discrezionalità), quanto come relazione in cui sia possibile la rifondazione di
un nuovo eventuale consenso tramite l’attraversamento della conflittualità” (Carli, Paniccia,
Lancia, 1988).
La formazione psicosociale può dirsi quindi predisposta ad individuare e al tempo stesso
oltrepassare automatismi e schemi di comportamento cristallizzati che potrebbero risultare
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ostacolanti la comprensione profonda e il cambiamento individuale e organizzativo: l’attenzione
riposta sulla dinamica affettiva e relazionale tra individuo e organizzazione e tra le diverse
componenti dell’organizzazione permette, “a livello individuale, un recupero di consapevolezza e
di riflessività e, a livello organizzativo, un’amplificazione degli spazi di elaborazione, di razionalità
e di investimento più consapevole sugli obiettivi da perseguire, sui ruoli da svolgere, sulle relazioni
interpersonali e professionali” (Avallone, 2009, p. 18).
Ricollegandoci a quanto detto a proposito del cambiamento nel primo capitolo, in questa sede
sembra sempre più evidente come il tema in oggetto racchiuda in sé una problematicità, imputabile
da un lato al suo essere fenomeno complesso quindi ambiguamente e potenzialmente individuale e
organizzativo insieme, dall’altro al suo essere più o meno atto intenzionale. Quando, infatti, si parla
di formazione occorre comunque interrogarsi se il cambiamento sia frutto di un progetto fatto
proprio e poi condiviso o sia piuttosto un “lasciarsi cambiare” (Avallone, 1977).
È evidente come, in questo senso, qualsiasi esperienza di formazione sia il risultato di un groviglio
di forze e diversi gradi di potere, quello della committenza, del formatore e dell’utenza, non
concepibili come realtà tra loro separate e autodeterminate. In una prospettiva psicosociale le forze
riconducibili ad ogni polo della formazione sono tra loro reciprocamente interdipendenti e
contribuiscono ad orientare l’azione formativa e il suo esito. Ad esempio, laddove non ci sia un
reale interesse da parte della committenza a coinvolgere in modo costruttivo il soggetto in
formazione e si richieda la sola adesione ad un compito o ad un modello, sarà molto difficile per il
formatore riuscire a sollecitare il formando nella sfera del profondo, attivando cioè i recettori del
Sé e del Sé in rapporto all’Altro, gruppo e organizzazione. Formare, apprendere, cambiare senza la
reale intenzionalità dei soggetti interessati potrebbe risultare un agire vuoto o fuorviante.
Le resistenze alla formazione così come al cambiamento possono trovare origine nella così detta
“cultura organizzativa”. In quest’accezione le organizzazioni sono concepite come culture, ovvero
insiemi di valori, credenze, regole, modelli di comportamento peculiari capaci di influenzare
atteggiamenti e condotte di individui e gruppi. “La cultura impronta il clima organizzativo, orienta
il processo di socializzazione dei giovani o, comunque, dei nuovi membri, coagula l’operato dei
responsabili, tende ad essere trasmessa attraverso la storia dell’organizzazione, i suoi rituali, i
simboli materiali e il linguaggio” (Avallone, 2009, p. 22). Parleremo più approfonditamente di
cultura organizzativa nel quarto e quinto capitolo.
Tra cultura e formazione esiste un rapporto duplice e interdipendente: da un lato, i valori, le norme,
i significati condivisi orientano la valutazione del contesto organizzativo da parte della
committenza, determinando la percezione di una problematicità, la conseguente richiesta in termini
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di formazione e apprendimento, l’individuazione dei destinatari e degli obiettivi; dall’altro, la
formazione psicosociale, in quanto intervento sul cambiamento individuale e organizzativo ovvero
sulle capacità di riconoscere e comprendere le dinamiche interpersonali, di gruppo e istituzionali
proprie dell’organizzazione, è al tempo stesso intervento sulla cultura organizzativa. “Per questi
motivi la comprensione e l’esplorazione delle culture di un’organizzazione è il primo momento
dell’intervento psicosociale, finalizzato all’analisi della domanda di formazione, a una prima
individuazione del clima organizzativo e della dinamica dei ruoli, all’accertamento di una reale
disponibilità a realizzare la richiesta attività formativa, alla delimitazione degli ambiti e degli spazi
di intervento, all’attivazione di un processo di cambiamento che, proprio nell’esplorazione e
nell’interrogazione sulle culture, trova non già un atto meramente preliminare o propedeutico ma il
suo momento iniziale e fondante” (ivi, p. 23).
L’attenzione riposta sui fattori cultura organizzativa e resistenza verso le attività di formazione
rappresenta una peculiarità e al tempo stesso un passaggio costitutivo l’intervento psicosociale:
sarà proprio l’esplorazione di questi fattori a determinare la possibilità di avviare o meno
l’intervento formativo e al tempo stesso di indirizzare l’operato del formatore. Allorquando, infatti,
le organizzazioni committenti negano la fattibilità dell’analisi della domanda e della fenomenologia
istituzionale non sussistono le condizioni necessarie per realizzare azioni di formazione
psicosociale. La negazione, in questo caso, è una misura difensiva dal cambiamento. Il lavoro
formativo, in quanto occasione di riflessione, di approfondimento, di scoperta delle dinamiche
intrinseche ed estrinseche all’organizzazione, spaventa. Il superamento delle problematicità
riscontrate dalla committenza e il raggiungimento degli obiettivi concordati con il formatore
possono richiedere la revisione di aspetti organizzativi mai presi in considerazione: possono
comportare la necessità di mettere in discussione procedure, stili di pensiero, ruoli consolidati. Da
qui la paura della perdita di controllo che potrebbe derivare dalla trasformazione ovvero dallo
stravolgere modalità di funzionamento che seppur problematiche costituiscono un terreno sicuro su
cui muoversi evitando la messa in discussione di se stessi, sia che il Sé a cui ci si riferisce sia
l’individuo che il gruppo o l’organizzazione. 18
In riferimento a quest’ultimo aspetto, gli studi relativi al funzionamento del gruppo e in modo
specifico del gruppo di formazione apportano un contributo strutturante l’approccio psicosociale. Il
dibattito teorico iniziato con Lewin negli anni ‘30 ha raggiunto una fase di particolare intensità
negli anni ‘60 e ‘70 permettendo la formulazione di tecniche psicologiche attraverso cui condurre
18
Ciò ci permette di ricollegarci al principio di intenzionalità del cambiamento sopra esposto sia a livello individuale
che organizzativo: perché le potenzialità trasformative della formazione possano trovare espressione è necessaria una
reale condivisione dell’esigenza di formazione, quindi degli obiettivi risultanti dalla negoziazione di committenza,
consulenza ed possibilmente utenza.
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un gruppo, interpretarne l’agire, utilizzarne le potenzialità a fini lavorativi e formativi. Nell’ambito
di una visione della formazione come attività di trasmissione e acquisizione di contenuti, il gruppo
altro non è che una situazione relazionale funzionale al raggiungimento di determinati obiettivi;
all’interno, invece, di un approccio psicosociale, il gruppo è il luogo prediletto della formazione, il
contesto ideale in cui lasciare emergere i problemi personali e strutturali posti dall’appartenenza dei
singoli e del gruppo all’organizzazione, individuare e insieme confrontare le differenti credenze,
valori, orientamenti, pregiudizi, stereotipi emergenti dall’interazione dei partecipanti, valutare la
funzionalità della stessa organizzazione.
Francesco Avallone (2009; 1989) individua una serie di condizioni affinché la dimensione gruppale
possa offrire il supporto necessario alle pratiche di formazione: 1) innanzitutto è bene che i
partecipanti ricoprano un ruolo strategico e di responsabilità all’interno dell’organizzazione e in
quanto tali siano portatori di problemi da raccontare, analizzare ed eventualmente risolvere
attraverso la condivisione; 2) è auspicabile che s’instauri un clima di apertura e non difensività, di
comprensione e adesione; 3) gli individui in formazione dovrebbero poter sospendere gli impegni
lavorativi così da aumentare concentrazione e dedizione verso l’attività di analisi dell’esperienza
lavorativa e di vita entro quella formativa; 4) la composizione del gruppo non può essere casuale o
rispondere alle sole contingenze organizzative; 5) nonostante aumentino le richieste di interventi
brevi, la durata delle attività di formazione non dovrebbe essere troppo corta: più l’intervento è
breve e minore è la possibilità che il processo di interrogazione e analisi auspicato si attivi. Quando
queste condizioni vengono rispettate il gruppo favorisce alcuni passaggi fondamentali ai fini della
formazione psicosociale: la riflessione sulle modalità di funzionamento dell’organizzazione,
l’analisi della fenomenologia istituzionale e la produzione di significato. Detto altrimenti, le
relazioni vissute entro l’esperienza formativa esprimono il significato delle relazioni agite altrove,
permettendone l’individuazione, la metacognizione e quindi la comprensione e interpretazione.
La formazione d’indirizzo psicosociale è a tutti gli effetti una “storia” resa unica e irripetibile
proprio dal rapporto che s’instaura tra i soggetti partecipanti, compresi formatore e committenza.
L’imput narrativo è dato da una domanda e trova sviluppo attraverso un susseguirsi di fasi entro un
preciso contesto storico-culturale e organizzativo. Tali fasi possono essere così individuate:
l’analisi della domanda, la progettazione degli interventi, la definizione del setting, la gestione
d’aula ovvero del gruppo, la verifica e la valutazione del processo formativo. Rispetto ad ognuna di
queste fasi il ruolo del formatore prevede investimenti diversi dal punto di vista delle capacità e
delle competenze. A tal proposito è evidente che sono necessarie capacità, anche auto-dirette, di
osservazione, di analisi/diagnosi, di interpretazione, di ricerca, di assunzione e gestione del ruolo.
Nonostante ciò, il lavoro che si trova a svolgere non può dirsi frammentario: richiede piuttosto
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unitarietà dal punto di vista dell’approccio di base e continuità di analisi del processo, verifica
costante della congruità di quanto realizzato in corso d’opera con gli obiettivi finali.
“Il lavoro del formatore è, pertanto, un lavoro di interrogazione, di analisi della richiesta di
intervento, di predisposizione - in termini operativi - della strumentazione teorica e metodologica
idonea alla specificità della situazione, di prefigurazione dei possibili itinerari alternativi”
(Avallone, 2009, pag. 29). Nessuno dei compiti del formatore può dirsi rigidamente prestabilito o
prevedibile: a partire dal suo bagaglio preparatorio e socio-culturale egli co-costruisce, insieme agli
altri attori della formazione, l’intervento formativo sulla base delle peculiarità del contesto in cui si
trova ad operare, ovvero degli utenti che ha di fronte, delle richieste mosse dalla committenza,
della cultura dell’organizzazione, del momento storico, culturale, organizzativo. Il formatore è un
“progettista-osservatore” (Morin, in Bocchi, Ceruti, 1986): mentre progetta deve tenere sotto
controllo il prodotto del proprio lavoro ed anche se stesso, i termini di coinvolgimento, reazioni,
prestazioni. L’obiettivo è mantenere in equilibrio tra ciò che è razionale e logicamente pianificato e
ciò che invece è emozionale, agire creativo, moto interiore.
La progettazione, in quanto attività che prende forma da e attraverso il contatto diretto con la realtà
organizzativa, non può essere pensata come semplice combinazione matematica di azioni
rispondenti agli obiettivi prefissati in sede di analisi della domanda: essa, piuttosto, scaturisce
dall’unione di teorie scientifiche e di teorie ingenue, dal contatto del manifesto e dell’implicito
propri della dimensione organizzativa e del Sé del formatore. Ogni progetto formativo, per quanto
caso-specifico voglia essere, è pur sempre frutto di un lavoro di analisi e interpretazione
individuale, all’interno del quale non possono non confluire visioni del mondo, teorie del senso
comune, convinzioni, immaginari simbolici e rappresentazionali del formatore. La progettazione,
quindi, così come il lavoro di analisi prima e di valutazione dei risultati poi, prevedono il
coinvolgimento personale del formatore sia dal punto di vista cognitivo che emotivo. Si potrebbe
parlare di un’attività di elaborazione, a tratti mentale e a tratti emozionale, delle qualità
“emergenti” dal sistema organizzativo ovvero di quelle qualità che fuori dall’organizzazione in cui
si trovano non esisterebbero proprio perché peculiari del “tutto organizzato” a cui di riferiscono e
per questo motivo constatabili solo empiricamente e non deducibili logicamente. 19
“Il riferimento che s’intende fare è duplice: da una parte al piano formalizzato della teoria o delle
teorie scientifiche che formano il repertorio culturale di un progettista; dall’altra al piano
rappresentazionale, più profondo e misterioso, soggettivo appunto, dove in genere sono depositati
il senso e il significato delle scelte e delle preferenze apparenti, ‘oggettive’” (Cuomo, in Avallone,
19
“Il tutto organizzato è qualcosa di più della somma delle singole parti […]” (Morin, in Bocchi, Ceruti, 1986, p. 51).
59
2009, p. 55). Questi due livelli, seppur distinti, sono collegati tra loro in modo più o meno
adiacente a seconda del grado di integrazione esistente tra teorie scientifiche e teorie del senso
comune. L’impostazione rappresentazionale della conoscenza, concettualmente riconducibile agli
studi della psicologia sociale europea degli ultimi cinquanta anni, alla prospettiva della conoscenza
sociale di stampo sociocostruttivista, interazionista e culturale e in particolare al contributo di
Serge Moscovici, lascia emergere un’idea di complessità che non è data solo da sistema preso in
considerazione ma anche dalla nostra stessa rappresentazione della complessità osservata, vissuta e
agita. A tal proposito si veda la figura 3.
Figura 3
(da Cuomo M.P., La progettazione degli interventi formativi, 1989, pag. 56)
L’immagine mostra come ogni ambito dell’attività di progettazione sottenda, da parte del
formatore, una conoscenza scientifica e una rappresentazionale. Il rimando è alla teoria delle
rappresentazioni sociale di Moscovici e alle modalità di costruzione sociale della conoscenza
individuale: le rappresentazioni sociali, espressione degli “universi consensuali” e non “reificati”
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del sapere (Farr, Moscovici, 1989) fungono da strutture cognitive mediante le quali interpretare la
realtà circostante. Pertanto, se il formatore in quanto professionista ha la possibilità di attingere
dagli universi reificati del sapere tecnico-scientifico che gli appartiene, in quanto attore sociale,
esponente di gruppo e di una comunità, dispone di un sapere consensuale che inevitabilmente
interviene nel processo di elaborazione delle informazioni “emergenti” dal contesto organizzativo e
dal setting di formazione. Le teorie esplicite delle scienze e le teorie implicite del senso comune,
seppur disgiunte in linea di principio, nella realtà mostrano un legame di circolarità e di reciproca
influenza attraverso cui viene costruita la conoscenza del mondo circostante e la stessa cultura.
Un principio socio-costruttivo simile è rinvenibile anche nella così detta fase di valutazione della
domanda, a cui si è già fatto riferimento sopra, prerogativa della formazione di indirizzo
psicosociale e, come vedremo in seguito a proposito dell’approccio psicosociologico, fulcro
centrale di questa tipologia di intervento formativo. L’analisi della domanda si pone come
alternativa alla classica analisi dei bisogni variamente discussa in letteratura. Con il termine
“bisogno” ci si riferisce ad uno “stato” di mancanza essenzialmente intimo, spesso inespresso o
inconscio che difficilmente può essere portato alla luce per la sua reale natura quando trattato come
“dato”, come problematica metodologica o puramente operativa. Il rischio è di perdere il senso
dell’oggetto della propria ricerca e il legame esistente tra contesto e individuo o gruppo di
individui. L’analisi della domanda, invece, risponde alla necessità innanzitutto di istituire un
rapporto con il sistema cliente/committente e sancire le condizioni del setting in cui eventualmente
si andrà ad operare: l’obiettivo non è l’analisi di quali richieste formative, ovvero di quali lacune
dover colmare, ma “l’avvio di ricerca di una necessità e possibilità effettiva di lavorare su problemi
aperti, su situazioni organizzative non a regime, su di una speranza” (Kaneklin, in Maggi, 1991, p.
86). 20 Prima di avviare un’attività di formazione psicosociale, occorre verificarne in itinere
fattibilità e opportunità. Il formatore, cioè, deve potersi dire sicuro che l’organizzazione disponga
di “spazi mentali e sociali” (ibidem) aperti entro i quali poter lavorare e ipotizzare soluzioni.
Il lavoro di analisi condotto sulle attese della committenza ha un ruolo strategico in questo senso
perché è utile ad appurare la reale disponibilità nei confronti della formazione e del cambiamento,
lascia cioè emergere quelle che si potrebbero definire la domanda esplicita e la domanda implicita.
Quando il cliente/committente formula una richiesta precisa di formazione solitamente ha già
individuato una problematicità da risolvere e una modalità attraverso cui intervenire, proponendo al
formatore una lettura della situazione organizzativa preconfezionata. Un esempio classico potrebbe
essere quello di un’organizzazione all’interno della quale vengono percepite disfunzioni a livello di
20
Per approfondimenti sull’analisi della domanda si veda R. Carli, M.R. Paniccia, Il gruppo in psicologia clinica,
N.I.S., Roma, 1988.
61
comunicazione interna e di conseguenza la direzione opta per una soluzione di formazione legata a
questo particolare tipo di expertise, vale a dire corsi che si occupino di comunicazione e di
dinamiche di comunicazione. È chiaro come nella maggior parte delle occasioni il
cliente/committente elabori un proprio progetto di formazione in cui sono racchiuse numerose
informazioni circa il suo rapporto con il problema individuato (accettazione o negazione), il ruolo
delegato alla formazione, l’esistenza o meno di congruenza tra problemi e attese. Dietro
all’individuazione di un problema di comunicazione interna, infatti, potrebbero celarsi
innumerevoli difficoltà, inerenti le relazioni umane tra singoli individui o reparti, tra la stessa
direzione e i dipendenti, ristrutturazioni interne, fusioni, ecc. La lettura della situazione offerta
dalla committenza deve essere il punto di partenza per un’analisi più approfondita che, proprio a
partire dai significati espliciti e sottesi o rapppresentazionali, indaga nei meandri della cultura
dell’organizzativa e, sulla base delle informazioni emergenti e della reale disponibilità
dell’organizzazione a misurarsi sugli aspetti ritenuti sintomatici, permette di sancire l’accordo di
formazione, guidando la fase della progettazione.
L’analisi della domanda così come la progettazione, seppur pensate come passaggi preparatori
l’attività vera e propria di formazione, sono invece momenti costitutivi l’intervento stesso di cui
non è possibile pianificare un inizio e una fine: attraverso di essi è possibile innescare un processo
conoscitivo, di ricerca e generazione di senso su e da parte di tutti gli attori coinvolti, formatore
compreso, secondo una logica che richiama il principio di ricerca-azione di stampo lewiniano e
quello dell’osservazione partecipante. 21 La ricostruzione dei diversi punti di vista, delle dinamiche
organizzative e relazionali è già formazione, laddove il fare formazione non può prescindere dalla
“capacità di integrazione tra dimensioni sociali, tecniche, organizzative e personali” ovvero dalla
“capacità diffusa di «pensiero complesso» in grado di articolare, senza confonderle, dimensioni
diverse” (Kaneklin, in Maggi, 1991, p. 88).
Afferma Avallone (2009, p. 34): “l’analisi della domanda, […] non è traducibile in una serie più o
meno complessa di operazioni da compiere, né può riferirsi a un percorso standardizzato di
intervento, ma richiede particolare disponibilità all’ascolto, all’osservazione, all’interrogazione,
alla diagnosi, all’interpretazione”. Nonostante ciò, l’autore individua alcune aree che non possono
non essere esplorate nel percorso di analisi della domanda: 1) l’analisi delle culture
dell’organizzazione e le sottoculture specifiche di aree e funzioni; 2) la concezione e l’immagine
21
“Risulta difficile valorizzare ciò che si acquisisce in termini di conoscenza e risulta anche difficile prefigurare
un’azione che non sia tanto rivolta a rimuovere al più presto il problema o a toglierlo di mezzo: sembra che l’azione
direttamente finalizzata a questo non sia azione; l’azione che struttura delle modalità di rielaborazione del problema o
che è mirata a coinvolgere persone o gruppi in una strategia (per esempio a “preparare il terreno”), sembra sia
comunque azione insufficiente, limitata, troppo debole” (Kaneklin, Olivetti Manoukian, 2005).
62
della formazione; 3) la fonte della domanda d’intervento ovvero chi ha espresso l’esigenza di
formazione; 4) le dinamiche relazionali tra gli attori coinvolti nel progetto formativo e gli
atteggiamenti verso il formatore; 5) le regole del gioco o detto altrimenti i segreti, le alleanze, i
vincoli, le abitudini che pur non essendo verbalizzate lasciano intravedere pregiudizi, stereotipi,
meccanismi di difesa e resistenze; 6) il piano della realtà e il piano del desiderio, vale a dire i dati
provenienti dalla realtà organizzativa (realtà di fatto e realtà rappresentata) e quanto invece ricade
nella sfera del desiderio, delle speranze, della paure ovvero delle componenti emozionali che
possono predisporre o mal disporre gli utenti verso la formazione.
La centralità della pratica di analisi della domanda di formazione nel corso dell’iter formativo e la
dedizione riservata al lavoro di ricostruzione dei significati dichiarati e sottesi all’interno del
sistema organizzativo costituiscono una peculiarità anche dell’approccio psicosociologico di cui
parleremo nel prossimo paragrafo. Lo spazio che dedicheremo a questa ricostruzione teorica ci
permetterà di argomentare con maggiore dettaglio l’aspetto psico-sociale della formazione e in
particolare il contributo dell’ideale socio-costruttivo in base al quale la formazione rappresenta un
processo di natura sociale. Il nostro interesse per l’orientamento psicosociologico alla formazione è
inoltre dovuto allo spessore in termini di studio e ricerca conferito al tema del cambiamento
individuale e del cambiamento organizzativo e delle possibili connessioni tra di essi, al rilievo
offerto alla situazione di gruppo, alla prospettiva contestualista e interazionista ovvero alla lettura
ecologica dei fenomeni organizzativi. In questi termini, mutuando il modello Persona-processocontesto di Bronffenbrenner (1986), le possibilità delle variazioni dal punto di vista evolutivo nei
processi formativi possono dirsi funzione congiunta e sinergica delle caratteristiche della persona e
del suo ambiente di vita (famiglia, gruppo, scuola, posto di lavoro, ecc.). L’ambiente inteso come
realtà sociale e culturale insieme, sulla base di connaturate procedure di costruzione e trasmissione
di significati condivisi, esplicandosi come una vera e propria variabile costante dello sviluppo
individuale, svolge una funzione regolatrice che orienta l’agire umano durante tutto il percorso
esistenziale.
Prima di addentrarci nella ricostruzione dell’approccio psicosociologico, intendiamo soffermarci a
sottolineare l’aspetto rappresentazionale ed emotivo della formazione, a nostro avviso saliente ai
fini dei vissuti formativi e della loro costruttività sia dal punto dell’identità che della conoscenza
professionale, del Sé e dell’Altro. Possiamo innanzitutto avvalerci di un’autorevole estratto:
“La reazione primaria di ansietà e di paura che ciascuno avverte diversamente e coniuga in funzione di sue
equazioni personali nei processi formativi segnala una difficoltà attenuabile ma non evitabile. Si sviluppa
infatti a partire da queste reazioni emotive primarie la storia dell’ingaggio personale in formazione che, a
livello dei processi secondari di pensiero, si articola con l’immagine che si ha della formazione, con ciò
63
che ci si attende, con le condizioni nelle quali l’attività può essere praticata” (corsivo nostro) (Kaneklin,
Olivetti Manoukian, 2005, p. 241).
La rappresentazione che si ha della formazione così come le esperienze pregresse condizionano
fortemente l’approccio del singolo nei confronti della formazione: pertanto, la procedura di
determinazione degli stessi bisogni formativi tanto diffusa in letteratura risulta essere fuorviante o
parziale nel momento in cui trascuri questi aspetti di significazione che, seppur interiorizzati e
sottesi tra le righe dello storico individuale, risultano a tutti gli effetti presenti e attivi nelle
situazioni in cui ci si misuri con nuovi vissuti di formazione. Per quanto appena detto sarebbe
corretto parlare di “bisogni in formazione” piuttosto che di “bisogni di formazione” vista la
tendenza a sviluppare e rappresentare i propri bisogni di formazione “in modo sincronico con lo
sviluppo e la diffusione di una specifica immagine della formazione” (ivi, 242). 22
A fronte di questo principio, ogni impostazione del processo di formazione rigida, ripetitiva, chiusa
agli aspetti rappresentazionali e alle informazioni emergenti dall’evolversi degli eventi in corso
d’opera non può rispondere efficacemente alle esigenze di sviluppo psico-sociale dei formandi.
Come già detto, la tendenza alla semplificazione in materia di formazione risulta essere rischiosa e
sminuente: di conseguenza, seppur un riferimento operativo utile ad organizzare il lavoro,
l’organizzazione della formazione per fasi cicliche prestabilite deve saper gestire ed evitare il
rischio di inghiottire gli aspetti soggettivi in quelli di tipo processuale.
2.2. La formazione psicosociologica
La formazione di tipo psicosociologico non è facilmente definibile né incasellabile entro confini
stabili di appartenenza: numerose sono le discipline da cui attinge nel tentativo di rispondere alle
numerose richieste provenienti dalla realtà in cui interviene, multiple sono le ottiche, spesso
differenti, a volte complementari. Nella ricostruzione storico-culturale proposta da Cesare Kaneklin
e Franca Olivetti Manoukian (2005; 1991) gli esordi della riflessione psicosociologia in Italia
vengono ricondotti all’Associazione per la Psicologia Italiana del Lavoro (APIL) promossa a
Milano da Enzo Spaltro nel 1961.
“Già allora risultava evidente che le persone sviluppavano abitudini di relazione tra loro, con il lavoro, con
le regole aziendali e che portavano nel lavoro la loro storia individuale, le esperienze passate e presenti
all’interno del gruppo, bisogni sociali da soddisfare all’interno della relazione, rapporti instaurati con gli
altri gruppi interni e esterni all’azienda e che queste eran tutte variabili che significativamente
intervenivano nella attribuzione di significato al loro comportamento, un significato non necessariamente
analogo a quello anticipato e previsto dalle norme e dalle strutture organizzative, ma più spesso con esso
interagente” (ivi, p. 110).
22
Kaneklin cita J.M. Barbier, M. Lesne, L’analyse des besoins en formation, Jauze, Paris, 1971.
64
Il fulcro del discorso psicosociologico è che la cultura socialmente intesa incontra la cultura
organizzativa dando vita a degli artefatti assolutamente peculiari e funzionali alla costruzione della
conoscenza umana. Da qui la convinzione che i fattori microsociali, le relazioni tra persone o
gruppi, le emozioni, i desideri, i progetti soggettivi siano parte strutturante la vita lavorativa:
esercitano un’influenza profonda sui processi di produzione e di modificazione della realtà
organizzata e, di conseguenza, non possono che risultare pertinenti rispetto alla necessità di
comprenderla per intervenirvi. Il gruppo, inoltre, tanto importante ai fini della formazione
psicosociale, è il luogo privilegiato in cui trova spazio ed espressione l’incontro, a volte scontro,
dei fattori individuali, quindi psicologici, e quelli sociali, culturali e organizzativi. In quanto tale, è
anche il luogo ideale in cui poter osservare le evoluzioni di questi fattori e del loro interagire
ovvero leggerne e interpretarne i significati.
Raccogliendo gli insegnamenti di Lewin, il gruppo è quindi percepito come spazio di ricerca e
insieme di costruzione del sapere, strumento di formazione mediante il quale portare alla luce i
meccanismi sottesi al funzionamento individuale e organizzativo.
“La formazione psicosociale viene definita come un’esperienza centrata sull’analisi delle relazioni di
gruppo e dei fenomeni di interazione allo scopo di affinare le capacità di comprensione delle relazioni
interpersonali che costituiscono il tessuto sociale in cui ognuno si trova a vivere e a lavorare” (ivi, 113).
In questo senso, la formazione psicosociale si fa “diagnostica”, vale a dire capace di sviluppare un
atteggiamento critico e insieme una propensione alla ricerca piuttosto che un passaggio di
conoscenze specifiche o di istruzioni d’uso. L’obiettivo non è l’accumulo di sapere ma la
comprensione. Per questo, un atteggiamento “meta-cognitivo”, “meta-comunicativo” e insieme
“meta-relazionale” diventa utile ai fini dell’essere elemento di un gruppo ovvero dell’efficacia
lavorativa visto che, come affermato da Mayo, non esiste attività lavorativa che non sia attività di
gruppo: un atteggiamento auto-diretto ed etero-diretto facilita l’orientamento al compito e la presa
di decisioni, migliorando la qualità della vita all’interno dell’organizzazione in cui si opera.
In quest’ultima affermazione è possibile rintracciare tutta l’eredità degli studi di Mayo citati nel
precedente capitolo e dell’indirizzo delle Risorse Umane di quegli anni: “se il gruppo è la
dimensione operativa entro cui si muove l’azienda, obiettivo della formazione deve essere quello di
sensibilizzare alle dinamiche di gruppo” (ibidem). Al di là dell’aspetto funzionale del gruppo,
l’approccio psicosociologico ne sottolinea l’aspetto psicologico: “il gruppo è una dimensione non
solo sociologica ma anche psichica dell’individuo” (ibidem). Deve essere considerato come
un’esperienza indispensabile alla maturazione dell’uomo: nella dimensione microsociale
l’individuo sperimenta il rapporto con l’Altro diverso da Sé e sopra ogni altra cosa l’essere parte di
un tutto. Questo tutto, come dimostrato dalla Gestalt Theory, risulta qualcosa di più (o comunque
65
qualcosa di diverso) dalla somma delle singole parti. Nel gruppo, quindi, il singolo soggetto, da un
lato fa esperienza di sé, dall’altro fa esperienza della dimensione sociale, dell’essere in relazione
con “una pluralità intesa come totalità” (ivi, p. 114). La possibilità di congiungere questi due
livelli di analisi fa del gruppo lo strumento ideale per gli interventi di formazione, il luogo dove
poter praticare la mediazione tra la realtà dell’organizzazione e quella delle persone che ne fanno
parte: detto altrimenti tra le logiche di sistema e quelle puramente psicologiche.
La possibilità di intervenire sul sistema a partire dal lavoro di gruppo introduce nella riflessione
psicosociologica un ulteriore elemento, quello del cambiamento, riattivando il discorso lewiniano:
“la formazione inizia ad essere progettata come mezzo di cambiamento e innovazione in un
contesto organizzativo” (ibidem). Il cambiamento entra quindi a far parte degli obiettivi della
formazione: la comprensione di cui si parlava sopra e la sensibilizzazione alla relazione
intergruppo divengono a questo punto due elementi propedeutici all’attivazione di un cambiamento
che è evidentemente individuale e sociale. Il gruppo, in quanto spazio di attuazione della
connessione tra la dimensione individuale e organizzativa, diviene a sua volta, come già affermato
in precedenza, il luogo e lo strumento della formazione.
La tecnica del “T-Group” elaborata da Lewin negli anni ‘40 rappresenta un elemento caratterizzate
la pratica psicosociologica: sottoforma di attività seminariale di sensibilizzazione, a partire
dall’esperienza diretta e dell’hic et nunc, il training group valorizza gli aspetti del vissuto
personale, dell’introspezione, dell’analisi del sé, della riflessione condivisa ai fini della conoscenza
di se stessi, dell’altro ovvero dell’apprendimento. Attraverso l’esperienza dell’Altro diverso da sé,
l’individuo, nel contempo osservatore e partecipante, non solo comprende chi ha attorno ma anche
se stesso. È portandosi fuori da sé che può tornarvi con una maggiore consapevolezza, sulla base
della quale riscoprirsi e riaffermarsi.
L’attività psicosociologica si caratterizza per un elemento di novità rispetto ad altri approcci in
materia di formazione: “il problema presentato non è più solo quello del cambiamento in gruppo
ma diviene quello della possibilità di un cambiamento del gruppo, cioè del cambiamento
organizzativo” (ivi, pag. 119). Due sono i postulati a sostegno di questa tesi: il primo è d’ordine
sistemico e si basa sul principio che i diversi elementi di un sistema sono interdipendenti ovvero il
cambiamento che attraversa un qualsiasi fattore scatena una serie di ulteriori cambiamenti in altri
fattori, coinvolgendo l’intero contesto; più specificatamente il cambiamento del singolo (a livello di
atteggiamenti, comportamenti, valori, ecc.) induce, mediante l’interazione umana, cambiamenti a
livello del piccolo gruppo e i cambiamenti della dimensione microsociale arrivano a loro volta al
macrosociale, modificandolo. Il secondo presuppone che gli atteggiamenti e le modalità di rapporto
66
manifestate dagli individui nell’esperienza di formazione siano le stesse ad essere mostrate nelle
altre esperienze di relazione a cui partecipano; pertanto, l’apprendimento personale raggiunto in
sede di formazione può essere trasferito in qualsiasi altro contesto di vita (si parla infatti di
“transfer” e di principio di trasferibilità). Detto altrimenti: formando individui che fungano da
“agenti di cambiamento” entro l’organizzazione è possibile generare un cambiamento di tipo
organizzativo (ivi, p. 120).
Sulla base di quanto assunto fin qui, è possibile circoscrivere entro tre elementi peculiari l’attività
della psicosociologia italiana nella prima fase del suo sviluppo: si tratta di tre elementi che
ricorreranno come punti fermi nell’arco della sua intera evoluzione storico-culturale e che
costituiscono dei tratti distintivi rispetto altri approcci in materia di formazione. Innanzitutto, la
psicosociologia si propone come “disciplina che si occupa di processi di cambiamento sociale e
quindi di organizzazioni sociali in un’ottica di ricerca-intervento al fine di favorire un loro
cambiamento e una loro innovazione nel senso di una maggiore partecipazione interna, di una
maggiore disponibilità al confronto e all’elaborazione di problemi” (ivi, p. 121). Il secondo
elemento a cui si può fare riferimento è dato dal fatto che la ricerca psicosociologica è una ricerca
con le persone non sulle persone intese come soggetti di trasformazione. In ultimo, i luoghi
dell’intervento sono situazioni microsociali (gruppi temporanei o duraturi) che svolgono la
funzione di mediare la dimensione individuale con quella collettiva, da un lato, quella cognitiva
con quella affettiva, dall’altro.
Concludendo la riflessione sui tre elementi sopra citati, occorre sottolineare come la
psicosociologia, in epoca post-industriale, abbia avuto il merito di aprire “la strada della parola ai
fenomeni microsociali e all’effervescenza sociale: la strada che consente di ricercare gli elementi
che fondano il legame sociale e che trova nella comunicazione lo strumento di promozione di un
ordine sociale instabile, ma durevole” (ivi, p. 122).
A partire dai traguardi stabiliti nel primo decennio del suo divenire, la discussione psicosociologica
si orienta, durante gli anni Settanta, sul problema del trasferimento dell’apprendimento da una
situazione artificiale e sperimentale, come quella dei T-Group, costruita appositamente con
l’obiettivo di generare trasformazione, a una situazione di quotidianità lavorativa. L’atteggiamento
critico che inizia a diffondersi riguarda le caratteristiche di artificiosità e astoricità dell’esperienza
di formazione, lo scollamento rispetto la realtà organizzativa di provenienza di ciascun soggetto
partecipante. Se inizialmente questo svincolamento poteva sembrare un plus utile ad amplificare la
produttività in termini di introspezione dell’intervento formativo di gruppo, poi si è arrivati ad
67
individuarne alcuni limiti. Le problematiche da risolvere in questa specifica fase sono
evidentemente di ordine tecnico-metodologico oltre che concettuale.
La psicosociologia, sulla scia delle teorie dell’Organizational Development (OD), scuola di origini
americane legata agli studi di Mayo e diffusa in Europa durante il periodo post-fordista, continua a
negare la possibilità di investire in forme di apprendimento intellettualizzanti e discendenti
dall’autorità, sia essa del formatore che dell’organizzazione, orientando la ricerca direttamente sul
campo, ovvero all’interno dei sistemi organizzativi e alla pratica lavorativa, così che le esperienze
formazione realizzate possano dirsi finalizzate al cambiamento non solo dei singoli, rispetto a
situazioni personali e professionali, ma di interi gruppi e situazioni sociali concrete. Partendo ad un
contatto diretto con le strutture che segnalano una disfunzionalità, “lo psicosociologo è spinto ad
analizzare e ad accertare la significatività dei legami storici, istituzionali, di ruolo, culturale entro i
quali si muovono i partecipanti alle esperienze formative. L’attenzione verso i problemi specifici
delle organizzazioni diviene centrale” (ivi, pag. 128).
Contestualmente, raccogliendo i contributi della Teoria Generale dei Sistemi e della Psicoanalisi, la
domanda cruciale a cui si cerca di rispondere riguarda “la possibilità di individuare processi e
strutture, propri del funzionamento psichico individuale, che influenzano significativamente anche
le organizzazioni complesse e la loro struttura” (ivi, pag. 129). Posto che in base all’ottica
sistemica 1) un’organizzazione viene definita come un sistema aperto, interagente con l’ambiente
economico, sociale, culturale e politico in cui opera, 2) ogni elemento di un sistema è
funzionalmente collegato a tutti gli altri, 3) ogni aspetto di un’organizzazione è una risposta alle
condizioni esterne e viceversa, 4) ogni sistema aperto tende all’equilibrio, la psicosociologia
muove all’interiorità degli individui assumendo che “un’organizzazione non esiste solo come
elemento esterno alle persone e ai gruppo che la costituiscono ma viene da questi interiorizzata,
rappresentata a livello mentale e diventa così parte integrante della loro identità e della loro
esperienza. Ogni sistema sociale ha dunque oltre a una forma e un contenuto manifesti, una forma
e un contenuto latenti rappresentati dall’insieme di fantasie inconsce socialmente condivise dai
suoi membri” (corsivo nostro) (ivi, pag. 130).
L’assunto di base, quindi, è che “le organizzazioni attraversano l’individuo, nella misura in cui
sono introiettate dalle persone” (ivi, pag. 136): ciò costituisce un’ulteriore conferma
dell’inscindibilità del legame tra l’evoluzione delle persone e quella delle organizzazioni in cui si
trovano ad operare. Su di questo assunto, la formazione psicosociologica si propone come
esperienza in cui poter liberare i vissuti interiori, i desideri, le paure, le angosce, i significati
inconsci sui cui si basa la prassi quotidiana entro i sistemi sociali d’appartenenza. La lettura di tali
68
significati, la presa di coscienza, la riflessione e l’interpretazione degli stessi rappresentano i
passaggi salienti di un’analisi che vuole rispondere positivamente alle problematicità di sistema
ovvero alla funzionalità dei rapporti intergruppo e interorganizzativi. Così facendo l’oggetto della
formazione non è le singole componenti individuo-gruppo-organizzazione separatamente intese ma
la relazione tra di esse.
Seguono due definizioni rappresentative di quanto appena detto:
“L’analisi psicosociologica si precisa così come lavoro clinico, fatto con i singoli e con i gruppi, per fare in
modo che siano sempre più in grado di comprendere in modo diretto e concreto, non solo intellettuale, le
dimensioni sociali e istituzionali ricorrenti nelle loro collocazioni professionali e sociali e i problemi propri
del funzionamento delle strutture organizzative” (ivi, pag. 133).
“[La formazione psicosociologica può essere definita come] il processo di analisi del rapporto che le
persone hanno col proprio lavoro, utilizzando il setting formativo come metafora di comportamenti
organizzativi, prodotti di fantasie istituzionali e individuali che convergono a costituire una storia
lavorativa romanzata, compatta, ripetitiva nei suoi riferimenti valoriali e ideologici e nel contesto di regole
utilizzate per leggere gli eventi. […] Il romanzo lavorativo organizza, per così dire, le collusioni tra
individui e tra individui e organizzazione tendenti a mantenere in piedi le fantasie e le rappresentazioni che
le persone hanno dell’organizzazione nella quale lavorano e del loro ruolo professionale” (Carli,
Ambrosiano, 1982, p. 57).
Torniamo a sottolineare, come fatto nel precedente paragrafo, anche attraverso le parole degli
autori appena citati, l’esistenza di aspetti sottesi alla realtà organizzativa e di aspetti
rappresentazionali che, per una efficacia dell’intervento di formazione, ovvero per ipotizzare un
cambiamento che possa dirsi individuale e insieme strutturale, devono necessariamente essere presi
in considerazione, guidando l’intero iter formativo dall’inizio alla fine, comprese le fasi di
progettazione, esecuzione e valutazione delle attività. Conoscere la domanda latente corrispondente
ai bisogni reali dell’organizzazione è la chiave di volta della psicosiociologia, così come della
formazione che voglia definirsi psicosociale.
Il formatore, “analista” e al tempo stesso “mediatore” 23, affinché possa esercitare efficacemente il
suo ruolo deve poter istituire un rapporto di comunicazione e approfondimento con il sistema
cliente. “In questo senso non si conduce un lavoro volto a comprendere ciò che si nasconde dietro
alla domanda, ma si innesca un processo che consente di elaborare ciò che è contenuto dentro la
domanda, e se esiste spazio per un intervento psicosociologico, verificando se nella domanda sia
compreso uno spazio di mentalizzazione (interrogazione) dei problemi posti” (Kaneklin, Olivetti
Manoukian, 2005, pag. 136). L’analisi della domanda, quindi, è un processo conoscitivo che
conduce, non a risposte definitorie e chiuse, ma all’apertura di potenziali aree di analisi e di
23
La figura del formatore-mediatore richiama il concetto di “mediazione” e di “zona di sviluppo prossimale”
vygotskiani. Per la trattazione di entrambe rispetto alle possibilità di apprendimento umane si rimanda al terzo capitolo.
Altrettanto significativo è il riferimento che si può tracciare con il “mediatore” del metodo di R. Feuestein di cui
parleremo nell’ultimo capitolo.
69
elementi orientanti l’agire formativo: attraverso di essa è possibile predisporre una situazione in cui
sussistano
le
condizioni
favorevoli
all’elaborazione
delle
informazioni
di
sistema
e
all’introspezione, ovvero allo stabilirsi di un rapporto dialogico tra sapere contestuale (sociale,
organizzativo), azione e retroazione.
Se durante la prima rivoluzione industriale “operare” significava trasformare cose secondo
prototipi, oggi, nella odierna società della conoscenza, lavorare significa trattare dati e
informazioni. Operare sottende un concentrato di azione e pensiero, un pensiero inteso come
elaborazione e insieme riflessione, sulla base del quale non è possibile ipotizzare che qualsiasi
attività umana possa svolgersi come semplice automazione e riproduzione di modelli prestabiliti.
La sovrabbondanza di informazioni, codici, simboli, stimoli che caratterizza il sistema sociale in
cui viviamo necessita, come già sottolineato nel predente capitolo, di contenimento e capacità di
lettura e interpretazione. Questo ci induce a riflettere sull’inadeguatezza del nostro sistema
educativo complessivo (scolastico, parascolastico, post-scolastico) ancora fortemente ancorato
all’idea che esista una connessione lineare tra possesso di conoscenze e informazioni da un lato e
sviluppo socio-economico individuale e collettivo dall’altro. Molta formazione risponde
conformandosi a questa peculiarità e proponendo soluzioni prettamente contenutistiche che, spesso,
non fanno che aumentare confusione e disorientamento dinnanzi al surplus informativo di cui si è
detto poco fa.
In campo organizzativo tale adeguamento può tradursi nella formulazione razionale di specifici
modelli di funzionamento o comunque nella ricerca di modelli ideali di perfezione lavorativa
spesso lontani dalla realtà concreta, dalle contraddizioni, dagli scollamenti rispetto al modello
formale, dagli imprevisti, dalle procedure fattuali involontarie, dalle resistenze, dai conflitti, dalla
memoria storica sedimentatasi nelle persone e nei gruppi, dalle strutture di significato, dal substrato
emozionale e affettivo, ovvero da tutti quegli aspetti che, seppur profondamente strutturanti, nella
maggior parte dei casi non sono manifesti o semplicemente vengono lasciati indiscussi.
Di conseguenza, la formazione psicosociologica nelle organizzazioni si propone non come risposta
immediata ai problemi lavorativi dichiarati, ma come occasione a pensare tali problemi e
riformularli, di modo che possano essere prima d’ogni altra cosa individuati per quello che
realmente sono, per i significati espliciti ed impliciti che sottendono, quindi rielaborati in modo
“complesso” 24, tradotti in ipotesi di soluzione flessibili e infine in agire trasformativo. I capi saldi
24
Recuperando ancora una volta il concetto di “complessità” moriniana si può affermare che una conoscenza
complessa dell’organizzazione è possibile allorquando ci si rende disponibili ad “andare al di là delle ricche descrizioni
sistemiche, recependo che ciò che fonda il legame sociale è un collante di natura affettiva nonché un insieme di valori,
atteggiamenti, modalità di lettura dei dati di realtà, quadri di riferimento concettuale, riassunti nell’espressione gergale
70
di questa “formazione a pensare” sono circoscrivibili entro alcune linee guida (cfr. Kaneklin,
Olivetti Manoukian, 2005) che, con il fine di riepilogare quanto detto fino a questo momento,
procederemo a descrivere per punti.
-
Formatività - La formazione psicosociologica rifugge modelli contenutistici e forme di
automatismi: l’obiettivo come più volte detto è la comprensione, la rielaborazione ovvero
l’apprendimento. L’apprendimento, e in particolare l’apprendimento dall’esperienza (cfr. Bion,
“Learning from Experience”, 1963) non costituisce una risposta meccanica alla novità, né è una
capacità sviluppata in modo analogo in tutti gli uomini: ogni individuo risponde in modo diverso
alle sfide dell’ambiente circostante, al “non conosciuto”. Differente è inoltre il modo di percepire
l’entità della sfida e di rappresentarsi in essa. La formatività sta proprio ad indicare la capacità
dell’essere umano di rappresentare se stesso, di pensare le condizioni, interne ed esterne, della
propria esistenza, di raccontarla e in ultimo di intervenire su di essa.
-
Rappresentare e rappresentarsi - L’esperienza di formazione psicosociologica e lo stesso
apprendimento debbono essere supportati da entrambe le capacità di rappresentare a sé
un’esperienza e rappresentare se stessi nell’esperienza, ovvero da coscienza e autocoscienza.
Perché ci sia apprendimento e un reale cambiamento non è sufficiente saper oggettivare i propri
vissuti: è piuttosto necessario sapersi rappresentare in essi, mentalizzare i vari passaggi, dando
lettura al proprio sentire profondo, in termini di emozioni, bisogni e desideri.
-
Apprendere dall’esperienza e dall’autorità - La formatività è la condizione necessaria per poter
apprendere dall’esperienza. L’apprendimento dall’esperienza non è una conquista semplice.
Apprendere dall’esperienza infatti è qualcosa di molto diverso dal fare esperienza: sottende una
valorizzazione dei vissuti sicuramente lontana dal modello insegnamento-apprendimento diffuso
nella pratica scolastica e in genere formativa, alla base del quale troviamo una scissione tra il Sé
che apprende e ciò che avviene nella realtà professionale o i contenuti della didattica.
L’apprendimento dall’esperienza non è però in antitesi con l’apprendimento derivante dall’autorità,
ovvero dalla figura del formatore: percepito come guida, colui che forma è parte integrante
dell’esperienza formativa. Dopo aver definito il setting formativo e gli aspetti organizzativi della
formazione, il formatore lascerà spazio alla parola dei formandi e all’interrogazione sulla parola
senza mai agire da “maestro”, quanto piuttosto da mediatore di messaggi e significati diversi. In tal
senso, tutti i soggetti coinvolti, compreso il formatore, compiono uno sforzo conoscitivo rivolto
all’Altro.
di ‘cultura d’impresa’. L’insieme cioè di scripts interiorizzati, anche se non sempre consapevoli, dai membri di
un’organizzazione specifica” (Kaneklin, Olivetti Manoukian, 2005, pag. 154).
71
-
Raccontare l’esperienza - Come visto a proposito della formatività, la capacità di raccontare la
propria esperienza è funzionale all’apprendimento e alla riuscita della formazione stessa. Le parole
hanno un peso e un valore fondamentale per l’orientamento psicosociologico, così come la loro
rielaborazione in forma narrativa: il linguaggio però di per sé non può cogliere tutte le sfumature di
senso ad esse sottese, il non detto, ciò che ancora non è presenta alla coscienza. Infatti spesso
accade che dietro le storie di vita raccontate da alcuni esseri umani si nascondano delle realtà
parallele, a volte taciute a volte sconosciute perché non percepite in quanto ostruite da paure,
disagi, bisogni, traumi, squilibri difficilmente decifrabili perché fonti di sofferenza. “Tuttavia tanto
la descrizione verbale o scritta della pratica professionale e lavorativa, quanto il confronto tra
pratiche narrate, rappresentano il tessuto di parole su cui l’elaborazione formativa si può
sviluppare. Questo tessuto intrecciato di parole, evidenzia, come succede anche nella quotidianità,
la qualità multidirezionale del linguaggio che collega il cognitivo e l’emozionale, l’individuale e il
collettivo, il già noto e il sapere nascente” (ivi, p. 166). Nel caso specifico della formazione
psicosociologica nelle organizzazioni, i formandi raccontano la propria esperienza di lavoro, le
problematiche affrontate, dando una personale lettura di questo materiale di vita quotidiana che in
un contesto di gruppo va a confrontarsi con i punti di vista altrui, i quali, a loro volta, si fanno
artefici di nuove visioni e interpretazioni condivise. “In questo senso il linguaggio è un mezzo e un
contenitore grazie al quale è possibile lavorare sui contenuti ricercando significati e connessioni tra
elementi razionali ed emotivi, personali e socio-economici, storici, attuali, futuribili” (ivi, p. 167).
Nella resa narrativa della pratica lavorativa, anche nel caso in cui avvenga in forma scritta, è insito
un processo di elaborazione creativa ed insieme di scoperta capace di cogliere aspetti di significato
che altrimenti resterebbero inespressi compromettendo le reali potenzialità dell’azione formativa.
-
L’uso dell’immaginazione e la capacità di progettare - La formatività e la capacità di intervenire
sulle condizioni dell’esistenza sottendono a loro volta la capacità “di anticipare le azioni attraverso
l’attività immaginativa della mente, di organizzarle, di formularle e riformularle mentalmente in un
progetto […]”. “Immaginare per progettare e operare, lasciando la porta aperta al fantastico, non è
una cosa facile e non è una possibilità acquisita una volta per tutte” (ivi, pp. 169-170). È
sicuramente una peculiarità dell’essere umano, una dote riferibile al funzionamento della mente
che, attingendo dalla dimensione dell’intrapsichico e della fantasia, infonde motivazione e guida
l’azione realizzativa. Nonostante il potere creativo e strutturante dell’immaginazione, intesa come
proiezione di sé al di fuori del conosciuto ovvero degli abituali schemi di pensiero e dell’azione
ripetitiva e adattiva, nelle situazioni formative molto spesso accade che le persone abbiamo una
certa resistenza all’immaginazione, mostrando una profusa tendenza al controllo e alla rimozione
della realtà onirica e fantasmatica. Le attività di formazione rappresentano invece delle occasioni in
72
cui potersi liberare anche sotto questo punto di vista, dando voce ad esperienze e problemi che, nel
caso degli interventi psicosociologici, vengono valorizzati a tal punto da sollecitare i partecipanti a
pesare e pensarsi abbassando le autodifese così da giungere attraverso l’immaginazione in luoghi
remoti del Sé e del significato.
Vale la pena qui soffermarci sul rapporto fantasia-pensiero-azione: ciò che legittima questa
sequenza è l’indissolubilità del legame, dal punto di vista culturale, di “logos” e “praxis” (cfr.
Bruner, 1992): il significato che emerge dall’attività di pensiero e di immaginazione in quanto
fenomeno culturale viene mediato dal linguaggio e di conseguenza posto in relazione alla pratica,
al “fare”, al “progettare”. In sede di formazione nelle organizzazioni questa contiguità tra il pensare
e il fare offre ampi spazi di applicazione ad una teoria dell’apprendimento situato di cui parleremo
più avanti. Alla base dell’approccio situato c’è l’idea che l’esperienza lavorativa abbia una
funzione costruttiva dal punto di vista della conoscenza e dell’identità personale e in quanto tale sia
una fonte di dati e informazioni utili all’analisi e all’elaborazione psico-sociali. Anch’essa
rappresenta un’opportunità in termini di ricerca di connessioni tra soggetto-lavoro-contesto
organizzativo.
In virtù di quanto detto finora, in modo specifico di tutti i nodi tematici fin qui predisposti a titolo
identificativo dell’approccio psicosociologico, occorre puntualizzare che la formazione
psicosociologica non può rispondere a qualsiasi esigenza del sistema cliente: essa è possibile solo
quando l’obiettivo ultimo della richiesta di intervento sia aperto alla formatività e non al mero
cambiamento adattivo volto a mantenere sotto controllo una situazione problematica o di carenza.
L’accettazione del dialogo attivo tra tutti i soggetti coinvolti è la precondizione di qualsiasi azione
formativa orientata in questo senso: “analisi, esplorazione, elaborazione, lavoro riflessivo della
mente” (Kaneklin, Olivetti Manoukian, 2005, pag. 183) rappresentano gli obiettivi di fondo della
formazione psicosociologica a partire dai quali predisporre la fase di analisi della domanda e la
successiva fase di accordo tra cliente e consulente. Di portata generale, tali obiettivi trovano
declinazione in una serie di obiettivi specificatamente rispondenti alle esigenze della realtà
organizzativa esaminata e dei singoli formandi. Su di essi prendono forma i metodi e gli strumenti
attraverso cui intervenire e interagire con gli individui coinvolti.
Di seguito un quadro sintetico dei metodi e degli strumenti diffusi nella pratica formativa
psicosociologica.
73
Metodi e strumenti della formazione psicosociologica
Come già detto in precedenza la formazione psicosociologica non usufruisce di modelli
standardizzati d’azione: ogni intervento rappresenta un caso unico, a sé stante, interamente calato
nell’organizzazione in cui ha luogo. I metodi e gli strumenti della pratica formativa devono poter
rispondere congruentemente ai problemi evidenziati attraverso l’analisi della domanda e ai risultati
concordati, mostrando flessibilità verso le informazioni emergenti dall’esperienza diretta sul
campo. Di conseguenza “emerge come essenziale l’ascolto e l’attenzione al dato situazionale e a
come viene rappresentato con le parole, e la ricerca di una sintonia minima che istituisca
un’alleanza di lavoro tra formatori, formandi e interlocutori dell’organizzazione” (ivi, pag. 189).
Ascolto e osservazione agiti dal formatore e interagiti da parte di tutti i soggetti coinvolti nella
formazione e lungo tutto il percorso formativo. Verbalizzati e trasmessi in forma narrativa sono
propedeutici alla costruzione di una conoscenza “psico-sociale” orientata al profondo
dell’individuo e al contesto in cui è immerso. Hanno per questo un ruolo strutturante le varie fasi
della formazione psicosociologica: l’analisi della domanda e l’istituzione del setting, la
realizzazione e la valutazione.
Con riferimento specifico all’analisi della domanda e all’istituzione del setting di formazione,
l’esercizio dell’ascolto e dell’osservazioni richiamano numerose difficoltà riconducibili alla natura
del “dato” ascoltato e osservato e alla sua resa in forma scritta e parlata. Esiste infatti una distanza
inequivocabile tra l’esperienza di vita e la sua definizione. La modalità in cui l’individuo vive
questa distanza, il minore o maggiore coinvolgimento rispetto ad essa, le possibili situazioni di
difficoltà o di disagio percepite, influiscono sulla resa narrativa dell’esperienza stessa, sui contenuti
a cui è rivolta l’attenzione del formatore che, in virtù di un ascolto e di un’osservazioni
partecipanti, non può non influire sulle riflessioni raccolte.
Attraverso una serie di azioni di natura prevalentemente relazionale quindi non preconfezionata,
quali colloqui clinici diretti a singole professionalità, interviste semi-strutturate, riunioni per piccoli
gruppi o confronti con la committenza e con uno specifico staff professionale 25, il formatore
raccoglie informazioni profilando la situazione organizzativa e i ruoli dei soggetti che ne prendono
parte ovvero procede a definire e documentare le condizioni del set della formazione sulla base del
quale decidere se avviare o meno l’intervento formativo. “Il setting può essere pensato come un
contenitore, come la parte modellistica e formale di un’organizzazione entro cui si verificheranno
25
Nel caso specifico della formazione psicosociologica, in situazioni di particolare complessità organizzativa, è
possibile che venga istituito un gruppo di referenti per il progetto formativo in corso, i quali, grazie alla posizione
professionale rivestita svolgono la funzione di interfaccia tra direzione e consulenti, facilitando il reperimento e la
fluidità delle informazioni a supporto dell’attività di analisi e verifica dei dati raccolti.
74
fenomeni comportamentali” (ivi, p. 201). Una volta dettagliato il set, andrebbero evitate variazioni
d’ogni tipo: solo così, infatti, mantenendo stabili le condizioni di contesto è possibile testare i
tentativi da parte dei partecipanti di produrre eventuali modificazioni.
Volendo offrire un quadro degli strumenti rappresentativi dell’orientamento psicosociologico, qui
di seguito un prospetto elaborato da Kaneklin (2005):
-
lezioni frontali
-
incontri di gruppo
-
esercitazioni pratiche
-
colloqui individuali
-
valutazione.
Ognuno di questi strumenti risponde ad una logica diversa: la scelta dell’uno rispetto all’altro, così
come la loro successione, dipende dalla situazione di contesto e dagli obiettivi da raggiungere. Il
formatore deciderà in sede di progettazione quali strumenti proporre e in che modalità, fermo
restando la possibilità di modifiche a fronte di esigenze particolari legate alla situazione di
formazione. Vediamo in breve quelle che sono le caratteristiche salienti di ciascun strumento.
-
La lezione frontale
Per quanto concerne lo strumento della lezione, occorre specificare che esistono diverse modalità
di condurre un intervento del genere: lezione frontale, attiva, orientata all’elaborazione. “La lezione
come atto di trasmissione del sapere è uno strumento molto usato anche per la formazione e
l’addestramento degli adulti, ma la prospettiva d’utilizzo e la finalità perseguita varia al mutare del
contesto, della cultura e della sensibilità psicopedagogica di chi lo utilizza” (ivi, pp. 205-206).
L’obiettivo comune è il sapere: nel primo caso però l’obiettivo specifico è di dare spiegazioni
esaustive, veicolare contenuti, indipendentemente dai possibili feedback provenienti dagli uditori;
nel secondo caso l’obiettivo specifico è di proporre degli argomenti, presentandoli attraverso una
resa comunicativa concentrata attorno a degli snodi tematici capaci di stimolare l’ascolto e attivare
l’interesse del pubblico (si veda ad es. la lezione condotta con l’ausilio di lucidi o slides). Nel caso
della lezione volta all’elaborazione, sicuramente rappresentativa del modello psicosociologico,
l’obiettivo specifico è di fornire un certo tipo di conoscenze affinché queste diventino strumenti
utili ad affrontare il percorso di ricerca e scoperta intrapreso da chi ascolta. Il formatore attiva la
riflessione dei formandi a partire dalla propria: l’originalità delle argomentazioni proposte e lo stile
comunicativo adottato, oltre a catturare l’attenzione, rendono la formazione un’occasione in cui
misurarsi con la novità, avendo la possibilità di abbandonare sotto la guida di un esperto i sentieri
75
già percorsi e conosciuti, per avventurarsi in situazioni di esplorazione del senso (anche interiore) e
apprendere dall’esperienza diretta.
Ciò che è importante sottolineare a proposito dello strumento della lezione è che le diverse
tipologie prese in esame trovano la loro utilità in funzione del contesto in cui va a collocarsi e delle
attese degli ascoltatori. Di qui l’importanza di impostare l’uso della lezione in base a queste due
variabili e agli obiettivi perseguiti.
-
Il gruppo: riunioni, discussioni, ascolto partecipato
Si tratta di uno strumento privilegiato ai fini della formazione e dell’apprendimento e per sua stessa
natura, l’essere gruppo, risponde a delle regole di funzionamento specifiche come già si è più volte
detto in precedenza. Non basta riunire diverse persone perché possano fare gruppo e costruiscano
interazioni significative al fine di traguardare gli obiettivi prescelti dall’organizzazione. La
specificità dell’obiettivo formativo rende il gruppo di formazione diverso da qualsiasi altra
tipologia di gruppo, sia esso di lavoro, amicale o terapeutico. “L’obiettivo formativo, infatti, anche
se prima dell’inizio è sentito come chiaro dai partecipanti, quasi subito si confonde o si perde nel
gioco delle interazioni tra i partecipanti, confrontati con una situazione regressiva che richiede
l’assunzione temporanea di un atteggiamento di dipendenza dal formatore, dal set, dal gruppo e che
rinvia ciascun partecipante alle radici infantili, non sempre consapevoli, delle proprie difficoltà e
stili di apprendimento” (ivi, p. 211). Mentre infatti il gruppo di lavoro è orientato all’operatività e
concentra l’attenzione ed le energie mentali dei partecipanti attorno ad un compito specifico, il
gruppo di formazione è il luogo della sospensione della pratica utile ad avviare un processo di
ricerca di senso che ha per oggetto il gruppo stesso.
La dimensione gruppale è una situazione artificiale: funzionalmente agli obiettivi del processo di
formazione in corso, vengono riunite otto, massimo dodici persone, la cui combinazione può essere
utile dal punto di visto della trattazione delle informazioni, dei dati e degli elementi individuati nel
contesto organizzativo in fase di analisi della domanda e istituzione del setting. Il formatore
immerso in questo sistema di relazioni non può non esserne influenzato e influenzare a sua volta.
Occorre da parte sua un buon grado di consapevolezza per riuscire a svolgere al meglio il ruolo di
conduttore: egli aiuta il gruppo e i singoli individui ad analizzare i problemi proposti o le questioni
cruciali per come emergono dal racconto delle situazioni lavorative e della pratica professionale dei
partecipanti. Da qui l’importanza di conoscere dettagliatamente i problemi lavorativi reali così da
individuarne i vari aspetti sia dal punto di vista funzionale che dell’interpretazione soggettiva
quindi rappresentazionale fatta dai lavoratori. Il formatore sostanzialmente deve imparare a
muoversi direttamente dal “dentro “la situazione in cui si trova ad operare, a metà tra visus
76
individuale e organizzativo, di modo da trattare i dati che ha a disposizione secondo complessità,
compresi i fattori emotivi dell’apprendere alla luce della continuità esistente tra dimensione
cognitiva ed emozionale della mente umana. Tra questi ultimi: gli aspetti di idealizzazione del
formatore, gli atteggiamenti depressivi di apprendimento, ovvero rabbia, scontentezza, impazienza,
sfiducia verso se stessi, distacco e così via, la mitizzazione di aspetti persecutori attribuiti alla
propria posizione, la sovrastima di sé, del proprio lavoro, dell’autorità, ecc.
Nel gruppo i formandi hanno occasione confrontarsi su temi altrimenti lasciati indiscussi:
l’emergere della pluralità dei punti di vista dei partecipanti e l’esperienza della diversità percettiva
altrui permettono il superamento del così detto “realismo ingenuo” e l’approdo ad un “realismo
critico” che si esplica attraverso “la presa di coscienza che non esiste un unico modo di guardare
alle cose e alle persone, ma tanti diversi vissuti di cui tener conto, nel confronto intersoggettivo, per
accrescere le singole possibilità di comprensione” (Nicolini, 2001, p. 73).
Il gruppo è il luogo della cognizione e dell’emozione personali, dell’ascolto della cognizione e
dell’emozione dell’Altro. Ciò che rappresenta meglio la continuità tra la dimensione cognitiva e
quella emotiva è la “parola”: densa di significati ovvero forme culturali e rappresentazionali,
veicola pensiero ed emozioni, aspetti peculiari dell’Io, dando voce non solo a ciò di cui si ha
consapevolezza ma anche a ciò che è latente e di cui non sappiamo e possiamo dir nulla. “[…] nella
situazioni formative la parola è lo strumento e il linguaggio il tessuto di parole su cui si sviluppa il
lavoro formativo. […] le parole sono fredde, quindi, sono tecniche della denominazione sociale.
Mantenerle in questo stato significa sottrarre alla riflessione e al ripensamento la realtà alla quale
esse rinviano e della quale chi parla ha un’esperienza radicata e quotidiana. È invece negli interstizi
del mondo intrapsichico e dell’interazione sociale che si annida il suo senso, ciò che fa della parola
un messaggio” (ivi, p. 223). In riferimento a quest’ultimo aspetto, il formatore è chiamato
all’interpretazione di quanto ascoltato: del valore dell’interpretazione si è già parlato nel primo
capitolo, ma in questo contesto vale la pena ribadirne l’importanza proprio funzionalmente alla
peculiarità della pratica psicosociologica.
L’interpretazione diviene un momento strutturante l’esperienza di formazione laddove il formatore
interviene su quanto ascoltato e osservato nel gruppo, cogliendo gli aspetti del non detto, mettendo
in luce quanto ritenuto importante e restituendo un senso che possa essere utile ai singoli e al
gruppo stesso per orientarsi rispetto agli obiettivi concordati. Naturalmente in quanto attività
soggettiva, l’interpretazione richiama un alto grado di lucidità da parte del formatore: egli deve
essere in grado di tenere conto dei possibili effetti distorcenti legati al proprio mondo interiore, alla
storia professionale, ai riferimenti teorici presi in esame, alla situazione in cui si trova ad agire.
77
Dell’importanza della parola e nello specifico della narrazione nelle pratiche di formazione
parleremo più approfonditamente in seguito.
-
Esercitazioni: la pratica nella lezione
Il concetto di esercitazione richiama quello di azione e di messa in pratica dei contenuti disposti in
sede di formazione al fine di dimostrare una verità, sviluppare un apprendimento al fare o
raggiungere un grado di approfondimento maggiore degli argomenti trattati. In quest’ultimo caso,
l’azione illumina la realtà concreta (“pedagogia attiva”) (ivi, p. 226). Lo sforzo dell’esercitazione
consente, attraverso l’osservazione diretta di sé e degli altri, di arrivare a generalizzare leggi e
principi di funzionamento attraverso cui interpretare la realtà stessa. Si tratta di una
“interpretazione agita” (ivi, p. 230), non ancora verbalizzabile, utile per la sua natura situazionale:
nell’azione l’individuo ha modo di rintracciare le peculiarità del proprio pensare e di quello altrui,
focalizzando schemi di comportamento tipici o modalità di problem solving abituali che, veicolati
come procedure efficaci, rispondono alle necessità derivanti dalla propria storia personale o dal
contesto in cui ci si trova. Nonostante le possibili misure difensive di coloro che pensano che la
realtà vera, di tutti i giorni, sia altra cosa rispetto a quella osservata durante un’esercitazione, più
articolata e complessa, il mettersi alla prova insito in questo tipo di strumento ha valenza
sicuramente costruttiva.“Ciò che viene simulato è per definizione sempre una finzione costituita da
un insieme di stimoli pensanti e proposti dai formatori, rispetto ai quali le persone (individui e
gruppo) reagiscono realmente giocando o non giocando l’esercitazione proposta e componendo una
storia particolare specifica fatta di comportamenti e opinioni reali” (ivi, p. 227).
Tra le tipologie di esercitazioni più utilizzate in ambito psicosociologico:
 la rappresentazione di fenomeni relazionali e dei processi di gruppo a partire ad es. dallo stimolo
percettivo di una fotografia; attraverso di essa si procede a ricostruire brevemente la storia
personale di ciascun formando per arrivare ad un confronto tra le storie di tutti i partecipanti e
ultimare redigendo una storia collettiva;
 socio-analogie, ovvero la rappresentazione in piccolo di ciò che accade in situazioni di portata
macrosociale: ne sono un esempio i management games dove i partecipanti simulano di essere la
direzione di altrettante aziende o di singole funzioni aziendali;
 il gioco dei ruoli (role-playing) e la drammatizzazione, vale a dire la rappresentazione “teatrale” di
una situazione, reale o immaginata, svincolata da qualsiasi dettame e aperta alla creatività, nella
quale i formandi assumono ruoli specifici: di solito la situazione ricreata artificialmente propone
tematiche di conflitto e problematicità che possano offrire materiale di discussione e riflessione;
78
 analisi di casi particolari, autocasi e di documenti specifici: al gruppo di formazione viene
presentato un problema reale tratto dall’esperienza dei partecipanti o un problema ipotetico creato
ad hoc per l’esercitazione, sulla base del quale i formandi, sollecitati dal formatore, procedono ad
un’analisi dettagliata di tutti gli elementi che lo compongono, identificando gli aspetti essenziali e
quelli che sembrano marginali.
Il metodo dei casi rappresenta “lo strumento cardine del fare formazione” (ivi, p. 236). “L’analisi
degli elementi è il risultato dell’esperienza che ogni partecipante porta con sé e di un processo di
scambio di opinioni sull’argomento che determinano l’esperienza formativa” (ibidem).
Ciò che accomuna le esercitazioni viste fin qui, annoverabili nell’ambito della “pedagogia attiva”
di cui parla Kaneklin, è l’alto grado di libertà concesso ai formandi nell’espressione di sé e
nell’interpretazione degli stimoli contestuali. Il coinvolgimento attivo da parte dei partecipanti, sia
esso diretto che indiretto, ha la peculiarità di riuscire a mettere in luce conflitti, situazioni di blocco
relazionale, determinismi o altri tipi di difficoltà all’interno del gruppo di formazione. Le
esercitazioni rappresentano quindi degli strumenti dotati di numerose potenzialità a di altrettante
problematicità che richiedono una gestione attenta da parte del formatore, allorquando attraverso il
fare reputa necessario dare corpo e struttura ai processi di pensiero promossi.
La scelta del tipo di esercitazione da proporre al gruppo di formazione e il momento in cui proporla
dipende spesse volte dalla sensibilità del formatore, il quale attraverso un’osservazione e un’analisi
continuative del contesto formativo percepisce possibili momenti di blocco e l’emergere di
esigenze particolari che necessitano un grado di approfondimento realizzabile solo utilizzando
determinati spunti di riflessione e d’azione. Pur partecipando alle dinamiche del gruppo che ha di
fronte, il formatore deve essere capace di mantenere costantemente un distacco tale da
salvaguardare l’efficacia delle sue funzioni. Allo stesso fine, altrettanto importante è la fiducia che
è in grado di suscitare nei partecipanti: la fiducia funge da vera e propria variabile ai fini della
scelta del tipo di esercitazioni da proporre. Partendo dal principio che la scelta di un esercitazione
deve sempre essere presentata e spiegata (dal punto di vista del senso, degli obiettivi, dei ruoli,
delle modalità di avanzamento) a coloro ai quali la si propone, le motivazioni profonde dell’utilità
della proposta non possono esser colte a pieno dai formandi, che accettano “la sfida del fare” mossi
da fiducia o sfiducia nei confronti del formatore e della stessa formazione. Più o meno palesati,
questi atteggiamenti fungono da indicatori di una serie di significati, afferenti la sfera individuale e
organizzativa, che vanno a sommarsi al restante materiale emerso in corso d’opera e oggetto di
elaborazione e comprensione.
79
Le esercitazioni permettono di focalizzare l’attenzione su determinate problematiche e così facendo
di accelerare, facilitando, detto processo cognitivo e affettivo. Non solo, a partire dai contenuti
verbali e dai comportamenti emersi permettono di creare correlazioni con i fattori contestuali: i
formandi descrivono e confrontano opinioni e reazioni, riflettendo sia sul contributo di ognuno che
sul funzionamento di gruppo nella gestione del problema preso in analisi. Dalla diversità dei punti
di vista, dall’elaborazione e dalla negoziazione scaturiscono dei contenuti nuovi rappresentativi del
gruppo stesso e delle singole individualità che vi partecipano. Come sottolinea Kaneklin (2005), le
esercitazioni e il loro svolgimento possono fungere da “lente di ingrandimento” degli aspetti
dell’interiorità dei partecipanti, delle possibili modalità di partecipazione (passività, reattività,
riflessività) ovvero degli aspetti della soggettività nel rapporto con la realtà circostante e della
stessa conduzione.
-
I colloqui individuali, il racconto di sé e della propria esperienza
Il percorso di formazione di orientamento psicosociologico solitamente si articola in un lasso di
tempo in cui le fasi della formazione vengono alternate al “ritorno” alla propria realtà lavorativa.
Quest’alternanza è ritenuta particolarmente significativa laddove la pratica di lavoro diviene parte
integrante la stessa esperienza formativa, favorendo occasioni di riflessione e confronto rispetto
alle tematiche affrontate in sede di formazione. In tal senso, un momento “terzo” rispetto alle
attività e dalla pratica lavorativa è rappresentato dal colloquio che, per la sua natura intima e
diretta, risulta fondamentale ai fini dell’elaborazione e dalla costruzione di senso.
I colloqui possono essere di consultazione nella fase dei analisi della domanda o richieste di
confronto da parte dei formandi che emergono in corso d’opera. Le motivazioni possono essere
diverse: un problema personale e quindi una richiesta di aiuto e l’esigenza di un confronto, dubbi e
timori relativi all’essere in grado o meno di elaborare la propria esperienza professionale in gruppo,
ansie di prestazione, paura d’essere giudicati o semplicemente la necessità di avere informazioni
utili a gestire la situazione di formazione. “Il colloquio è una sede idonea […] per trattare richieste
e problemi che necessitano di una sede meno pubblica, o che comunque un partecipante non crede
di poter trattare nel gruppo di formazione. È anche sede di approfondimenti, diretti e indiretti,
dell’evoluzione della domanda, dei bisogni e dei desideri che la motivano” (ivi, p. 242).
Raccontare la pratica non è cosa semplice ancor meno parlare dei propri bisogni e desideri: fermo
restando che l’idea di bisogno riconduce alla rappresentazione che si ha della formazione, alle
esperienze pregresse, alla familiarità con auto-analisi verbalizzare questi aspetti di sé anche
attraverso il racconto dell’esperienza diretta, di ciò che si conosce in quanto è vita vissuta ovvero il
fare quotidiano a lavoro, può significare uno sforzo introspettivo per il quale il colloquio con il
80
formatore, colui che si percepisce come esperto e guida, sembra possa offrire soluzioni.
Sostanzialmente il dire nell’ambiente di lavoro è diverso dal raccontarsi in sede di formazione: “In
formazione, l’esperienza, la pratica sono parole che non rimandano solo a quello che esteriormente
si sa realizzare o si deve fare in una situazione professionale determinata, ma che rimandano anche
a se stessi, a ciò che si prova o si pensa in merito alle proprie azioni e che spesso si preferirebbe
non dire. Come se la pratica avesse due facce: la prima degli altri, l’altra per sé” (ivi, p. 243).
Superare queste difficoltà di esternazione permette di approdare a livelli di significazione tali da
riconoscere alla narrazione un valore assolutamente costruttivo all’interno dei percorsi di
formazione. Di questo parleremo più avanti.
-
La valutazione
Torniamo agli strumenti della formazione psicosociologica e in particolare agli strumenti della
valutazione. Riferibili alla fase finale del processo di formazione, gli strumenti della valutazione
così come quelli di analisi della domanda e di messa in pratica dell’interventi formativi hanno un
ruolo di analisi delle informazioni raccolte e di rielaborazione degli aspetti emergenti dal lavoro
fatto. Il problema della valutazione psiscosociologica non è di facile soluzione: nel caso infatti
della formazione classica, statica e contenutistica, la valutazione si avvale di strumenti
“quantitativi” di raccolta dati, tipo test e questionari o comunque modalità di esame scritte/orali
volte a investigare il possesso di conoscenze e la capacità di eseguire performances di un certo tipo.
Dinnanzi ad un percorso di sviluppo personale e organizzativo la valutazione dei risultati ottenuti
non può trovare espressione in meri criteri di misurazione quantitativa ma occorre necessariamente
pensare ad una “misurazione qualitativa” del lavoro svolto, sfuggendo gli obiettivi della
formazione psicosociale alle metodologie standardizzate.
A fronte di possibili atteggiamenti di distanziamento e mascheramento difensivi dei formandi volti
a mantenere equilibri e disequilibri precari, a fronte di universi di sapere rappresentazionali
condivisi, di simboli e usanze propri della cultura organizzativa, il lavoro di valutazione è prima
d’ogni altra cosa un lavoro di “svelamento” del nascosto, del non-detto, del profondo. Da ciò la
necessità, di cui parla Kaneklin (1990), di ipotizzare due diverse tipologie di verifica, la prima
interna e l’altra esterna. La verifica interna non richiede tempi e luoghi diversi da quelli deputati
alla formazione stessa: può collocarsi ad esempio alla fine di una esercitazione di gruppo,
attraverso il dialogo tra i partecipanti e il formatore, promuovendo l’elaborazione delle azioni
svolte e delle difficoltà incontrate e la ricostruzione dei loro significati, con un rimando continuo ai
termini del coinvolgimento del singolo, del gruppo, dell’organizzazione e alla connessione della
pratica di lavoro con la pratica di formazione. Ne scaturisce un resoconto particolareggiato ricco di
81
senso utile alla comprensione del contributo di ciascun individuo rispetto al sistema di
appartenenza, all’individuazione delle dinamiche lavorative e di funzionamento organizzativo, alla
circoscrizione delle motivazioni delle problematiche esaminate e delle possibili soluzioni.
La verifica esterna invece ha per oggetto i feed-back derivanti dal contatto di soggetti esterni al
gruppo di formazione: la formazione psicosociologica infatti lavora sugli aspetti individuali e di
gruppo per arrivare attraverso di essi ad elaborare analisi circa il funzionamento dell’intera
organizzazione. Le informazioni derivanti dai singoli formandi e dallo stesso gruppo debbono
“essere ‘riportate sul campo’ per evitare che la formazione clienti ozioso sfogo, lamento sui
problemi e per evitare incidenti nelle relazioni, soprattutto in quelle a carattere gerarchico,
probabili quando questi altri livelli organizzativi non vengano coinvolti nell’elaborazione dei
problemi evidenziati, soprattutto se di loro pertinenza” (ivi, p. 250). Il coinvolgimento di altri
interlocutori non è finalizzato al confronto sugli aspetti della formazione oggetto della verifica
interna, ma su dati e problemi emersi nel corso dell’iter formativo e che risultano rilevanti ai fini
del funzionamento organizzativo. Così facendo, sulla base di aspetti di natura politico-economica e
gestionale, la formazione tenta di stabilire un punto di incontro con l’organizzazione e di aprire un
varco a favore di una possibile continuità dell’azione formativa ovvero di un intervento di tipo
organizzativo. Detto con le parole di Quaglino già menzionate in precedenza, in questa fase è
possibile sondare l’avvenuto cambiamento del singolo e l’esistenza dei presupposti di un passaggio
dal cambiamento del singolo al cambiamento dell’organizzazione.
La valutazione costituisce un passaggio particolarmente significativo ai fini della formazione
psicosociale per tutta una serie di motivi che ricadono entro gli ambiti della comprensibilità e della
futuribilità della formazione stessa. La committenza, infatti, voce dell’organizzazione è sempre
protesa ad avere risultati “tangibili”, “quantificabili” attraverso cui “giustificare” l’intervento
formativo e sondarne l’efficacia. Solitamente viene reputato efficace l’intervento che ha saputo
concretizzare gli obiettivi pattuiti in sede di negoziazione e che ha inciso positivamente
sull’andamento di lavoro dei soggetti coinvolti. In realtà però, come già detto, la valutazione
psicosociale va al di là di questi aspetti contingenti: pur non perdendo di vista gli obiettivi
pianificati, prevale una logica propositiva e non giustificativa del lavoro svolto, “un’intenzionalità
di approfondimento, di ripensamento critico e autocritico della formazione” (Monti, in Avallone,
2009, p. 83). Il formatore deve pertanto mostrare una solidità etica tale da non liquidare la fase
della formazione con una valutazione accondiscendete dei risultati dell’intervento svolto: deve
piuttosto ricercare il confronto con la committenza, segnalare sì i problemi emersi ma al contempo
riflettere sugli aspetti che oltrepassano l’azione formativa per entrare nel vivo delle questioni di
82
natura organizzativa. Ciò anche nel caso in cui significhi arrischiarsi in discussioni in cui non ci sia
dall’altra parte una vera disponibilità a comprendere.
Da qui l’importanza di esercitare lo strumento della formazione non solo a fine attività, ma anche a
distanza di tempo: in questo modo è possibile verificare se gli aspetti su cui si è lavorato in sede
formativa e che sono stati oggetto di analisi finale siano o meno entrati nel vivo della pratica di
lavoro, quindi riesaminare gli obiettivi e i bisogni evidenziati dall’analisi della domanda e
coglierne le possibili trasformazioni sia a livello di rappresentazione soggettiva della formazione
che di comprensione e possesso delle dinamiche di sistema affrontate. La valutazione a posteriori
permette di evidenziare se c’è stato un cambiamento nei formandi e se l’organizzazione ha saputo
accogliere questo cambiamento facendolo diventare proprio. Approfondiremo ulteriormente questo
aspetto della seconda parte di questo studio.
L’aspetto che a nostro avviso vale la pena di approfondire in merito all’approccio psicosociologico
riguarda il tema della “narrazione” intesa, all’interno di questo specifico campo di sapere, della
psicologia culturale e in generale delle scienze umane, quale strumento di costruzione del
significato quindi di formazione e possibile cambiamento individuale e organizzativo.
2.3. La narrazione come strumento di costruzione della conoscenza
Il riferimento è all’opera di Jerome Bruner, il cui approccio psico-culturale e insieme costruttivista
alla narrazione è sostanziato in molti suoi illustri contributi, ma tra questi, quello che potrebbe
risultare più esaustivo ai fini di una presentazione dell’aspetto narrativo nell’ambito della
formazione è “La ricerca del significato” del 1990.
“[…] una delle forme di discorso più diffuse e più potenti nella comunicazione umana è la narrazione” (Bruner,
1992, p. 81).
In questo testo, l’autore sancisce la necessità di recuperare il significato quale strumento di
costruzione della conoscenza e dell’identità del Sé ai fini di una evoluzione della psicologia che sia
doverosamente psicologia dell’uomo. Due sono le argomentazioni a supporto di questo visus: “la
prima è che per comprendere l’uomo si deve comprendere il modo in cui le sue esperienze e le sue
azioni vengono plasmate dai sui stati intenzionali; la seconda è che la forma di tali stati intenzionali
si realizza solo attraverso la partecipazione ai sistemi simbolici della cultura” (ivi, p. 46). L’essere
umano può configurare se stesso e la propria storia di vita solo in relazione a tali sistemi culturali
d’interpretazione. La cultura d’appartenenza non solo concorre alla costruzione degli strumenti
mediante i quali l’uomo pensa se stesso e il mondo che lo circonda, ma in maniera ancor più
strutturante concorre a formare la mente.
83
Bruner propone una visione dell’uomo capace di oltrepassare i limiti imposti all’azione da parte
dell’eredità biologica: le culture danno vita a dei “meccanismi-pròtesi” mediante i quali l’uomo
può trascendere i limiti biologici. È “la cultura e non la biologia, a plasmare la vita e la mente
dell’uomo, a dare significato all’azione inserendo gli stati intensionali profondi in un sistema
interpretativo. La cultura può farlo imponendo modelli che fanno parte dei suoi sistemi simbolici:
il linguaggio e le modalità di discorso, la forma della spiegazione logica e quella narrativa, e i
modelli, infine, della vita sociale, con i relativi aspetti di reciproca interdipendenza” (corsivo
nostro) (ivi, p. 47). Di qui il concetto di “psicologia popolare” (o anche “senso comune”) coniato
dall’autore e disposto alla base di qualsiasi psicologia culturale. Con l’espressione psicologia
popolare è possibile indicare l’insieme di credenze, desideri, significati, narrazioni a partire dalle
quali gli attori sociali costruiscono la visione di se stessi e del mondo circostante, rappresentano il
proprio modo di funzionare, creano aspettative, modelli di vita e di relazione, ecc. “Essa fornisce
un compendio delle cose non semplicemente quali sono ma (spesso implicitamente) quali
dovrebbero essere” (ivi, p. 51-52) rivestendo un ruolo fondamentale ai fini del vivere individuale e
sociale. Nei casi in cui le cose sono diverse da come i riferimenti culturali ci dicono dovrebbero
essere, ovvero nei casi di trasgressione, la narrazione funge da strumento regolatore. Il contesto
socio-culturale all’interno del quale ci troviamo ad agire e interagire struttura, in questa prospettiva,
le nostre conoscenze sul mondo ovvero le credenze mediante la quali percepiamo i nostri desideri e
programmiamo le nostre azioni.
“La psicologia popolare si occupa di soggetti umani che compiono azioni basate sulle loro
credenze e i loro desideri” (ivi, p. 54) e in quanto tale, per sua natura, risulta organizzata su base
narrativa piuttosto che logica e categoriale. Le peculiarità che la contraddistinguono dalle altre
modalità discorsive e di costruzione dell’esperienza sono circoscritte da Bruner entro tre principali
fattori: 1) la sequenzialità degli eventi, stati mentali e avvenimenti che coinvolgono gli esseri
umani soggetti e oggetti della narrazione stessa; 2) la natura reale o immaginaria della narrazione
(indipendentemente dalla verità o falsità dei contenuti è la sequenza delle frasi che determina la
struttura della trama e permette alla mente di coglierne il significato originando forme di
elaborazione e interpretazione); 3) la capacità di stabilire legami tra l’eccezionale e l’ordinario.
Il riferimento a quest’ultimo aspetto, le narrazione diviene un prolungamento della cultura nel
momento in cui contribuisce a dare senso e fondamento a ciò che sfugge al controllo del senso
comune: ciò che è già conosciuto, interiorizzato e rappresentato è dato per scontato, non genera
stupore, né spaventa. Ciò che invece si discosta dall’ordinario e si presenta come un’eccezione alla
norma necessita di procedure interpretative adeguate per poter essere compreso. La cultura
predispone un insieme di strumenti normativi mediante i quali interpretare la realtà, negoziare i
84
significati sociali, risolvere i conflitti, comporre le differenze. La narrazione, nello specifico,
rappresenta uno strumento capace di gestire simultaneamente eventi canonici ed eccezionali ovvero
di attribuire senso e rendere comprensibile ciò che risulta una deviazione dai modelli culturali
condivisi. I racconti sono per questo un connubio di stati intenzionali del protagonista e elementi
convenzionali della cultura d’appartenenza: acquisiscono i loro significati dando spiegazione alle
deviazioni dall’usuale e implementando i contenuti della psicologia popolare.
In virtù di quanto detto finora, Bruner riconosce alla narrazione anche il potere di strutturare
l’esperienza: a partire dal linguaggio e dagli artefatti culturali di riferimento, la narrazione permette
di elaborare l’esperienza di vita e incamerarla nella memoria. Così facendo influisce sulle modalità
con cui l’individuo osserva e si rapporta all’ambiente circostante, ovvero crea collegamenti tra
presente e passato. L’aspetto del “ricordo” è particolarmente importante non solo ai fini della
ricostruzione del passato, ma anche ai fini della riappropriazione della carica emotiva legata al
ricordo stesso. Ricordando non solo ci proponiamo di convincere noi stessi ma anche i nostri
interlocutori, tanto da poter attribuire una funzione retorica al ricordo (Bruner, 1992, cap. II).
“L’essere umano in tenera età arriva a sfruttare (o a realizzare) le potenzialità della narrazione,
l’abilità non solo di individuare ciò che è culturalmente canonico, ma anche di tener conto di
deviazioni che possano poi essere incorporate nella narrazione. L’acquisizione di questa capacità
[…] non è semplicemente un’acquisizione mentale, bensì l’acquisizione di una pratica sociale, che
conferisce stabilità alla vita sociale del bambino. Infatti una della forme di stabilizzazione più
potenti in questo senso […] risulta essere la propensione dell’uomo a comunicare storie di umana
diversità, e a rendere le interpretazioni di tali storie congruenti con le più diverse scelte morali e gli
obblighi istituzionali predominanti in ogni cultura” (corsivo nostro) (ivi, p. 74) 26.
La narrazione nell’ottica della psicologia culturale e della stessa psicosociologia ha quindi natura
sociale e culturale: è una pratica condivisa che attinge contenuti dalle interazioni e dalle esperienze
umane. Gli attori sociali attraverso il racconto scambiano immagini di sé e del mondo in cui
vivono, costruiscono significati e conoscenze assumendo un duplice punto di vista: l’essere nel
contempo soggetto e oggetto dello sguardo narratore:
“La tradizione vuole che l’esperienza sia un fatto oggettivo oppure soggettivo: il mondo esiste e noi
possiamo vederlo così come realmente è, oppure attraverso la nostra soggettività. Ma se seguiamo il filo
conduttore della circolarità e la sua storia naturale possiamo guadare a questa opzione da una prospettiva
differente: quella della partecipazione e dell’interpretazione, in cui il soggetto e l’oggetto sono
inseparabilmente mescolati. Questa interdipendenza si rivela nella misura in cui in nessun punto è
possibile cominciare con la pura descrizione dell’uno e dell’altro, e dovunque si scelga di iniziare ci si
26
Bruner fa riferimento a C. Lévi Strauss e al suo pensiero espresso in Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano,
1990.
85
trova come di fronte a un frattale, che riflette esattamente l’atto che io compio: quello di descriverlo.
Mediante questa logica, ci poniamo in rapporto col mondo come in uno specchio, che non ci dice come il
mondo è; e neppure come non è. Ci rivela solo che è possibile essere nel mondo in cui siamo e agire nel
modo in cui abbiamo agito. Ciò rivela che la nostra esperienza è praticabile” (Varela, in Watzlawick,
2008, p. 270).
Una prospettiva questa eminentemente costruttivista, in cui i significati del narrare e narrarsi si
mescolano con quelli del pensare e dell’agire e nel contempo del formare, qualora la formazione,
come precedentemente visto a proposito dell’approccio psicosociale, si profili come attività di
analisi ed elaborazione delle informazioni emergenti dal contesto di lavoro, ipotesi di
apprendimento dall’esperienza, occasione di riflessione proattiva e “valorizzazione dei contesi e
delle situazioni professionali all’interno dei quali i soggetti si trovano a costruire il loro rapporto
con la realtà e la loro storia professionale e lavorativa” (Kaneklin, Scaratti, 1998, p. IX).
Seguendo la linea di pensiero appena esposta, il nostro riferimento è al lavoro curato da Cesare
Kaneklin e Giuseppe Scaratti intitolato “Formazione e Narrazione. Costruzione di significato e
processi di cambiamento personale e organizzativo” (1998) in cui i due autori nella parte
introduttiva motivano il legame tra formazione e narrazione non solo per il carattere evocativo
delle dinamiche narrative che sono alla base dei percorsi di formazione, ma per il potere altamente
strutturante delle stesse sia dal punto di vista della funzione di veicolare, semanticamente parlando,
le esperienze di lavoro dirette, sia dal punto di vista della funzione di supportare i processi di
elaborazione e ricostruzione del senso di situazioni e dimensioni operative e organizzative spesso
illeggibili e ingestibili. Il set formativo concepito come “spazio di narrazione aperta” diviene
luogo di storie, racconti, testualità: “quelle relative alle conversazioni orali e alle produzioni scritte,
proprie dei partecipanti o proposte dal conduttore; quelle dei casi e delle molteplici documentazioni
utilizzabili (verbali di staff, documenti ufficiali, diari, ecc.); quelle virtuali/reali inerenti il racconto
della storia-situazione lavorativa […]; quelle legate al concreto dispiegarsi della storia narrativa
che si va scrivendo e narrando nel progressivo articolarsi dei momenti e delle interazioni
prefigurate dal setting formativo” (ivi, p. 30).
Il punto di vista narrativo si pone come potenziale chiave di lettura “euristica” ed “ermeneutica”
(ivi, p. X) da applicare a tutti quei settori dell’attività umana caratterizzati da processi di
produzione, elaborazione e trattamento di significati e informazioni. Nel caso specifico della
formazione, intesa quale dimensione privilegiata della pratica della narrazione a scopo evolutivo, è
in gioco “la possibilità di intravedere ed evidenziare nuove forme di coniugazione del rapporto tra
conoscenza e azione, tra dimensioni soggettive e dimensioni gruppali e organizzative, tra storie
personali e storie professionali, tra individuo e contesto, al di là di scissioni e contrapposizioni che
impediscono ai vari attori sociali di riappropriarsi e di liberare parole e visioni altre da quelle
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abituali. Queste ultime sono spesso connotate da elementi di frammentarietà e precarietà rispetto
alle dimensioni di senso e significato circa le cose che le persone fanno e le esperienze lavorative e
organizzative che vivono” (ivi, p. XI).
Ricollegandoci a quanto detto alla fine del primo capitolo di questo lavoro, l’apporto della
narrazione all’interno delle pratiche formative consente di rispondere a due importanti esigenze del
fare formazione oggi: innanzitutto evitare approcci superficiali e parziali per dare profondità alle
procedure di analisi ed elaborazione di problemi ed eventi, quindi “acquisire caratteristiche di
specificità e di specializzazione” (ibidem) come richiesto dai contesti socio-professionali odierni;
poi restituire centralità al soggetto conoscente dato il principio di inscindibilità tra l’osservatore e
l’oggetto osservato, attribuendo agli individui la capacità di collocarsi, mediante la formazione,
“all’interno di processi più generali e complessi, individuando percorsi e storie esistenziali e
lavorative più soddisfacenti e significative” (ibidem).
Kaneklin e Scaratti sottolineano come la narrazione rappresenti un approccio funzionale alla
valorizzazione delle persone nei contesti formativi: necessariamente di natura non retorica, è
piuttosto orientata all’effettiva partecipazione dei formandi, offrendo risposte concrete ai bisogni e
alle richieste di intervento provenienti dai contesti socio-culturali e organizzativi odierni, soluzioni
quindi spendibili a livello personale e professionale. La formazione si veste di nuovi dettagli,
allontanandosi dalle tradizionali modalità di apprendimento d’aula e frontalità lineare: sempre più
funzionale a una sorta di “progettualità assistita” ricalca “un nuovo paradigma dello scambio, in
cui i significati e le narrazioni a essi inerenti sono il risultato di una costruzione comune, non
scontata e negozialmente prodotta, da parte delle persone, interagenti all’interno di contesti dati e
situati, con ruoli diversi” (ivi, p. XII).
Il modello dello scambio è indice di una nuova sensibilità verso un fare formazione che sia
innanzitutto ricerca di significato, negoziazione e ricostruzione di un senso comune in situazione
(si veda a tal proposito il concetto di “psicologia popolare” precedentemente discusso): “questo in
funzione di un assunto per il quale i problemi sociali e socio-organizzativi (letti e interpretati in
chiave individuale) sono il risultato di processi di costruzione sociale. Le persone raccontandoli si
raccontano e avviano così in gruppo i primi passi di costruzione della possibilità di influenzare
realisticamente le condizioni dell’esistenza” (ivi, p. XIII). Sulla base di questa prospettiva,
“l’analogia tra testualità narrativa ed esistenziale consente di recuperare l’attenzione per le
dimensioni culturali e simboliche utilizzate dai soggetti e per le modalità di rapportarsi al sapere e
alla conoscenza” (ivi, p. 4), dando alla formazione un’accezione sempre più sociale e culturale.
87
La narrazione, costruttivista e situata, diviene lo strumento privilegiato della ricomposizione della
frammentarietà informativa tipica dei contesti organizzativi odierni: attraverso di essa è possibile
stabilire un legame bi-direzionale tra la situazione di operatività lavorativa e il set formativo,
portando l’esperienza diretta e la storia di ciascun partecipante all’interno del percorso di
formazione. La formazione si allontana così dall’immagine classica di processo avulso dalla realtà
lavorativa per fare della pratica di lavoro un’opportunità di apprendimento: il bagaglio culturale
professionale e organizzativo del formando, il fare quotidiano e le problematiche ad esso legate,
alla luce della teoria dell’attività di derivazione storico-culturale e dei moderni approcci di
“action learning”, acquisiscono valenza conoscitiva, divenendo il cuore di qualsiasi intervento che
voglia dirsi realmente formativo, ovvero rivolto alla crescita e trasformazione del singolo ed
eventualmente dell’intera organizzazione. 27 Ciò che infatti contraddistingue la formazione in
situazione è l’attenzione rivolta agli aspetti di ricaduta sull’attività lavorativa e alla ricostruzione
del sapere derivante dagli stessi percorsi formativi: i soggetti coinvolti non sono lasciati soli nella
gestione dei processi di rielaborazione dei temi trattati, piuttosto vengono accompagnati passo dopo
passo nella messa in pratica dei contenuti veicolati fino alla fuoriuscita dal set di formazione e al
confronto con il sistema organizzativo.
A fronte di quanto detto fino a questo momento è evidente che la formazione così fatta, supportata
dall’esperienza della narrazione, mostrano una spinta evolutiva e, in generale, delle finalità ben
diverse da quelle della formazione tradizionale e dalle pratiche attualmente in uso. Nonostante la
nuova sensibilità a cui ci si riferiva sopra, l’orientamento al soggetto, alle procedure di costruzione
del significato condiviso, alla relazione e all’azione situata restano una prerogativa dell’ottica
costruttivista e conversazionale, ovvero psico-sociale e psico-culturale, a proposito della quale
Kaneklin e Scaratti affermano:
“Essa postula l’intrinseco carattere relazionale e processuale, oltre che situato e condiviso, dell’attività
mentale e conoscitiva dei soggetti e delle azioni che essi intrattengono con gli altri e con il mondo. Ciò è
rinvenibile proprio nei processi di costruzione congiunta dei significati, messi in evidenza dall’approccio
della psicologia culturale […], che sottolinea la strutturale condizione situata del soggetto in un contesto
sociale in cui egli, fruendo mediante il linguaggio dei sistemi simbolico-culturali di riferimento, impara ad
accedere ai significati disponibili e a costruirne dei nuovi, attraverso continui scambi di negoziazione
interpersonale. La formazione, in quanto ambito deputato alla promozione e sviluppo di un maggior senso
possibile, personale e professionale, per le persone, è perciò costantemente attraversata da istanze e
dinamiche biografiche, conversazionali-narrative e costruttive […]” (corsivo nostro) (ivi, p. 16).
Il “narrare formativo” rappresenta di fatto un aspetto appassionante ma al tempo stesso
impegnativo, per questo ancora poco praticato: l’esposizione personale, la resa verbale della pratica
27
Il riferimento è alla teoria dell’attività di Leont’ev e alla visione dello sviluppo umano di Vygotskij e Bruner, agli
studi sull’apprendimento situato di Lave e Wenger, al lavoro d’orientamento psico-culturale di Zucchermaglio e
Pontercorvo. La formazione sarà affrontata in quest’accezione nel terzo capitolo.
88
di lavoro, l’esternazione e lo stesso coinvolgimento emotivo che ne deriva, il passaggio
dall’implicito all’esplicito, dal privato al pubblico possono generare sofferenza e stati di blocco o
atteggiamenti di resistenza dovuti alla frequente chiusura da parte dei soggetti e delle
organizzazioni verso la parola come strumento di crescita e conoscenza. Nella frenesia del fare e
della logica del produrre, la parola necessita di tempo e presuppone uno svelamento di ciò che a
volte si preferisce resti sotteso per comodità o ignoranza o scarsa propensione al cambiamento.
Acquisire padronanza delle dinamiche interstiziali alla base del proprio lavoro e del sistema di cui
si è parte offre delle prospettive di potere e controllo spesso volutamente evitate. Questa
considerazione ci ricollega a quanto detto a proposito della formazione psicosociologica e al valore
dell’analisi della domanda iniziale, ovvero della ricerca delle vere esigenze di formazione e della
messa a nudo della reale disponibilità di lavoratori e organizzazioni al cambiamento.
Ciò appare ancora più sensato nel momento in cui si voglia attribuire alla formazione il ruolo di
“luogo di eventi”: “l’evento è un atto di cambiamento, che marca un prima e un dopo, che segna
una spaccatura tra un ‘essere’ e un ‘essere diverso’, non può esistere senza presa di coscienza, non
può chiamarsi tale senza la libera scelta di definizione di chi lo vive o di chi ne è testimone”
(Fabbbri, in Kaneklin, Scaratti, 1998, p. 13). L’espressione “luogo di eventi” è tratta da un
interessante contributo di Donata Fabbri intitolato “Narrare il conoscere” del 1998. La formazione
secondo l’autrice può essere definita, “luogo di eventi, sede non solo di scambio e di elaborazione
di sapere, ma soprattutto di rilettura di eventi già avvenuti e di possibile creazione di nuovi. […]
Senza un’attenzione agli eventi la formazione perderebbe il suo aggancio al vissuto e alla
costruzione di sé, ma ancor più grave sarebbe se la formazione non sapesse fare di se stessa non
tanto un evento quanto piuttosto un contesto di eventi” (ivi, p. 12).
Seguendo questo divenire logico, l’evento per poter essere dichiarato tale e, a sua volta, la
formazione per poter essere identificata come “luogo di eventi” necessitano del supporto della
narrazione: il raccontare e il raccontarsi sanciscono queste due conquiste ed eccezionalità,
rendendole attive in un contesto di soggetti pensanti e conoscenti (al termine “eccezionale” è
conferito il significato voluto da Bruner di cui si è già parlato in precedenza).
“Per la sua struttura il linguaggio non è un semplice riflesso speculare della struttura di pensiero. Perciò
non può vestire il pensiero come un abito confezionato. Il linguaggio non serve come espressione di un
pensiero già bello e pronto. Il pensiero, trasformandosi nel linguaggio, si riorganizza e si modifica. Il
pensiero non si esprime, ma si realizza in una parola” (Vygotskij, 1990, pag. 336).
Il linguaggio infonde autenticità e vita a ciò che veicola e mai può risultare disgiunto dalle azioni
che incarna o dai riferimenti contestuali e temporali delle azioni stesse. Esse infatti hanno valenza
situazionale e culturale ovvero svolgono la funzione di regolare i processi di costruzione della
89
conoscenza. “Nella formazione non solo il linguaggio ha funzione narrativa ma anche le azioni, e
un’epistemologia della formazione non può non essere operativa […]” (Fabbbri, in Kaneklin,
Scaratti, 1998, p. 16). 28 “Di qui la prefigurazione di una costruzione della conoscenza come
costante processo interattivo, situato in contesto storico-culturale dato, in cui mediante la
comunicazione conversazionale si impara a negoziare i significati delle situazioni e i compiti
incontrati nel rapporto con gli altri” (Scaratti, in Kaneklin, Scaratti, 1998, p. 24).
Il riconoscere alla formazione l’essere contesto di eventi ed azioni strutturanti e il collocarvi
peculiari processi di attribuzione di significato rappresentano i due punti di incontro tra
l’orientamento della psicosociologia e quello della psicologia culturale in ambito formativo:
entrambi mostrano “una comune istanza a marcare la formazione come processo di costruzione di
senso, di un senso che richiede di essere messo in parola, di essere riconosciuto e narrato” (Scaratti,
in Kaneklin, Scaratti, 1998, p. 25). Abbiamo già visto come la formazione psicosociologica mostri
una spiccata concentrazione nei confronti della ricerca dei significati rappresentazionali e
relazionali profondi dell’agire lavorativo, siano essi dichiarati o sottesi; in un percorso di questo
tipo la narrazione non può che essere lo strumento ideale mediante il quale procedere ad elaborare
e ricostruire i significati ricercati, in virtù del coinvolgimento diretto, soggettivo, dei partecipanti e
della valenza emancipativa dei contenuti trattati. La narrazione come modalità di accesso al
significato e come attività di natura eminentemente ermeneutica richiamano con forza le
tematizzazioni compiute dalla psicologia culturale, tra queste i contributi di Bruner, e in generale
della psicologia sociale, più specificatamente quella d’indirizzo costruttivista.
Bruner afferma a proposito della psicologia culturale:
“Uno dei suoi principi fondamentali è la dottrina del ‘costruttivismo’, secondo la quale la ‘realtà’ (come
noi solennemente la chiamiamo) noi non la troviamo, bensì la costruiamo. Ciò che vediamo, il modo in cui
ricordiamo, quel che apprezziamo, è tutto costruito da atti mentali, più che trovato preesistente nel mondo
della natura. È la cultura nella quale viviamo e cresciamo quella che ci fornisce le ‘regole di costruzione’
mediante le quali noi costruiamo la nostra realtà. […] Le nostre menti di uomini generano non soltanto
versioni conformi alla cultura, versioni canoniche e congruenti con credenze culturali consolidate circa la
‘realtà’, ma altresì, grazie alla nostra capacità di immaginazione, una serie di mondi possibili che
potrebbero esistere, che forse esistono o che potremmo auspicare” (Bruner, 2003, p. VIII).
A sostegno di questa visus epistemologico, l’autore ipotizza l’esistenza di due diversi tipi di
funzionamento cognitivo, due diversi modi di pensare, “ognuno dei quali fornisce un proprio
metodo particolare di ordinamento dell’esperienza e di costruzione della realtà”: il primo
“paradigmatico o logico-scientifico” “persegue l’ideale di un sistema descrittivo ed esplicativo
formale e matematico”; il secondo “narrativo” sottoforma di storie, racconti, drammi non
28
Cfr. D. Fabbri, A. Munari, Strategie del sapere, Dedalo, Bari, 1984.
90
necessariamente veri “si occupa delle intenzioni e delle azioni proprie dell’uomo e a lui affini,
nonché delle vicissitudini e dei risultati che ne contrassegnano il corso. Il suo intento è quello di
calare i propri prodigi atemporali entro le particolarità dell’esperienza e di situare l’esperienza nel
tempo e nello spazio” (ivi, pag. 18).
Di qui la necessità di stabilire, ai fini di un atteggiamento complesso nei confronti del mondo,
forme di conciliazione e comunicazione efficace tra pensiero paradigmatico e narrativo e allo
stesso tempo revisionare il concetto di scienza e di sapere scientifico alla luce di una progressiva
apertura alle potenzialità del sapere umanistico e della stessa narrazione (Bruner, 2005).
“Le storie, siano queste costruite dallo scienziato che dalla persona comune, sono come modi universali
per attribuire e trasmettere significati agli eventi umani” (Smorti, 1997, p. 10).
Facendo riferimento ad “un modello tripartito della conoscenza” (Nicolini, 2001, cap. II) 29 in base
al quale l’oggetto del conoscere emerge agli occhi del soggetto conoscente come realtà insieme
“socio-bio-fisica, fenomenica e retorica”, “se il pensiero scientifico costituisce un modo
specializzato di guardare i fenomeni, capace di coglierne particolari relazioni esterne ed interne, e
corrisponde a uno tra i differenti processi conoscitivi che dobbiamo attivare nel creare ponti tra
realtà socio-bio-psichica e realtà fenomenica, al pensiero narrativo spetta il compito di strutturare
intrapsichicamente e comunicare nel rapporto interpersonale quegli stessi mondi. Lungi dunque
dall’essere una modalità conoscitiva inattendibile, esso costituisce una privilegiata chiave di
accesso, per l’essere umano, a se stesso e al mondo” (ivi, pp. 14-15). 30
Le dinamiche di costruzione della realtà, ovvero dei significati che la riguardano, richiamano
inevitabilmente i processi di interpretazione testuale che ne sono alla base. Chi interpreta compie
un atto di lettura della realtà, una scelta identificativa con una serie di significati simbolici
condivisi, percorrendo il cammino che dal senso ambiguo, frutto dell’esperienza pre-riflessiva,
conduce al significato, “spazio riflessivo dell’intenzionalità” (Varchetta, in Weick, 1997, p. XV).
“Il fatto è che interpretare è un’azione” 31 e in una dimensione organizzativa o di formazione si
esprime attraverso l’interazione di tutti i partecipanti, ognuno dei quali, a partire da un proprio
apporto conversazionale, a tratti discrezionale, a tratti creativo, contribuisce a costruire
l’organizzazione. L’ipotesi è che “l’organizzazione si origini solo come risultato dei processi
conversazionali e di apprendimento reciproco dei soggetti umani” e che il linguaggio assuma “la
29
Nella visione tripartita della realtà gli oggetti e gli eventi appartengono all’universo socio-bio-fisico, le percezioni, i
pensieri, le emozioni, le rappresentazioni all’universo psichico-fenomenologico, il linguaggio, le parole, le frasi, i
racconti, i testi all’universo retorico.
30
Cfr. L.S. Vygotskij., Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Laterza, Bari, 1990; Cfr. Gardner H., Formae
mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza, Feltrinelli, Milano, 2004.
31
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, 1967 (ed. orig. 1953), I,1.
91
forma vivente e continuamente trasformantesi di una condivisione, di un’esperienza relazionale”
(Varchetta, in Weick, 1997, p. XII).
Un apporto teorico che potrebbe risultare utile al fine di approfondire le tematiche di
interpretazione e creazione di senso da parte degli individui e delle organizzazioni è dato dal lavoro
di Karl E. Weick (1997) autore del noto concetto di “sensemaking”. Il sensemaking circoscrive
l’insieme di processi cognitivi con cui un soggetto, sia esso un individuo o un’organizzazione,
conferisce senso ai flussi di esperienza. L’individuo è continuamente sollecitato dalle informazioni
multiformi e disordinate provenienti dall’ambiente circostante. Dinnanzi a questo materiale di vita,
nel tentativo di conferire ordine a quanto percepito, la mente elabora i dati disponibili ipotizzando
relazioni di causa/effetto ovvero realizzando insiemi di deduzioni dette “mappe causali”.
Attraverso di esse possiamo interpretare, dando senso e ordine logico, a ciò che esperiamo e
predisponiamo di conseguenza il nostro comportamento. Il processo di sensemaking è un processo
continuo e retrospettivo, funzionale a definire cosa sia la realtà per il soggetto che la percepisce: la
realtà ha il senso che noi le conferiamo in base ai nostri processi elaborativi. Ogni individuo è
autore del “suo” senso: non esiste un dentro e un fuori dall’individuo interpretante, ma un ambiente
denso di stimoli ambigui. Nel momento in cui, tramite i processi di cognizione, l’individuo o
l’organizzazione attribuiscono significato ad alcuni aspetti della realtà, essi “attivano” tali aspetti
dell’ambiente ovvero danno loro il senso di esistere.
L’aspetto dell’attivazione (“enactment”) risulta particolarmente indicativo ai fini del nostro
discorso in quanto va a sostenere l’immagine di un individuo artefice della propria conoscenza: non
solo ha una percezione soggettiva della realtà ma soggettivamente la costruisce attivandola tramite
sensemaking. L’ambiente attivato non ha ruolo passivo in quanto retroagisce sui soggetti attivanti:
ciò vuol dire che l’individuo non può plasmare l’ambiente a suo piacimento, ma è quest’ultimo che
una volta attivato ne influenza e vincola comportamento e azioni.
Nel caso delle organizzazioni, ogni lavoratore è potenzialmente autore di una mappa causale che,
nell’interazione con gli altri, è sottoposta a inevitabile confronto e a fenomeni di omogeneizzazione
e stabilizzazione. La convivenza delle diverse strutture di senso riconducibili a ciascun sottosistema organizzativo è resa possibile dallo stabilirsi di connessioni “deboli” e flessibili che
similmente ad un linguaggio base comune a tutti i soggetti coinvolti garantisce unità e un
coordinamento minimo di significati. Più le connessioni tra sistemi sono deboli, maggiore sarà lo
sforzo necessario a costruire la realtà sociale e culturale dell’intera organizzazione. Di qui il rilievo
dei processi di elaborazione di senso ai fini dell’andamento organizzativo, la possibilità di
92
intervenire entro questi processi seguendo specifici percorsi di formazione e narrazione e la
determinazione del ruolo autorevole del soggetto conoscente.
“Le organizzazioni a dispetto della loro evidente preoccupazione per i fatti, i numeri, l’obiettività, la
concretezza e l’affidabilità, sono in realtà sature di soggettività, astrazioni, supposizioni, espedienti,
invenzioni e arbitrarietà... proprio come tutti noi. Sono le organizzazioni stesse a creare gran parte di ciò
che le turba” (Weick, 1993, in Bartezzaghi, 2010).
A tal proposito sembra interessante valutare come a fronte di una crescente importanza delle
dimensioni immateriali, relazionali e culturali in ambito organizzativo e lavorativo, anche il
coinvolgimento intellettivo richiesto agli individui cambi sensibilmente. L’esigenza emergente è
quella rispondere alle sfide della complessità con misure che possano dirsi anch’esse complesse,
“transdisciplinari” 32. La stessa immagine dell’intelligenza classicamente intesa, logica razionale di
elaborazione e analisi deduttiva, entra in crisi (Crozier, 1996). Il panorama organizzativo attuale
richiede una maggiore apertura alla cooperazione, all’ascolto, alla relazione, alla socializzazione,
all’interpretazione degli stimoli emergenti dal contesto socio-culturale di cui si è parte.
L’intelligenza che possa assecondare le esigenze appena dette ha forma multipla, sempre più
sociale ed emotiva, ovvero interpersonale e intrapersonale, capace di corrispondere agli imput dei
diversi linguaggi con cui si trova a conversare. 33 Dell’intelligenza a lavoro e delle possibilità di
declinazione delle varie intelligenze nello svolgimento dei compiti professionali e negli ambienti di
formazione parleremo in seguito, nella sezione dedicata alla ricerca applicata.
Per concludere la nostra trattazione che non può che risultare parziale rispetto all’imponenza
argomentativa dei numerosi contributi in merito alla narrazione, a nostro avviso, potrebbe essere
importante riflettere su quanto segue. L’analisi delle peculiarità degli studi di natura psicosociale
eseguita in questo capitolo ci ha permesso di aprirci ad una prospettiva di formazione centrata sugli
aspetti relazionali e micro-sociali ovvero culturali di costruzione e ricostruzione dei significati con
cui le persone costantemente si misurano nella loro esperienza lavorativa e organizzativa.
L’excursus sulla narrazione, a sua volta, oltre a confermare gli aspetti appena detti, è servito a
circoscrivere il nostro interesse attorno all’argomento e a motivarlo attraverso la presa di coscienza
che “la narrazione è la tipica modalità attraverso cui i soggetti ricercano e costruiscono significati,
all’interno di una gamma di mondi possibili, proprio come il lettore diventa scrittore e risponde alle
sollecitazioni di senso contenute nel testo reale, elaborando un proprio testo virtuale.” (Scaratti, in
32
Per approfondimenti sul concetto di transdisciplinarietà cfr. E. Morin, I sette saperi necessari all'educazione del
futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001; E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del
pensiero, Raffaello Cortina, Milano 2000.
33
Per approfondimenti si veda la teoria delle intelligenze multiple di H. Gardner e i contributi di D. Goleman e R.
Sternberg: H. Gardner, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza, Feltrinelli, Milano, 1987; D. Goleman,
Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano, 1996; D. Goleman, Intelligenza sociale, Rizzoli, Milano, 2006; R. J. Sternberg,
Teorie dell’intelligenza, Bompiani, Milano, 1987.
93
Kaneklin, Scaratti, 1998, p. 48). 34 Di qui la forza dell’interpretazione e della soggettivizzazione,
l’accesso al mondo rappresentazionale, la mediazione tra le dimensioni dell’implicito e
dell’esplicito, la conciliazione di “mano destra” e “mano sinistra” 35, di sentimento e ratio.
“È dunque valorizzato il passaggio da una concezione di soggetto osservatore-conoscitore isolato e
asettico, a quella di un soggetto interagente con la sua realtà nella globalità delle dimensioni in gioco
(cognitiva, emotiva, affettiva) e mediante costanti processi di costruzione consensuale di significati
attraverso e nell’ambito della cultura di appartenenza” (Scaratti, in Kaneklin, Scaratti, 1998, p. 47).
Ognuno di questi passaggi, tra sociale e culturale, psicologico e cognitivo, concorrono alla
determinazione delle logiche della conoscenza e della formazione, ovvero del condurre esperienze
di formazione e del viverle come soggetti d’apprendimento. L’apprendimento rappresenta un
ulteriore livello della nostra analisi mediante il quale continuare a dettagliare la natura individuale e
insieme micro-sociale della formazione, rifocalizzando l’attenzione sull’aspetto della soggettività
interagente dell’attore sociale co-costruttore dei prodotti della propria cognizione. A fronte di una
formazione che necessita di aprirsi alle sfide del presente, alla mutevolezza del mondo del lavoro,
alla “crisi” etimologicamente intesa (da “krìsis” ovvero separazione, scelta, giudizio), alle istanze
di flessibilità e all’esigenza di gestire e dirigere il cambiamento, i vissuti formativi basati su
modelli di apprendimento scolastici, rigidi e ricorsivi si dimostrano inadeguati e controproducenti.
Come già detto attraverso le parole di Quaglino, date le variabili di contesto in cui si muovono gli
addetti ai lavori in ambito di formazione, è sempre più forte l’esigenza di rifocalizzare l’attenzione
sul soggetto e riportare l’apprendimento al centro dell’interesse di coloro che studiano e praticano
questa materia. Il “sociale” e il “culturale”, entrando a pieno titolo nelle dinamiche di costruzione
della conoscenza, non possono non risultare strutturanti i processi di formazione. Vedremo come
una risonanza simile può essere stabilita nel tentativo di spiegare la natura e le dinamiche
d’apprendimento.
Prima di dedicarci al tema dell’apprendimento, per completezza espositiva e funzionalmente a
quanto è nostra intenzione approfondire in merito ai processi evolutivi dell’adulto, introduciamo e
brevemente delineiamo il senso autobiografico del pensiero narrativo, inteso come capacità del
singolo di investire energie mentali nei processi di costruzione e ricostruzione del Sé o anche di
auto-formazione e auto-valutazione. La narrazione quanto assume l’accezione di autobiografia oltre
a confermare quanto detto sopra si carica di una sensibilità tutta individuale, grazie alla quale il
singolo può recuperare i tempi dei Sé passati, conciliarli con il Sé presente guardando alle
34
Cfr. R. Barthes, S/Z. Una lettura di “Sarrasine” di Balzac, Enaudi Ed., Torino, 1981 (ed. orig. 1973) citato da
Scaratti, in C. Kaneklin, G. Scaratti, Op. Cit., 1998.
35
Si veda la metafora della mano destra e della mano sinistra elaborata da Bruner (2005): la prima è l’immagine del
conoscere che avanza con logica e razionalità alla ricerca del sapere oggettivo e scientifico, la seconda è invece
l’immagine del conoscere irrazionale e creativo che ascolta le emozioni e valorizza gli aspetti della soggettività.
94
possibilità dei Sé futuri. In tal senso nessuna crescita potrebbe essere possibile in mancanza di
questa sensibilità, di questa apertura e ascolto auto-orientati.
L’autobiografia
“C’è un momento, nel corso della vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal solito.
Capita a tutti, prima o poi. Alle donne e agli uomini, e accade ormai, puntualmente, da centinai di anni
soprattutto nelle culture occidentali. Da quando, forse, la scrittura si è assunta il compito di raccontare in
prima persona quanto si è vissuto e di resistere all’oblio della memoria. È una sensazione, più ancora che
in progetto da tutti realizzato e portato a termine; quasi un messaggio che ci raggiunge all’improvviso,
sottile e poetico, ma non di meno capace di assumere forme ben presto più narrative. Quasi un urgenza o
un’emergenza, un dovere o un diritto: a seconda dei casi e delle circostanze. Tale bisogno, i cui contorni
sfumano, e che tale può restare per il resto dell’esistenza come una presenza incompiuta, ricorsiva,
inesistente, è ciò che prende il nome di pensiero autobiografico” (Demetrio, 1996, p. 9).
Le parole di Duccio Demetrio non possono che confermare quanto detto a proposito della
narrazione: il raccontare e il raccontarsi è una peculiarità dell’essere umano concepito come essere
sociale e insieme culturale. Egli introduce un ulteriore elemento: il pensiero autobiografico è un
bisogno, il bisogno di ristabilire un contatto con i ricordi del passato, riordinare emozionalmente
ciò che si è stati e ciò che si è fatto per ristabilire il senso della vita stessa. Il pensiero
autobiografico è la voce di un desiderio che segna l’avvento di una nuova fase dell’esistenza, di
una maturità tipica dell’essere adulti ovvero persone capaci di una maggiore profondità
d’elaborazione e ricognizione di sé. Il passato, contenitore di ricordi di vario genere e tipo, più o
meno piacevoli, più o meno significativi, acquisisce un valore costruttivo e formativo nel momento
in cui si entra nel ruolo di spettatori e insieme autori del proprio percorso di vita: così facendo, si
riattivano i sentimenti legati a ciò che è stato che, alla luce dell’emozionalità del presente, vengono
rivisti e riappacificati.
Il pensiero autobiografico è pertanto un atto di recupero, ovvero di riscoperta e ricomposizione,
delle esperienze storiche, degli affetti ad esse legati, delle immagini di sé interne all’individuo:
l’azione del narrarsi, il condividere con altri i sentimenti dei propri vissuti, il descriversi
rappresentano alcuni dei passaggi fondamentali mediante i quali un soggetto può riflettere su se
stesso, quindi ri-conoscersi e definire i tratti essenziali del proprio Sé, compiendo un percorso di
evoluzione sia dal punto di vista intrapsichico che interpersonale. “In un approccio di indagine
consapevole del ruolo svolto dall’interazione dialogica nello sviluppo del Sé, la dimensione
narrativa potrà essere vagliata non solo facendo attenzione al tipo di autointerpretazione che il
soggetto elabora, ma anche a quali siano le interpretazioni altrui che per lui risultano rilevanti. Da
questo punto di vista ogni autointerpretazione non è mai priva di destinatari, ma è una forma di
95
dialogo con gli altri significati della nostra vita”. 36 Pertanto, la costituzione dialogica del Sé ha
natura introspettiva ed insieme relazionale: la comunicazione, sia essa verbale che non-verbale,
amplifica gli effetti dell’azione costitutiva e conoscitiva che le è propria nell’interazione. Il
confronto con l’Altro diverso da Sé in quanto occasione di scambio diviene un darsi e un ricevere
reciproco entro il quale ciascun soggetto partecipante attesta la propria identità rendendosi
riconoscibile agli occhi di chi ascolta.
“[…] il racconto di sé costituisce un’operazione di valore catartico per la psiche, ancor più se la narrazione
è raccolta da un ascoltatore esterno, che funge da testimone anche quanto silenzioso, diventando così
costumo degli eventi narrati, ma ancor più della persona che in quegli eventi si identifica” (Nicolini, 2001,
pp. 20-21).
Da questa affermazione sembra evidente come la resa autobiografica della propria storia di vita,
quand’anche degli aspetti non vissuti, sottenda un aspetto di “cura” sia per colui che narrando
concede una parte di sé che per chi riceve il dono dei ricordi. Colui che si racconta si libera,
ricongiungendosi con gli tutti gli aspetti del proprio divenire, anche quelli dolori e infelici o rimasti
in sospeso. “Nel mentre ci rappresentiamo e ricostruiamo […] ci riprendiamo tra le mani. Ci
prendiamo appunto in carico (in cura) e ci assumiamo la responsabilità di tutto ciò che siamo stati o
abbiamo fatto e, a questo punto non possiamo che accettare”. “Si inizia ripensandosi per caso, e
non si finisce più di scoprire, di cercare, di giustificare e comprendere. La sorpresa più
straordinaria è proprio questa. Si impara dall’analisi della propria storia, si impara apprendendo
da se stessi […]”(Demetrio, 1996, pp. 12, 15).
Le potenzialità in termini di auto-analisi e d’auto-formazione del pensiero autobiografico risultano
degli aspetti cruciali ai fini della comprensione delle dinamiche di apprendimento in età adulta.
Utilizziamo ancora una volta le parole di Demetrio per rendere questa “ricchezza”:
“L’autobiografia non è soltanto un tornare a vivere: è un tornare a crescere per se stessi e gli altri, è un
incoraggiamento a continuare a rubare giorni al futuro che ci resta, e a vivere più profondamente […]
quelle esperienze che, per la fretta e la disattenzione degli anni cruciali, non potevano essere vissute con la
stessa intensità. Per questo l’autobiografia è un viaggio formativo e non un chiudere i conti” (Demetrio,
1996, p. 16).
Nel campo della formazione e dell’educazione degli adulti, la pratica autobiografica viene
utilizzata, prevalentemente sottoforma di colloqui individuali, scrittura di un racconto, narrazione
in contesti gruppali, come supporto ai processi di apprendimento, riflessivo ed esperienziale. “Nella
visione dell’educazione degli adulti la narrazione autobiografica offre l’opportunità di far riflettere
36
R. Mancini, “Teorie del Sé nella filosofia contemporanea”, in A. Arfelli Galli, R. Mancini, P. Nicolini, F. Quintabà,
M.G. Salvatore, L’evoluzione del Sé: teoria psicologica e prassi educativa, Cittadella Editrice, Assisi, 1995, pag. 3435, citato da P. Nicolini, Op. cit., 2001, pp. 34-35.
96
su se stessi e far apprendere delle proprie esperienze, con la finalità dichiarata di formare un adulto
«educatore di se stesso»” (Di Fabio, 2002, p. 214).
Il racconto di sé contribuisce a definire l’unità del soggetto attraverso lo stabilirsi di connessioni tra
ciò che è stato e ciò che è, tra passato e presente: inevitabilmente l’analisi di questi due tempi
comporta il riferimento ad un terzo tempo, quello futuro ovvero al dover essere. Così facendo,
colui che narra attiva processi di cambiamento e trasformazione nella misura in cui raccontandosi
elabora immagini alternative di sé e veicola su di esse le energie necessarie alla loro realizzazione.
Le immagini elaborate nel corso della narrazione sono plurime e variabili, sono cioè differenti a
seconda dell’ambiente in cui l’individuo si trova immerso, ovvero dell’interlocutore che ascolta. Il
fattore relazionale risulta pertanto strutturante non solo la “teoria del Sé” ma le stesse prospettive
future in termini di progettualità e coinvolgimento psico-emotivo e motivazionale.
La rievocazione degli eventi del passato non è però sufficiente ad attivare il cambiamento nel
soggetto che narra: “il raccontarsi a se stessi, per attingere in modo nuovo dall’esperienza passata
ed acquisire diverse consapevolezze e schemi di lettura, implica l’introduzione sia di nuovi
elementi narrativi nel testo del Sé, sia di mutati modelli e schemi di riflessione e approfondimento,
sia di una differente percezione di sé” (ivi, p. 221) 37. Assumendo che “la narrazione autobiografica
è in prima istanza un’espressione del concetto di sé, dell’identità soggettiva, della percezione di
autostima ed autoefficacia”, affinché possa dirsi generativa e trasformativa è necessario un
coinvolgimento psicologico profondo del formando e l’intervento di un formatore capace di
sollecitare il narratore nell’esplorazione di aree di sé meno consapevoli e/o reputate meno
importanti. “I cambiamenti relativi alla modalità di raccontarsi sono in primis cambiamenti relativi
al modo di percepirsi, e non il contrario” (ibidem).
In generale, questo aspetto che potremmo definire “psicologico”, indicativo delle rappresentazione
mentali che il soggetto ha di sé, delle proprie capacità risulta fortemente condizionante qualsiasi
tipo di percorso formativo. Ovviamente non tutte le metodologie di formazione sono orientate ad
attivare o riattivare questo genere di aspetti, né li contempla nella formulazione degli obiettivi
finali. Nonostante ciò, ci sembra importante sottolineare come, volendo ricollocare l’intervento
formativo entro i confini della relazione “individuo-contesto” (Carli, Paniccia, 1999, p. 17), il
fattore consapevolezza, sia esso volto al proprio mondo interiore, sia all’ambiente circostante
37
Il racconto autobiografico è una tecnica funzionale al bilancio delle competenze e all’orientamento professionale e
formativo. Il modo in cui l’individuo si rappresenta, percepisce i propri limiti e abilità anche in termini di autostima e
autoefficacia, si rapporta con le differenti fasi del proprio percorso di vita e professionale offre un bagaglio di
informazioni utile alla progettazione prospettica e alla gestione dei cambiamenti.
97
(micro-sociale, macro-sociale), rappresenta un motore trainante qualsiasi esperienza di reale
apprendimento, ovvero di apertura di sé al cambiamento.
Ciò che è nostro interesse mettere in evidenza è che l’autobiografia così come la narrazione
costituiscono due approcci, simili per natura, alla conoscenza di Sé e del mondo di cui si è parte, e
in quanto tali risultano funzionali all’interno di percorsi di formazione che possano dirsi volti ad
implementare un pensiero di tipo complesso ovvero rispondenti all’esigenza di saper leggere e
interpretare la varietà degli stimoli informativi emergenti dall’ambiente circostante a partire
dall’insieme di codici interiorizzati nel corso della propria storia personale e di vita.
98
CAPITOLO TERZO:
L’APPRENDIMENTO
3.1. La prospettiva del “Self”
Nel capitolo precedente abbiamo tentato di offrire alcuni elementi che potrebbero risultare utili ai
fini dell’individuazione dell’intensa trama di rappresentazioni e connessioni socio-culturali che
caratterizzano la vita organizzativa, comprese le dinamiche di costruzione della conoscenza
condivisa e gli aspetti di “collusione” del rapporto individuo-organizzazione-contesto formativo,
ovvero gli aspetti di “simbolizzazione affettiva” del contesto di formazione da parte dei soggetti
partecipanti (Carli, Paniccia, 1999, p. 35).
Contestualmente alle sfide che la formazione odierna deve compiere, abbiamo fatto riferimento alla
necessità di non tralasciare gli aspetti psicologici della formazione: alcuni autorevoli studiosi tra
cui il più volte citato Quaglino confermano l’utilità di concentrare mezzi e energie nel recupero del
ruolo del soggetto adulto che apprende, investendo su di un apprendimento che, fautore di apertura,
autonomia e creatività, possa dirsi realmente “trasformativo” (Mezirow, 2003). Affrontare il tema
della formazione del punto di vista psicologico significa tener conto della combinazione degli
aspetti cognitivi ed emozionali che si attivano nell’individuo al quale si chiede di apprendere,
capire come le persone acquisiscono determinate conoscenze, sviluppano abilità, producono
atteggiamenti, perché agiscono un certo modo, compiono delle scelte o manifestano un certo grado
di motivazione o di coinvolgimento verso il contesto d’appartenenza, cosa si aspettano o
desiderano.
Si parla di caratteristiche psicosociali del “trainee”, soggetto in formazione, e di “trainability”
(Fraccaroli, 2007, pp. 40-41), capacità di un soggetto di trarre beneficio da un corso di formazione,
per circoscrivere il campo della prospettiva individuale entro cui valutare il ruolo delle
caratteristiche psicologiche nell’influenzare gli esiti di un’azione di training. Tra le caratteristiche
personali riconosciute come condizionanti le diverse fasi di realizzazione dell’iter formativo
possono essere annoverate: gli stili di apprendimento individuali, l’intelligenza, la motivazione, i
tratti di personalità, i valori e gli atteggiamenti. In realtà, è bene sottolineare, come nessuna di
queste caratteristiche possa dirsi svincolata dal contesto in cui la formazione si realizza e in cui il
treinee si trova inserito: il contesto organizzativo, i vincoli imposti dall’ambiente, gli obiettivi
sovra-individuali costituiscono degli aspetti non trascurabili ai fini di uno studio della formazione
che voglia dirsi complesso ovvero non imputabile d’astrazione o inapplicabilità.
99
Pertanto, ciò che è possibile accertare con sicurezza è che il formando è un soggetto
potenzialmente attivo a partire dal bagaglio delle caratteristiche psicologiche e delle risorse
psicosociali che porta con sé all’ingresso di un’attività formativa. Tali risorse, differenti per ciascun
individuo, costituiscono una “dotazione di partenza” in base alla quale vengono attribuiti significati
diversi all’esperienza che si sta per iniziare: “alcuni la valorizzano e vi investono risorse ed
energie; altri la relativizzano e la considerano una sorta di routine organizzativa; altri ancora ne
colgono gli aspetti strumentali e puntano ai benefici materiali che la formazione può offrire; altri la
subiscono passivamente vivendola come obbligo e imposizione” (ivi, p. 88).
L’insieme dei fattori pregressi con cui un individuo si accinge a compiere un’esperienza di
formazione, unitamente alla percezione di sé, alle competenze, quelle già possedute e quelle
ambite, all’autoefficacia, non possono dirsi super partes in quanto agiscono lungo tutto il percorso
formativo condizionandone gli esiti finali e, in modo specifico, la trasferibilità degli apprendimenti
nei contesti di lavoro. È pertanto indispensabile tener conto dell’esistenza di tutte queste variabili in
sede di progettazione e realizzazione delle azioni di training, compiendo scelte di metodo volte a
lasciarle emergere per poter essere esse stesse oggetto di riflessione e metacognizione.
A titolo esemplificativo facciamo allo schema della figura 3. Si tratta di una semplificazione di
tutte le variabili individuali che esercitano un ruolo sugli esiti della formazione. Nonostante questo
modello tenda a presentare, volutamente a fini espositivi, le caratteristiche personali dei formandi
come separate tra loro e disconnesse dal contesto situazionale e organizzativo in cui si trovano
immerse, la realtà dei fatti, dice l’autore, è tutt’altra e nell’analisi che proporremo qui di seguito,
riprendendo alcuni spunti della sua dettagliata esposizione, cercheremo di sottolineare
l’interrelazione esistente tra tutti questi livelli.
Partiamo dalle abilità cognitive e in modo particolare dal concetto di intelligenza. Definire cosa sia
l’intelligenza non è un’operazione semplice per tutta una serie di motivi legati innanzitutto alla
plurime e conseguente inafferrabilità del tema e alla carica valoriale ad esso attribuita. Nonostante
la nostra cultura sia ancora molto ancorata al concetto di intelligenza come facoltà unica ed
assimilabile per lo più con la capacità logico-matematica, è possibile, in base alle moderne teorie
sull’argomento, parlare di intelligenze al plurale, facendo rientrare nella rosa delle abilità cognitive
non solo l’elaborazione e trasformazione mentali delle informazioni “input”, ma che la resa
intrapsichica e relazionale delle informazioni “output” secondo la logica della complementarietà di
cognizione e sentire emotivo.
In generale, è possibile affermare che sono essenzialmente due le questioni indagate dalle scienze
biologiche che s’interessano alla natura e allo sviluppo delle capacità intellettuali umane, alla loro
100
organizzazione ed evoluzione nel corso della vita: la flessibilità dello sviluppo umano (le
potenzialità intellettuali di un individuo sono fissate e preordinate oppure malleabili e plastiche,
tanto da poter essere sviluppate e approfondite?) e l’identità o la natura delle capacità intellettuali
(gli esseri umani possiedono potenzialità generali, meccanismi generici di elaborazione
dell’informazione che possono essere usati in una grande varietà di usi, o piuttosto propendono a
compire operazioni intellettuali specificabili, dimostrandosi nel contempo incapaci ad eseguirne
delle altre?) (Gardner, 2004, pp. 51-52). Ad oggi la maggior parte degli esperti della materia
ritengono che la crescita umana sia dotata di notevole plasticità e flessibilità, specialmente nei
primi mesi di vita. Tale plasticità è però modulata da forti costrizioni genetiche che operano fin dal
principio e guidano lo sviluppo lungo alcune linee direttrici piuttosto che delle altre. La mente
plastica e modulare, capace di operazioni intellettuali specifiche risponde agli influssi della
genetica e insieme dell’ambiente circostante sia esso fisico che sociale e culturale.
Dal punto di vista della formazione e dell’educazione la tendenza dilagante è associare le abilità
cognitive umane con un’immagine dell’intelligenza intesa come “abilità mentale generale”
(Fraccaroli, 2007, p. 91), anche detta fattore “g”, rappresentativa del corretto funzionamento della
memoria, della velocità di processamento, codifica e decodifica, delle informazioni, della
padronanza di linguaggio e ragionamento aritmetico, della prontezza di apprendimento, della
facilità di integrazione dei nuovi dati nel sistema di conoscenza pregresso.
“Poiché il fattore “g” appare strettamente correlato alle capacità individuali di apprendimento, e
poiché l’apprendimento costituisce la base dei processi formativi di acquisizione di nuove
conoscenze e competenze professionali, numerosi autori hanno tentato di comprendere il ruolo
delle abilità cognitive come determinanti del successo formativo. L’ipotesi di fondo è che il fattore
“g” sia un rilevante elemento differenziale che spiega gli output del processo formativo, la qualità e
quantità dell’apprendimento e, di conseguenza, il livello di prestazione di lavoro” (ibidem).
Esistono vari studi empirici che comprovano, relativamente all’apprendimento di certi tipi di
compito, l’esistenza di una correlazione tra fattore “g” e riuscita della formazione: sulla base di ciò,
l’intelligenza, intesa come fattore quantificabile e misurabile, quando elevata, sottoforma di
elaborazione delle informazioni, capacità di calcolo, espressione verbale, velocità, ecc. viene
inquadrata come elemento facilitatore i processi di apprendimento in ambito formativo. 38
38
Per approfondimenti: M.J. Ree, T.R. Carretta, J.R., Cognitive ability, in N. Anderson, D.S. Ones, H.K. Sinangil e C.
Viswesvaran (a cura di), Handbook of industrial, work and organizational psychology, London, Sage Publications, vol.
1, pp. 219-232; J.A. Colquitt, J.A. LePine, R.A. Noe, Toward an integrative theory of training motivation: A metaanalytic path analysis of 20 years of research, in “Journal of Applied Psychology”, 85, pp. 678-707; E. Salas e J.A.
Cannon-Bowers, The science of training: A decade of progress, in “Annual Review of Psychology”, 52, pp. 471-499.
101
Figura 3
Il ruolo delle caratteristiche individuali sugli esiti della formazione
(da F. Fraccaroli, Apprendimento e formazione nelle organizzazioni, 2007, pag. 90)
La tendenza a percepire l’intelligenza come entità unica e fattore esclusivo di condizionamento
della quantità e qualità dell’apprendimento e della prestazione di lavoro in ambito formativo e
professionale è la medesima che si può evincere in campo educativo e scolastico. Pertanto, così
come negli ultimi anni possono riscontrarsi alcuni tentativi di apertura da parte dei sistemi di sapere
alla “nuova scienza della mente” 39 e alle conseguenze che ne derivano, lo stesso si potrebbe
ipotizzare per il mondo della formazione, scardinando l’idea della linearità unidirezionale tra
intelligenza/capacità cognitive e apprendimento/successo dell’azione di training. Il presupposto di
questo “rinnovamento” è da ricercare non solo nella messa in discussione del fattore “g” e della
visione classica dell’intelligenza umana, ma anche nella sensibilità, a cui si è già fatto riferimento
in precedenza, dimostrata da alcuni indirizzi di studio in ambito formativo verso le componenti
sociali e culturali che caratterizzano la costruzione della conoscenza ed insieme la genesi e
l’utilizzo delle risorse cognitive e intellettive.
Gli stimoli a supporto di questo rinnovato atteggiamento verso l’intelligenza e i sistemi di
simbolizzazione ad essa riconducibili è da rinvenire innanzitutto nelle teorie multidimensionali
39
Il riferimento è a H. Gardner, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Feltrinelli, Milano,
1988. La nuova scienza cognitiva di cui parla Gardner ha l’obiettivo ambizioso di comprendere il funzionamento della
mente a più livelli di analisi e di spiegazione chiamando in causa, oltre ai fattori classici del ragionamento,
dell’elaborazione e della computazione, altri fattori rilevanti come la cultura e i sistemi simbolici che la caratterizzano,
assicurando loro dignità scientifica.
102
quali ad esempio la “teoria delle intelligenze multiple” di H. Gardner (2004; 1983) e la “teoria
triarchica dell’intelligenza” di R. J. Sternberg (1987; 1985).
L’idea portante della prospettiva sviluppata da Sternberg è che l’intelligenza non rappresenti
un’unica facoltà riducibile ad una teoria generale, ma sia costituita da un insieme più ampio di
abilità cognitive tra loro diverse. Ciò implica il ricorso ad un certo numero di sub-teorie,
strettamente collegate tra loro, delle quali le tre più importanti si occupano rispettivamente:
-
dei processi cognitivi che sono alla base del comportamento;
-
del contesto in cui si svolge il comportamento intelligente;
-
dell’esperienza, che funge da mediatore tra l’organismo e l’ambiente esterno.
Il prospetto triarchico dimostra l’impossibilità di pensare l’intelligenza come un sistema di
funzionalità univoca basato sulle sole componenti cognitive e avulso da quelle ambientali ed
esperenziali. Da qui, il concetto di “intelligenza efficace” e potenzialmente capace di successo –
“successfull intelligence” – (Ciancialo, Sternberg, 2007), che l’autore collega alla molteplicità degli
stili di pensiero e in particolare a quello analitico, creativo e pratico (Sternberg, 1996). A corollario
di quest’assunzione, c’è la convinzione della necessità di educare nel rispetto della pluralità
dell’intelligenza e del funzionamento cognitivo umano (Sternberg, 1997). In tal senso, il mondo
della formazione risponde aprendosi a possibilità di diversificazione a livello di programmazione
delle attività e dei contenuti formativi: l’obiettivo è trovare sistemi di comunicazione privilegiati
verso certi tipi di abilità di modo da poterne ricavare prestazioni d’alto livello, secondo modelli
d’interazione funzionali alla crescita dei soggetti in formazione. 40
Similmente Gardner (2004) offre un esempio concreto di approccio dinamico allo studio della
mente umana. Pur partendo da un’impostazione di tipo cognitivista e modularista, l’autore propone
un’analisi diacronica e multidisciplinare del tema dell’intelligenza, soffermandosi con particolare
forza sul ruolo della cultura e dell’istruzione nella sua determinazione. Contrastando il tipico
accentramento del pensiero logico-matematico e linguistico proprio della cultura occidentale,
Gardner sostiene da un lato la tesi della trasmissione ereditaria di determinate capacità intellettive
dall’altro l’effetto benefico di un’educazione attenta a stimolare più ambiti intellettivi e fornire
svariate chiavi di accesso alla conoscenza, nonché della necessaria interazione costante di questi
due fattori.
40
Per approfondimenti riguardo iniziative di ricerca di questo tipo: S.D. Carter, Matching training: A means to improve
training outcomes, in “Human Resources Development Quarterly”, 13, pp. 71-87, 2002; T. Dormann, M. Frese, Error
training: replication and the function of exploratory behavior, in “International Journal of Human-Computer
Interaction”, 6, pp. 365-372, 1994; S.M. Gully, S.C. Payne, K.L.K. Koles, J.A.K. Whiteman, The impact of error
training and individual differences on training outcomes; An attribute-treatment interaction perspective, in “Journal of
Applied Psychology”, 87, pp. 134-155, 2002.
103
A partire da una visione dell’intelligenza umana come “potenziale psicobiologico per risolvere
problemi o per dar forma a prodotti che abbiano valore in almeno un contesto culturale” (Gardner,
1998) egli arriva a formulare l’esistenza di otto intelligenze indicative di altrettante abilità
cognitive e sistemi di simbolizzazione specifici a partire dai quali affrontare la realtà e accedere a
modi di comprendere esaustivi ed efficaci. “I sistemi simbolici sono sviluppati in gradi diversi sia
dagli individui sia dalle culture, in connessione con certi caratteri biologici e/o fisico-ambientali”
(Andreani Dentici, 2004, p. 97): possono essere logici, linguistici, numerici, ma anche musicali,
corporei, spaziali e persino personali. Su ciascuno di essi si fonda un particolare tipo di
intelligenza, indipendente da gli altri sistemi ma con loro interagente nel corso della soluzione dei
problemi o nella produzione di un nuovo prodotto, attività, scoperta. I simboli, dunque, svolgono
funzioni determinanti in qualsiasi tipo di contesto culturale: permettono la comunicazione e la
socializzazione delle esperienze umane, la trasmissione e la partecipazione dei mezzi per la
codifica delle informazioni.
L’intelligenza si contestualizza, ossia si manifesta, in un “luogo”, in un ambiente favorevole, nel
quale le espressioni propriamente biologiche devono poter trovare le condizioni adeguate per
materializzarsi. Non è chiusa e concentrata esclusivamente nella mente, ma è distribuita anche
all’esterno, tra le cose, i materiali, le persone che condividono un certo ambiente. Tutte queste
risorse extra-individuo stabiliscono un criterio fondamentale in prospettiva pedagogica, che è
quello dell’importanza dell’interdipendenza dei soggetti che apprendono.
Ciò coerentemente con quanto postulato dalla psicologia sociale genetica della scuola di Ginevra in
sintonia con la teoria dello sviluppo d’indirizzo storico-culturale di Lev S. Vygotskij.
“L’interazione sociale struttura lo sviluppo individuale attraverso i conflitti che si generano fra le risposte
prodotte dai partner, in altri termini attraverso dei conflitti di comunicazione”. “Lo sviluppo cognitivo è
così concepito come una costruzione sociale progressiva di strumenti cognitivi, che si realizzano grazie
alla messa a confronto (nel corso delle interazioni) di schemi o di ragionamenti contraddittori, inizialmente
difesi ciascuno da uno dei partner dell’interazione” (Mugny, Carugati, 1988, p. 22).
Nella misura in cui, autonomamente, si è capaci o, mediante un esperto, si è messi in condizione di
attingere da risorse umane e materiali presenti nel luogo di lavoro o di studio, è possibile colmare
le lacune che esistono nel proprio bagaglio di conoscenze. Grazie a questa intelligenza presente
nell’ambiente in cui si agisce, il proprio profilo intellettuale può svilupparsi, potenziarsi ed
affinarsi, arricchirsi. Sarà importante, allora, promuovere nel soggetto in apprendimento la
consapevolezza critica dell’intelligenza presente nel contesto in cui vive, al fine di condurre
esperienze conoscitive complete ed approfondite. L’intelligenza, inoltre, in quanto peculiarità
dell’essere umano, è una dotazione propria di ogni persona che la manifesta in tutta la sua
singolarità, attraverso un “senso del Sé” (Gardner, 2004, p. 87) unico, in uno scambio necessario e
104
continuativo con i suoi simili. Pertanto, ciascun individuo non può essere considerato solamente in
base alle sue facoltà intellettive: egli possiede un profilo personale che attinge da altre dimensioni
esistenziali, degne di considerazione, capaci di influire sulle sue esperienze conoscitive. La
motivazione, la personalità, le emozioni, la volontà, costituiscono fonti dell’Io e richiedono la
dovuta considerazione, prevedendone, in particolar modo quando si debbano attivare strategie di
formazione, strumenti adeguati di lettura, interpretazione e oggettivazione.
Il ruolo giocato dai fattori non propriamente cognitivi nel processo di apprendimento e nel
miglioramento delle prestazioni di lavoro è un argomento che ha riscosso e riscuote un
significativo interesse da parte di chi si occupa di formazione: il nodo del discorso degli studi
esistenti sull’argomento è capire in che modo fattori quali impegno, coinvolgimento, trasporto
emotivo, fattori assolutamente intimi e personali, possano favorire l’apprendimento e
l’acquisizione di competenze. Fatto salvo che l’approccio alla conoscenza ha natura sociale e
culturale e che le dimensioni cognitiva e affettiva risultano interagenti tanto che è impossibile
ipotizzarne un’intelligenza isolata emotivamente, le caratteristiche personali del formando non
possono essere considerate al di fuori della dinamica di interazione con l’ambiente, inteso come
spazio esterno da sé e interiorizzato ovvero dentro di sé. Ciò in virtù dell’assunzione che il
processo conoscitivo umano e nel caso specifico il processo conoscitivo umano di cui la
formazione, in quanto occasione di apprendimento, è potenzialmente artefice, “possa essere meglio
interpretato se considerato come il risultato di tutte queste dimensioni: da quella culturale,
sicuramente più ampia e costitutiva, a quella sociale, nella sua molteplicità di relazioni
interpersonali
ed
intergruppali/intragruppali,
fino
ad
arrivare
alla
dimensione
individuale/personale, nella sua componente cognitiva e affettiva” (corsivo nostro) (Nicolini,
Pojaghi, 2000, p. 26).
Riprendendo in mano lo schema della figura 3 vediamo come motivazione, percezione della
propria efficacia e tratti di personalità svolgano un ruolo sicuramente strutturante le dinamiche
d’approccio alla conoscenza nei contesti di formazione e in generale di lavoro, condizionandone i
risultati sia nel primo che nel secondo caso.
La motivazione può essere definita come “la spinta o stato interiore che orienta l’organismo verso
una azione finalizzata al raggiungimento di un determinato scopo o obiettivo” (Canestrati, Godino,
1997, p. 213). Tale spinta ha origini fisiologiche (es. la fame) o mentali ovvero psicologicocognitive (es. ideologie, modelli comportamentali). Nell’essere umano, nella maggior parte dei
casi, entrambe queste categorie di spinte si sovrappongono e, in associazione a ricordi,
apprendimenti pregressi orientano l’agire umano. Nel caso specifico dell’ambito formativo, si può
105
parlare di diverse tipologie di “motivazione alla formazione”: “la motivazione a partecipare ad
attività di promozione delle competenze e di sviluppo individuale”; “il grado di investimento
affettivo e l’energia erogata nella partecipazione alle attività [ovvero] la motivazione ad
apprendere”; “la motivazione ad utilizzare i contenuti della formazione per scopi individuali e
organizzativi” (Fraccaroli, 2007, pp. 100-101). Questi diversi tipi di motivazione non possono dirsi
correlati tra loro in quanto è possibile che un formando motivato ad apprendere e desideroso di
acquisire nuove competenze non sia motivato ad impiegare queste competenze in ambito
lavorativo, oppure un formando motivato a partecipare alle attività formative per acquisire uno
scatto di carriera non sia realmente motivato ad apprendere. Per rendere quindi l’idea di
motivazione veritiera, ovvero significativa a fini dell’apprendimento e dello sviluppo della
prestazione di lavoro, occorre assumere un visus sommativo, considerando tutte le tre tipologie
sopra dette, corredate da variabili contestuali quali valori e bisogni attesi (aspettative), come
identificative del concetto.
Sostanzialmente la motivazione risulta più elevata in soggetti che nutrono forti aspettative negli
esiti della formazione (es. acquisizione di nuove conoscenze, specializzazione delle competenze,
sviluppo professionale) riconoscendone il valore strutturante; in caso di elevata “self-efficacy” 41,
vale a dire quando i formandi si percepiscono in grado di gestire l’esperienza di formazione; nelle
persone che mostrano un importante grado di coinvolgimento al lavoro, alla carriera e
all’organizzazione di cui sono parte. È influenzabile dagli stati emotivi del soggetto che apprende,
ad es. dall’ansia, così come da alcune caratteristiche della personalità o da aspetti situazionali quali
la cultura e il clima organizzativo generale e il sostegno ricevuto da parte di colleghi e superiori
(ivi, pp. 104-105). In riferimento a quest’ultimo aspetto è interessante evidenziare come oltre alle
variabili di sistema di natura sociale e culturale, la motivazione individuale dipenda dal contesto
organizzativo e dalla struttura stessa del corso di formazione: la difficoltà delle attività o gli
ostacoli posti dall’organizzazione di lavoro, la mancata partecipazione dei formandi alle decisioni
pre-training, ad esempio, possono esercitare effetti negativi dal punto di vista dei coinvolgimento
del singolo e del mantenimento dell’impegno.
In quanto tale, la motivazione rientra in altri due processi psicologici: la scelta dello scopo, degli
obiettivi dove andare ad investire le proprie risorse personali di tempo, impegno, energia,
attenzione; l’autoregolazione e l’autovalutazione in corso d’opera volte al mantenimento dello
scopo scelto. “È grazie a questa continua azione di autosostegno che l’intenzione (o direzione della
motivazione) si trasforma in azione persistente e in erogazione di impegno e energia” (ivi, p. 107).
41
“La nozione di self-efficacy […] concerne le cognizioni di una persona sulla propria efficacia in prestazioni
particolati” (Sarchielli, 2003, p. 198).
106
In conclusione è evidente come la motivazione sia un fattore auto-diretto dipendente dalle scelte
del soggetto in formazione, soggetto di cognizione, ma anche di emozione e soprattutto “uomo
attore della vita quotidiana” (Palmonari, 1987), possessore di sistemi di significazione e
attribuzione di valore.
Il “Self”declinato in senso psicosociale sembra giocare un ruolo determinante ai fini della
formazione e dell’apprendimento. Le concezioni che la persone elaborano di se stesse, le diverse
rappresentazioni della propria identità personale e sociale orientano il loro approccio alla realtà,
ovvero il pensiero, il sentimento e l’azione (Palmonari, 1989). “L’adesione a iniziative formative,
la decisione di intraprendere percorsi di sviluppo professionale, il grado di impegno
nell’incrementare le competenze dipendono, in una certa misura, dal modo in cui la persona
definisce se stessa ed elabora una immagine di ciò che è e di ciò che vorrebbe essere. Se la
formazione risponde ad una domanda soggettiva di adeguamento del concetto di sé (riduzione della
discrepanza tra Sé attuale e Sé ideale; realizzazione di un progetto di ridefinizione dell’immagine
di sé), allora è più facile attendersi elevata motivazione, interesse, apprendimento, cambiamento
individuale e riuscita. Allo stesso modo, la biografia della persona, le esperienze passate in ambito
educativo e formativo, il richiamo emotivo che tali esperienze hanno per il soggetto, costituiscono
altrettanti frammenti dell’identità personale. Essi entrano in gioco nel definire le aspettative e gli
orientamenti generali delle persone di fronte a nuove esperienze formative” (Fraccaroli, 2007, pp.
109-110).
La percezione di sé e delle proprie capacità richiamano i temi della “self-efficacy” e delle
aspettative circa l’efficacia personale e il risultato del proprio agire. L’auto-efficacia è definibile
come il giudizio che una persona elabora sull’adeguatezza delle proprie competenze in relazione ad
un determinato compito. Il riferimento inevitabile è a Bandura (1986), uno dei più importanti
esponenti della teoria dell’apprendimento sociale, secondo il quale “le persone si sforzano di
intraprendere determinate azioni, di affrontare e risolvere determinati compiti solo se si
considerano in grado di affrontarli con successo” (Emiliani, Zani, p. 114). 42 Di conseguenza,
quanto più un individuo sente di essere in grado di agire efficacemente rispetto ad un determinato
compito, tanto più sarà l’impegno e l’investimento energetico che muoverà. Viceversa, un
sentimento auto-efficacia negativo produrrà controllo e coinvolgimento scarsi, maggiore
probabilità di errore e abbandono.
L’impegno profuso, oltre a subire l’influsso delle credenze positive o negative relative al Sé, viene
condizionato dalle aspettative che le persone hanno circa i risultati attesi: vale a dire, gli sforzi
42
Per approfondimenti del pensiero di Bandura: A. Bandura, Social foundations of thought and action: A social
cognitive theory, Englewood Cliffs, N.J. Prentice Hall, 1986.
107
prodotti nello svolgimento di un compito possono produrre i risultati attesi? La scelta di
intraprendere un certo iter formativo può infatti dipendere da quanto il potenziale formando associ
conseguenze desiderabili all’esperienza di formazione. In tal senso, è bene specificare che “le
aspettative relative agli effetti di un dato comportamento sono frutto sia dell’elaborazione delle
informazioni relative alla situazione corrente, sia delle attese generalizzate elaborate in rapporto a
precedenti esperienze” (ibidem). Ovviamente, anche in questo caso, gli schemi di elaborazione
della realtà pregressi (es. le rappresentazioni costruite attraverso le esperienze scolastiche), da un
lato, e la natura della situazione sociale e contingente (es. le relazioni intragruppali, le difficoltà
legate ai compiti proposti, la scarsa accettazione da parte dell’ambiente di lavoro), dall’altro,
plasmano la percezione individuale di efficacia e gli esiti possibili della formazione.
Il sentimento di auto-efficacia può essere ulteriormente specificato in “pre-training self-efficacy” e
“post-training self-efficacy”. Mentre nel primo caso l’auto-efficacia è legata alla motivazione
individuale ad apprendere, nel secondo caso, in quanto esito del percorso di formazione, è riferibile
alla percezione di competenza che si prova nel portare a termine uno specifico compito ed è
identificativa degli esiti di un programma formativo, del suo successo o dell’insuccesso. Infatti,
“l’intervento formativo, per avere successo, dovrebbe avere come esito il raggiungimento del
sentimento di efficacia da parte del soggetto nell’inseguire adeguatamente il compito” (Fraccaroli,
2007, p. 113).
Fraccaroli, a supporto del concetto di trasferibilità nel contesto di lavoro delle competenze
acquisite con la formazione, propone un’ulteriore specificazione del concetto di auto-efficacia:
auto-efficacia generale (la convinzione di essere più o meno capace di raggiungere un compito);
auto-efficacia specifica riferita alla formazione (la convinzione di essere in grado di apprendere);
auto-efficacia specifica riferita all’oggetto della formazione (la convinzione di essere in grado di
realizzare una prestazione adeguata). Sulla base di questa distinzione il sentimento di auto-efficacia
risulta essere trasversale, individuale ed insieme contestuale, funzionale al raggiungimento degli
obiettivi di apprendimento, di trasferimento e di sviluppo della prestazione. Complementare
rispetto alla motivazione ad apprendere propria della fase pre-training, “l’auto-efficacia come
output del sistema formativo ha invece riflessi sul transfer e sull’utilizzo delle competenze in
ambito lavorativo. Se attraverso l’intervento formativo si ottiene, oltre all’acquisizione di
competenze, un incremento della fiducia delle proprie specifiche capacità da parte dei partecipanti,
allora si potranno avere effetti positivi anche nella modifica delle pratiche lavorative e nell’uso
delle nuove capacità acquisite” (ivi, p. 116).
108
Un ultimo tassello a completamento delle componenti individuali di cui si è fatta menzione
attraverso la figura 3 riguarda i tratti di personalità del formando. Pur esistendo numerose ricerche
sul tema dell’interconnessione tra specifici tratti di personalità e la “trainability” a cui si è fatto
riferimento in precedenza, i risultati non sempre possono dirsi consolidati. Prendendo spunto
dall’analisi eseguita da Fraccaroli a proposito dello studio del ruolo dell’individuo nel processo di
formazione, circoscriviamo la nostra attenzione attorno ad una delle variabili disposizionali
considerate dall’autore come funzionali rispetto alla pratica di formazione: l’orientamento allo
scopo.
Condizionabile da fattori situazionali di cui approfondiremo l’entità in seguito, si tratta di un
costrutto a cui ci si rivolge per dare spiegazione ai comportamenti degli individui nei contesti
sociali caratterizzanti dall’ottenimento di risultati (scuola, formazione, lavoro) (ivi, p. 119).
Sottende obiettivi di duplice natura: obiettivi di apprendimento (“learning gaol orientation”) e
obiettivi connessi alla prestazione (“performance goal orientation”) (ivi, p. 116). 43 Nello caso
specifico, il profilo della persona orientata all’apprendimento si contraddistingue per l’interesse
reale verso i saperi proposti dalla formazione, per il desiderio di sviluppare e ampliare le proprie
competenze, quindi la volontà sincera di crescere e innovarsi. L’impegno richiesto intermini di
tempo e di sforzo energetico non scoraggiano: il formando di fronte alle difficoltà del percorso
scelto non demorde. Al contrario, il profilo della persona orientata alla prestazione regola i termini
del proprio investimento non sulle reali esigenze di formazione ma sulle impressioni che intende
suscitare nel contesto di appartenenza: l’obiettivo è eseguire prestazioni riconoscibili rispetto a
quelle degli altri, quindi dimostrarsi competenti e ottenere delle valutazioni positive. Non essendo
corredata da una reale intenzione a mettersi in gioco e migliorarsi, in caso di difficoltà o fallimento
sono frequenti episodi di abbandono o reazioni di evitamento.
Mentre quindi l’orientamento all’apprendimento, in relazione a quanto detto a proposito della
motivazione e dell’auto-efficacia, risulta funzionale alla formazione e al transfer, l’orientamento
alla prestazione non offre nessuna sicurezza in tal senso. “La tendenza verso l’uno o l’altro profilo
è considerata, prevalentemente, come una disposizione personale che dipende soprattutto dalle
teorie implicite che le persone elaborano a proposito delle abilità cognitive e dell’intelligenza.
L’orientamento all’apprendimento matura in persone convinte che le abilità siano malleabili,
modificabili, acquisibili e oggetto di sviluppo grazie all’esperienza e all’impegno. L’orientamento
alla prestazione è tipico invece di persone che considerano l’abilità e l’intelligenza come entità
43
Fraccaroli fa riferimento ad una ricerca degli autori S.B. Button, J.E. Mathieu, D.M. Zajac, Goal orientation in
organizational research: A conceptual and empirical foundation, in “Organizational Behavior and Human Decision
Making”, 67, pp. 26-48.
109
fisse, statiche, incontrollabili e non modificabili grazie allo sforzo individuale o alla partecipazione
a iniziative di formazione”(corsivo nostro) (ivi, p. 117).
Fatta salva la natura disposizionale dell’orientamento allo scopo è inevitabile l’influenzamento da
parte di fattori di contesto, quali le caratteristiche dell’organizzazione di lavoro (si veda ad es. le
politiche di gestione del personale) o la struttura del percorso di formazione. Un’organizzazione
orientata alla prestazione o una non adeguata presentazione degli obiettivi formativi potrebbero
risultare ostacolanti la motivazione, il sentimento di auto-efficacia e l’apprendimento ovvero
pregiudicanti gli esiti della formazione anche in soggetti che presentano un’inclinazione positiva di
queste caratteristiche personali. In tal senso, intervenire sui fattori situazionali sopra detti,
investendo in termini di orientamento all’apprendimento, può risultare determinante ai fini del
successo della formazione.
In conclusione, la breve valutazione delle caratteristiche personali del soggetto in formazione ci ha
dato la possibilità di mettere in evidenza, confermando quanto già detto in precedenza, quanto la
dimensione individuale svolga un ruolo centrale nel processo di formativo. Seppur vero che i fattori
disposizionali presi in esame risultano influenti a tal punto da condizionare gli esiti della
formazione e dover essere necessariamente tenuti in considerazione lungo tutto l’iter formativo, è
ancor più vero che tali informazioni non possono essere assunte come se isolate: debbono essere
calate nel vivo del rapporto tra individuo e organizzazione, nell’ottica della progettualità di carriera
del singolo e in generale delle risorse psicosociali a disposizione (ad es. la condizione
professionale, la posizione lavorativa, il bagaglio culturale di riferimento, la qualità delle
esperienze pregresse, le rappresentazioni interiorizzate della formazione).
In linea generale, è possibile affermare che “l’apprendimento e la riuscita di un corso dipendono da
fattori interni all’individuo, da fattori organizzativi, dalla qualità del disegno formativo e
dall’interazione tra questi tre elementi” (ivi, p. 128). Vedremo nel prossimo paragrafo come
l’apprendimento, nocciolo centrale dell’esperienza di formazione, pur assumendo sfumature
teoriche differenti, è un vissuto soggettivo che coinvolge l’individuo nella sfera dell’interiorità
cognitiva e affettiva, sociale e culturale, secondo un continuum identificabile con la crescita umana
lungo tutto il percorso della vita (life long learning).
3.2.
Definizioni di apprendimento e contributi teorici
Lo scenario entro il quale si collocano i fenomeni organizzativi, abbiamo visto all’inizio di questo
lavoro, è oggi radicalmente cambiato rispetto ad alcuni decenni fa. Sono mutati gli equilibri interni,
110
talmente tanto in profondità, nel tessuto connettivale del sistema-società, che spesso, per mancanza
di uno sguardo adeguato alla lettura dei particolari, accade di trascurare quelle che sono le
contingenze emergenti da parte di chi vive questo sistema giorno dopo giorno. La complessità delle
relazioni industriali ha stimolato la ricerca di nuovi rapporti, la turbolenza ambientale ha richiesto e
richiede nuovi livelli di conoscenza, il cambiamento tecnologico esige nuove capacità, dinamismo,
interattività.
Conseguentemente all’aumento della complessità di ciascun sistema – sia organizzativo, politico,
economico e sociale – è andata crescendo anche la complessità dei ruoli organizzativi ai quali si
richiedono maggiore coinvolgimento individuale, collaborazione e pro-azione, un ampliamento
della conoscenza dell’ambiente esterno e, insieme, una sempre più spiccata capacità di analisi e
dominio della propria area soggettiva e personale.
In termini più generali si può ritenere che gli “attori” organizzativi siano chiamati ad avere:
-
una maggiore autonomia e coerenza decisionale;
-
un orientamento mirato agli obiettivi e quindi all'efficacia;
-
una centralità di governo dei processi e un’integrazione delle funzioni;
-
un contemporaneo comporsi di specializzazione tecnica e un superamento delle logiche
rigidamente specialistiche.
La sfida è ardua e necessita del supporto di una formazione diversa, rinnovata, attenta ai particolari
di cui si parlava poco più sopra. Richiamando la riflessione mossa da Quaglino a proposito degli
aspetti contraddittori della formazione odierna, l’urgenza è quella di rifocalizzare l’attenzione sul
soggetto promuovendo la destrutturazione di metodologie d’insegnamento accademiche e
contenutistiche a favore di percorsi di apprendimento attivo in cui venga ridotta al minimo la
distanza tra i contenuti veicolati e i contenuti del lavoro, tra il luogo in cui l’esperienza di
formazione si svolge e il luogo del lavoro, spazio di vita, di storia personale e organizzativa dove è
possibile trasferire e tradurre in pratica ciò che si è appreso.
Alla luce di ciò la definizione di formazione come trasferimento di conoscenza, promozione,
diffusione, aggiornamento di sapere non sembra più attuale: “la formazione è percorso educativo, il
suo obiettivo è l’apprendimento: l’attivazione, il sostegno, il consolidamento dell’apprendimento”
(Quaglino, 2006, pag. 120). La grande espansione che si è avuta negli anni ‘90 essenzialmente in
termini di “alfabetizzazione o rialfabetizzazione professionale” appare oggi superata. Le nuove
sfide della formazione sono essenzialmente tre: “apprendere a cambiare, apprendere ad
111
apprendere, apprendere da sé” (ivi, p. 121). Il soggetto e il suo contesto sono i due punti da cui
ripartire.
Una formazione che intenda accogliere questa necessità deve necessariamente affrontare una
revisione del senso dell’apprendere. A tal proposito ci sembra interessante fare riferimento ad un
contributo di Alberto Munari (“Il senso dell’apprendere”, 1998):
“Il senso dell’apprendere ha almeno due sensi: il senso come direzione, come movimento verso una meta,
come aumento, progressione, crescita; il senso come significato, come valore, come importanza attribuita
all’atto di apprendere o al sapere appreso” (Munari, in Margiotta, 1998, p. 35).
Il senso dell’apprendimento come direzione richiama l’idea di un progredire lineare e cumulativo
tipicamente riconosciuto all’atto dell’apprendere: un andamento per fasi che da uno stato di scarsa
conoscenza ed esperienza porta verso uno stato di maggiore possesso e articolazione dei saperi e
dei vissuti, ovvero di maggiore consapevolezza. “Che le conoscenze da acquisire siano da ricercare
all’esterno o all’interno del soggetto […] oppure nell’interazione fra questi due campi – come
suggerisce invece la posizione costruttivista – la direzione è una sola: dal meno al più, dal minore
al maggiore, dal povero al ricco, dall’inadeguato all’adeguato, dall’ignorante al sapiente. […] Da
poche decine di anni si fa strada invece la consapevolezza che il cammino dell’apprendere è molto
più tortuoso di quanto non si pensasse, che non si muove necessariamente dal meno al più ma può a
volte portare verso luoghi profondamente diversi e incommensurabili con le tappe precedenti, che
può anche riportare indietro a rivisitare luoghi già conosciuti, che può anche peggiorare, e non
migliorare, la condizione di chi lo percorre” (ivi, pp. 35-36). L’apprendere, afferma Munari (1998),
appare sempre più:
-
un processo fondamentalmente imprevedibile,
-
multidimensionale e non-lineare,
-
caratterizzato più dalle sue mutazioni che dalla sua stabilità,
-
sede di causalità circolari, di retroazioni positive e di gerarchie intricati,
-
integrante diversi processi autopoietici e semiogenetici.
La ritrovata centralità del soggetto che apprende va a scontrarsi con la visione classica
dell’apprendimento,
predisposizione
naturale,
passaggio
passivo
di
saperi,
processo
decontestualizzato dalla storia personale dell’individuo e dall’interpretazione che egli elabora del
proprio percorso cognitivo. Di qui il problema del significato dell’apprendimento e la necessità di
lavorare sul senso come significato di cui si è detto sopra. “Il significato dell’apprendere, inteso
non più come necessità quasi biologica, ma come ricerca e creazione attiva di senso, come
posizionamento cosciente del soggetto apprendente nei confronti sia di ciò che viene appreso sia
112
del processo stesso dell’apprendere, come elaborazione di un rapporto consapevole con il sapere, è
diventato oggi un punto di riferimento obbligato per ogni intrapresa educativa” (ivi, p. 41).
La riscoperta del significato dell’apprendere si apre a nuove pratiche formative, in modo specifico
nel caso della formazione degli adulti, alla luce delle numerose e diversificate spinte teoriche
elaborate in anni recenti. Tra queste è possibile riconoscere, funzionalmente al nostro progetto di
ricerca, due principali filoni di studio che, “all’interno di una sostanziale visione costruttivistica
dell’apprendimento ormai consolidata, valorizzano i principali elementi di novità rispetto alle
concezioni classiche” (Fabbri, 2003, p. 56): la visione dell’apprendimento sociale e situato e la
visione dell’apprendimento come metacognizione, anticipata sopra dalle affermazioni di Munari.
Mentre il primo filone di studi “(situated and social learning) accorda priorità agli aspetti
pragmatici dell’apprendimento, fino a considerare l’apprendimento come una questione anche, ma
non principalmente, cognitiva”, il secondo filone (self-regulated learning) “arricchisce
ulteriormente il ruolo del soggetto conoscente, non tanto quanto costruttore della conoscenza che
acquisisce, quanto piuttosto perché regista del processo di acquisizione di senso” (ibidem).
Nonostante possa essere riconosciuta alla prospettiva cognitivista una matrice costruttivista, in
quanto le strutture cognitive, le rappresentazioni della conoscenza custodite nella memoria,
vengono costruite dall’individuo attraverso procedure conversazionali volte ad attribuire forma e
senso alle esperienze di vita, la matrice costruttivista a cui si fa riferimento in questa sede
concepisce il coinvolgimento del soggetto conoscente in maniera ancora più attiva e soprattutto
contestualizzata: è l’interazione umana ovvero la dinamica sociale e storico-culturale che fanno la
differenza. Apprendimento, comprensione e costruzione della conoscenza condivisa sono
considerati come fenomeni eminentemente sociali: sistemi simbolici, artefatti culturali e
linguaggio, ovvero gli strumenti tramandati attraverso la cultura nel corso del divenire storico e le
relazioni tra attori sociali sono considerate parte integrante dello sviluppo concettuale.
Partiamo dall’analisi di alcuni temi fondamentali all’interno del pensiero cognitivista per
evidenziare l’evoluzione in senso sociale e situato, da un lato, e metacognitivo dall’altro lato, della
riflessione in materia di apprendimento. Ovviamente in questa sede non è possibile trattare in
maniera approfondita tutte le argomentazioni così come meriterebbero. Pur nello spirito di
necessaria sintesi, faremo leva su alcune chiavi tematiche che risultano strutturanti il panorama
teorico del nostro lavoro applicativo.
Per quanto concerne il profilo cognitivista, l’apprendimento viene identificato con l’immagine di
un processo di elaborazione delle informazioni mediante il quale l’individuo conoscente acquisisce
sapere e competenze. Le tappe di questo processo permettono di inquadrare i diversi processi
113
cognitivi attivati dal soggetto che apprende, dando spiegazione del modo in cui si accede alla
conoscenza. “I processi mentali coinvolti nell’apprendimento riguardano la ricezione di
informazioni attraverso il sistema sensoriale [In], la loro trasformazione e adattamento all’interno
delle conoscenze già in possesso dell’individuo, la rappresentazione mentale della conoscenza, il
deposito della memoria a lungo termine e il recupero nel momento in cui la persona deve esibire
una prestazione [Out]” (Fraccaroli, 2007, p. 52).
Affinché questo iter di immagazzinamento, trasformazione e trasferimento delle informazioni
possa aver luogo, è necessaria l’attivazione di una serie di funzioni operatorie inerenti a:
 memoria: distinta in memoria a breve e lungo termine permette di archiviare le informazioni senza
creare sovraffollamento; la memoria a breve termine incamera i dati provenienti dal sistema
sensoriale che, a causa dei continui afflussi da parte dell’esterno, debbono essere selezionati in
quantità ridotte e conservati nella memoria a lungo termine.
 attenzione: nell’apprendimento funge da sostegno per la memoria a breve termine durante le
procedure di selezione dei dati provenienti dall’esterno o recuperati dalla memoria a lungo termine
e durante i vari processi di elaborazione delle informazioni in ingresso e in uscita. Più il compito di
apprendimento è complesso, più è necessario il sostegno delle risorse attentive e motivazionali
come già visto nel precedente paragrafo.
 sapere dichiarativo e procedurale: il primo sta ad indicare le conoscenze relative a fatti e cose utili
ad eseguire un determinato compito. Tali conoscenze sono rese operative attraverso un processo
compilativo che integrando processi cognitivi, motori, percettivi, attentivi permette di calare la
conoscenza nella pratica. La fase compilativa favorisce la costruzione di procedure specifiche per
realizzare una certa prestazione. Si costruisce cioè un sapere procedurale, relativo al come fare le
cose in una data situazione, che deriva da quello dichiarativo ma incorpora le esperienze concrete.
Il soggetto conoscente ha così la possibilità di svolgere compiti secondo automatismi che ne
limitano il dispendio di risorse cognitive.
 rappresentazioni mentali: la realtà conosciuta viene rappresentata nella mente ovvero interiorizzata
e organizzata secondo “schemi, mappe cognitive e modelli mentali” che guidano l’azione. 44 Nella
44
Gli “schemi” contengono insiemi di conoscenza derivata dalla passata esperienza e guidano i processi di
esplorazione percettiva (selezione e adattamento degli stimoli); le “mappe cognitive” contengono una rappresentazione
semplificata della realtà e costituiscono una fondamentale guida per l’azione; i “modelli mentali” costituiscono uno
strumento di comprensione della realtà, una sorta di modello operativo che simula in modo semplificato i fenomeni
reali (Fraccaroli, 2007, pp. 53-54). Fraccaroli cita uno studio di G.P. Hodgkinson, The interface of cognitve and
industrial, work and organizational psychology, in “Journal of Occupational and Organizational Psychology”, 76, pp.
1-25.
114
letteratura cognitivista si parla di “script, frame, schemi, format” (Schaffer, 2008) che, in sede di
formazione, sono al tempo stesso oggetto e strumento del training.
 trattamento delle informazioni: gli input percepiti dal mondo esterno possono essere integrati con i
dati depositati nella memoria relativi alle esperienze passate, i quali di fronte a stimoli nuovi si
attivano allo scopo di comprenderli, renderli familiari e adattarli agli schemi pre-esistenti
(trattamento top-down); i nuovi stimoli possono però influenzare direttamente la struttura di
conoscenza e l’azione del soggetto senza il filtraggio dell’esperienza passata (trattamento bottomup). È il caso di intuizioni, scoperte o contenuti innovati che in quanto tali favoriscono la
costruzione di nuove strutture mentali. In linea generale, i compiti complessi risultano scomponibili
in componenti routinarie e divergenti: mentre le prime prevedono modalità di trattamento ed
esecuzione automatici, le seconde richiedono maggiore impegno e concentrazione di abilità di
diagnosi, problem solving, memoria, ideazione.
 comprensione e generazione della conoscenza: le persone in formazione non recepiscono i
contenuti proposti in maniera automatica; oltre ai processi di trattamento delle informazioni è
necessario un processo attivo di manipolazione dei dati in ingresso (semplificazione,
schematizzazione, integrazione o innovazione conoscitiva) volto alla vera comprensione delle
informazioni trasmesse, alla generazione di conoscenze e competenze che possano risultare utili e
congruenti con le risorse del singolo formando.
 trasferimento delle competenze: il trasferimento delle conoscenze acquisite in sede di training in
ambito lavorativo è la componente che contraddistingue i processi di apprendimento che hanno
luogo in sede di formazione da quelli che avvengono in ambito educativo. Il transfer non è
automatico ovvero non avviene attraverso il semplice recupero delle informazioni depositate nella
memoria. È necessario un processo di generalizzazione, di “bridging”, che permette di cogliere i
significati dei contenuti veicolati in formazione e interiorizzati, estendendoli a situazioni diverse
ma caratterizzate da meccanismi di funzionamento simili.
Come è visibile dalla breve analisi appena realizzata, le scienze cognitive hanno contribuito a
spostare l’interesse degli studi sull’apprendimento dai fattori comportamentali della prestazione,
come nel caso dei modelli della tradizione associazionista 45, alle attività mentali preparatorie,
“indicando la rotta di una formazione orientata al pensiero e all’elaborazione mentale e non solo al
comportamento
lavorativo”
(Fraccaroli,
2007,
p.
36).
La
rivoluzione
cognitivista,
45
L’apprendimento associativo si riferisce alle formulazioni dell’apprendimento per tentativi ed errori di Thorndyke,
del condizionamento classico di Pavlov e del condizionamento operante di Skinner e dell’apprendimento latente di
Tolman e Honzik. Per approfondimenti: R. Canestrari, A. Godino, Trattato di psicologia, Clueb, Bologna, 1997; L.
Mecacci, Storia della psicologia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1992.
115
problematizzando le concezioni associazioniste, ha prodotto una visione dell’apprendimento basata
sulla nozione di processo, alternativa a quella di riflesso identificativa dell’impostazione
comportamentista.
“[…] le grandi teorie classiche dell’apprendimento ci aiutano sempre meno nel ragionare di e per la
formazione. Il difetto fondamentale di queste teorie è nella loro lontananza da quei confini di adultità ed
esperienza rispetto ai quali, all’opposto, la formazione va declinata”.
È evidente come dai primi studi sull’apprendimento e all’interno della stessa corrente cognitivista,
si sia verificata un’apertura non solo a favore della riabilitazione del soggetto conoscente ma anche
dei suoi vissuti esperenziali e del contesto di vita. Le funzioni operatorie di cui si è detto sopra, in
linea generale ma ancor più nei contesti di lavoro e organizzativi, rischiamo infatti di apparire
astrazioni qualora non vengano contestualizzate entro concrete situazioni di vita e di fronte a
specifiche competenze da esercitare o costruire. Un contributo in tal senso è dato dagli studi
sull’expertise che in ambito cognitivista rappresentano una significativa apertura nei confronti di
un approccio situato all’acquisizione delle competenze. Il soggetto esperto si distingue dal novizio,
dal non-esperto, per conoscenza, esperienza, per prestazioni elevate entro un determinato contesto e
quindi per competenze specifiche. Gli esperti possiedono un sistema di conoscenza più
approfondito e meglio organizzato in memoria secondo sequenze di pensiero ordinate e
interconnesse con le azioni. Hanno elevata capacità di metacognizione, di comprensione dei
problemi da risolvere, di definizione degli obiettivi da raggiungere e pianificazione delle strategie
d’azione, di analisi dei feed-back e conseguente auto-regolazione, di comunicazione e
cooperazione. In quanto indicatori di prestazioni eccellenti, queste capacità entrano a far parte della
progettualità degli interventi di formazione che, per loro stessa natura, ambiscono al trasferimento
di skills (competenze necessarie a svolgere un compito) che però dovrebbero risultare riconoscibili
non solo dal punto di vista contenutistico/conoscitivo ma anche situazionale e quindi potersi dire
“originali”.
“In molti casi la prestazione professionale competente è un contributo anche originale rispetto allo stretto
adempiento di ordini e di istruzioni formali e, comunque, essa si rivela in grado di far padroneggiare le
incertezze e l’ampia variabilità della situazione lavorativa. Tale contributo non si esaurisce in una risposta
automatica, ma deriva soprattutto da un lavoro mentale importante caratterizzato: a) da processi cognitivi,
cioè dalla percezione/interpretazione della situazione, dalla pianificazione dei corsi di azione, dal controllo
dei risultati, dall’anticipazione delle varianze e degli imprevisti; b) da processi psicosociali caratterizzati
dal riconoscimento della possibile efficacia del proprio agire, dal coinvolgimento personale nell’azione
lavorativa, dal tipo di sé professionale costruito dal soggetto nel corso della sua storia biografica e sociale”
(corsivo nostro) (Sarchielli, 2003, p. 204).
La competenza, afferma Sarchielli, è un concetto articolato su livelli e da dimensioni differenti:
possiede una “connotazione di potenzialità” e una “connotazione situazionale”: la prima si lega alle
conoscenze generali e di senso comune della propria comunità professionale, a conoscenze e
116
singole abilità tecniche di prestazione, a capacità di trasferimento di tali abilità in compiti diversi,
ad atteggiamenti e caratteristiche personali (motivazione, auto-efficacia, personalità), alla
metacognizione. La seconda, invece, si lega al principio di derivazione storico-culturale (teoria
dell’attività) secondo cui le azioni competenti si articolano nei contesti di esperienza e di pratica
lavorativa in stretta relazione con le condizioni di esercizio dell’attività stessa.
“Si tratta, dunque, di un concetto assai ampio che risulta difficilmente utilizzabile senza ulteriori
specificazioni che tengano conto delle richieste dell’ambiente lavorativo, delle capacità della persona e
delle strategie o metodi usati per collegare richieste e capacità. In questo senso, è implicito un lavoro di
sintesi personale nella progressiva formazione del lavoratore competente con cui conoscenze ed abilità si
connettono per un’azione finalizzata. In altri termini, attraverso l’esperienza si struttura una particolare
configurazioni delle cognizioni e delle abilità finalizzata alla soluzione di problemi, all’azione concreta
efficace. È tale sintesi personale che contraddistingue una risposta competente; e la risposta di un esperto
appare fluida, spontanea, economica, autoregolata” (corsivo nostro) (ibidem).
L’individuo competente si dimostra pertanto in grado di utilizzare con padronanza le proprie
risorse in termini di conoscenze abilità, selezionandole, controllandole e indirizzandone
l’applicazione operativa secondo gli obiettivi da raggiungere. Tale processo, connubio di sapere ed
esperienza, risulta auto-diretto. L’auto-direttività, in quanto tale, richiama la funziona di
metacognizione, di cui si è fatto accenno in precedenza e che rappresenta una dei nuovi panorami
di studio in materia di apprendimento.
Apprendimento metacognitivo
La metacognizione, il pensare ai pensieri, è una forma di conoscenza od anche “coscienza” 46 ed ha
per oggetto le proprie abilità cognitive e i propri processi cognitivi. Gli esseri umani hanno infatti
la capacità di pensare e, in secondo ordine, di pensare ai pensieri, visualizzandoli con distacco,
analizzandoli, osservandone le evoluzioni e quindi valutandone l’efficacia al fine di modificare, se
necessario, il proprio comportamento. Se gli atti mentali di primo livello sono identificabili con
“tutti i contenuti (rappresentazioni o simili) ed i processi (di elaborazione) a supporto delle nostre
normali funzioni cognitive; l’attività metacognitiva indica i processi di rappresentazione e di
elaborazione che hanno per oggetto quegli stessi contenuti e processi” (Fabbri, 2003, p. 59). La
consapevolezza in merito agli schemi entro cui viene organizzata la propria esperienza e ai processi
mentali
sottesi
alle
proprie
scelte
di
comportamento
risulta
fondamentale
ai
fini
dell’apprendimento, ovvero della libertà di pensiero, del controllo di sé e del principio di
modificabilità cognitiva. Il richiamo è a quegli ambiti di studio, nell’ambito di questo progetto ne
posso essere un esempio Gardner (2004) con la teoria delle intelligenze multiple o Feuerstein
46
“Tra le numerose attività della mente, una delle emergenze più significative è proprio la coscienza, intesa come
attività riflessiva della mente su se stessa, sulle proprie idee e i propri pensieri” (Morin, Pasqualini, 2007, p. 42).
117
(2008) con il programma di arricchimento strumentale, sulla base del quali l’individuo ha
possibilità di evolvere, funzionalmente ai fattori contestuali, senza limiti di età, durate l’intero arco
di vita. 47
Il concetto di metacognizione è riconducibile agli studi di John Flavell che negli anni Settanta
sviluppa questa tematica secondo due sotto-componenti: 1) “la conoscenza metacognitiva” e 2) “il
controllo e il monitoraggio metacognitivi” (Schaffer, 2008, p. 130) 48. Alla luce delle abilità
cognitive che l’individuo acquisisce nel corso dello sviluppo, egli risulta innanzitutto capace di
identificarsi come persona pensante, artefice di conoscenza, dotata di meccanismi di
funzionamento cognitivo quali pensiero, memoria e ragionamento attraverso i quali approcciarsi
alla realtà esterna da sé e comprendere tutte le caratteristiche dei compiti da affrontare, ma al
contempo, astraendo dagli stessi compiti, monitorare e controllare il proprio operato al fine di
scegliere strategie cognitive efficaci al raggiungimento di determinati obiettivi, quindi autoregolare
e modificare il proprio agire.
Così facendo il bagaglio cognitivo che l’individuo si costruisce a stretto contatto con la realtà di
vita, sociale e culturale a cui appartiene, sottoforma ad es. di rappresentazioni, scripts, frames,
costituisce un accumulo di contenuti di conoscenze contestuali che generano comportamenti e
schemi d’azioni situazionali che risultano orientanti e sensati all’interno degli specifici contesti in
cui vengono generati. Nel momento in cui, però, ci si trova di fronte ad una situazione nuova,
simile ma non identica a quelle già conosciute e gli schemi d’azione posseduti risultano inadeguati,
solo la consapevolezza di possedere determinati schemi cognitivi, ovvero di essere inclini a pensare
una situazione in un certo modo, permette di rivedere tali schemi, correggerli o sostituirli, pensando
se stessi e la situazione presa in oggetto diversamente. La capacità di metacognizione permette di
accedere ad un livello di possibilità conoscitive superiore. Questo vale soprattutto nel caso
dell’apprendimento esperienziale, a proposito del quale l’esistenza di limiti dal punto di vista del
funzionamento metacognitivo impedisce lo sviluppo di nuova conoscenza e di nuovi
comportamenti che invece potrebbero e dovrebbero emergere dal confronto con la realtà e con
l’esperienza.
47
Tra i fattori capaci di promuovere lo sviluppo delle abilità cognitive sono fatti rientrare gli oggetti e i materiali resi
significativi dall’ambiente in cui si agisce, ma anche l’assenza di circostanze sfavorevoli al loro emergere nonché
l’affrontare esperienze appropriate e la giusta motivazione a perseguire una comprensione del mondo corretta ed
efficace. Gardner parla di “conoscenza intelligente”, una modalità di conoscenza capace di promuovere l’attivazione
dei meccanismi di codifica delle informazioni nel sistema nervoso, favorendo l’utilizzo reiterato dei dispositivi di
elaborazione e la loro continua integrazione. Per approfondimenti: Gardner H., Formae mentis. Saggio sulla pluralità
dell'intelligenza, Feltrinelli, Milano, 1987. Per il principio di modificabilità cognitiva: R. Feuerstein, R.S. Feuerstein,
L. Falik, Y. Rand, Il Programma di Arricchimento Strumentale di Feuerstein, ed. Erikson, 2008.
48
Per approfondimenti: J.H. Flavel, H.M. Wellman, “Metamemory”, in R.V. Kail, J.W. Hagen (a cura di), Perspectives
on the Development of Memory and Cognition, Erlbaum, Hillsdale, NJ, 1977; J.H. Flavel, Metacognition and cognitive
monitoring: a new area of cognitive-developmental inquiry, in “American Psychologist”, 34, 1979.
118
Per quanto concerne il rapporto tra apprendimento ed esperienza (experiential learning) è
inevitabile il riferimento al contributo di Kolb (1984), ideatore di un modello sequenziale
all’interno del quale l’apprendimento assume configurazioni diverse: innanzitutto l’esperienza
concreta, l’osservazione riflessiva, la concettualizzazione astratta, la sperimentazione attiva fonte
di nuova esperienza. Ogni fase sottende il coinvolgimento di competenze diverse, ovvero stili di
apprendimento e strategie di sense-making che “si ricollegano alla transizione tra le quattro tappe
del ciclo e che vogliono esprimere la qualità di pensiero che “distingue” i differenti momenti
dell’apprendere” (Quaglino, 2006, p. 124). Nella dimensione processuale dell’apprendimento di cui
parla Kolb, “è l’esperienza ad ancorare l’apprendimento e non viceversa” (ivi, p. 123): ciò significa
che, la capacità di riflessione sull’esperienza, come premessa per una riconcettualizzazione della
stessa, risulta funzionale all’espletamento delle potenzialità di significato dei vissuti esperenziali e,
in una prospettiva metacognitiva, non è affatto scontata.
La riflessione come mezzo attraverso cui trarre significato dall’esperienza che impone una nuova
autodirezione nell’apprendimento è al centro del lavoro di Mezirow (1991) a cui si deve la teoria
dell’apprendimento come trasformazione.
“La riflessione è la dinamica centrale dell’apprendimento intenzionale, del problem solving e della verifica
di vanità che si effettua attraverso la dinamica razionale. L’apprendimento intenzionale mette al centro
l’esplicazione del significato di un’esperienza, la reinterpretazione di quel significato, o l’applicazione di
esso in un’azione meditata” (Mezirow, 2003, p. 101).
La mancata comprensione di come, dove, quando e perché si usano determinate strategie cognitive
ovvero la resistenza a mettere in discussione i propri schemi di pensiero e a cambiare le proprie
scelte comportamentali possono essere imputabili a numerosi fattori, primi tra tutti delle
carenze/difficoltà a livello cognitivo. A tal proposito sembra molto interessante ciò che afferma
Bruner (2003; 1986): “l’attività metacognitiva (automonitoraggio e autocorrezione) compare nelle
persone in modo molto diseguale, varia col variare dello sfondo culturale e, cosa forse ancora più
importante, può essere insegnata con successo alla stregua delle altre abilità” (Bruner, 2003, p. 83).
In questa affermazione è racchiuso qualcosa di più dell’interpretazione della metacognizione da
parte dell’autore, ma la sua visione dello sviluppo e dell’apprendimento, rappresentativa
del’incontro tra il filone degli studi cognitivisti e quello di orientamento situato, ovvero sociale e
culturale le cui caratteristiche possono essere qui brevemente riassunte: innanzitutto, accogliendo
l’impianto teorico di Vygotskij, Bruner afferma che “[…] l’uomo è soggetto al gioco dialettico tra
natura e storia, tra le qualità che possiede come creatura della biologia e quelle che gli
appartengono come prodotto della cultura” (ivi, p. 88) e sulla base di ciò “in nessun caso può darsi
un «io» indipendente dalla propria esistenza storico-culturale” (ivi, p. 83); inoltre “l’apprendimento
concettuale è un’impresa collaborativa” (ivi, p. 162) all’interno della quale il linguaggio e l’aspetto
119
relazionale ad esso sotteso svolgono un ruolo strutturante il pensiero e la conoscenza. Esiste cioè
una “zona di sviluppo prossimale” 49 all’interno della quale una persona dotata di maggiore
competenza può aiutare una persona più giovane e/o meno competente a raggiungere un livello più
elevato di cognizione mediante il quale poter accedere a capacità di riflessione e astrazione, al
controllo auto-diretto e consapevole dei propri pensieri e delle proprie azioni (metacognizione).
Infine, come nell’apprendimento del linguaggio, anche “le varie forme di acquisizione di
conoscenze hanno in comune per lo meno un aspetto essenziale, e precisamente l’esistenza di una
zona di sviluppo prossimale e di procedimenti atti a favorire l’ingresso in tale zona e il suo
progressivo attraversamento” (ivi, pp. 96-97) sotto la guida di un soggetto più abile che funge da
“sostituto” di coscienza.
Bruner (2003) lega il tema della metacognizione al concetto di “egocentrismo” che, a suo avviso,
non è affatto tipico della fanciullezza, come aveva sostenuto Piaget, ma può appartenere ad ogni
stadio di sviluppo. Si è egocentrici o, detto altrimenti, incapaci di assumere la prospettiva dell’Altro
quando manca meta-conoscenza ovvero quando non si comprende la situazione entro la quale si
opera. Il superamento dell’egocentrismo in sempre nuove e più complesse situazioni offre la
possibilità al soggetto che apprende di costruirsi una teoria della mente, che rappresenterebbe la
base per l’apprendimento consapevole. L’attività metacognitiva, quindi, svincolata dal fattore età,
comparirebbe nelle persone in modo disuguale, in rapporto al loro sfondo culturale e alle possibilità
da esso offerte, ma può essere insegnata con successo come altre abilità. Per intervenire in tal senso
è necessario prima di ogni altra cosa individuare le caratteristiche della cornice storico-culturale
entro la quale ci si muove e gli strumenti di cui si dispone, quindi prenderne le distanze, astraendo,
per poter osservare e meglio comprendere i meccanismi che regolano il funzionamento della
propria mente e del proprio agire.
Dal punto di vista della formazione, a conferma del valore riservato alla formazione d’indirizzo
psico-sociale, promuovere un apprendimento di questo tipo significa necessariamente investire
risorse sugli aspetti negoziali della costruzione del significato ovvero su tutti quei fattori culturali
che attraverso il linguaggio e le istituzioni storiche (es. scuola, lavoro, scienza, narrativa, ecc.)
strutturano i processi di conoscenza e le possibilità di evoluzione umana. L’attività formativa è
49
La zona di sviluppo prossimale “è la distanza tra il livello evolutivo reale, determinato in termini di autonoma
capacità di soluzione dei problemi, e il livello di sviluppo potenziale, determinato in termini di capacità di soluzione
dei problemi sotto la guida di un adulto o in collaborazione con coetanei più capaci”. “L’apprendimento umano
presuppone una specifica natura sociale ed un processo atto a consentire ai bambini di far propria la vita intellettuale di
coloro che li circondano”. L.S. Vygotskij, Mind in Society: The Development of Higher Psychological Processes,
Harvard University Press, Cambridge (Mass), 1978, pp. 86-89, in Bruner J. S., La mente a più dimensioni, Editori
Laterza, Roma-Bari, 2003 (ed. orig. 1986), pag. 91. Questa riflessione sta alla base della focalizzazione di Bruner sui
concetti di scaffolding (fornire un’impalcatura) e di format mediante i quali egli interpreta la funzione tutoria
dell’adulto che agisce come mediatore di cultura nei primi anni di sviluppo del bambino.
120
attività “comunitaria” all’interno della quale i contenuti proposti costituiscono l’obiettivo del
training in virtù non solo del senso che veicolano ma dell’esperienza di confronto e
compartecipazione, ovvero di creazione e scoperta di senso, fruibile da persone che condividono la
medesima cultura d’appartenenza. Così facendo, colui che apprende è al tempo stesso “agente di
conoscenza e destinatario della trasmissione di conoscenza” (ivi, p. 156), consumatore e creatore di
cultura.
“Da queste considerazioni discende che il linguaggio dell’educazione, se vuole essere uno stimolo alla
riflessione e alla creazione di cultura, non può essere il così detto linguaggio incontaminato dei fatti e
dell’«oggettività». Esso deve esprimere una posizione e sollecitare la contrapposizione; e in questo
processo deve fare spazio alla riflessione, alla metaconoscenza. A consentirci di raggiungere un livello
intellettuale più elevato è proprio questo: il processo di oggettivazione nel linguaggio e nell’immagine di
ciò che si è pensato e, poi, la riflessione e la riconsiderazione di esso” (ivi, p. 158).
Prima di addentrarci nella visione dell’apprendimento situato, ci soffermiamo su un altro contributo
interessante ai fini dell’inquadramento del tema dell’apprendimento dal punto di vista delle teorie
di nuova generazione. Il riferimento è a Bateson e alla sua nozione di “ecologia della mente”
(2004; 1972). Ricollegandoci a quando detto nel primo capitolo a proposito del cambiamento o per
meglio dire della concezione del cambiamento proposta entro quella di apprendimento, la posizione
dell’autore risulta interessante ai fini del nostro filo argomentativo in quanto, pur partendo da
un’impostazione cognitivista di acquisizione dei dati, si concentra su un’idea di apprendimento in
cui risultano centrali i concetti di “contesto”, “significato” e “cambiamento” ovvero la modifica dei
contesti e la trasformazione delle prospettive di significato funzionalmente al percorso evolutivo
umano. Nella classificazione proposta da Bateson, si distinguono quattro differenti livelli di
apprendimento (Bateson, 2005).
Il “livello zero” è indicativo dell’apprendimento associativo, detto anche semplice o meccanico, si
fonda principalmente sulla reazione stimolo–risposta e dà origine alla formazione di abitudini
senza provocare modificazioni in colui che apprende. L’apprendimento del “livello uno” è
strettamente legato al contesto, varia a seconda delle sue caratteristiche, segue schemi di
significazione consolidati. Insieme ai livelli “due” e al “tre” comporta un cambiamento in chi
apprende. È indicativo di un apprendimento di tipo istituzionale classico, quello ad es. delle
funzioni scolastiche. In questo contesto è l’insegnante a stabilire che cosa deve imparare l’allievo
ed è lui a definire i ritmi e la qualità dell’insegnamento da erogare. Questo tipo di apprendimento –
detto anche complesso – coinvolge funzioni superiori dell’apparato psichico come la percezione,
l’intelligenza
e,
in
generale,
i
processi
cognitivi
propri
dell’uomo.
Differentemente
dall’apprendimento “zero”, dove la causa (lo stimolo) è direttamente, linearmente legata all’effetto
(la risposta), nell’apprendimento “uno” un effetto può diventare causa di qualcos’altro: il processo
121
non è lineare ma ricorsivo e circolare. Ciò significa, ad esempio, che in un setting di formazione è
anche il formatore ad apprendere dal formando e non solo l’inverso. Con il “livello due” Bateson si
riferisce a funzioni di valutazione complesse e sofisticate, quali, ad esempio, la consapevolezza di
esistere, il senso dell’esistenza, la capacità di provare sentimenti sui propri sentimenti, il riflettere
sui propri pensieri (meta-cognizione). Si tratta di una forma di apprendimento continuo e
sistematico in cui il soggetto “apprende ad apprendere” (deuteroapprendimento), facendo
esperienza e modificando le proprie risposte comportamentali in un contesto culturale e di
relazione con altre persone. È quindi una forma di apprendimento cognitivo superiore, non
programmabile, basato sulla capacità di rivedere gli schemi di significato posseduti e di fornire
risposte adeguate agli stimoli ricevuti nel contesto d’azione. “All’interno di un luogo lavorativo
l’Apprendimento II rappresenta la fase nella quale un soggetto impara ad essere un lavoratore.
Tutto ciò avviene soprattutto sottoforma di socializzazione tacita […] o, anche sotto forma di
strategia consapevole […]” (Engestrom, in Zucchermaglio, Alby, 2006, p. 222). In ultimo,
l’apprendimento del “livello tre” comporta una trasformazione di prospettiva e di significato. Chi
apprende modifica il proprio modo di vedere il mondo, re-interpreta l’esperienza acquisita nelle
fasi di sviluppo precedenti, si apre a panorami di significato mai esplorati prima, producendo una
“uscita creativa” sul mondo. Il “livello tre” è stato definito anche “apprendimento espansivo” (ivi,
p. 223) ovvero capace di identificare le problematicità, percepite come contraddittorie o
irrisolvibili, di uno specifico contesto e di superarle a partire dalla stretta collaborazione di tutti
coloro che partecipano al sistema sociale coinvolto, innescando un processo di cambiamento
radicale.
La significatività della teoria batesoniana sta nel bilanciamento proposto tra i fattori di tipo
personale, ambientale ed epistemico: “la sua epistemologia si basa sulla convinzione che ciascuno
di noi crea il suo mondo, in cui ognuno guarda la propria realtà attraverso i suoi presupposti, le sue
premesse e le sue aspettative. Questi elementi formano i contesti entro cui apprendiamo. Noi ci
apriamo ad alcune interpretazioni, ma ne rifiutiamo delle altre che ci fanno sentire a disagio, e
spesso ci rifiutiamo di ammettere che le nostre stesse percezioni sono solo parziali” (Mezirow, pp.
91-92), pregiudizievoli, presentano cioè errori di comunicazione. Di qui l’importanza della
comunicazione così come delle relazioni – familiari, lavorative, di comunità – che rappresentano il
contesto per la comprensione degli esseri umani.
Alla luce di quanto fin qui discusso, l’immagine di apprendimento rilevata può essere racchiusa
entro quella di dinamica processuale di natura esperienziale/contestuale che vede coinvolto
l’individuo, agente attivo di cambiamento, nella sua sfera cognitiva, ma anche affettiva, intima,
personale, e ancor più sociale e storico-culturale. Il nesso tra natura e cultura, come già
122
argomentato, è imprescindibile. Ricorre necessariamente ogni qualvolta s’intenda parlare
dell’essere umano e delle facoltà che lo identificano come tale.
“I tre termini cervello-cultura-mente sono inseparabili. Una volta che la mente è emersa retroagisce sul
funzionamento cerebrale e sulla cultura. Si forma un anello tra cervello-mente-cultura, nel quale ciascuno
dei termini è necessario a ciascuno degli altri. La mente è una emergenza del cervello suscitata dalla
cultura, la quale non esisterebbe senza cervello” (Morin, 2002, p. 18).
Il richiamo di tutte queste dimensioni rende la realtà dell’apprendere e del formare particolarmente
delicata e complessa. Ovviamente, le recenti discussioni in materia di complessità e pensiero
complesso a cui più volte ci siamo riferiti in questa sede hanno avuto il merito di presentare altre
chiavi di lettura dei fenomeni dell’apprendimento e della formazione, strumenti di studio e ricerca
che possano in qualche modo dare risposta alle esigenze di un panorama di vita e crescita sociale
altamente turbolento e spesse volte contraddittorio. Infatti, nonostante la diffusa separazione dei
saperi, in modo particolare di quello tecnico-scientifico a scapito di quello umanistico, del pensiero
narrativo e di quello paradigmatico, delle teorie del senso comune e di quelle della scienza, la
comprensione dei fenomeni che riguardano l’uomo non può prescindere dalla ricomposizione di
questi saperi in una prospettiva transdisciplinare, nel tentativo, inevitabilmente parziale ma
comunque dovuto e necessario, di intrecciare vita quotidiana (everyday life) e sapere e viceversa, il
pensiero e la riflessione scientifica con l’esperienza diretta del mondo (Morin, 1999, p. 100).
“Poiché la vita, con il suo scorrere fatto di pratiche, riti, eventi più o meno desiderabili, arresti e nuove
partenze, è sostanzialmente una, così deve essere anche il pensiero. La necessità di superare la
frammentazione dei saperi trova probabilmente il suo senso proprio in questa inscindibilità della vita
medesima, che non si lascia cogliere, nella sua complessità e nel suo divenire, da un unico punto di vista”
(Morin, Pasqualini, 2007, p. 51).
Il contributo di Morin, in questo senso, va a convalidare il nostro approccio all’apprendimento e
alla formazione: di natura individuale e al tempo stesso “comunitaria”, entrambe presumono una
capacità trasformativa insita nell’essenza stessa dell’esperienza di apprendimento e formazione
ovvero nella riflessività che ne può scaturire. Questo punto di vista ci sembra valido sempre, sia
che si tratti di situazioni formali di training sia che si tratti di esperienze a carattere situato,
incentrate sulla pratica diretta di lavoro. Ciò diversamente a quanto convenzionalmente praticato
sia a livello di formazione scolastica che professionale. In genere, “si tende a sottovalutare
l’esperienza professionale come spazio costruttivo (di strategie e di risposte) in quanto sede di
«problemi veri da risolvere», complicati dalla incertezza, emergenti in situazioni mal definibili in
anticipo, multi determinati dalla coesistenza di variabili di diversa natura, apparentemente non
pertinenti rispetto allo stesso genere di problemi rappresentato in astratto. In tal modo si rischia di
non considerare come espressione di competenza gran parte di ciò che il lavoratore esperto
effettivamente compie, in quanto non corrispondente a un predeterminato modello di conoscenza e
123
razionalità tecnica e di rigore procedurale. In realtà, nell’attività lavorativa la capacità di decifrare
la natura della situazione, di scoprire i punti critici, gli snodi di un problema, di framing degli
elementi in gioco e di individuazione delle alternative di azione costituisce la base di una mentalità
di ricerca che probabilmente rappresenta uno degli elementi del nucleo centrale della competenza
professionale e che non necessariamente deriva solo da un’esperienza formativa esplicita e
formalizzata, ma prevede la capacità di riflettere e valorizzare le differenti esperienze, anche
lavorative, della persona” (il primo corsivo è nostro) (Sarchielli, 2003, p. 203).
3.3. Apprendimento in situazione
Entriamo ora nel vivo delle teorie costruttiviste. Nonostante, come già detto in precedenza, facendo
riferimento ad un’affermazione di Bruner (1992), anche l’approccio cognitivista, o anche postcognitivista, mostri una tendenza costruttivista nel riconoscere un ruolo attivo al soggetto che
conosce, artefice di quell’architettura cognitiva di funzioni, strutture e rappresentazioni mediante le
quali gestisce le informazioni provenienti dall’ambiente esterno, regola il proprio agire e dà
significato all’esperienza, il visus costruttivista delle teorie che si discuteranno in questa sede
oltrepassa la dimensione elaborativa, anche se contestualizzata, giungendo ad un grado di ulteriore
specificazione del coinvolgimento del Sé che apprende, soggetto al contempo conoscente e agente,
il cui ruolo sottende una potenzialità creativa che non potrebbe essere compresa se non all’interno
di complesse dinamiche di costruzione della realtà, rispondenti a fattori di natura intenzionale e
negoziale ovvero intrapsichica e storico-culturale.
Avvalendoci di un ulteriore riferimento a Bruner e a “La ricerca del significato” (1992), andiamo a
sottolineare come il concetto di apprendimento sia stato profondamente influenzato, prima,
dall’avvento della rivoluzione cognitiva e dalla sua conseguente definizione in termini di
“acquisizione di conoscenza” e, poi, dal successivo “contestualismo transazionale”, di cui dice:
“Secondo questo orientamento le azioni umane non potevano essere completamente o correttamente
comprese dall’interno, soltanto in riferimento alle disposizioni intrapsichiche, ai tratti, alle capacità di
apprendimento, alle motivazioni o quant’altro. Per poter essere spiegata, ogni azioni richiedeva di essere
situata, cioè di essere concepita come un tutt’uno con un certo mondo culturale. Le realtà costruite dagli
individui erano realtà sociali, negoziate con altri, distribuite fra loro stessi e questi altri. Il mondo sociale in
cui si viveva non era, per così dire, né «nella testa» né «lì fuori» […] e sia la mente che il Sé erano parte di
questo mondo sociale” (ivi, p. 104).
124
Detto altrimenti, il “dato di conoscenza” lascia il posto all’“atto di competenza” (Bateson, 2005) 50,
assumendo per competenza quanto detto alla fine del precedente paragrafo, vale a dire non solo il
sapere derivante da un’accumulazione di conoscenze tecnico-specifiche ma anche e soprattutto il
“saper fare” e il “saper essere” risultanti dall’esperienza diretta della persona. Quando svincolata
dai criteri della conoscenza formale (scolastica e accademica), la competenza si apre ad un infinito
panorama di possibilità in cui trovano ragione d’essere le determinati intellettive di natura
biologica insieme a quelle sociali e storico-culturali. Il passaggio dal “dato” all’“atto” è ulteriore
elemento di significatività. Infatti, ciò da cui è stato possibile evolvere proprio grazie all’apporto
costruttivista e socio-culturale è lo schema conoscitivo proprio dell’approccio cognitivista, lineare
e unidirezione, dello stimolo percepitoelaborazionerisposta motoria. “In questo schema,
l’azione, la risposta motoria, compare solo alla fine, come risultato di un processo di elaborazione
(centrale o distribuita) alla quale non ha in alcun modo contribuito. Il ruolo dell’azione
nell’apprendimento è così circoscritto alla verifica dell’elaborazione cognitiva che l’ha preceduta”
(Fabbri, 2003, p. 57).
Diversamente, nella prospettiva costruttivista e della psicologia culturale a cui ci riferiamo, il ruolo
dell’azione, funzionalmente a quello del soggetto agente e conoscente, assume un valore costitutivo
determinante all’interno del processo conoscitivo. Non solo viene meno il criterio di sequenzialità e
rigida separazione di percezione, elaborazione ed azione, ammettendo possibilità di
sovrapposizione o stretta connessione, ma in quanto strumento di esplorazione, scoperta e
organizzazione dell’esperienza, la risposta motoria, afferma Fabbri (2003) produce conoscenza a
pari della lettura, della riflessione e dell’ascolto. Di conseguenza, l’attività, la pratica, il fare o il
“learning by doing” all’interno di un contesto socialmente e culturalmente connotato svolgono una
funzione epistemica in virtù della quale è possibile attribuire all’apprendimento una natura
eminentemente situata, dove il termine situato sta a significare che “l’acquisizione di conoscenza
non può avvenire se non agendo all’interno dello specifico contesto in cui essa risiede” (ivi, p. 59).
L’apprendimento, quindi, inteso come processo di cambiamento e acquisizione di conoscenza,
riguarda qualsiasi attività umana e non ha limiti di età: ciò significa che può aver luogo all’interno
di qualsiasi contesto di vita, anche al di fuori di quegli ambiti, come ad es. la scuola, ad esso
formalmente delegati.
Il cosiddetto paradigma situato alla cognizione ricopre ai fini del presente lavoro un riferito teorico
centrale, in quanto, coerentemente con la formazione d’indirizzo psicosociale e psicosociologico,
50
G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2005 (ed. orig. 1972), citato da M. Di Mauro
nell’introduzione di R. Feuerstein, R.S. Feuerstein, L. Falik, Y. Rand, Il Programma di Arricchimento Strumentale di
Feuerstein, ed. Erikson, 2008.
125
“guarda all’attività conoscitiva umana come inestricabilmente integrata all’interno di attività che si
svolgono nel mondo sociale: quindi come attività contestualizzata o situata, come si preferisce dire,
dove non sono presenti soltanto rappresentazioni mentali ma anche una gamma di fenomeni e
processi eterogenei quali sono «dispositivi materiali, forme di conoscenza storicamente costituite e
socialmente distribuite, processi di interazione sociale e modi di azione sociale che essi
producono»” (Pontecorvo, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995, p. 26). 51 Gli obiettivi degli
studi situazionali risultano pertanto funzionali all’analisi dei fenomeni di apprendimento nei
contesti di lavoro poiché orientati alla messa in luce di tutti quei fattori sociali, culturali e
propriamente organizzativi che non solo fanno da sfondo all’azione lavorativa, così come
all’attività di formazione, ma vi entrano in modo preponderante, contribuendo alla loro
strutturazione e condizionandone gli esiti.
Il valore conferito all’attività e allo sfondo sociale entro cui l’azione ha luogo, il riconoscimento
del loro legame con gli strumenti di tipo culturale fanno dell’approccio situato all’apprendimento
un ambito di studi d’appartenenza storico-culturale. La psicologia culturale, a cui più volte
abbiamo fatto riferimento in precedenza, sia attraverso i contributi di Bruner che di Vygotskij che
della stessa psicosociologia, “viene assunta come cornice appropriata anche per lo studio delle
pratiche di apprendimento, comunicazione e lavoro nei contesti organizzativi. L’adozione della
prospettiva culturale […] permette di considerare i contesti lavorativi come complessi sistemi di
pratiche sociali e come uno dei contesti più importanti di mediazione culturale con il mondo,
permettendo di tenere uniti lo studio di pratiche di apprendimento, di comunicazione e lavoro”
(Zucchermaglio, 1996, p. 15). Pertanto, facendo leva su questi aspetti della psicologia culturale e
degli studi situazionali, imposteremo il nostro lavoro di ricerca sulla formazione azienda entro uno
sfondo teorico di questo tipo, così da poter avere a disposizione strumenti di analisi capaci di dar
lettura a differenti livelli di informazioni, quelle inerenti l’organizzazione sociale e di lavoro, quelle
relative all’organizzazione individuale e quelle derivanti dalla loro interdipendenza.
“Le nozioni di contesto, situazione e significato diventano cruciali in una prospettiva che vuole
cogliere in modo più profondo il nesso tra conoscenza e cultura” (Pontecorvo, in Pontecorvo,
Ajello, Zucchermaglio, 1995, p. 15). Soprattutto se si tiene conto che il visus psico-culturale guarda
alla specie umana come contraddistinta dall’abilità di modificare l’ambiente creando artefatti
(materiali e simbolici) e dall’abilità di trasmettere, con il tramite principale del linguaggio, le
51
Pontecorvo cita C. Goodwin, The Blackness of Black: Color categories as situated practice. Paper preparated for the
conference on Discorse, Tools and Reasoning: Situated cognition and techonologically supported environments,
Novembre 2-7, Lucca, Italy, 1993, pag. 5.
126
modificazioni così accumulate alle successive generazioni (ibidem). 52 In questo ordine di cose, la
cultura supporta e al tempo stesso vincola l’agire umano e, sottoforma di medium, regola e struttura
il funzionamento cognitivo. Ne deriva una visione dell’apprendimento come “sviluppo
contestualizzato e storico” e come “socializzazione e comunità di discorso” (Pontecorvo, in
Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995). Mentre nel primo nucleo tematico confluiscono i
concetti di mediazione culturale, sviluppo storico e attività riconducibili agli studi di psicologia
storico-culturale, nel secondo è possibile rintracciare quelli di partecipazione e comunità di pratica
appartenenti ad una nuova falange di studi d’appartenenza situazionale.
Nella prospettiva socioculturale emerge l’esplicita consapevolezza che ciò che si verifica fra le
persone che partecipano in modo congiunto ad un sistema condiviso di significati e pratiche è
almeno altrettanto importante, per l’analisi e la comprensione del comportamento, di ciò che si
verifica all’interno degli individui. Il funzionamento psichico e mentale non può essere analizzato
prescindendo dalla cultura di un gruppo. La cultura è definita come la programmazione collettiva
della mente che distingue i membri di un gruppo da quelli di un altro (Emiliani, Zani, 1998, p.
158). Detto altrimenti attraverso la parole di Bruner (1992, p. 47):
“Il mio punto di vista presuppone che sia la cultura, e non la biologia, a plasmare la vita e la mente
dell’uomo, a dare significato all’azione inserendo gli stati intenzionali profondi in un sistema
interpretativo”.
La cultura ordina lo sviluppo individuale attraverso l’acquisizione di significati in un certo contesto
storico-culturale e attraverso la comunicazione sociale in situazioni date.
“L’attività principale di tutti gli esseri umani dovunque si trovino è di estrarre significato dai loro incontri
con il mondo. Riguardo a questo processo di creazione del significato è cruciale il fatto che influenza
quello che facciamo, quello in cui crediamo e anche quello che proviamo. Questo è vero tanto per i nostri
soggetti quanto per noi che li studiamo. […] capire la condizione umana significa capire ciò che le cose
significano per quelli che stiamo studiando” (Bruner, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995, pp. 4445).
Comunicare e costruire significati sono due peculiarità dell’essere umano, attore sociale, rispetto le
quali la cultura svolge un ruolo di mediazione che ha duplice valenza: di “vincolo” in quanto
impone dei limiti alla creatività di significato, di “strumento” in quanto sottoforma di artefatti
culturali orienta la condotta umana.
“L’ambiente culturale è nello stesso tempo il nostro padrone e il nostro servo, il nostro creatore e la nostra
creazione. Ci fornisce in continuazione meccanismi che a mo’ di protesi ci fanno trascendere i nostri limiti
biologici e i canoni tradizionali della nostra cultura. Ci impone degli obblighi, ma ci offre anche delle
opportunità. Una cultura, se da una parte può considerarsi un tesoro accumulato di modi canonici di
52
Cfr. M. Cole, Cultural Psychology: A once and future discipline?, in J. Berman (ed.), Nebraska Symposium on
Motivation: Crosscultural perspectives, Lincoln, University of Nebraska Press.
127
pensare, agire, sperare, sentire, dall’altro fornisce anche i mezzi, e qui sta l’ironia, per generare il dissenso,
la differenza, l’innovazione” (Bruner, 2003, pag. XI).
Con il termine “artefatto” si sta ad indicare uno strumento o, utilizzando una metafora bruneriana,
un “attrezzo” di natura simbolica/cognitiva o materiale attraverso cui filtrare le informazioni
provenienti dall’ambiente circostante, elaborarle in forma rappresentazionale e infine regolare la
nostra interazione con il mondo. La realtà in cui viviamo risulta così in parte “naturale”, in parte
“artificiale/culturale”. In un sistema di vita come quello culturale non esistono pratiche “naturali”:
“ogni pratica a cui veniamo introdotti a cui a cui partecipiamo contiene elementi e strumenti che
mediano culturalmente la nostra relazione con il mondo” (Zucchermaglio, 1996, p. 16). “[…] la
cultura offre una molteplicità di strumenti tecnici e psicologici, di ‘amplificatori culturali’, di
sistemi organizzati di conoscenze che rendono possibile una mediazione culturale, intesa come
progressivo passaggio dalle forme di pensiero naturale a quelle della conoscenza sistematica”
(Pontecorvo, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995, p. 165). L’esempio più chiarificatore di
artefatto culturale è dato dal linguaggio: ad esso si aggiungono i sistemi notazionali, le discipline
scientifiche con i loro linguaggio specialistici, gli strumenti tecnologici e così via. Ad essi si deve
non solo la funzione di mediazione ma di strutturazione della mente umana.
La mente infatti non potrebbe al di fuori di un quadro storico-culturale di riferimento: gli artefatti
culturali mediano le funzioni psicologiche umane seguendo un divenire storico. Vengono cioè
trasmessi alle generazioni successive secondo un percorso di accumulazione progressiva. Di qui la
motivazione forte per cui l’apprendimento deve essere concepito come culturalmente e
storicamente contestualizzato: “se gli esseri umani pensano per mezzo di artefatti e le loro modalità
cognitive sono determinate dai modi in cui questi artefatti si sono sviluppati storicamente, è
necessario considerare l’evoluzione così come si presenta all’interno delle attività reali di
mediazione culturale con l’ambiente” (Pontecorvo, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995, p.
20).
Il contributo più importante a sostegno della teoria storico-culturale dell’apprendimento proviene
dall’opera vygotskiana. Vygotskij fu il primo a formulare una teoria dello sviluppo delle funzioni
mentali superiori basata sulle influenze culturali, le quali si esprimono soprattutto attraverso la
mediazione linguistica esercitata dall’adulto sul bambino. Quest’ultimo, nei primi anni di vita, usa i
simboli come se fossero strumenti (sia nel senso di parole che di regole dell’attività
comportamentale) in base all’interazione che ha con i propri genitori o in generale con gli adulti
nella vita quotidiana. In seguito, nel corso della crescita, impara ad usare i sistemi di simboli senza
bisogno degli altri. L’essere umano, pertanto, non reagisce all’ambiente per stimoli innati, ma la
sua azione viene mediata dagli artefatti culturali ed è sempre orientata verso l’oggetto come da
128
figura 4. 53 L’uso di strumenti socioculturali quali il linguaggio, la scrittura o i numeri è ciò che
caratterizza il comportamento umano e che permette lo sviluppo del pensiero astratto e di
conseguenza la forgiatura dell’intelligenza umana. La capacità di creare sistemi di segnalazione
artificiale e di modificarne la natura rappresenta, secondo l’autore, la differenza sostanziale tra
uomo e animale.
Figura 4
L’azione mediata dall’artefatto e orientata sull’oggetto
(da L.S. Vygotskij, Mind in Society, 1978, pag. 40)
Vygotskij ha inaugurato, attraverso il suo interazionismo socio-culturale, un nuovo modo di
guardare all’apprendimento, non più prodotto esclusivamente individuale come voleva il modello
piagetiano, ma frutto dell’interazione sociale e culturale storicamente situata. L’apprendimento e lo
sviluppo umano sono realizzabili nello scambio tra un soggetto poco competente e un soggetto
maggiormente esperto, secondo il principio dell’interazione strutturante che è alla base della così
detta teoria della “zona di sviluppo prossimale”, di cui si è già parlato in precedenza. Detto
altrimenti, c’è sempre una relazione tra un dato livello di sviluppo e la capacità potenziale di
apprendimento. Sulla base di questo legame, le funzioni psico-intellettive appaiono due volte nel
processo di crescita intellettiva: la prima, nelle attività collettive e sociali come “funzioni interpsichiche”, la seconda, nelle attività individuali, come “funzioni intra-psichiche” (Gullotta, Boi,
1994, p. 86).
La visione dell’apprendimento che se ne ricava è quella di un processo di natura sociale e
partecipativa che implica, innanzitutto, l’interiorizzazione delle strutture psico-cognitive che si
creano attraverso l’esperienza interindividuale e la loro conseguente trasformazione in strutture
intra-individuali profonde (Vygotskij, 1990). Il linguaggio, ad esempio, inteso come funzione
psichica complessa, si sviluppa nel bambino grazie all’interazione con l’ambiente sociale.
53
Cfr. L.S. Vygotskij, Il processo cognitivo, Bollati Boringhieri, 1987 (ed. orig. 1978); immagine tratta dal sito
http://www.helsinki.fi/cradle/cfiw_mca.htm (consultato ad Ottobre 2012) del Center of Activity Theory and
Development Work Research dell’Università di Helsinki.
129
Inizialmente, come funzione interpsichica, rappresenta uno strumento di comunicazione che mette
in rapporto una persona con l’altra, ad esempio il bambino con l’adulto. Successivamente, come
funzione intrapsichica, attraverso un processo di interiorizzazione mediato dall’esperienza culturale
e dalla comunicazione sociale, diviene uno strumento che permette di costruire concetti, relazioni e
sistemi astratti e di regolare dall’interno i propri processi cognitivi e il proprio comportamento. “Il
linguaggio è il mezzo sociale del pensiero, ed è sociale in due sensi: in quanto prodotto
dell’evoluzione storico-culturale e in quanto presente nelle dinamiche di interazione sociale tra
individui. Il linguaggio è lo strumento essenziale di mediazione culturale dello sviluppo delle
funzioni cognitive: «La mediazione semiotica dell’attività pratica, che avviene essenzialmente
attraverso il linguaggio, trasforma l’uomo […] perché l’uomo diventa consapevole e pianifica le
sue azioni servendosi di mezzi di produzione trasmessi e creati socialmente»” (Zucchermaglio,
1996, p. 16). 54
Il linguaggio è quindi uno strumento di comunicazione e al tempo stesso di rappresentazione del
mondo: guida e sostiene l’azione. Attraverso di esso il pensiero e il Sé trovano espressione,
modellando le proprie peculiarità e appropriandosi dei significati emergenti dall’ambiente
circostante. “Vygotskij assegna al linguaggio sia un passato culturale che un presente generativo,
nonché il ruolo di alimento e di tutor del pensiero. […] fa confluire il passato culturale nel presente
generativo con cui noi affrontiamo il futuro […]” (Bruner, 2003, p. 177). L’interdipendenza di
pensiero e linguaggio si riflette nella parola e nella narrazione, strumenti di veicolazione del
significato storicamente dato e culturalmente condiviso e del senso elaborato attraverso la
riflessione personale a partire dall’imprinting culturale ricevuto.
Del valore della narrazione nei contesti di formazione si è già parlato in precedenza. Qui basti
ritornare sull’importanza della narrazione come strumento di apprendimento. Se l’acquisizione
della conoscenza da parte dell’essere umano implica un processo di negoziazione sociale dei
significati, un processo di co-costruzione degli artefatti culturali, la narrazione si dimostra un
mezzo utile ad accompagnare e supportare la pratica di conoscenza e l’azione stessa. Il
“raccontarsi” e il “ragionare con” è un modo per capirsi, rappresentarsi e acquisire consapevolezza
della propria “agency” di “attore” e “narratore” all’interno del contesto situazionale in cui ci si
trova ad agire. La narrazione, pertanto, non solo offre una forma organizzata al pensiero e
all’azione, ma seguendo un iter dialogico e transazionale, dà voce al “senso del Sé differenziato”
54
Zucchermaglio cita C. Pontecorvo, “Il contributo della psicologia vygotskiana alla psicologia dell’istruzione”, in C.
Pontecorvo, M.A. Ajello, C. Zucchermaglio, Discutendo si impara, La nuova Italia Scientifica, Roma, 1991.
130
(Bruner, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1992) 55 e spazio alla “pratica del Sé” (Bruner,
1992). I contesti culturali, afferma Bruner, sono sempre dei “contesti di pratica” e per comprendere
tutte i possibili modi di essere del Sé occorre sempre chiedersi cosa le persone fanno o tentano di
fare in un determinato contesto. Il Sé trova significato nella prassi e in tal senso molteplici possono
essere gli usi del Sé. Emergono grazie ad attente procedure di analisi, come l’intervista nella
metodologia della ricerca sociale, e per poter essere interpretati è necessario ricostruire le variabili
storico-culturali che li contraddistinguono. Il concetto di “pratica” del Sé ci permette d’introdurre
un altro tema centrale nella prospettiva degli studi situazionali, quello dell’attività.
Il riferimento è al concetto di attività nella prospettiva storico-culturale. 56 Qualsiasi attività per
poter essere valutata deve essere innanzitutto considerata in relazione al contesto entro cui ha luogo
ovvero nel quadro delle relazioni costituitesi storicamente e culturalmente. Gli artefatti culturali
così come ogni forma di cognizione umana esistono in funzione di sistemi di attività: il gioco, il
lavoro, la scuola, la formazione, ecc. rappresentano i contesti primari di apprendimento e di
sviluppo culturale della mente. Vediamo cosa afferma a tal proposito Cristina Zucchermaglio, una
delle voci italiane più autorevoli nell’ambito della psicologia culturale delle organizzazioni:
“Se le persone pensano per mezzo di artefatti e la forma di pensiero è determinata dai modi in cui questi
artefatti si sono sviluppati storicamente, è necessario studiare le pratiche cognitive – non in isolamento –
ma considerando i quadri di riferimento offerti dalle attività reali di mediazione culturale con l’ambiente.
Per capire il ruolo della cultura nella costruzione della mente è necessario studiare l’attività delle persone
nei contesti di vita reali, invece di analizzarne i processi simbolici con strumenti e procedure sperimentali
indipendenti e lontane da tali contesti” (corsivo nostro) (Zucchermaglio, 1996, p. 18).
L’evidenziazione del nesso esistenza tra mente/coscienza e mondo/società è riscontrabile in alcune
importanti teorie della psicologia sociale tra cui quella dell’interazionismo simbolico di Mead
(1934) e quella dell’ecologia della vita umana di Bronfenbrenner (1979). Mead sottolinea il
rapporto di interazione strutturante tra individuo e società: “l’individualizzazione è il risultato della
socializzazione […] in un movimento costruttivo che va dalla società verso l’individuo” (Emiliani,
Zani, 1998, p. 26). La mente e il Sé non sono preesistenti al sociale ma si costituiscono
nell’interazione umana e conversazionale. L’azione, di conseguenza, non può che risponde a regole
di carattere sociale e comunicativo: in tal senso, il significato di qualsiasi atto non è inerente
all’atto stesso ma è influenzato dalla risposta dell’interlocutore cui l’atto è diretto e dall’assunzione
55
Bruner si riferisce ad una concezione distributiva del Sé di cui parla ampliamente in “La ricerca del significato”
(1992). A suo avviso il Sé non può essere pensato come nucleo isolato: la persona si esplica attraverso diversi Sé
distribuiti in senso interpersonale. Essi si costituiscono nella rete delle relazioni umane e trovano espressione nei
diversi contesti di vita, acquisendo significato secondo un divenire storico-culturale. La narrazione rappresenta uno
strumento funzionale a permettere al Sé “distribuito” di emergere.
56
Cfr. L.S. Vygotskij, Il processo cognitivo, Bollati Boringhieri, Torino, 1987 (ed. orig. 1978); N. Leont’ev, The
Problem of Activity in Psychology, in J.V. Wertsch (ed.), The concept of Activity in Soviet Psychology, M.E. Sharp,
Armonk, N.Y., 1981.
131
del ruolo dell’Altro (role taking) (Mead, 1966). Bronfenbrenner (1986; 1979) a conferma della
posizione interazionista e contestualista concepisce lo sviluppo umano come all’interno di un
contesto multi-livello (microsistema, mesosistema, esosistema, macrosistema) che ne influenza
l’andamento e gli esiti.
“Il microsistema è un modello di attività, ruoli e relazioni interpersonali sperimentate direttamente
dal’individuo che cresce in interazioni faccia a faccia che hanno luogo in un setting con specifiche
caratteristiche fisiche, sociali e simboliche che favoriscono, consentono o inibiscono il coinvolgimento in
interazioni progressivamente sempre più complesse e in attività dell’ambiente quotidiano in cui vive il
soggetto”. 57
L’attività umana nell’ottica della teoria storico-culturale di Leont’ev (1959-1963) distingue tre
livelli di pratica: l’attività, l’azione e l’operazione. L’attività ha natura socio-culturale si manifesta
attraverso le azioni; ogni azione è orientata ad uno scopo di cui il soggetto è cosciente e si compone
di operazioni automatiche che sono indipendenti dalle caratteristiche dell’attività stessa. Le
operazioni hanno significato solo all’interno di azioni significative, a loro volta collegate a sistemi
di attività autonomi e definiti dal punto di vista sociale e culturale. (Zucchermaglio, 1996, p. 22) 58
L’azione, mediata culturalmente, costituisce l’unità di analisi della teoria dell’attività che
nell’ambito degli studi psico-culturali rappresenta uno prospettiva di studio delle pratiche di
apprendimento, lavoro e comunicazione nei contesti organizzativi. In quest’accezione, ciascuna
pratica si caratterizza per favorire l’acquisizione delle conoscenze anche qualora non sia stata
programmata per l’apprendimento; la cognizione risulta sempre situazionale, ovvero le conoscenze,
le competenze intese anche come “expertise” che l’individuo acquisisce in determinate situazioni
sono legate alla natura dell’attività da lui svolta; tutti i sistemi di conoscenze si costruiscono sulla
base di pratiche sociali condivise all’interno di certe comunità, vale a dire ciascun gruppo sociale
elabora un sistema di conoscenza rappresentativo e identificativo delle idee, fatti, usi, modi di
comunicare che gli sono peculiari (ivi, 1996, pp. 19-20).
I contesti delle attività umani sono in quest’accezione sono molto di più che semplici contenitori o,
come nella visione cognitivista, sfondo dell’attività elaborativa e frutto di costruzioni mentali prive
di caratterizzazione storico-culturale: i contesti in cui agiamo sono essi stessi prodotto delle nostre
attività. Ogni individuo, come già visto a proposito dell’apprendimento batesoniano, esercita
un’influenza “creatrice” sui propri contesti di vita che in quanto “prodotto” di cognizione e azione
subiscono un modellamento di tipo culturale e sociale. Sulla base di ciò i contesti di tipo
organizzativo e in particolare i contesti di lavoro risultano ricchi di possibilità di analisi delle
57
U. Bronfenbrenner, The ecology of cognitive development: Research models and fugitive findings, in R.H. Wozniak e
K.W. Fisher (a cura di), Development in context, Hillsdale, N.J., Erlbaum, 1993, p. 15, citato da F. Emiliani, B. Zani,
Elementi di psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 68.
58
Per approfondimenti: A.N. Leont’ev, The Problem of Activity in Psychology, in J.V. Wertsch (ed.), The concept of
Activity in Soviet Psychology, M.E. Sharp, Armonk, N.Y., 1981.
132
modalità di cognizione e azione umana. La ricchezza di tali contesti sta nel fatto che sono sistemi
di attività strutturate socialmente in cui la presenza di mezzi tecnologici e materiali contribuiscono
al consolidamento di un sapere specializzato e al raggiungimento di obiettivi socio-culturalmente
definiti. “Il lavoro non esiste indipendentemente dai lavoratori” che pensavo, creano, agiscono e
interagiscono: deve pertanto essere studiato come “un complesso sistema di pratiche sociali” (ivi,
pp. 20-21) in cui soggetto, oggetto e strumenti a disposizione sono elementi costituenti un tutto
contestuale unico.
A tal proposito risulta essere particolarmente esplicativo il modello generale di sistema di attività
elaborato da Yrjo Engestrom (fig. 5), evoluzione della triade vygostkiana, entro il quale il soggetto,
l’oggetto, la comunità, gli artefatti, le regole e la divisione del lavoro sono messi in relazione tra di
loro, co-costruendosi reciprocamente nel tempo. Posta un’attività collaborativa, “le azioni compiute
per raggiungere uno scopo, così come le operazioni automatiche, […] possono essere comprese
solo se interpretate tenendo presente i sistemi di attività nella loro interezza” (Engestrom,
Zucchermaglio, Alby, 2006, p. 224)
59
Le azioni individuali vengono mediate da artefatti
(strumenti e segni) e s’inseriscono all’interno di sistemi di attività collettivi. L’aspetto collettivo
dell’attività consiste nella contestualizzazione delle azioni entro una comunità d’appartenenza,
nella divisione del lavoro (ruoli, status, potere) e nelle sue regole. Il risultato delle azioni
individuali è dato dalla produzione di un oggetto rispondente ad un bisogno comune. Il motivo di
un’attività risiede quindi nell’oggetto dell’attività stessa, definibile anche nei termini di progetto
che evolve nel tempo diventando qualcosa di significativo, un vero e proprio prodotto.
Figura 5
Il modello generale di un sistema di attività
(da Y. Engestrom, Learning by Expanding, 1987, pag.78)
59
L’immagine è tratta dal sito http://www.helsinki.fi/cradle/cfiw_mca.htm (consultato ad Ottobre 2012) del Center of
Activity Theory and Development Work Research dell’Università di Helsinki.
133
“Il carattere dinamico e sistemico dell’attività comporta che gli elementi che la compongono non
siano assemblati tra di loro meccanicamente, ma si sviluppino e co-evolvano per mezzo della
reciproca interazione. Il sistema di attività, nel suo complesso, è molto più strutturato e competente
di ciascuno dei suoi membri o di ciascuna delle sue specifiche componenti. I mediatori culturali
dell’attività – strumenti, regole, divisione del lavoro – danno stabilità al sistema. È pur vero d’altra
parte che i vari elementi sono continuamente in interazione e tendono a trasformarsi l’uno
nell’altro. Quel che ora è un oggetto – per esempio un nuovo sistema informativo che si vuole
acquisire – può velocemente diventare uno strumento e, eventualmente, una regola che decide gli
standard e le routine. Il sistema di attività ricostruisce se stesso incessantemente” (corsivo nostro)
(Engestrom, Zucchermaglio, Alby, 2006, pp. 224-225). 60 Evolve storicamente e culturalmente
perseguendo un ideale di progresso che si realizza, innanzitutto, a partire dalla percezione di
contraddizioni, malfunzionamenti o problemi. L’analisi delle problematicità interne, come già visto
a proposito del livello “tre” dell’apprendimento batesoniano, costituisce una spinta all’innovazione
e al cambiamento trasformativo del sistema stesso.
Il modello elaborato da Engestrom offre una prospettiva storico culturale entro la quale studiare i
contesti di lavoro facendo luce sui processi di interazione sociale e di mediazione culturale che
sono peculiari delle pratiche lavorative che costituiscono gran parte della vita quotidiana degli
adulti. La teoria dell’attività, così come l’approccio situato alla cognizione che da essa origina,
rappresentano un riferimento importante non solo allo studio dell’apprendimento umano, ma alla
formazione, anch’essa da intendersi come pratica attraversata da processi di interazione sociale e
di mediazione culturale a partire dai quali, nell’ottica della formazione psicosociale affrontata nei
precedenti capitoli, sviluppare una metaconoscenza del proprio essere “lavoratore” e del mondo
professionale a cui si partecipa. I fattori “mediazione” e “interazione” sono fondamentali nel
panorama lavorativo odierno. Basti pensare alle moderne tecnologie a disposizione dei lavoratori e
in modo particolare a quelle legate alle funzioni di comunicazione. Le tecnologie sono strumenti
con valenza culturale e come tutti gli artefatti mediano le attività cognitive umane, contribuendo
alla percezione del mondo circostante e alla costruzione di nuova conoscenza. “[…] la loro
presenza e il loro uso nei contesti di vita quotidiana cambia in modo sostanziale il nostro modo di
lavorare, fare, pensare ed apprendere. […] le tecnologie non vanno viste come mezzi per svolgere
compiti già dati, ma come strumenti che creano nuove pratiche lavorative e comunicative” (corsivo
nostro) (Zucchermaglio, 1996, p. 28).
60
Cfr. Y. Engestrom, Learning by Expanding: An Activity-theoretical Aproach to Developmental Research, OrientaKonsultit, Helsinki, 1987.
134
Le tecnologie nei contesti di lavoro ricoprono un ruolo strutturante legato non tanto alla
semplificazione e all’innovazione intese come esiti, ma come percorsi di azione e cognizione. “Solo
considerando e analizzando come le tecnologie modifichino profondamente la struttura lavorativa e
comunicativa di un’organizzazione, esse potranno essere usate come mezzi effettivi di creazione e
circolazione di nuove conoscenze [ovvero di apprendimento organizzativo]: le tecnologie vanno
studiate e progettate come artefatti culturali che mediano e sostengono pratiche sociali, distribuite e
situate di apprendimento, comunicazione e lavoro” (ivi pp. 28-29). È necessario pertanto pensare
ad una progettazione attenta degli strumenti tecnologici entro gli ambienti organizzativi, affinché
gli aspetti cognitivi, sociali e culturali ad essi sottesi possano sostenere e non ostacolare le pratiche
di lavoro. Da qui l’importanza della loro armonizzazione entro i contesti sociali in cui vengono
usati, così che diano sostegno a finalità e prospettino possibili evoluzioni. Tra l’uomo e la
macchina viene a crearsi uno spazio che non è di isolamento o chiusura, almeno non lo dovrebbe
essere, ma di partecipazione attiva da parte di entrambi, di co-costruzione di prodotti con valenza
culturale.
Riguardo al rapporto uomo-macchina risulta particolarmente significativo uno studio condotto
Lucy Suchman intitolato “Plans and Situated Actions: The Problem of Human-Machine” (1987) 61.
Considerato il manifesto del paradigma situato alla cognizione, ciò che emerge da questo lavoro
sulla relazione uomo-macchina è la centralità del concetto di azione di derivazione storicoculturale, ovvero la considerazione dell’attività come unità di analisi di qualsiasi contesto di vita e
l’imprescindibilità del legame tra pratica, strumenti e contesti socialmente e culturalmente dati.
Innanzitutto, la ricercatrice americana mette in luce i limiti dell’approccio cognitivista alla
conoscenza e delle dinamiche di rappresentazione e proceduralizzazione ad esso sottese. Il
principio è quello della così detta “azione situata” (situated action). Anziché astrarre ogni azione
dal contesto in cui ha luogo nel tentativo di scomporla e analizzarla come sequenza logica,
l’approccio dell’azione situata si preoccupa di studiare come le persone usano le circostanze
contestuali in funzione dei loro percorsi d’azione.
I presupposti su cui ci si basa sono: 1) la natura sociale dei processi cognitivi che in quanto tali
dipendono da strumenti, artefatti, pratiche culturalmente e socialmente determinati; 2) il nesso di
interdipendenza, anche significazionale, tra il corso di ogni azione e le circostanze materiali e
sociali in cui ha luogo; 3) la natura intelligibile delle azioni umane, i cui significati emergono
attraverso l’interazione linguistica. “Invece che costruire una teoria dell’azione basata su una teoria
della pianificabilità del comportamento, lo scopo è quello di studiare come le persone producono e
61
L. Suchman, Plans and Situated Actions: The Problem of Human-Machine, Cambridge University Press, Cambridge
1987.
135
trovano evidenza per la pianificazione nel corso dell’azione situata” (Suchman, 1987, p. 50, in
Zucchermaglio, 1996, p. 34), ovvero come l’orientamento all’azione non sia un dato precostituito
ma emerga dall’azione stessa, alla quale, quindi, viene attribuito un ruolo strutturante il senso
comune del mondo sociale. Detto altrimenti, mentre nella visione tradizionale la conoscenza è
posta come acquisizione precedente all’azione, la teoria dell’azione situata mette la conoscenza
dentro l’azione, e l’azione, a sua volta, dentro l’interazione adattiva tra l’agente e il suo ambiente.
L’attività umana, in quest’ottica, non può essere descritta in anticipo (cioè pianificata) così come
avviene per i computer, poiché la progettazione/pianificazione dell’azione non avviene tramite
sequenze d’azioni pre-determinate. La coerenza dell’azione non è adeguatamente spiegata né da
schemi cognitivi preconcetti né da norme sociali istituzionalizzate, ma è una proprietà emergente
delle interazioni momento per momento tra gli attori e tra attori e ambiente. “Il nostro senso
comune del mondo sociale non è una precondizione alle nostre interazioni, ma un loro prodotto”
(Suchman, 1987, p. 58, in Zucchermaglio, 1996, p. 36). Il mondo sociale risulta stabile,
comprensibile e quindi disponibile alla scoperta conoscitiva proprio grazie alla pratica quotidiana e
alle attività di produzione e costruzione di senso comune condiviso ad essa sottese. Il modello
piano-azione-compito proprio della psicologia cognitivista classica non permette di spiegare l’atto
intenzionale insito nell’azione umana. L’intenzionalità e l’interpretazione, di cui si è già parlato
nello spazio dedicato alla narrazione, costituiscono due peculiarità della comunicazione umana.
Il linguaggio, così come espletato dallo stesso Vygotskij (1990), è uno strumento sociale di
costruzione del mondo che trae significato e significatività dal mondo stesso nel quale è utilizzato.
È nella relazione così come nella conversazione condivisa e nelle circostanze d’uso del linguaggio
che il significato comunicativo di una espressione viene stabilito e che ogni azione trova quindi
comprensione. Ad esempio, il significato di uno scambio verbale tra due persone può essere reso
solo a partire dalla lettura dei contenuti emersi in chiave contestuale oltre che semantica (si pensi
all’importanza del non verbale che senza un’analisi situazionale attente verrebbe trascurato).
Linguaggio e comunicazione sono essi stessi, secondo Suchman, due casi tipici di azione situata:
nelle situazioni conversazionali la chiarezza reciproca tra gli agenti è data dal continuo mutamento
dell’interazione tra loro e l’ambiente circostante, ovvero da tutta una serie di continui
aggiustamenti situati, sistematici e contestuali che gli permettono di interpretare e capire il
significato delle loro azioni e di conseguire i loro scopi. Il valore adattativo del dialogo umano con
gli altri e con l’ambiente presuppone una flessibilità che è qualitativamente diversa da qualsiasi
comportamento che i computer possono tentare di emulare. La macchina, infatti, può cogliere solo
una parte del comportamento interattivo dell’utente (e viceversa) (Zucchermaglio, 1996, p. 39),
trascurando quelle componenti situazionali non visibili, indispensabili però ai fini di una
136
ricostruzione del significato comunicativo dell’interazione. La ricchezza della co-costruzione dei
significati condivisi propria della comunicazione umana non è riproducibile nell’interazione uomomacchina. Ne deriva una comunicazione “deficitaria” che, pur avendo un ruolo preponderante nella
nostra vita e nella pratica quotidiana, richiede, soprattutto nei contesti di apprendimento, un’attenta
valutazione delle reali possibilità di interazione e di come queste possano risultare più o meno
funzionali agli obietti di formazione.
A partire dallo sguardo dell’azione situata e della teoria storico-culturale dell’attività è possibile
motivare la scelta di parte della psicologia odierna, sociale e culturale, di studiare, anche sulla scia
dell’etnometodologia 62, i contesti reali di mediazione culturale con il mondo, vale a dire i contesti
di vita quotidiana in cui hanno luogo le abituali pratiche di comunicazione, relazione, formazione,
lavoro. I contesti di vita quotidiana, seguendo la logica situata, sono contesti di apprendimento
inteso come “socializzazione” e “partecipazione costruttiva” a comunità di pratica. “In una
prospettiva culturale e situata, infatti, non esiste un apprendimento come processo separato e
specializzato, ma solo cambiamenti nei modi di partecipazione ai contesti culturali della vita
quotidiana” (Zucchermaglio, 1996, pp. 40-41). 63 L’apprendimento, pertanto, alla luce di quanto
detto fin qui, non può essere pensato come avulso dai contesti in cui ha luogo, ovvero disgiunto
dalla pratica e dalla partecipazione attiva alle stesse dinamiche contestuali.
I luoghi dell’apprendimento, sia quelli formalmente deputati allo scopo come la scuola e gli istituti
di formazione riconosciuti, sia quelli legati al mondo del lavoro, come tutti i contesti di vita
quotidiana non sono definibili come neutri e privi di orientamento culturale e sociale: sono
piuttosto fortemente attivi in tal senso e, in quanto tali, qualsiasi attività dedita all’acquisizione di
conoscenza contestualizzata al loro interno deve essere pensata come “situata”, “mediata” ovvero
caratterizzata sia in senso culturale che sociale secondo livelli “macro” e “micro”. In tal senso,
come già visto a proposito della formazione psicosociale, il gruppo, la comunità d’appartenenza,
l’organizzazione, così come il sistema sociale in una declinazione storico-culturale, non solo
offrono uno sfondo allo svolgimento delle attività di apprendimento promosse, ma entrano a pieno
titolo nelle dinamiche di costruzione delle attività stesse, nei processi di cognizione e
comunicazione che ne sono alla base, determinandone gli esiti finali. Questi argomenti sono stati
ampiamente discussi da due autori che rappresentano un vero e proprio punto di riferimento stabile
entro il panorama odierno dei contributi situati all’apprendimento: Jean Lave e Etienne Wenger,
62
Cfr. H. Garfinkel, Studies in Etnomethodology, Polity Press, Cambridge, 1984.
Zucchermaglio cita J. Lave, The practice of learning, in S. Chaiklin, J. Lave, Understanding Practice. Perspectives
on Activity and Context, Cambrindge University Press, Cambridge, 1993.
63
137
autori del libro “L’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti
sociali” (Situated learning. Legitimate peripheral partecipation, 1991).
Apprendere partecipando
Il lavoro di Lave e Wenger (2006; 1991) va ad aggiungersi al corpo di ricerche nell’ambito delle
scienze umane che esplorano la natura situata del processo di costruzione della conoscenza, ovvero
della comprensione e comunicazione entro la pratica. Entro la teoria dell’apprendimento situato,
l’apprendimento si configura come pratica entro contesti storicamente e socialmente determinati.
“Invece di definire l’apprendimento come l’acquisizione di conoscenze proposizionali, Lave e
Wenger lo collocano nel contesto di specifiche forme di copartecipazione sociale. Invece di
chiedersi quali processi cognitivi e strutture concettuali siano coinvolte si interrogano sulle forme
di
partecipazione
sociale
che
forniscono
il
contesto
appropriato
per
il
compiersi
dell’apprendimento” (Hanks, in Lave, Wenger, 2006, p. 10). L’apprendimento senza
partecipazione attiva da parte dei discenti non ha senso di esistere: in questa prospettiva risulta
superata la formula trasmissiva della conoscenza a favore di una formula interattiva e collaborativa
situata. È nella partecipazione che s’innescano le potenzialità costruttive dell’esperienza formativa:
“l’apprendimento è un processo che avviene all’interno di una cornice partecipativa e non in una
mente individuale. Ciò significa, tra le altre cose, che è mediato dalle diverse prospettive dei
compartecipanti. È la comunità, o per lo meno le persone che prendono parte al contesto di
apprendimento, che «apprende» secondo questa definizione. L’apprendimento è per così dire
distribuito tra i partecipanti” (corsivo nostro) (Lave, Wenger, 2006, p. 11).
La novità dell’impostazione di Lave e Wenger risiede proprio in questa declinazione al plurale del
fenomeno dell’apprendere, nel passaggio dalla prospettiva individuale a quella di comunità. La
comunità di pratiche, definita come insieme di relazioni durature tra persone, attività e sistema
sociale e organizzativo, insieme di regole informali, rappresentazioni condivise, strumenti,
competenze inerenti i modi in cui si fanno le cose e si interpretano gli eventi: “è il luogo sociale e
fisico in cui hanno luogo l’apprendimento e il lavoro” (Zucchermaglio, in Pontecorvo, Ajello,
Zucchermaglio, 1995, p. 247). Entro questo quadro, apprendimento e lavoro appaiono come forme
di socializzazione tra soggetti esperti e novizi, in cui questi ultimi svolgono un ruolo attivo e
“compartecipano” ai processi di innovazione e cambiamento, ovvero co-costruiscono il mondi
sociale di cui entrano a far parte. L’apprendimento come socializzazione situata si esplica nella
pratica e in quanto tale non risulta una prerogativa dei soli contesti di formazione ma di qualsiasi
attività quotidiana, vale a dire di qualsiasi situazione in cui abbiano luogo forme asimmetriche di
138
“coparteciapazione”. I due autori formalizzano questa nuova visione dell’apprendimento
definendolo come un tipo speciale di pratica sociale associata al genere di partecipazione detta
“partecipazione periferica legittima”, indicativa di tutti questi contesti di apprendimento in cui un
soggetto inesperto, similmente ad un “apprendista”, impara attraverso la pratica e l’osservazione di
coloro che sono più esperti, prendendo parte ad una comunità di pratiche consolidate. Ne sono un
esempio, un lavoratore a cui viene chiesto di cambiare area di impiego, un neoassunto che entra in
contatto con i nuovi colleghi di lavoro, gli studenti e il corpo docenti di una università, un gruppo
di nuovi amici. Tutte queste forme di interazione comportano forme limitate e asimmetriche di
copartecipazione in cui il neofita “non acquisisce solo informazioni e competenze, ma un nuovo
modo di dare senso alla sua esperienza e di vivere il suo lavoro” (Fabbri, 2007, p. 12), modificando
inevitabilmente anche la sua identità. Entro questa complessa esperienza di transizione da uno stato
di minore a maggiore esperienza, la persona-che-apprende non solo trasforma se stessa, ma
partecipa anche ad un processo di cambiamento che investe l’intera comunità di pratiche a cui
partecipa, entro la quale gli stessi soggetti esperti sono chiamati ad apprendere.
L’apprendimento situato risulta così esso stesso una pratica graduale, o una famiglia di pratiche che
si realizzano entro una comunità socialmente e culturalmente strutturata. La partecipazione ad una
pratica socio-culturale entro i confini di una comunità, così come entro il perimetro di una “zona di
sviluppo prossimale”, favorisce la generazione di “abilità consapevoli”, vale a dire “abilità
accompagnate dal possesso di conoscenze o intelligenza” (Lave, Wenger, 2006, p. 19). Tali abilità
per poter essere funzionali allo sviluppo della persona debbono poter essere innanzitutto applicate
al di fuori della situazione in cui sono state generate, ovvero trasferite da un contesto ad un altro di
pratica, quindi trasformate sia all’interno che all’esterno dei contesti di apprendimento. L’essere
dentro una comunità di pratica o l’essere fuori, osservare o partecipare rappresentano una
importante differenza ai fini dell’apprendere. Lave e Wenger sostanziano questa loro posizione
affermando che “c’è una differenza tra parlare di una pratica dall’esterno e il parlare all’interno di
essa” (ivi, p. 70), così come c’è differenza tra la capacità di apprendere e la capacità di eseguire un
compito appreso: “per i nuovi arrivati quindi lo scopo non è imparare dal parlare in quanto
sostituto della partecipazione periferica legittima, bensì imparare il parlare, in quanto chiave della
partecipazione periferica legittima” (ivi, p. 71).
La costruzione di conoscenza che si ha all’interno di una comunità di pratiche è un processo
intenso e negoziale di significato emergente dall’esperienza diretta dei partecipanti e dalla
riflessione condivisa entrambe mediate dallo strumento linguistico. La parola “situata” è un mezzo
per agire nel mondo: di conseguenza, “quando consideriamo la produzione del discorso come una
pratica sociale e culturale, e non come una rappresentazione di secondo livello della pratica,
139
diventa chiaro che essa deve essere rappresentata nella matrice complessiva dell’azione insieme
agli altri generi di attività” (Hanks, in Lave, Wenger, 2006, p. 16). Pertanto, confermando quanto
già detto in precedenza, l’atto discorsivo equivale ad una forma di pratica storicizzata mediante il
quale vengono trasmessi i significati propri del senso comune e si consolidano le strutture d’azione
e cognizione che rendono una comunità di pratica riconoscibile rispetto alle altre.
“Una comunità di pratica è una condizione essenziale per l’esistenza della conoscenza, anche perché
fornisce il supporto interpretativo necessario per cogliere il senso della sua eredità. Così, la partecipazione
alla pratica culturale in cui ogni conoscenza esiste è un principio epistemologico dell’apprendimento. La
struttura sociale di questa pratica, le sue relazioni di potere e le sue condizioni di legittimità definiscono le
possibilità di apprendimento (cioè di partecipazione periferica legittima)” (corsivo nostro) (Lave, Wenger,
2006, p. 64).
In riferimento a quanto appena citato, l’apprendimento come forma di partecipazione periferica
legittima entro una qualsiasi comunità di pratica sia essa appartenente a contesti di vita quotidiana
che specificatamente organizzativi, lavorativi e formativi, “non dipende né necessariamente né
direttamente dagli obiettivi pedagogici o dall’agenda ufficiale, neanche nelle situazioni in cui
questi obiettivi sembrano essere un fattore essenziale (per esempio, nell’insegnamento d’aula, nelle
lezioni individuali)” (ivi, p. 74). L’apprendimento dipende piuttosto dalla pratica nella sua
interezza, dalle molteplici relazioni mediante le quali essa si esplica sia entro la dimensione di
comunità che al di fuori di essa, nel mondo sociale. Nella pratica confluiscono fattori che esulano
la realizzazione degli obiettivi dei singoli soggetti partecipanti: le dinamiche sono molteplici,
contraddittorie, conflittuali, ma sempre costitutive. Scontri di visioni e interessi, differenze di
potere, desiderio di continuità e di sostituzione confluiscono entro il rapporto tra “anziani” e “nuovi
arrivati” rendendo l’esperienza della partecipazione periferica molto di più che un processo di
apprendimento dei soli nuovi arrivati. È una sorta di “viaggio sociale” in cui tutti gli individui
coinvolti danno qualcosa di sé prendendo dall’Altro. “Poiché l’attività e la partecipazione delle
persone coinvolte in essa, le loro conoscenze e le loro prospettive si costituiscono a vicenda, il
cambiamento è una proprietà fondamentale delle comunità di pratica e delle loro attività” ( ivi, p.
76). Il cambiamento è sempre potenzialmente possibile e si declina in tanti differenti modi di
esistere, tante sono le opportunità che scaturiscono dall’incontro della prospettiva individuale con
quella di comunità, così come dal confronto della prospettiva “ingenua” degli inesperti e di quella
“scientifica” dei più esperti. In tal senso, riprendendo in considerazione la dinamica concettuale
insita tra il mondo delle “teorie ingenue” o “del senso comune” e quello delle “teorie scientifiche”,
nel momento in cui l’interazione tra visus inesperto ed esperto viene approvata, “chiunque può in
una certa misura essere considerato un «nuovo arrivato» rispetto al futuro di una comunità che
cambia” (ivi, p. 77).
140
Sulla base di quanto detto finora, alla luce dell’apporto della teoria dell’attività storico-culturale e
dell’approccio situato alla cognizione, “il costrutto di comunità di pratica rappresenta sia un
descrittore dei processi informali attraverso i quali le persone si aggregano, apprendono e
costruiscono conoscenza sia un paradigma per ripensare e riprogettare una formazione basata
sull’apprendere e sul conoscere in pratica. Dal punto di vista descrittivo le comunità di pratiche
forniscono una chiave interpretativa per rileggere i processi di apprendimento e riconfigurare le
organizzazioni” (Fabbri, p. 48) e fondare una nuovo epistemologia della formazione che superi il
modello trasmissivo della conoscenze entro la diade insegnante/discente, investendo sulla pluralità.
Ovvero, sulla pluralità dei soggetti coinvolti, dei ruoli investiti, dei livelli di responsabilità e potere,
dei loro universi di simbolizzazione, dei sistemi di attività più o meno accessibili e trasparenti,
delle relazioni esistenti e attuabili, delle “traiettorie di partecipazione a trasformazioni possibili”
(ivi, p. 63). Si delinea in tal senso la necessità di pensare e pianificare dispositivi formativi che
siano in grado di rispettare tale pluralità, fonte ineguagliabile di diversità e ricchezza: come già
argomentato nel primo capitolo, molti dei conoscitori del mondo della formazione, contemplabili
tra i fautori delle scienze umane e sociali, attenti alle evoluzioni storico-culturali del fenomeno, alla
crescente complessità dell’attuale panorama socio-economico e organizzativo, hanno offerto chiavi
di lettura che condurrebbero ad una revisione sostanziale dell’apprendere sia nella scuola che nel
lavoro. In tal senso, la formazione dovrebbe favorire e accompagnare le diversità dell’essere e
dell’apprendere, le sue molteplici forme di espressione, facendo della pratica, dell’esperienza
diretta sul campo e della riflessione (anche metacognitiva) i capisaldi di qualsiasi iter formativo che
voglia dirsi realmente trasformativo.
3.4. La formazione basata sull’apprendimento e sul conoscere in pratica: il ruolo
dell’esperienza e della riflessione nell’apprendimento adulto
L’iter di analisi seguito fin qui ci ha permesso di mettere in luce alcuni importanti contributi a
sostegno della visione dell’apprendimento inteso come sociale e situato. Il concetto di attività ne
diviene il cuore portante, potendo riconoscere alla pratica contestualizzata e graduata un ruolo
generativo e connettivo, istituto di relazioni, occasione di socialità e di condivisione, spazio
d’espressione dell’identità del singolo e della comunità stessa a cui partecipa. Nella comunità
l’individuo affronta un’esperienza di socializzazione e apprendimento il cui valore aggiunto è dato
dall’incontro di tre diverse dimensioni: individuale, comunitaria e sociale. Entro questi tre punti
cardinali, mediante gli strumenti simbolici e materiali disponibili, ha luogo la dinamica della
costruzione della conoscenza alla quale partecipano tutti e tre i livelli di partecipativi sopra detti.
141
La conoscenza, in quanto tale, si struttura secondo complessità grazie alla compartecipazione della
persona, della comunità di pratiche di riferimento e del mondo sociale. L’apprendimento, per il
quale gli autori Lave e Wenger (2006) hanno utilizzato la metafora dell’apprendistato e
l’associazione con la partecipazione periferica legittima, non può esimersi dall’esperienza della
partecipazione e dal sentimento dell’appartenenza.
“Questo quadro concettuale concorre a riconoscere la pratica come quel contesto epistemologico e
storico in cui si trasmettono e al contempo si generano conoscenze, introduce il concetto di
comunità che si definisce come luogo sociale e fisico in cui si compiono l’apprendimento e il
lavoro, contribuisce a chiarire come si apprende dentro tali comunità nella convinzione che le
specifiche competenze e conoscenze non stanno nella “testa” dei soggetti più esperti, ma
nell’organizzazione delle attività nel significato sociale attribuito ad esse” (Fabbri, p. 49).
L’apprendimento, quindi, lungi dall’essere un trasferimento di conoscenza di chi ha maggiori
saperi verso chi ne ha di meno, è localizzabile in tutte quelle situazioni di pratica e
“copartecipazione” di soggetti con livelli di esperienza diversi. In questo senso, al di fuori dei
contesti formalmente implicati nelle attività di formazione, la vita quotidiana è campo di
apprendimento e in modo particolare il mondo del lavoro.
Il mondo del lavoro è teatro di relazioni, di saperi specializzati, di strumenti simbolici e materiali,
di scambio di conoscenze, di intensi flussi di comunicazione formale e informale, di regole e
procedure, di esperienze e pratiche condivise ma anche novità da sperimentare. L’innovazione e il
cambiamento che ogni professione richiede e porta con sé rappresentano due peculiarità
dell’attività lavorativa in genere: nessun sistema organizzativo può oggi esimersi dal prendere in
considerazione la complessità del contesto socio-economico in cui si opera. Affinché la pratica
possa supportare concretamente tutti i possibili percorsi di trasformazione individuale e
organizzativa deve potersi ancorare alla riflessione, ovvero assumere una valenza di tipo euristicoriflessivo. Il fine ultimo è la consapevolezza degli strumenti a propria disposizione e dei possibili
itinerari di crescita.
“L’uso del paradigma riflessivo caratterizza gli orientamenti sulla formazione in ambito internazionale
perché consente di prefigurare dispositivi che investono nelle potenzialità cognitive ed euristiche dei
professionisti. Potenzialità che, se adeguatamente supportate, possono creare condizioni promettenti
perché i professionisti diventino consapevoli dei modelli teorici ed operativi che sottostanno alle loro
pratiche” (ivi, p. 17).
Della positività del contributo della riflessione abbiamo già parlato sia a proposito del pensiero
metacognitivo che di quello narrativo. In questa sede, dopo l’iter di analisi seguito dall’inizio di
questo lavoro, potrebbe essere interessante delineare il profilo caratteriale di una formazione che si
dica orientata alle dinamiche di tipo psicosociale e storico-culturali e che si avvalga di metodologie
142
volte a stabilire modalità di apprendimento situato ovvero di pratica, metacognizione e riflessione,
per attivare percorsi di crescita individuale e organizzativa. Nel quadro così detto, il passaggio
metodologico da una prospettiva “oggettivista/quantitativa” ad una “costruttivista/qualitativa”
risponde all’esigenza di poter dare una lettura del mondo come storicamente determinato, ovvero
“chiama in causa la necessità di operare con conoscenze che non sono mai indipendenti dai mondi
particolari con cui un individuo o una cultura strutturano il mondo. Le forme di conoscenza sono
sempre ineluttabilmente locali, inseparabili dai lori strumenti e dai loro contenitori. Ed ogni oggetto
d’indagine diventa situato. […] Così le diverse discipline si rendono disponibili a studiare oggetti
situati. Per quanto riguarda le scienze della formazione ogni contesto organizzativo diventa un
oggetto di indagine dove studiare i processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza
[…]” (ivi, 18-19).
La rivisitazione della formazione alla luce dei contributi post-cognitivisti e costruttivisti visti in
questo capitolo, oltre a valorizzare i saperi taciti e situati degli attori organizzativi, il ruolo della
pratica nell’apprendimento e nei processi di produzione della conoscenza, avalla l’idea di un
“professionista come soggetto epistemico” (ivi, p. 53) capace di costruire il proprio bagaglio
conoscitivo mediante l’esperienza pratica e diretta all’interno di una comunità. L’adulto che
apprende nei contesti di lavoro, pertanto, in nessun modo può essere paragonato ad uno studente
convenzionalmente inteso ovvero collocato entro ambienti strutturati per un apprendimento
trasmissivo. Il lavoratore che apprende possiede già delle conoscenze che lo caratterizzano come
uomo e professionista, conoscenze che si sono stratificate dentro di lui nel corso della vita.
L’“adultità” rappresenta una peculiarità della formazione situata e lavorativa, tanto che esistono
vari studi a sostegno della possibilità di teorizzare un apprendimento specificatamente adulto. Tra
questi, il nome di Malcolm Knowles (1973) che ha dato vita ad una disciplina chiamata
“andragogia” (Knowles, Holton III, Swanson, 2008) e, in Italia, quello di Duccio Demetrio (et al.
2002; 1994) autore del principio dell’“adultità plurima”.
Il contributo di Demetrio, concentrato sulla possibilità di sviluppare il potenziale cognitivo degli
adulti che apprendono nelle organizzazioni, rappresenta un iter argomentativo che, a partire dalla
constatazione, psicoanaliticamente intensa, di un livello sotteso, latente dell’identità dell’adulto e
dei contesti dei suoi vissuti, guarda alla crescita come “processo di cambiamento plurimo”. “Come
mutevolezza: nel gioco dei volti diversi che l’adulto può esibire nel corso della sua esistenza. A
questi volti, l’organizzazione cui si appartiene, o le molte organizzazioni che si attraversano,
conferiscono un profilo che anche mentale” (Demetrio, 2002). Nonostante l’età adulta sia stata
lungamente definita come punto d’arrivo, compimento e pertanto rinchiusa entro i confini della
staticità, ad oggi, può essere riconosciuta tanto per i fattori legati alla crescita (biologia, genetica,
143
psicologica) e al cambiamento (storico-sociale). L’età adulta, in tal senso, è uno scenario
dell’esistenza in permanente trasformazione, all’insegna della pluralità interiore ed esteriore. Il
rinnovamento dell’identità cognitiva dell’adulto si attiva attraverso percorsi di formazione che
rispondono alle necessità di uno dei diversi volti dell’adulto. “L’identità adulta è quindi gioco
dinamico che non raggiunge mai punti di equilibrio o sintesi, ma stati organizzativi più complessi”
(ivi, pp. 30-31). Sulla base di ciò, l’educabilità cognitiva, ovvero l’investimento in intelligenza,
diviene una priorità dell’adulto lavoratore e delle organizzazioni a cui partecipa, intese esse stesse,
in base ad una visione organicistica, come “menti e spazi di educabilità cognitiva” storicamente e
culturalmente determinati. Garantendo, così, all’adulto un livello di formazione stabile e continuo
che veicoli contenuti professionali ed extra-professionali, attingendo dalla sfera lavorativa e
privata, è possibile, secondo la logica del lifelong learning, migliorare la qualità della vita
individuale e favorire il benessere dell’organizzazione in cui si opera.
Il “modello olistico dell’andragogia in pratica” di Knowles (et al. 2008) riunisce in sé una serie di
principi mediante i quali definire e al tempo stesso orientare iniziative legate all’apprendimento in
età adulta. Insieme a fattori quali l’individualità del discente, le particolarità situazionali e gli
obiettivi e gli scopi dell’apprendimento, l’autore contraddistingue l’apprendimento adulto a partire
da una serie di assunti fondamentali:
 il bisogno di conoscere: gli adulti sentono l’esigenza di sapere perché occorra apprendere
qualcosa prima di intraprendere un cammino di apprendimento, esaminare i possibili vantaggi e
gli svantaggi nel caso in cui si rinunciasse;
 il concetto di sé del discente: “gli adulti hanno un concetto di sé come persone responsabili delle
proprie decisioni e della propria vita”, sviluppano un bisogno psicologico di essere considerati e
trattati dagli altri come persone capaci di gestirsi autonomamente; pertanto, non sentendosi
semplici destinatari di formazione ma possibili co-autori di apprendimento, respingono ogni
forma di imposizione e prediligono situazioni in cui possano sentirsi autonomi;
 il ruolo dell’esperienza del discente: “gli adulti intraprendono un’attività di formazione con
un’esperienza maggiore e di qualità diversa rispetto a quella dei giovani”; la valorizzazione della
loro esperienza costituisce un fattore determinante ai fine del loro apprendimento;
 disponibilità ad apprendere: “gli adulti sono disposti ad apprendere ciò che hanno bisogno di
sapere e di saper fare per fronteggiare adeguatamente le situazioni della loro vita reale”; la
disposizione ad apprendere risulta sincronizzata con compiti di tipo evolutivo;
144
 orientamento verso l’apprendimento: diversamente da quanto accade con i giovani nei contesti
scolastici, “l’orientamento al’apprendimento degli adulti è centrato sulla vita reale (o sui
compiti, o sui problemi). Gli adulti sono motivati ad apprendere nella misura in cui ritengono
che questo potrà aiutarli ad assolvere compiti o ad affrontare problemi con i quali devono
confrontarsi nelle situazioni della loro vita reale”. Inoltre, apprendono più facilmente quando i
“contenuti” dell’apprendimento sono presentati nel contesto della loro applicazione alle
situazioni di vita.
 motivazione: “gli adulti rispondono ad alcuni moventi esterni (lavoro migliore, promozioni,
aumenti salariali e simili), ma le motivazioni più potenti sono e pressioni interiori (il desiderio di
maggiori soddisfazioni professionali, l’autostima, la qualità della vita e simili)” (ivi, pp. 77-81).
A completamento di quanto sopra detto, va ricordato che quando l’adulto intraprende un percorso
di formazione qualificata ripropone il condizionamento ricevuto nelle prime esperienze scolastiche.
L’imprinting situazionale del mondo della scuola, insieme al bagaglio strutturato delle
rappresentazioni costruite attraverso l’esperienza diretta secondo il paradigma tradizionale del
passaggio di saperi tra insegnate e discente, crea un conflitto tra il modello intellettuale del
“discente dipendete” e il bisogno psicologico, di cui si è detto sopra, di essere autonomi. Pertanto,
un concetto negativo di sé come studente o fattori quali l’inaccessibilità di opportunità e risorse, la
mancanza di tempo e programmi disattenti alle caratteristiche dell’apprendimento adulto, tra le
quali spiccano l’esigenza di concretezza pratica e situazionale, ovvero spendibile, dei contenuti
proposti e la valorizzazione dell’esperienza pregressa e diretta, possono incidere negativamente
sugli esiti dell’apprendimento stesso (ibidem).
La formazione risponde alle istanze dell’apprendimento sociale, situato e comunitario avallando
iniziative di ricerca e intervento volte a cogliere gli aspetti salienti dello sviluppo professionale
direttamente all’interno dei contesti di lavoro. In particolare, la psicologia culturale delle
organizzazioni si concentra sui contesti organizzativi intesi come contesti di ricerca sui processi di
lavoro e apprendimento e non solo campi di applicazione dei risultati al di fuori di essi
(Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995). L’individuazione di un nuovo rapporto tra ricerca e
studio delle pratiche proprio delle correnti interpretative e qualitative della fenomenologia ed
etnografia ha messo in luce come il sapere prodotto dalla ricerca sia spendibile dal punto di vista
professionale. “La professionalità non è solo un prodotto, ma anche la condizione di una teoria: una
condizione che condiziona i processi che dovranno condizionarla” (Fabbri, 2007, p. 35). Le
pratiche di lavoro reali mostrano delle sostanziali differenze con le pratiche di lavoro formali e, in
particolare, le teorizzazioni basate su costrutti concettuali che non hanno fondamento pratico e
145
situato risultano riduttive rispetto alla molteplicità e variabilità degli aspetti caratterizzanti i luoghi
reali del lavoro e della crescita professionale.
Gli studi sulle comunità di pratiche hanno avuto, in tal senso, il merito di aver messo in evidenza
una notevole creatività e capacità di apprendimento situato da parte dei lavoratori nelle attività
ordinarie: “si potrebbe dire che una misura di intelligenza individuale, ma soprattutto
organizzativa, è proprio il grado di creatività delle strategie con cui ognuno svolge e affronta il
proprio lavoro” (Zucchermaglio, 1996, p. 83). Il costrutto di “intelligenza organizzativa”, come
sottolinea Zucchermaglio (in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio 1995; 1996), consente di
sottolineare la centralità epistemologica di queste pratiche non canoniche, diversamente esperte e
flessibili, che vengono costruite, applicate, trasmesse e apprese proprio per superare la distanza tra
un approccio formale dell’organizzazione e un sistema di pratiche efficace. La volontà di riuscire a
cogliere e descrivere gli aspetti distintivi della vita lavorativa reale scaturisce non solo
dall’esigenza di dati concreti ed esemplificativi, ma anche dall’esigenza dare risposte concrete al
mondo del lavoro che cambia e alle sempre nuove sfide che in termini di professionalità si aprono
all’orizzonte. La formazione, intesa come cultura e come pratica, non può esimersi dal prendere
atto dei risultati emergenti dalle iniziative di ricerca-intervento entro i contesti di lavoro e nello
specifico entro le comunità di pratiche e apprendimento, ovvero dalla valorizzazione di tutti quegli
aspetti legati alla transizione sociale e culturale che si ha all’interno delle comunità stesse e delle
quali gli attori organizzativi sono gli indiscussi protagonisti.
La formazione deve saper rispondere alle richieste legate alla pratica e alla riflessione costruttrice
che la pratica richiama e, alla luce di quanto detto fin qui in questo capitolo, il primo passo è
rappresentato dal ristabilire un contatto diretto con il formando, inteso come adulto dotato di
peculiarità apprenditive, professionista che a partire dalla propria storia (personale e professionale)
è in grado di affermare la propria identità e di progettare il proprio cambiamento. “Esiste un agire
quotidiano rispetto al quale il soggetto professionale è riconosciuto come competente ed in grado di
apprendere dall’esperienza” (Fabbri, 2007, p. 54). Il cambiamento che la formazione è
potenzialmente in grado di scatenare è rintracciabile nel singolo individuo, al quale va riconosciuta
capacità di autotrasformazione, ma anche nell’entità-comunità grazie alla “copartecipazione” dei
soggetti coinvolti, alla loro co-costruzione di un’identità comunitaria nella quale confluiscono le
storie di tutti i partecipanti. L’applicazione del principio della riflessività all’interno delle comunità
di pratiche ha permesso un’ulteriore evoluzione, arrivando a parlare di “comunità riflessive” (ivi, p.
90). La formazione deve quindi saper parlare all’identità del singolo ed insieme del gruppo e della
comunità di pratiche d’appartenenza, facendo riferimento alla complessità dei saperi situati e
condivisi che contraddistinguono la cultura comune dei formandi. Di qui la necessità, di cui si è già
146
parlato ampliamente a proposito della formazione psicosociale, di non avanzare percorsi di
formativi precostituiti, ma di programmare le attività di training solo dopo un’attenta analisi degli
aspetti organizzativi evidenti e sottesi, lavorando su diversi livelli di consapevolezza, quella
dell’agire e dell’identità agita ed esperita, a partire dai quali poter evidenziare nuove possibilità di
scelta, nuove progettualità.
A fronte di questo principio di riflessività allargata, condivisa e situata, il sapere trasmesso
linearmente, a priori, svincolato dal contesto verso il quale si rivolge, risulta ancor più
depotenziato: il connubio tra l’esperienza e l’aspetto dell’intenzionalità dell’apprendimento che
s’intende scaturire costituiscono due aspetti fondamentali ai fini del cambiamento formativo, vale a
dire che “ogni possibilità di trasformazione dell’esperienza umana chiama in causa un’interazione
– intenzionale o coordinata – tra i saperi e quell’esperienza quotidiana che i soggetti vivono in
famiglia, nel contesto relazione, in quello professionale o nella comunità d’appartenenza” (ivi, p.
55). Intervenire entro i processi sociali e storico-culturali di costruzione dei significati, agendo su
esperienza, pratica e riflessione situati, è il compito della formazione. Per modificare un modo
d’essere, pensare e agire occorre innanzitutto avviare un “conflitto apprenditivo” tra ciò che si è e
ciò che si potrebbe essere. Nel caso particolare di soggetti adulti lavoratori, la formazione non può
evitare di presentarsi come reale opportunità di riprogettare lo spazio esistenziale dei formandi a
partire dall’attestazione dei rituali mentali e modelli operativi già posseduti e consolidati attraverso
l’esperienza. Di qui l’importanza di mettere a fuoco la dimensione del significato ricorrendo a
quella del pensare (i saperi condivisi, le teorie implicite, le rappresentazioni) e dell’agire (le
procedure, le norme, i valori di riferimento, le aspettative), attivando dei percorsi di riflessione che
sollecitino il coinvolgimento individuale a partire dalla pratica stessa, garantendo cioè il principio
equilibratore di cognizione e azione.
Apprendere nella pratica, sottolinea Wenger (2006; 1998), non significa affermare che tutto ciò che
facciamo equivale ad apprendimento: occorre garantire un accesso legittimo alla pratica ovvero
ricreare le condizioni favorevoli alla partecipazione periferica legittima. Di conseguenza, la
formazione che voglia promuovere processi di apprendimento basati sulla pratica ha il compito di
garantire condizioni di partecipazione adeguate: condivisione di storie, negoziazione di significati,
riflessione. La riflessione è ciò che permette di stabilire una certa distanza tra il soggetto pensante e
l’oggetto pensato: il tempo della riflessione offre una prospettiva diversa di sé e delle proprie
azioni, un visus osservativo attraverso cui intercettare i modelli di azione e cognizione peculiari del
singolo professionista e della comunità di cui è parte. “Quando i professionisti rispondono alle zone
indeterminate della pratica istaurando una conversazione riflessiva con gli oggetti della loro
situazione, essi ricostruiscono una parte del loro mondo di pratica e rivelano gli abituali processi
147
taciti di costruzione del mondo che sottendono tutta la loro pratica” (Schon, 2006, pag. 71). È
chiaro quindi come nell’interrelazione di pratica e riflessione entro specifici contesti di
partecipazione condivisa si sostanzi la capacità trasformativa dell’apprendimento, rispetto alla
quale la formazione può rappresentare una soluzione in grado di accompagnare e sostenere i
processi di cambiamento individuale e organizzativo qualora si proponga come sede di conferma,
di validazione e, quando necessario, di trasformazione di quel sapere implicito ed esplicito che ogni
comunità, nel’esercizio delle proprie attività lavorative, è in grado di produrre. In tal senso, la
formazione può essere pensata come luogo di transizione individuale, sociale e culturale.
L’apprendimento trasformativo nell’ottica di Mezirow (2003) può essere considerato come il
processo più importante nello sviluppo dell’adulto: ne è un esempio il professionista capace di
riflettere criticamente su cornici concettuali già possedute. Il pensiero critico-riflessivo rappresenta
la condizione dello sviluppo professionale consapevole: colui che mostra capacità di riflessione e
metacognizione può prendere coscienza delle strutture interpretative (credenze, valori, regole,
sentimenti, giudizi) assimilate nel proprio contesto di riferimento, ovvero ergersi al di sopra di esse,
rintracciando nella storia della comunità a cui appartiene la propria storia personale. La riflessione
è, pertanto, un dispositivo di crescita e sviluppo individuale, sociale e organizzativo che consente di
elaborare criticamente l’esperienza pregressa a partire dall’individuazione dei significati negoziati
e convalidati collettivamente: “è quella pratica discorsiva attraverso la quale un soggetto
individuale o collettivo valida l’intelligibilità di quanto fa, del perché lo fa e di come lo fa” (Fabbri,
p. 81). Chi è immerso nel lavoro ha una comprensione pre-riflessiva della situazione in cui si trova,
ma dinnanzi ad una novità, ad un momento di rottura in cui le normali pratiche risultano
inadeguate, a fronte di una mediazione esterna, può realizzare un percorso di tipo “evolutivo”,
attraversando quella che si può definire “zona di sviluppo prossimale”, pervenendo a livelli di
riflessività e consapevolezza superiori. Il ruolo del mediatore/formatore, del contesto di
mediazione/formazione può fare, in tal senso, la differenza sia a livello di opportunità evolutive che
di trasformazione delle prospettive di significato.
La formazione, infatti, a partire dall’attenzione riversata nella pratica riflessiva, costituisce un
ulteriore contesto di negoziazione dei significati sociali, culturali e organizzativi, una sorta di
“meta-livello” riflessivo e partecipativo mediante il quale poter approdare ad ulteriori panoramiche
di significato e consapevolezza rispetto al sé-persona e sé-comunità. Mezirow parla a tal proposito
di “trasformazioni collettive” (Mezirow, 2003, p. 181), ovvero di modificazioni dei percorsi di
apprendimento non individuali ma comunitari a partire da un’esperienza riflessiva che ha le
sembianze di una attività di auto-controllo e ricostruzione dei sistemi di pensiero e azione vigenti
all’interno di una organizzazione, i quali, sulla base della complessa dinamica storico-culturale
148
della cognizione di cui si è parlato in questo capitolo, si costruiscono nell’interazione tra
professioni esperti e novizi, nella compartecipazione di esperienze e competenze diverse, ovvero
nella convivenza di un sistema formale e informale di lavoro e sapere. I concetti di pratica e
riflessione, in quest’ottica, hanno rinforzato l’idea di una formazione psico-sociale, rivolta alle
dinamiche lavorative reali, capace di stabilire una solida connessione con i sistemi organizzativi
entro cui si trova ad agire, attenta a tutte quelle esperienze di studio e ricerca d’orientamento
etnografico nelle quali trovare sia le indicazioni necessarie a guidare l’azione formativa che gli
strumenti mediante i quali rivolgersi con maggiore consapevolezza ad un mondo del lavoro sempre
più mutevole e variamente caratterizzato.
Riflessioni conclusive
L’analisi attraverso questi primi tre capitoli ci ha permesso di ricostruire un quadro teorico
estremamente complesso. Chi si avvicina al mondo della formazione non può che scontrarsi od
incontrarsi che dir si voglia con un vastissimo panorama informativo, una letteratura ampia e
variegata entro la quale sono riscontrabili molteplici indirizzi di studio e ricerca. Un filo conduttore
comune, in sintonia con i concetti oggi fortemente sentiti di “complessità” e “pensiero complesso”
ricollegabili all’opera moriniana, è dato dall’accertamento che la formazione è sicuramente una
risorsa strategica per il nostro sistema socio-economico, ma all’attestazione di questa importanza
sociale ed economica corrisponde una reale difficoltà di gestione e di impostazione. Quaglino parla
della necessità di una teoria generale delle formazione. Altri autori, come lui, avvisano l’esigenza
di una formalizzazione del sapere intorno alla formazione e di una continuità teorica a cui riferirsi.
La mancanza di una forma di sapere organizzata storicamente e culturalmente è un dato di fatto ma
è altrettanto innegabile l’impossibilità di ridurre ad unico sentire o pensare un settore disciplinare
tanto variegato. A fronte della sua complessità un paradigma unico non è contemplabile. Abbiamo
tentato di dimostrarlo proprio a partire dal percorso storico della formazione, attraverso i modelli
modernista, neo-modernista e post-modernista ovvero l’evoluzione del concetto di formazione
come “cultura” inevitabilmente declinato in chiave lavorativa, all’interno della realtà organizzativa.
Il binomio formazione-organizzazione, nei termini di paradigma formativo entro uno specifico
modello organizzativo, ha caratterizzato l’intero iter evolutivo della formazione dalla prima
rivoluzione industriale fino ai nostri giorni.
Nonostante la sensibilizzazione in chiave soggettiva che attualmente gli studiosi di fenomeni
formativi
stanno
dimostrando,
la
formazione
resta
in
prevalenza
un
appannaggio
dell’organizzazione lavorativa, in quanto da un lato politica di gestione del personale orientata al
149
corretto funzionamento organizzativo e aumento della produttività economica e sociale, dall’altro
essa stessa attività di lavoro per formatori e agenzie delegate allo scopo. La formazione quindi
viene inevitabilmente agganciata alla logica del “guadagno” e, di conseguenza, intorno ad essa è
iniziato un pullulare di iniziative, attività, istituti, soluzioni diversificate per target, scopi, costo,
ecc. che ha contributo ad incrementare la complessità del fenomeno tanto che è sempre più difficile
orientarsi tra proposte formative concrete o prive di valenza apprenditiva. Formazione a catalogo, a
pacchetto, outdoor, di gruppo, e-learning, corsi di aggiornamento, di specializzazione, master,
eccetera: innumerevoli sono gli identificativi in cui ci si può imbattere e gli obiettivi
potenzialmente da raggiungere. Entro questo “melting pot” di possibilità il mondo del lavoro
subisce la logica stordente del “business” e il soggetto subisce il rischio di vedersi inghiottito nella
logica della produttività e quindi scomparire. Da qui la necessità di riportare il discorso della
formazione sulla persona, lavoratore e formando, e sulla facoltà di apprendere, in quanto un
discorso sulla formazione è possibile, come sottolinea ancora una volta Quaglino, solo a partire da
un discorso sull’apprendimento.
A fronte di questa analisi storico-culturale e nella prospettiva di andare a sistematizzare un progetto
di ricerca sulla formazione condotto in un contesto aziendale, abbiamo scelto di dare
approfondimento ad uno specifico orientamento di studio, quello psico-sociale. La scelta è dovuta
non solo al senso di appartenenza a questo orientamento di studio ma alla necessità di trovare in
questo ambito disciplinare delle chiavi di lettura e di interpretazione dei fenomeni formativi
all’interno di ambienti organizzativi capaci di dar seguito e valore ai temi legati
all’individuo/formando e all’organizzazione/committenza in senso sociale e culturale. È infatti
fuorviante a nostro avviso parlare di formazione senza menzionare i fattori contestuali che in modo
profondo e strutturante incidono sulla pratica formativa. Esiste un mondo di non detto, di pratiche e
rappresentazioni condivise, di procedure e rituali, di artefatti simbolici e materiali, di storie e
vissuti su cui si costruisce la struttura organizzativa al di là degli organigrammi, degli stili
gestionali, de metodi di lavoro formali e istituzionalizzati. In quest’ottica, nelle organizzazioni
convivono due sistemi di sapere, uno esplicito e formalmente regolamentato e l’altro implicito e
informale, tramandato nel tempo attraverso l’esperienza e la narrazione, così come accade nella
trasmissione della conoscenza attraverso la convivenza di teorie esplicite a cui si riconosce
scientificità e teorie impliciti, proprie del senso comune.
La conoscenza nelle organizzazioni ha natura distribuita 64, culturale e sociale. Ha le sembianze di
una “rete” che tiene uniti individui e competenze secondo un disegno che possa risultare funzionale
64
Il riferimento è alla teoria della “cognizione distribuita” (distribuited cognition) di Hutchins: la conoscenza, così
come l’intelligenza sono distribuite nei contesti di azione e si manifestano a livello di sistema, nella complessità dei
150
ai fini organizzativi. La formazione in quanto processo di creazione e al tempo stesso trasmissione
di sapere non può esimersi dal prendere atto di questo complesso mondo sotterraneo di conoscenza
intra-organizzativa. La formazione psicosociale e psicosociologica, mantenendo la centralità sui
concetti di gruppo, di rappresentazione sociale, di processi di co-costruzione della conoscenza, di
dinamica relazionale, ha sviluppato esperienze di studio e ricerca che hanno valore di guida qualora
si voglia guardare all’organizzazione come contesto di socializzazione lavorativa e formativa.
L’impostazione psicosociale e storico-culturale non può che sostanziarsi nell’attenzione ai flussi
comunicativi tra i diversi sotto-sistemi organizzativi e in modo particolare agli aspetti discorsivi
della relazione fatta “narrazione”, ovvero agli individui che si raccontano ad altri individui secondo
modalità di condivisione e compartecipazione lavorative. La narrazione, soprattutto quando
autobiografica, favorisce l’elargizione di significati che solo attraverso la presenza e l’ascolto
possono essere dati e captati. Non solo la narrazione, come argomentato da Bruner, è una
procedura di costruzione e trasmissione della conoscenza umana, ma in ambito formativo
costituisce una metodologia di analisi e raccolta dei dati ovvero di attivazione di senso a partire
dalla riunione di pratica e riflessione.
Qualsiasi analisi del concetto di formazione, a nostro avviso, non solo non può darsi fuori da
un’ottica contestuale e psico-sociale ma anche e soprattutto fuori dalla dinamica dell’apprendere.
La formazione ha come obiettivo l’apprendimento e capire cosa sia l’apprendimento, come
funzioni, rappresentano due peculiarità per qualsiasi discorso formativo. Entro la panoramica degli
studi sull’apprendimento tutte le tematiche attraversate nei primi due campitoli hanno potuto
trovare i tasselli mancanti ad un’analisi che pur non potendosi dire completa vista la complessità
dell’argomento, comunque ambisce a dar ragione delle principali questioni che riguardano il
versate “umano” e “sociale” della formazione. Pertanto, il primo tassello focalizza la poliedricità
del fenomeno, sottolineando come esso dipenda da una serie di fattori riconducibili alla persona,
abilità cognitive, motivazione, auto-efficacia, personalità, orientamento al lavoro e capacità di
trasferimento di competenze che, nella loro totalità, per offrire elementi di significatività devono
poter essere considerati entro i contesti di vita e lavoro. Da qui la constatazione che
l’apprendimento insieme alla formazione hanno una valenza sociale e situazionale. Nonostante
l’apprendimento non possa esimersi da una lettura cognitivista e da un a particolare attenzione alle
rapporti che lega l’agente e gli strumenti che ha a disposizione. Un sistema di lavoro è così un sistema cognitivo e
computazionale, le cui attività si realizzano all’interno di un fitto network di interazioni, per mezzo di una continua
coordinazione di rappresentazioni sia interne che esterne agli individui. Tra le componenti esterne: le regole scritte, le
tecnologie, tutti gli strumenti che semplificano il lavoro, rendendolo comprensibile. L’autore parla a tal proposito di
“performance di sistema” e di “sistema di cognizione distribuita”. Secondo questa logica, l’apprendimento è il frutto
della distribuzione delle conoscenze, capacità, e competenze all’interno di un complesso sistema di interazioni tra
individui, artefatti e ambiente (Hutchins, Klausen, in Zucchermaglio, Alby, 2006).
151
possibilità date dalla metacognizione, l’approccio costruttivista è quello che attualmente può
meglio rappresentare la natura dell’apprendere come fenomeno di partecipazione cognitiva e
sociale ad eventi di formazione.
Sulla base dell’approccio situato e storico-culturale, l’apprendimento è un evento sociale
profondamente intrecciato con i processi di costruzione della conoscenza. Quest’attestazione
permette di superare il modello classico della formazione e dell’apprendimento come
“trasferimento”, sulla base del quale conoscenza e pratica, cognizione e azione vengono percepite
come universi di sapere separati tra loro, e favorire una visione dell’apprendimento come pratica
sociale, riportando la conoscenza nei contesti nei quale acquista significato. L’apprendimento
consiste nella partecipazione graduale a comunità di pratiche e non nell’acquisizione pura e
semplice di nozioni astratte. Il concetto di attività e di conoscenza storicamente e culturalmente
intese si combinano nella “metafora dell’apprendistato” indicativo della “pratica situata in un
contesto sociale significativo di attività” (Zucchermaglio, 1996, p. 79).
I contesti di attività che meglio si prestano alla descrizione delle dinamiche dell’apprendimento
sociale sono i contesti di lavoro che, in quanto tali, risultano caratterizzati da strumenti simbolici e
tecnologici, da pratiche consolidate, da legami sociali, da insiemi di persone, ovvero da una serie di
risorse che rendono ogni contesto lavorativo riconoscibile per le sue peculiarità quindi unico. I
luoghi di lavoro si contraddistinguono per pragmatismo: gli individui adulti lavoratori hanno
possibilità di acquisire pratiche lavorative, ruoli sociali e comportamenti lavorativi che permettono
loro di divenire membri di una comunità e identificabili come professionisti capaci di concretizzare
e rendere tangibile il proprio sapere. In questo senso, la prospettiva culturale e situata
dell’apprendimento permette di dare evidenza all’alta potenzialità formativa dei contesti lavorativi.
La formazione nelle organizzazioni deve, per questo motivo, saper fuoriuscire dai modelli d’aula e
prevedere soluzioni alternative che facciano rientrare il lavoro “vero” nella programmazione delle
attività, ovvero che sappiano organizzare e strutturare le molteplici risorse presenti nel contesto
lavorativo e non inibire le condizioni favorevoli l’apprendimento situato.
Dal punto di vista culturale e situato, apprendimento, comunicazione e lavoro possono essere
considerati congiuntamente come tre fattori costitutivi di un sistema di attività lavorativa. Sulla
base di ciò un’organizzazione che voglia avere il controllo dei processi di cambiamento sollecitati
dall’ambiente esterno o dallo stesso ambiente interno deve, nella logica batesoniana, “apprendere
ad apprendere”, imparare ad imparare dai risultati dell’esperienza, dalle pratiche migliori, dalla
sperimentazione, dal problem solving sistematico. Gli apprendimenti generati attraverso questo
tipo di attività possono essere rimaneggiati a favore del processo di equilibrazione interna del
152
sistema organizzativo e dell’innovazione dello stesso. Cambiare e innovare sono evidentemente
due proprietà dell’apprendere, di un apprendere consapevole, come nel caso delle “learning
organizations”, in grado cioè di trarre vantaggio dalla normali attività produttive, andando oltre le
conoscenze già acquisite, attraverso processi interpretativi, costruttivi, generatori di identità e
portatori di senso. Da qui la possibilità di poter parlare, utilizzando un’espressione di
Zucchermaglio, di “intelligenza organizzativa”. Il rimando è alle prospettive multidimensionali
del’intelligenza di Gardner e Sternberg a partire dalla quali: “l’analisi delle pratiche lavorative reali
ha quindi permesso di scoprire capacità creative e innovative anche nelle persone normali che
svolgono compiti ordinari e «banali» e non solo in scienziati o artisti geniali” (Zucchermaglio, in
Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995, p. 245).
Ci occuperemo nella prossima parte di questo lavoro dello studio delle organizzazioni in chiave
psico-culturale e della metodologia di ricerca, in modo specifico quella di tipo etnografico e
qualitativo, che contribuisce a disegnare i contesti di lavoro “arricchiti” (Zucchermaglio, 1996, p.
102) per l’apprendimento e la formazione. Alla luce delle teorie “scientifiche” che costituiscono il
nostro riferimento di senso, andremo a ricostruire passo dopo passo un’esperienza di formazione in
azienda. Utilizzeremo gli strumenti dell’analisi storico-culturale e psicosociale per riportare alla
luce, attraverso le narrazioni degli individui coinvolti, gli elementi esemplificativi ai fini della
constatazione della natura sociale e situata delle attività di lavoro e formazione e di verifica delle
ipotersi su cui è stato basato l’intero disegno di ricerca.
153
154
SECONDA PARTE
LA FORMAZIONE E IL CAMBIAMENTO IN AZIENDA
155
156
CAPITOLO QUARTO:
STUDIARE LE ORGANIZZAZIONI: IL CASO LUBE CUCINE
– “FEUERSTEIN IN AZIENDA” –
4.1. Le organizzazioni: la prospettiva psico-culturale
Le organizzazioni dal punto di vista della psicologia culturale costituiscono il contesto dell’azione
situata, il luogo dell’incrocio delle pratiche di apprendimento, comunicazione e lavoro, i sistemi di
attività più diffusi all’interno della nostra società a partire dai quali si è assistito negli ultimi anni al
costituirsi di un nuovo campo d’indagine che è stato definito come “psicologia culturale dei gruppi
e delle organizzazioni” (Zucchermaglio, Alby, 2006). Entro questo nuovo ambito di ricerca i
contesti organizzativi sono considerati alla stregua di complessi sistemi di attività mediati
culturalmente e di conoscenza distribuita tra i partecipanti, i quali, per la loro stessa natura,
risultano affini ad uno studio contestuale e situato del funzionamento psicologico umano. Individui
e gruppi sono il cuore pulsante di qualsiasi organizzazione, pertanto, ogni discorso intorno alla
natura delle organizzazioni ed il loro modus operandi non può esimersi dal centrare l’aspetto
“umano” e non solo operativo dell’attività. L’immagine classicamente intesa dell’organizzazione
come una sorta di “macchina che si muove verso il raggiungimento di determinati obiettivi”
(Depolo, p. 37) risponde ad un’esigenza di ordine e controllo che molto si allontana dalla realtà dei
fatti. Pur avendo come obiettivo il mantenimento di una funzionalità duratura nel tempo, coloro che
vivono e interagiscono con il mondo delle organizzazioni sanno che spesse volte, soprattutto nel
caso delle organizzazioni di lavoro, ci si trova a dover fronteggiare situazioni di caos e
problematicità o richieste di cambiamento. Qualsiasi iniziativa, in tal senso, non può essere pensata
al di fuori della logica situazionale dell’agire umano.
Il binomio persona-organizzazione non può essere scisso a favore di nessuna meccanicistica
operazione di razionalizzazione. Anzi, onde evitare parzialità di qualsiasi tipo, occorre riconoscere,
come stabilito dagli autori Paniccia e Carli (1999) la “collusione emozionale” che lega
inscindibilmente il mondo organizzativo e l’individuo. Nel contesto organizzativo i membri si
trovano ad acquisire peculiarità nuove ed originali, in un continuum di reti relazionali sociali, che
vanno a delineare il proprio spazio di vita, entro cui si provano emozioni, sentimenti, si generano
valori, atteggiamenti, si creano idee e progetti. Solo a partire da questa presa di posizione è
possibile assumere, ricollegandoci a quanto sostenuto nei precedenti capitoli, uno sguardo
realmente profondo e analitico rispetto alla convivenza di un disegno formale ed uno informale di
funzionamento organizzativo. Al di là della pianificazione strategica delle attività, esistono sistemi
157
localizzati di pratiche e di conoscenze/competenze distribuite che consento all’organizzazione
stessa di sopravvivere. Le pratiche di lavoro, ad esempio, sono molto di più che esperienze
professionali dirette: prevedono una specificità cognitiva, culturale e sociale che fanno di
un’organizzazione lavorativa una vera e propria cultura con i suoi sistemi di mediazione, i suoi
strumenti e artefatti, le relazioni condivise e partecipate. È un prodotto dell’agire umano e, come
affermato da Bruner a proposito del concetto di cultura, esercita al tempo stesso un vincolo che
condiziona ovvero struttura l’excursus evolutivo di coloro che ne prendono parte. Il contesto
organizzativo, simbolicamente intenso e connotato emozionalmente, è una presenza ineliminabile
nella realtà psicologica del lavoratore, in senso psicologico, cognitivo e sociale.
“È forse ancora più importante per il nostro ragionamento l’assunto che il rapporto tra una persona e il suo
contesto è di mutua creazione. In latri termini, le persone fanno in qualche misura i loro contesti e sono in
qualche misura fatte da questi […] le persone sono attive e creative ma sono anche sottoposte a vincoli
rispetto a ciò che possono creare. Benché non sia tutto possibile, esse selezionano in qualche misura i loro
contesti; benché subiscano limitazioni, in qualche misura si adattano ai loto contesti cambiando se stessi e
in qualche misura esse creano i loro contesti” (Hosking, Morley, 1991 cit. Depolo, 1998, p. 41). 65
Demetrio riconosce all’organizzazione le caratteristiche di intelligenza e razionalità proprie della
mente, definendola come “spazio di educabilità cognitiva”: ciò presuppone che gli individui
facciano funzionare il loro cervelli in modo plastico e sintonico, mostrando di appartenere ad uno
stesso sistema. Di qui la possibilità di parlare anche di “apprendimento organizzativo” 66, ovvero di
apprendimento collettivo dei soggetti coinvolti e modificazione profonda e strutturante delle mappe
cognitive utilizzate nell’organizzazione.
“L’organizzazione produce, e si trova in tal modo a possedere, una sua storia cognitiva: accumula una
propria cultura che è il risultato di tutto ciò che ha imparato attraverso il proprio modo di risolvere
problemi, innovare, avere successo ecc. e che mostra quindi di aver saputo trasformare le esigenze di
apprendimento in stili peculiari di apprendimento dei suoi membri” (Demetrio, Fabbri, Gherardi, 2002, p.
73).
Assodato il carattere di mutua creazione del rapporto individuo e organizzazione, definire cosa sia
un’organizzazione non è un’operazione semplice: sia per la polisemia del termine legata al divenire
dello stesso nel corso della storia, sia per la sua “onnipresenza”: “l’organizzazione è un concetto
che permea tutta la nostra vita, è un concetto-chiave per la comprensione di una molteplicità di
65
Per approfondimenti: D.M. Hosking, I.E. Morley, A social psychology of organizing, Hemel Hempstead, Harvester
Wheatsheaf, 1991, X.
66
Il concetto di apprendimento organizzativo, già più volte citato, viene solitamente associato ad un testo del 1978 di
Argyris e Schön nel quale gli autori arrivano ad elaborare l’organizzazione come un'espressione conoscitiva, dove gli
attori non sono unicamente soggetti di azione, ma anche soggetti di apprendimento organizzativo, in grado di
trasformare il modo di vedere la realtà nel contesto organizzativo. L’apprendimento si afferma come un atteggiamento
generalizzato e continuativo: si apprende ad apprendere, in modo che la scoperata e la correzione di un errore
divengano oggetto di apprendimento collettivo con la cosenguenze modifica della memoria e della mappa cognitiva
utilizzata dall’organizzazione. Gli autori parlano in tal senso di “learning organizations”. Per approfondimenti si veda:
C. Argyris, D. Schon, Apprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998.
158
fenomeni ed è un concetto relativamente indeterminato, relativamente oscuro” (Kaneklin, Olivetti
Manoukian, 2005, p. 15). Se dovessimo avvalerci di definizioni provenienti dal mondo tecnicoaziendale, dovremmo necessariamente soffermarci su tre particolari significati:
1) organizzazione come assetto organizzativo e quindi componente, o parte, dell’azienda;
2) organizzazione come specifica attività o funzione, rivolta a costruire, realizzare o modificare
l’assetto organizzativo di un’azienda;
3) organizzazione
come
riferimento
teorico
e
concettuale,
che
orienta
l’intervento
sull’organizzazione e quindi la funzione o l’attività che consiste nell’organizzare.
“Esiste una relazione tra i tre significati indicati, nel senso che la visione o teoria dell’organizzazione (3)
orienta gli interventi e le azioni (2) rivolti a costruire o modificare un determinato assetto organizzativo
(1)” (Rebora, 2004, p. 20).
È evidente una logica razionalistica di orientamento allo scopo, volta al raggiungimento degli
obiettivi scelti e al funzionamento efficiente. Il fattore umano individuato come “risorsa umana”
viene in questi termini classificato come “materia finalizzata a”, “strumento per”, impoverito
inevitabilmente dell’ampiezza dei significati che rientrano nell’“universo-persona”, e in modo
particolare della potenzialità emozionale scaturente dal rapporto con i contesti d’attività.
Rivolgendoci alle scienze sociali, sociologia e la psicologia delle organizzazioni le definizioni
sembrano più aperte alle possibilità interpretative dell’interazione persona-organizzazioneambiente.
“Le organizzazioni sono delle realtà socialmente costruite che si trovano più nelle menti dei loro membri
che nelle strutture” (Morgan, 2004, p. 189).
“L’organizzazione è una forma di azione collettiva reiterata basata su processi di differenziazione e
integrazione tendenzialmente stabili e intenzionali” (Ferrante, Zan, 1994, p. 31).
“Le organizzazioni sono strutture sociali finalizzate alla pratica. Anzi, è proprio attraverso le pratiche che
mettono insieme che le organizzazioni possono fare ciò che fanno, sapere ciò che sanno e imparare ciò che
imparano. Le comunità di pratica sono fondamentali per la competenza di un’organizzazione e per
l’evoluzione di quella competenza” (Wenger, 2006, 269).
“L’organizzazione è vista piuttosto come realtà dinamica, continuamente e variamente animata da
individui e gruppi, attivi al suo interno con propri interessi e comportamenti finalizzati, con strategie
diverse, mutevoli nel tempo, difficilmente generalizzabili e soprattutto difficilmente riducibili a variabili
dipendenti” (Kaneklin, Olivetti Manoukian, 2005, p. 20).
Sarchielli afferma che si può definire un insieme sociale come organizzazione quando si è di fronte
ad una realtà pluri-determinata ovvero:
a) alla presenza di un aggregato abbastanza ampio di persone (dimensione), indirizzato al conseguimento
di scopi rilevanti (solo in parte esplicati formalmente) mediante lo svolgimento di compiti, che richiedono
l’impegno di conoscenze e strumenti (tecnologia); b) alla divisione e specializzazione dei compiti
(differenzazione); c) alla necessità di portare ad unità gli sforzi compiuti (integrazione) attraverso regole e
159
procedure; d) al definirsi di una struttura che possa regolare le relazioni tra individui, gruppi, attività in
forma stabile ed esplicita (formalizzazione); e) alla presenza di modalità di valutazione dell’efficienza e
dell’efficacia con cui gli scopi vengono raggiunti; f) all’impegno perché l’esperienza avviata abbia una
certa durata nel tempo (Sarchielli, in Depolo, Sarchielli, 1991, pp. 55-56).
Il concetto di organizzazione, è evidente sulla base di quanto detto fino a questo momento, presenta
“una pluralità di elementi e significati connessi, nessuno dei quali può considerarsi esaustivo:
processi e strutture, aspetti razionali e conversazionali convivono nell’insieme delle definizioni,
rappresentando dunque la sostanziale inutilità di uno sforzo teso a cercare la «vera»
organizzazione” (Depolo, 1998, p. 55). L’analisi strutturale di una organizzazione risponde ad un
approccio limitato che non può coglierne la reale natura processuale e psicosociale legata ai
comportamenti degli individui e dei gruppi che ne prendono parte. “In generale, appare una certa
distanza tra l’immagine delle organizzazioni che viene dalle definizioni «ufficiali» e le
rappresentazioni concrete di che cosa significhi stare nelle organizzazioni, di sui soni portatori gli
attori organizzativi” (ibidem). Da qui, pur potendo constatare la compresenza di molteplici
contributi disciplinari di diversa natura, non è possibile ipotizzare una teoria delle organizzazioni
generale.
Abbiamo già visto nel corso dell’excursus storico sul tema della formazione realizzato nel primo
capitolo la concomitanza storico-culturale dell’evoluzione dei diversi modelli organizzativi e delle
prospettive sulla pratica formativa. A partire dai contributi di sociologia, psicologia sociale e
psicoanalisi, i nuovi orientamenti epistemologici, tra cui quello della complessità, la presa di
coscienza della necessità di non reprimere le crescenti istanze di cambiamento ma di governarle
facendo leva sulla logica della differenziazione dei punti di vista, sulla costruttività della
dimensione gruppale, sull’inevitabilità della soggettività dello sguardo osservante la realtà, ovvero
della così detta osservazione partecipante, hanno contribuito a relativizzare il concetto di
organizzazione: “viene meno l’idea dell’evoluzione progressiva e si attenua quella di ordine,
perché il riferimento è piuttosto a un assetto che si è stabilito, ma che non è né necessario né
definitivo, che non risponde a delle regole fisse e che va riconosciuto per poterne cogliere i nessi
con i comportamenti” (Kaneklin, Olivetti Manoukian, 2005, p. 24).
La stabilità precaria ovvero la mutevolezza non può non essere ricollegata alla dimensione
eminentemente “umana” dell’organizzazione e a quella storico-culturale: solo prestando attenzione
al susseguirsi degli avvenimenti nel corso della storia organizzativa e ai significati costruiti e
condivisi degli individui partecipanti ovvero alla cultura tramandata attraverso i canali del “detto” e
del “non detto” è possibile comprendere e spiegare la natura di “una” organizzazione.
La
rappresentazione di una organizzazione guida e orienta l’agire nelle situazioni di lavoro: essa non
solo è frutto di descrizioni oggettive e formalmente condivise; piuttosto è l’espressione di modalità
160
individuali di costruire e ricostruire, cognitivamente parlando, aspetti rilevanti delle realtà sociali
entro cui si lavora e si vive. Da qui l’aspetto informale dell’organizzazione a cui è stato
riconosciuto un valore strutturante sia dall’approccio psico-culturale che psicosociologico. Da qui
la pluralità di teorie più o meno esplicite ed implicite sulla base delle quali è impossibile pensare ad
una conoscenza totalizzante del fenomeno organizzativo e ad una articolazione teorica generale.
Accanto alle rappresentazioni dotte e scientifiche, distaccate, oggettive degli addetti ai lavori si
affiancano le rappresentazioni di coloro che l’organizzazione la vivono dall’interno: questi punti di
vista, connaturati nelle viscere del corpo organizzativo, seppur spesso tacciati di particolarismo e
ascientificità, risultano altrettanto significativi e fondanti, soprattutto in relazione agli obiettivi di
funzionamento ed efficienza perseguiti. L’esplicitazione e l’analisi di ciò che i singoli pensano
delle proprie situazioni di lavoro è materia della formazione, in particolar modo della formazione
psicosociale. In linea con quanto detto finora, è essenziale, a nostro avviso, fermarsi a riflettere su
questi particolari aspetti del tessuto organizzativo. Nonostante dallo sforzo interpretativo non possa
scaturire un risultato di oggettività assoluta, quantificabile, comunque parziale, provvisorio ovvero
suscettibile di modificazioni e aggiustamenti, la valorizzazione dei significati scaturenti dalla
relazione umana (vissuta e osservata), dalle narrazioni elargite dagli attori organizzativi, favorisce
un grado di conoscenza del mondo organizzativo che non può essere raggiunto in altro modo, se
non a partire dal coinvolgimento diretto di chi opera nell’organizzazione e di chi la studia. I dati
così ricavati seppur passibili di incompletezza offrono degli spunti utili a ripensare e riformulare le
attività organizzative, ovvero i comportamenti e le scelte, e in particolare individuare le
problematiche emergenti dai sistemi di lavoro consolidati che, in quanto tali, difficilmente vengono
messi in discussione e, quando ciò accade, comportano disagi e passaggi di sofferenza sia a livello
del singolo individuo che del gruppo e del sistema.
A tal proposito, a conferma di questo nostro orientamento, risulta interessante citare uno studio di
Franca Olivetti Manoukian (2005) sulle rappresentazioni di chi lavora nelle organizzazioni.
Assumendo come strutturanti i processi di costruzione della conoscenza da parte dei lavoratori,
l’autrice individua due principali visioni del mondo organizzativo vissuto: una “mono-oculare” e
l’altra “pluridimensionale”. Nella prima convergono le immagini di una organizzazione
unidimensionale, piatta, statica dove gli aspetti relazionali, gli imprevisti e le molteplici variabili
influenzanti l’andamento decisionale non vengono riconosciuti come tali e pertanto non sono tenuti
in considerazione. D’altro canto, divisioni, aree, uffici, suddivisioni di ruolo e competenze, scala
gerarchica e flussi comunicativi vengono considerati alla stregua di “sovrastrutture” (ivi, p. 32),
necessarie ma non dotate di una funzionalità intrinseca. Ne consegue l’idea di organizzazione come
famiglia, come minaccia, come fonte di produzione, ecc. “L’idea di organizzazione in questi casi è
161
come un «blocco di cemento» da cui le persone non possono proprio staccarci perché è qualche
cosa di costitutivo dalla propria identità lavorativa, sociale, personale” (ibidem). L’organizzazione
non può essere pensata: deve subito essere spiegata, chiarita e palesata, tradotta in procedure
tangibili e concrete. Nel fare/eseguire si trova la logica che governa ogni cosa. Al suo interno, non
esistono zone d’ombra che possano innescare dubbi, timori o ripensamenti. Tutto è norma e attenta
pianificazione che volge linearmente verso lo scopo finale. L’ordine perseguito è sinonimo di
efficienza.
La visione pluridimensionale guarda invece all’organizzazione come realtà multiforme, attraversata
da disordini, elementi di disturbo, imprevisti da gestire. Da qui la necessità di ricorrere a delle
interpretazioni scientifiche, ad analisi e procedure in grado di mettere ordine e creare conoscenza
rispetto allo stato organizzativo. “Gli individui, allora, a differenza di quanto accade per coloro che
tendono a una visione mono-oculare, sono disponibili a recepire stimoli e indicazioni per
sviluppare la conoscenza dell’organizzazione e ricercano attivamente, nel contesto in cui sono
inseriti, concezioni, modelli, valori che permettano di dare sempre più forma coerente alle proprie
idee dell’organizzazione, che le rendano più ampie e penetranti ma anche più solide e «garantite»”
(ivi, p. 37). L’approccio conoscitivo è razionalistico e “computante”, volto alla soluzione di
problemi sulla base di schemi prepensati: l’obiettivo di fondo è produrre ordine e chiarezza
informativa, risposte funzionali ad orientare l’azione. Tutto ciò che risulta incomprensibile o
indefinito deve esser tagliato fuori per non incorrere in possibili errori di valutazione, mostrando
punti deboli e difficoltà di gestione. L’azione è sempre finalizzata alla soluzione di un problema, è
quindi tangibile, veloce e prontamente efficace.
Cultura organizzativa
L’importanza dell’approccio rappresentazionale alle organizzazioni nasce dal fatto che le teorie
implicite e del senso comune possedute dagli attori organizzativi influenzano inevitabilmente le
teorie “scientifiche” degli esperti, contribuendo a delineare l’aspetto strutturale e processuale delle
dinamiche organizzative e in modo particolare le peculiarità della cultura che le
contraddistinguono. Come sottolineato da Depolo (1998) attraverso un’attenta analisi dei principali
contributi teorici in materia organizzativa, a partire dalla constatazione di una pluralità di livelli di
analisi (individuo, gruppo, organizzazione, ambiente) e di approcci teorico-conoscitivi, qualsiasi
tentativo di studio e ricerca odierno non può prescindere dal dare conto di un crescente interesse
nei confronti degli aspetti culturali e sociali. La psicologia delle organizzazioni, in particolare, si
dedica al comportamento organizzativo, degli individui e dei gruppi: “ciò non significa
162
disinteressarsi dell’unità di analisi «organizzazione», che viene tuttavia vista sotto un’angolatura
particolare e cioè come un sistema sociale nel quale individui e gruppi formano, scambiano e
negoziano valutazioni e progetti su di sé e sul mondo” (Depolo, 1998, p. 78). La quotidianità
organizzativa è scadenzata da comportamenti individuali e gruppali che possono essere meglio
compresi se si postula la presenza di un substrato di sapere comune su “come fare le cose” in certe
situazioni. Individui e gruppi sono accomunati da un modo simile di rappresentarsi le situazioni
vissute, i problemi, le strategie di comportamenti e i fondamenti dell’azione organizzativa. Molti
eventi della vita lavorativa sono collegabili a stili di pensiero e di comportamento per così dire
“tipici” e durevoli nel tempo. Sulla base di ciò, la cultura organizzativa non solo orienta scelte ed
azioni ma entra in modo preponderante nella rosa dei fattori da cui può dipendere l’andamento di
una stessa organizzazione.
“La cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato,
scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione
interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da essere
insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei
problemi” (Schein, in Gagliardi, 1986, p. 396).
“Intendiamo le culture organizzative come gli specifici “modelli di comportamento”, improntati da
specifici modi di essere e di relazionarsi con gli altri (capi, colleghi, subordinati, esterni, ecc.). Tali modelli
caratterizzano tutti i membri di una organizzazione pure nelle differenze di personalità, di ruolo, di
situazioni contingenti. I modelli di comportamento in oggetto costituiscono più propriamente l’aspetto
esplicito (manifesto, osservabile, in senso pubblico) della cultura organizzativa. Sottesi a tali modelli vi
sono tuttavia dei valori, delle abitudini, delle credenze e degli atteggiamenti che costituiscono l’aspetto
implicito (latente, inferibile, in senso lato privato) della cultura organizzativa medesima. In altre parole, le
culture organizzative si riferiscono alla tipizzazione dei processi di comunicazione tra le persone che
lavorano, alle modalità di funzionamento effettivo dell’organizzazione, agli stili di gestione, al “clima”.
Ogni cultura è determinata […] sia da variabili interne all’organizzazione (dimensioni, organizzazione
formale, storia, tecnologia, uomini, ecc.) sia da variabili esterne (contesto socio-politico, contesto
industriale, contesto civile, ecc.). Non si tratta di un determinismo passivo, semplicemente subito, ma di
un’interrelazione articolata e sistemica con le diverse variabili, sia interne che esterne” (Bellotto, Trentini,
2000, p. 64).
La cultura organizzativa, come deducibile dalle definizioni sopra riportate, riunisce in sé dichiarato
e sotteso, visibile ed invisibile, differenzazione ed uniformità, stabilità e mutamento. Depolo (1998,
pp. 216-218) parla di “assunti fondamentali”, soluzioni comportamentali efficaci cristallizzate in
concrete pratiche di pensiero e azione “date per scontate” e messe in atto fin tanto che permettono
il conseguimento di risultati positivi e la riduzione degli stati d’ansia associati al presentarsi di
situazioni problematiche. È interessante come l’autore sottolinei le “comunanze” e “somiglianze”
tra il concetto di cultura organizzativa e quello di rappresentazione sociale. Abbiamo già fatto
riferimento a questo aspetto parlando della formazione psicosociale e della teoria di Moscovici
(Farr, Moscovici, 1989). Ciò che ci sembra rilevante in questa sede è mettere in evidenza i punti in
comune tra questi due concetti: 1) innanzitutto “la caratteristica di essere dei prodotti
163
dell’esperienza di individui inseriti in gruppi sociali” (Depolo, 1998, p. 220) 67: non si tratta di
immagini mentali puramente individuali ma di processi di costruzione della realtà che avvengono
nelle interazioni sociali e che fungono da strumenti di comprensione e di intervento sull’ambiente;
2) gli scambi comunicativi tra i membri di uno stesso gruppo producono schemi interpretativi della
realtà che evolvono attraverso il confronto dei punti di vista dei partecipanti; 3) essi svolgono una
funzione di familiarizzazione e riduzione dell’estraneità di ciò che non è conosciuto e facilmente
comprensibile; 4) sottendono però difficoltà di metodo: il passaggio dallo status di “somme” di
opinioni e immagini individuali a quello di vera e propria “elaborazione condivisa” di gruppo non è
riducibile ad uno standard.
Una ulteriore chiave di lettura del concetto di cultura organizzativa è quella che si trova nel
contributo di Bellotto e Trentini: “Culture organizzative e formazione” (1988). Gli autori
esplicitano le possibilità di stabilire una connessione tra alcuni modelli di culture organizzative e le
principali concezioni della formazione che tali culture esprimono e sostengono. Brevemente ne
vediamo le caratteristiche fondamentali in quanto offrono spunti di riflessione ai fini
dell’argomentazione in materia di formazione che stiamo seguendo.
1) Cultura normativo-burocratica/concezione della formazione pedagogico didattica: la cultura
organizzativa è improntata sulla differenzazione intesa come risorsa e su un basso livello di
socializzazione. È riposta grande enfasi sugli aspetti normativi, procedurali e formali. Il valore
primario è lo status/posizione ricoperta nell’organizzazione. La ratio ha la meglio sugli aspetti
affettivi così come il rispetto delle regole e il senso del dovere hanno un valore preponderante ai
fini della valutazione dell’operato e del sistema premiante. Il contratto psicologico è del tipo
“ottemperanza-riconoscimento”. Identità personale e ruolo lavorativo tendono a non integrarsi.
Entro questo visus, “[…] la formazione viene normalmente intesa come trasmissione di conoscenze
ed informazioni per rendere il “fattore umano” più adeguato rispetto all’organizzazione ed alle sue
mutevoli esigenze” (ivi, p. 75). In tal senso, il cambiamento è dato dalla riduzione del “gap” tra la
situazione cognitiva comportamentale data e quella auspicata.
2) Cultura tecnocratico-paterna/concezione della formazione psico-sociale: le differenze tra ruoli e
persone così come la socializzazione tra di esse sono ritenute risorse importanti da tutelare. Questo
tipo di contesti di lavoro sono orientanti allo sviluppo tecnologico e vedono nella competenza il
valore primario da perseguire. Tutto è incentrato sul conseguimento degli obiettivi: la logica del
risultato diviene un fattore premiate. Il contratto psicologico è del tipo “risultati-remunerazione”,
67
Depolo riporta uno studio di Innes J.M. Kummerow E., The implications of developments in social representations
research for an analysis of the concept of organizational culture, Comunicazione al XXV Congresso Internazionale di
Psicologia, Bruxelles, 19-24 luglio 1192.
164
mentre identità personale e ruolo lavorativo tendono ad integrarsi. “[…] la formazione viene
normalmente intesa come un investimento atto a sviluppare le capacità professionali e/o relazionali
dei membri dell’organizzazione, o come una leva gestionale utilizzabile per ottimizzare la
congruenza tra le risorse umane di cui dispone e le molteplici altre variabili del sistema:
organizzazione, tecnologia, contesto socio-civile, ecc.” (ivi, p. 66). L’idea di cambiamento allude
all’evoluzione/accrescimento di capacità ovvero al conseguimento di comportamenti organizzativi
funzionali agli obiettivi di lavoro.
3) Cultura
permissivo-individualistica/concezione
della
formazione
espressivo-animativa:
eguaglianza, basso livello di socializzazione, indipendenza sono i valori trainanti. L’organizzazione
viene vissuta come impedimento all’autonomia e alla spontaneità dei soggetti e di conseguenza si
ha una scarsa attenzione al problema del controllo di gestione. L’operato di ciascun individuo è
riconosciuto in base alle potenzialità espresse: confronti e forme di differenzazioni anche
retributive vengono evitati. Il contratto psicologico è del tipo “non interferenza reciproca”. “[…] la
formazione viene normalmente intesa come irrilevante in termini organizzativi. Essa di deve e si
può comunque realizzare, come luogo più o meno privilegiato di fondazione di ri-animazione
dell’espressività che permea la cultura in questione” (ivi, p. 77). Il cambiamento ha valore privato,
esistenziale, culturale/maturativo o sociale.
4) Cultura familistico-materna/concezione della formazione curativo-aggregativa: i valori centrali
sono uguaglianza e alto grado di socializzazione. L’esperienza è ciò che permette di riconoscere
l’importanza di una persona. La direzione tende a tutelare impegno e senso d’appartenenza,
avvalendosi di un coordinamento volto all’unità, alla solidarietà e all’informalità dei rapporti tra
funzioni e ruoli. Il contratto psicologico è del tipo “fedeltà-protezione”. “[…] la formazione viene
normalmente intesa come manutenzione e cura del fattore umano, come risposta ai bisogni
impliciti dei vati membri della famiglia organizzativa” (ibidem). Il cambiamento viene associato
all’idea di adattamento: delle persone rispetto all’organizzazione e viceversa.
La classificazione di Bellotto e Trentini, come tutte le altre in materia di cultura organizzativa, se
da un lato è indicativa dell’attestazione della realtà informale e sotterranea che contraddistingue le
organizzazioni e i suoi processi da parte del mondo “scientifico”, dall’altro ne costituisce un
tentativo di categorizzazione sicuramente troppo rigida per descrivere e rappresentare il fenomeno,
la cui natura è data dalla molteplicità, situazionalità, localismo e irriducibilità. Avvalendosi di
variabili stabili, intese come caratteristiche base rintracciabili in ciascuna tipologia di
organizzazione, si assume che la differenza tra un tipo di cultura e l’altra è riconducibile al peso
attribuito dai membri di un’organizzazione a determinati aspetti; mentre si trascura “il ruolo del
165
ricercatore nel limitare la gamma delle situazioni possibili” (Zucchermaglio, Alby, 2006, p. 14): il
ricercatore, infatti, svolge un ruolo determinante negli studi di questo tipo. Nello scegliere le
categorie di analisi già compie un atto interpretativo, che continuerà ad esercitare lungo tutto l’iter
di ricerca, contribuendo inevitabilmente a costruire le culture studiate. Pertanto, sulla base di
quanto detto fin qui, nonostante l’importanza del riconoscimento dato al tema della cultura
organizzativa da parte di questo tipo di studi, nonostante gli spunti di riflessione e le linee guida
che se ne possono ricavare, l’assunzione di modelli fissi e di natura classificatoria non può
rispondere a pieno alle esigenze conoscitive di chi intende approcciare al mondo delle
organizzazioni e delle culture in essa vigenti.
La cultura, lo abbiamo visto lungo tutto questo lavoro, si caratterizza per avere due volti: uno
operativo/pratico, l’altro psicologico. Nel primo caso sottende l’insieme degli strumenti di
mediazione e artefatti disponibili entro un certo contesto sociale (il linguaggio, i gesti, i concetti
scientifici, le tecnologie, ecc.). Nel secondo caso invece appare come “una caratteristica
ineliminabile dei processi psicologici umani […] che connota, in modi qualitativamente diversi, il
nostro mondo quotidiano e la nostra esperienza psicologica” (ivi, p. 14). Pertanto, sebbene la
cultura si renda esplicita attraverso artefatti, strumenti, comportamenti manifesti, non può essere
considerata al pari di una “entità” astratta e sovraordinata, ovvero reificata, una proprietà stabile e
fissa identificativa di determinati gruppi e organizzazioni. La cultura è piuttosto un “senso”
difficilmente categorizzabile, mai completamente afferrabile che viaggia entro le dinamiche
relazionali umane, per mezzo della narrazione e dell’incessante negoziazione di significati operata
dagli attori organizzativi, ai quali si riconosce una “agentività”, o “agency” che dir si voglia, nella
quale è possibile far risiedere il motore del cambiamento e dell’innovazione organizzativo e socioculturale.
Vedremo nel capito dedicato al nostro progetto di ricerca come le prospettive offerte dal concetto
di cultura organizzativa, anche in associazione all’immagine di formazione sottesa, siano
particolarmente significative ai fini della comprensione delle dinamiche interne ad una
organizzazione di lavoro, quindi ad interpretare le esperienze professionali e formative vissute. La
cultura organizzativa, così come già discusso a proposito del ruolo della mediazione culturale
nell’apprendimento situato, è un prodotto della pratica lavorativa condivisa e negoziata e, in quanto
tale, costituisce lo sfondo dell’azione e dell’apprendimento organizzativo. Gettando lo sguardo
“dentro” le organizzazioni ci si può rendere conto della complessità dei fenomeni cognitivi in atto,
della convergenza di cognizione e azione e della mescolanza di fattori culturali, storici e sociali. A
ciò si aggiunge la coesistenza di sistemi normativi formali e quelli informali, vale a dire regole di
comportamento condivise ma non ufficiali, la compresenza di gerarchie, forme di potere e
166
leadership, l’interazione con l’ambiente esterno alla stessa organizzazione. Sotto la pressione di
tutti questi input informativi gli attori organizzativi producono rielaborazioni e semplificazioni dei
fenomeni osservati: sottoposti a flussi di eventi e cambiamenti continui, si adoperano in attività di
costruzione di senso prevalentemente di tipo narrativo (il riferimento è al principio di
“sensemaking” di Weick (1997) di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo) nel tentativo di dare
ordine all’ambiente circostante, aumentandone coerenza e comprensibilità, ovvero riducendone
l’ambiguità. I processi di negoziazione e costruzione dei significati organizzativi e i risultati che ne
derivano, come abbiamo visto fin qui, s’intrecciano con le attività di apprendimento situato e di
formazione, determinando il profilo identitario dell’organizzazione che ospita tali attività.
Concludendo: “in quest’ottica, l’organizzazione è un’attività collettiva, non l’oggetto che ne risulta.
Essa non si identifica con un’entità sovraindividuale astratta o con un singolo responsabile delle
decisioni personificato in un leader o in un gruppo dirigente: è piuttosto l’esito mobile e dinamico
dell’incessante lavorio e bricolage pratico e sociale svolto dagli attori organizzativi per dare forma
e sviluppo al loro mondo. Tali attività sociali, situate e distribuite, contribuiscono a configurare le
organizzazioni piuttosto che aver origine da esse”. L’organizzazione, nella lettura psico-culturale,
nasce, vive ed evolve grazie al connubio di pratica e cognizione degli attori che vi partecipano. Nei
confini mobili di queste relazioni gli uni implementano gli altri, secondo processi di co-divenire.
La conoscenza nelle organizzazioni: apprendimento e cambiamento organizzativo
Dell’impossibilità di discernere l’agire organizzativo da quello individuale abbiamo già parlato in
precedenza. Intendiamo il termine “azione” nell’accezione più ampia, ovvero situata, riconducibile
ai principi dell’action theory, e storico-culturale: azione come atto di natura cognitiva e sociale.
Una visione dell’azione così strutturata assume un significato ancora più forte se contestualizzata
nel panorama socio-economico odierno, vale a dire nella così detta “società e/o economica della
conoscenza”. Si è già discusso delle peculiarità del sistema così definito post-modernista, delle
problematiche in cui sono immerse le organizzazioni del nostro mondo del lavoro. Nonostante la
caoticità informazionale, riferibile ai prodotti e agli strumenti del comunicare, l’acquisizione della
conoscenza è una prerogativa e una sfida allo stesso tempo: vince chi comunica di più e meglio.
Questo tipo di atteggiamento mostra delle lacune visibili a non molti visto che, se è vero che “non
si può non comunicare” (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1971), anche l’assenza di comunicazione
costituisce una scelta a cui si deve attribuire un senso e un valore; la ridondanza di informazioni,
inoltre, delinea uno scenario in cui sia la cognizione che l’azione e la relazione diventano difficili
da gestire. Se, pertanto, uno dei problemi che maggiormente “angoscia” il nostro vivere quotidiano
è rappresentato dalla gestione della conoscenza, soprattutto a livello organizzativo, inevitabilmente,
167
per quello stesso filone di pensiero che vede l’apprendimento come una funzione legata
all’acquisizione di conoscenza, il problema della conoscenza diventa un problema di
apprendimento o meglio di apprendimento organizzativo.
La tematica dell’apprendimento organizzativo è al centro delle discussioni di quanti si occupano di
materia organizzativa, aziendale e in generale economica. In anni recenti, infatti, si è diffusa
oltremodo la convinzione che la conoscenza possa essere considerata come una fonte di vantaggio
economico: “oggi è la conoscenza (non il lavoro, le materie prime o il capitale) la principale
risorsa per le organizzazioni economiche, per gli individui e i governi” (Fabbri, 2003, p.9). 68 Sulla
base di questa constatazione è seguito lo sviluppo di ulteriori declinazioni in chiave imprenditoriale
del tema della conoscenza: tra queste, il così detto “knowledge management” a supporto del quale,
in campo aziendale, si è diffusa la nozione di “capitale intellettuale” inteso quale giunzione di
capitale umano, strutturale e relazionale. Entro questo quadro di saperi fondamentalmente
concentrati sullo studio della conoscenza in chiave economica e organizzativa, si fa riferimento
all’apprendimento organizzativo genericamente definito come “processo di trasformazione della
conoscenza organizzativa” (ivi, 12, 139-140). La formulazione della riflessione attorno a questo
tema nasce dalla combinazione di diverse discipline quali la psicologia per la concezione di
apprendimento, alle scienze cognitive per la visione della conoscenza, alla nozione di conoscenza
sociale per l’epistemologia in ambito organizzativo. Fabbri delinea tre principali concezioni di
apprendimento organizzativo, la cui differenza risiede rispettivamente nella diversità dei significati
attribuiti alla conoscenza organizzativa e all’organizzazione stessa. 1) organizzazione come
“sistema”: “la conoscenza organizzativa è dotazione di rappresentazioni simboliche condivise e
l’apprendimento organizzativo è modificazione della memoria organizzativa”; 2) organizzazione
come “costrutto intersoggettivo”: “la conoscenza organizzativa è pratica situata e l’apprendimento
organizzativo è la modificazione dei significati intersoggettivi”; 3) organizzazione come “processo
di azioni e decisioni” che si regola di continuo: “la conoscenza organizzativa è sapere in azione” e
“l’apprendimento organizzativo è il processo di supporto ai processi primari, cioè all’azione
organizzativa nei piani analitici in cui si dipana” (ibidem).
L’autore riconosce nell’ultima delle tre concezioni di cui sopra una prospettiva concreta dal punto
di vista della progettualità organizzativa. Nell’ambito della teoria così definita, l’organizzazione è
pensata non come un’entità o un sistema ma come una dinamica, un continuo divenire dato da “un
processo di azioni e decisioni guidate da razionalità intenzionale e limitata” (ivi, p. 132). L’agente
di apprendimento non è un soggetto ma un processo di interazione tra attori organizzativi, l’azione
68
Fabbri cita P. Drucker, The age of sociale trasformation, in “Atlantic Monthly”, 1994, pp. 53-80.
168
comune di individui che agiscono con intenzionalità e reciprocità nel corso della loro attività
lavorativa quotidiana. Come non è possibile identificare una qualche azione che non implichi una
forma di conoscenza e un contesto, ovvero una conoscenza che non sia data attraverso un’azione
entro un contesto, così non è possibile immaginare un’organizzazione senza individuare un
processo di azioni e decisioni che congiuntamente ne regolino l’andamento. La conoscenza
organizzativa, pertanto, è una conoscenza che informa o una conoscenza sottesa all’azione
strutturale e in quanto tale non è mai decontestualizzabile.
“Una conseguenza pregnante, con evidenti implicazioni per la formazione, è che non si può immettere una
conoscenza in un processo senza prendervi parte” (ivi, p. 139).
L’apprendimento organizzativo, come si può evincere dal quadro teorico proposto da Fabbri, è un
fenomeno della dinamica della conoscenza organizzativa, delle azioni e delle decisioni delle
persone coinvolte, ovvero della modificazione del fare e del decidere all’interno del processo di
natura strutturale, tecnico e strategico che contraddistingue l’organizzazione capace di regolazione
e cambiamento. L’autore definisce questo tipo di cambiamento “strutturale”, ammettendo la
possibilità di ipotizzare una progettazione dell’apprendimento organizzativo: “nella concezione
processuale la progettazione non è la realizzazione di una struttura ma la strutturazione di un
processo; non è disegno a priori da pare di un analista onnisciente spesso esterno al sistema bensì
attività/azione di regolazione che si realizza all’interno del processo” (ivi, p. 171). Detto altrimenti:
nonostante la maggior parte delle indicazioni di “design” dell’apprendimento vertano sul
potenziamento delle infrastrutture comunicative aziendali (l’idea di fondo è che con mezzi di
comunicazione migliori è possibile migliorare gli scambi informativi e supportare la condivisione
della conoscenza, favorendo azioni e decisioni comuni), in realtà, sottolinea l’autore, nessuna
azione di progettazione arbitraria e proveniente dall’esterno può assicurare l’apprendimento
organizzativo. È piuttosto necessario rimanere ancorati all’idea di “processo” di cui si parlava
sopra, interno e condiviso, ovvero lavorare alla strutturazione di un processo interattivo di azioni e
decisioni di regolazione orientate al cambiamento strutturale.
Un’impostazione pragmatica questa, rispondente alla necessità di connotare il concetto di
apprendimento organizzativo e quello di cambiamento, a differenza di molti studi afferenti, con
termini più verosimili ovvero rispondenti alla realtà, quella aziendale, che tentano di rappresentare.
I temi dell’apprendimento e del cambiamento nelle organizzazioni sono attualmente fonte di un
grande interesse: al centro della letteratura d’indirizzo psicologico, sociologico, economico ed in
generale epistemologico sempre più spesso sentiamo parlare in termini di change management,
knowledge management, learning organization e di tentativi di ricerca sul tema. A volte però ci si
trova di fronte a vere e proprie speculazioni lontane dai contesti di pratica studiati o sui si intende
169
intervenire. L’astrattezza è una chiave di lettura penalizzante in materia di organizzazione e di
lavoro, sia dal punto di vista della comprensione che dell’azione entro questi due mondi contigui. A
tal proposito ci sembra molto utile un’affermazione di Cristina Zucchermaglio rispetto al tema in
oggetto:
“il fallimento di molti interventi organizzativi è proprio dovuto all’idea semplicistica di poter pianificare
“in astratto” e imporre il cambiamento dall’esterno: l’innovazione e il cambiamento non sono “cose”,
“oggetti” decontestualizzati e trasferibili, ma pratiche sociali e culturali specifiche che vanno costruite
attraverso negoziazioni, anche difficili e contestate, e la progressiva e lenta condivisione da parte di tutti
gli attori sociali coinvolti, non solo i leader e i consulenti” (Zucchermaglio, Alby, 2006, p. 21).
È qui contenuto il riferimento ad altri due temi funzionali alla nostra argomentazione e alla nostra
ricerca: il cambiamento in prospettiva situata e lo studio delle organizzazioni in termini di ricercaazione o di formazione-intervento. In riferimento a queste ultime due situazioni, l’organizzazione
riveste il ruolo di committente, il cui obiettivo è dato dal risolvere un problema o migliorare le
prestazioni lavorative: in ogni caso innescare un iter evolutivo, ovvero apprenditivo, che produca
un cambiamento significativo dal punto di vista organizzativo. Apprendimento e cambiamento,
nonostante spesso si cada in questo errore valutativo, non sono fenomeni che possono essere in
qualche modo diretti arbitrariamente dall’esterno del contesto preso in considerazione: sono
piuttosto intesi processi intenzionali esito di negoziazioni e condivisioni attivate dall’interno.
Wenger, alla cui opera è già stata fatta menzione, guarda al cambiamento come un elemento
dell’identità di partecipazione ad una comunità di pratica, in quanto “la pratica trasformativa di una
comunità di apprendimento offre un contesto ideale per lo sviluppo di nuove idee” (Wenger, 2006,
242). La comunità di pratica, come sottolineano gli autori Brown e Duguid (in Pontecorvo, Ajello,
Zucchermaglio, 1995, pp. 327-357), quando capace di fuoriuscire dagli standard organizzativi,
producendo soluzioni innovative a problemi posti da una pratica che cambia, genera innovazione.
Stabilendo una continuità, come precedentemente sostenuto, tra pratica di formazione e pratica
lavorativa che ne rappresenta e costituisce una parte integrante e contigua, il problema di fondo
della concettualizzazione e della gestione del cambiamento nei contesti di lavoro resta ancorato al
passaggio dall’apprendimento individuale al cambiamento organizzativo. Ricollegandoci alle
argomentazioni seguite nel primo capitolo, Quaglino traccia un legame di funzionalità circolare tra
apprendimento e cambiamento (fig. 2) realizzabile solo attraverso il mantenimento di alcune
condizioni fondamentali (la formazione come processo, orientamento strategico, tecnologia,
innovazione ed espressione dei valori). Engestrom, invece, nell’ambito dei workplace studies,
recupera la teoria dell’attività storico-culturale e propone il concetto di “apprendimento espansivo”
(in Zucchermaglio, Alby, 2006, p. 221), oltrepassando la dicotomia esistente tra apprendimento
organizzativo e trasformazione organizzativa.
170
“Il cambiamento assume le sembianze di un mosaico o di un bricolage, parzialmente improvvisato, in parte
strategico e visionario. Questo mosaico è diverso da tutti quei modelli nei quali il cambiamento viene visto
soprattutto come l’adozione di innovazioni provenienti dall’esterno: esso viene infatti attivamente costruito
attraverso l’azione e il problem solving dell’interno dell’organizzazione. Tutte queste azioni e tutte queste
soluzioni si sviluppano in spirali di diversa grandezza e di diversa durata […]” (ibidem).
L’apprendimento espansivo, spirale di turbolenze e reazioni all’interno e all’esterno di una
organizzazione, trova una base teorica nella concezione dell’apprendimento batesoniano di terzo
livello e in quanto tale ricomprende un’idea di sviluppo che si esplica attraverso una
riorganizzazione locale di tipo qualitativo, una “ri-mediazione” in senso vygotskiano del sistema di
attività a fronte di contraddizioni espresse sottoforma di problemi, conflitti, turbolenze. La
direzione dello sviluppo è quella della negoziazione e del riconoscimento e della valorizzazione dei
possibili scontri locali. Engestrom prende in considerazione anche una visione alternativa del
concetto di sviluppo, di carattere negativo: sviluppo come “rifiuto parzialmente distruttivo del
vecchio” (ivi, p. 254) anziché come risultato positivo di un apprendimento, causa di tensioni,
fratture, negazioni. Le trasformazioni evolutive in generale implicano movimenti verticali verso
performance migliori e competenze maggiori, ma sono possibili trasformazioni anche in senso
orizzontale, movimenti tra contesti o nuove combinazioni di contesti. “La trasformazione di un
sistema di attività non è mai un processo isolato: comporta la ridefinizione dei confini del sistema
stesso e una ri-negoziazione delle relazioni con l’esterno” (ivi, p. 254). In tal senso, le “zone di
scambio” (ivi, p. 254) 69 con l’esterno costituiscono dei luoghi di sviluppo e innovazione capaci di
sostenere l’apprendimento espansivo. Il cambiamento, come definito negli studi di Clot e Scheller
(in Zucchermaglio, Alby, 2006), è una “zona di sviluppo prossimale” dell’attività collettiva, un
confine culturale modificabile, un’area negoziale che tutti gli attori organizzativi coinvolti
contribuiscono a co-costruire. L’esperienza della comunità di pratica e della partecipazione
favorisce l’accesso in una zona di sviluppo prossimale in cui l’esercizio della “mediazione” è data
dalla condivisione conversazionale dei vissuti e dei significati tra pari e costituisce un passaggio
obbligato ai fini della comprensione e della trasformazione.
4.2. Lo studio delle organizzazioni: la metodologia qualitativa
Le dinamiche trasformative, dal punto di vista della psicologia culturale, hanno carattere
localizzato entro contesti organizzativi socialmente e storicamente costruiti. Qualsiasi percorso
evolutivo si struttura attraverso la convergenza di fattori multilivello (interpretabili secondo la
logica dei livelli di spiegazione postulati da Doise (1989): intrapersonale, personale e situazionale,
69
Engestrom cita P. Galison, Image and Logic: A Material Culture of Microphysics, University of Chicago Press,
Chicago, 1997.
171
di posizione e ideologico) 70 le cui peculiarità si esplicano nei vissuti lavorativi e nelle
conversazioni situate. Il lavoro, nella prospettiva dei workplace studies, non è riconducibile alla
sola prestazione individuale o alle descrizioni raccolte mediante tecniche di task o job analysis:
“il lavoro è un’attività sociale localmente costruita e incessantemente negoziata attraverso i discorsi,
propria per la sua ineluttabile ambiguità e problematicità. Il lavoro non come la realizzazione, più o meno
“corretta”, di compiti dati e assegnati, ma come un insieme di pratiche interattivamente realizzate dagli
attori sociali che continuamente contribuiscono a modificarle, situarle e riconfigurarle usando gli strumenti
culturali che hanno a disposizione” (Zucchermaglio, Alby, 2006, pp. 16-17).
Il lavoro, pertanto, è una realtà situata che possiede natura collettiva, sociale e culturale, in alcun
modo unicamente riducibile ad una prospettiva di analisi individualistica o ad un approccio
normativo: al di là delle descrizioni formali, le questioni inerenti le attività di lavoro e gli ambienti
organizzativi richiedono uno sguardo di analisi capace di informalità, aperto agli aspetti taciti,
sottesi alle dinamiche relazionali e comunicative proprie della pratica quotidiana.
Lo studio delle organizzazioni di lavoro, qualora ambisca a livelli di spiegazione efficaci e stati di
profonda comprensione, necessita di un visus il più possibile complesso rispetto al “bricolage”
(Orr, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995, p. 320) situazionale che le contraddistingue:
“se le organizzazioni sono realtà socialmente e storicamente costruite è il processo di costruzione a essere
interessante piuttosto che i risultati reificati di un processo che di solito non viene mai descritto e discusso.
A tale enfasi sui processi (rispetto alle strutture) e ad una concezione narrativa della cultura organizzativa
così come del lavoro corrisponde una metodologia di ricerca emica che prevede la raccolta e la
presentazione di puntuali dati etnografici e discorsivi e che introduce la pluralità e la varietà delle voci
degli attori nei resoconti delle ricerche. Questa opzione metodologica consente una maggiore riflessività e
attenzione al contesto da pare del ricercatore rispetto alla scelta […] di utilizzare gli stessi strumenti
standardizzati in organizzazioni differenti” (Zucchermaglio, Alby, 2006, pp. 16-17).
Pertanto, se dal punto di vista epistemologico un atteggiamento razionalistico e deterministico al
mondo delle organizzazioni risulta superato, dal punto di vista metodologico strategie di analisi di
tipo quantitativo risultano riduttive, incapaci di cogliere la varietà significazionale a cui può
accedere una ricerca qualitativa che si avvale di strumenti descrittivi ed insieme interpretativi.
Zucchermaglio (2006), a tal proposito, parla di una vera e propria svolta paradigmatica
nell’approccio di ricerca proprio della psicologia del lavoro e delle organizzazioni: i processi
cognitivi individuali che tradizionalmente venivano considerati come fenomeni di funzionamento
psicologico interiori, localizzati nella “testa” delle persone, sono invece la risultante di pratiche
sociali condivise, mediate culturalmente. In quanto tali, si esplicano nelle relazioni e nelle
conversazioni della quotidianità che, nel caso specifico delle organizzazioni, sono contraddistinte
70
Per l’applicazione della teoria di Doise nell’ambito degli studi organizzativi si veda M. Depolo, , Psicologia delle
organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 109-111.
172
da variabilità e specificità contestuale, l’una per i problemi da affrontare e l’altra per le condizioni
particolari in cui gli attori organizzativi sono chiamati ad agire.
“La scelta del ricercatore è, in questo senso, quella di non cercare essenze universali o aspetti generali, ma
piuttosto di contribuire ad evidenziare alcuni aspetti di «rassomiglianza di famiglia» tra diversi sistemi di
attività situata. In questa contrapposizione è visibile quella tra una ricerca etica, che punta alla
modellizzazione formale dei processi cognitivi attraverso l’analisi di quello che si suppone comune, stabile
e generale e una ricerca emica, che al contrario punta a descrivere la specificità, la situatezza, le
differenze, facendosi carico dell’enorme e ricca diversità dei contesti socioculturali e interattivi della vita
umana” (Zucchermaglio, in Mantovani, Spagnoli, 2003, p. 56).
Nella contrapposizione tra etico ed emico, la ricerca di tipo qualitativo, ambendo a sottolineare le
differenze e la mutevolezza delle condotte umane entro uno specifico contesto d’azione, mostra
carattere emico, contrariamente alle metodologie di analisi improntate alla generalizzazione e alla
quantificazione che, in quanto tali, non possono, dar ragione della molteplicità e della peculiarità
delle pratiche psicologiche all’interno dei sistemi di attività lavorativa. Poiché, come già
ampliamente sottolineato nel precedente capitolo, il funzionamento psicologico umano si esplica
nell’interazione con l’altro e sotto l’influsso della mediazione culturale, i fattori che potrebbero
risultare significativi ai fini di un’indagine organizzativa sono molteplici: le dimensioni di gruppo e
di comunità, gli aspetti narrativi ed emozionali della pratica lavorativa, gli strumenti disponibili, gli
aspetti formali ed informali della cultura organizzativa.
“Il «che cosa» studiare è quindi inevitabilmente intrecciato con il «come» studiarlo […]”
(Molinari, in Emiliani, Zani, 1998, p. 323) così come i metodi di ricerca sono prodotti e giustificati
da teorie circa la natura del sapere e della realtà sociale. Sulla base di ciò, le scienze sociali e in
modo particolare la psicologia sociale e culturale, la psicologia del lavoro e delle organizzazioni,
hanno investito e stanno investendo importanti risorse nei così detti “metodi qualitativi” che si
oppongono per natura, credo e finalità a quelli invece definiti “quantitativi” (Mantovani, in
Mantovani, Spagnoli, 2003, p. 15). Al di là della diversità e delle possibilità di intermediazione tra
queste due posizioni, metodi qualitativi vs metodi quantitativi, ciò che risulta fondamentale ai fini
di una qualsiasi ricerca empirica è l’attestazione della “non neutralità” del ricercatore e della scelta
metodologica che compie: “la metodologia di ricerca, infatti, non è mai uno strumento neutro nella
produzione dei risultati […]” (Zucchermaglio, in Mantovani, Spagnoli, 2003, p. 52) 71: dipende,
innanzitutto dal lavoro di attestazione teorica ed epistemologica operato dal ricercatore, dal grado
di conoscenza già esistente sul fenomeno studiato ovvero dal tipo di scelte operate nei precedenti
lavori di ricerca sullo stesso fenomeno, dai vincoli e dalle peculiarità degli attori sociali e del
contesto studiati.
71
Per la differenzazione tra approccio etico ed emico si veda anche C. Zucchermaglio, Vygotskij in azienda, Roma,
Carocci, 1996, cap. 5.
173
Sotto questo punto di vista, un’ulteriore elemento di riflessione è rappresentato dalla natura del
“dato empirico”: i dati non sono oggetti che esistono al di fuori del ricercatore. Essi subiscono il
processo di estrazione strumentale, di elaborazione ed interpretazione mosso dal ricercatore e
attraverso questo iter di lavoro si connotano in maniera peculiare. Pur mantenendo una procedura
di ricerca volta a garantire un approccio “scientifico” al dato, è impossibile isolarlo come se fosse
l’oggetto di un esperimento condotto in laboratorio. Allorquando ci si trova a studiare fenomeni
psicologici e sociali entro contesti di vita quotidiana un atteggiamento di ricerca per così dire
“asettico” risulterebbe fuorviante e non funzionale allo scopo. In tal senso, risultano indicative le
affermazioni di Mantovani (2003) in un testo specificatamente dedicato ai metodi qualitativi in
psicologia:
“ogni metodologia scientifica deve produrre metodi socialmente controllabili. La necessità di produrre
conoscenze pubblicamente controllabili non coincide però con l’esaltazione del «rigore» metodologico
come un valore in sé e per sé; il valore di una metodologia dipende dalla sua capacità di affrontare
problemi socialmente rilevanti all’interno di un quadro teorico preciso e coerente” (Mantovani, in
Mantovani, Spagnoli, 2003, p. 18)..
Di qui l’importanza di affrontare la problematica delle metodologie e dei metodi qualitativi non
come un insieme di prescrizioni da seguire ma come “uno spazio di responsabilità, conoscitiva e
pratica, del ricercatore” (ivi, p. 43). Al ricercatore di oggi, di fronte ad un mondo, quello studiato,
sempre più globale, differenziato viene chiesto di essere preparato dal punto di vista della
conoscenza specialistica ma al tempo stesso capace di creatività e originalità a partire dalle quali
approcciare ai dati potenzialmente rilevabili, valorizzando e non sminuendo la loro natura.
L’importanza della ricerca qualitativa e la scelta di questa tipologia di analisi nell’ambito del nostro
progetto in azienda convalida l’iter argomentativo seguito nei precedenti capitoli, conferendo
sostegno, attraverso la predisposizione di strumenti specifici per lo scopo, allo studio delle
organizzazioni dal punto di vista della mediazione culturale.
“[…] le scienze sociali sono sempre più consapevoli della funzione di mediazione della cultura, e
comprendono che non è possibile studiare gli individui come atomi isolati dalle comunità di cui fanno
parte né generalizzare a tutte le società umane i risultati di ricerche che, nel migliore dei casi, si riferiscono
ad individui e gruppi di una particolare cultura – quella occidentale – in particolari luoghi e momenti” (ivi,
p. 19).
Ciò che infatti contraddistingue l’approccio qualitativo è proprio la predisposizione a situarsi
culturalmente: rifuggendo la standardizzazione e l’omologazione delle procedure di rilevazione,
ogni piano di ricerca qualitativa costituisce un progetto a sé, completamente calato all’interno del
contesto studiato, attento alle variabili ambientali e storico-culturali, all’intreccio dell’azione
situata con la resa narrativa dei vissuti e dei significati emergenti. Mantovani (2003) annovera tra
gli strumenti utili ad una ricerca di tipo qualitativo e situato, l’etnografia, l’etnometodologia e
174
l’analisi conversazionale, l’analisi del discorso e delle narrazioni, la Grounded Theory.
Coerentemente con il nostro progetto di ricerca e con lo studio fin qui condotto, daremo maggiore
approfondimento all’approccio etnografico e narrativo. Resta fermo comunque il fatto che il
discrimine tra un metodo ed un altro, così come l’approccio alla validazione, è dato dallo
schieramento epistemologico operato dal ricercatore. È infatti proprio a partire dalla sua posizione
in materia di conoscenza e costruzione della conoscenza che potrà operare una scelta che, in base
alla sua appartenenza ad un ordinamento di pensiero piuttosto che un altro, alle chiavi interpretative
utilizzate per decifrare e ricostruire i dati ovvero alle cornici culturali in cui si muove,
inevitabilmente risulterà condizionante l’intero iter di ricerca.
Di qui, la contrapposizione tra idee “scientiste” e “interpretative”, “moderniste” e “postmoderniste” e l’alternativa rappresentata da posizioni di mezzo, quali il “realismo critico” e il
“realismo mediato” (ivi, pp. 29-30) 72. Mentre il primo rifiuta il naturalismo e la definizione di
ricerca come raccolta dati, supportando una conoscenza che superi la semplice percezione della
realtà esterna a partire da un approccio critico ai dati, il secondo considera “[…] la ricerca sociale
– come ogni forma conoscenza e di pratica sociale significativa – un’attività mediata da artefatti
culturali sia ideali che fisici” (ivi, p. 30) 73, un’attività peculiarmente situata, ideata e radicata nel
contesto studiato pertanto non ripetibile ed estendibile ad altre situazioni.
“La realtà sociale non può essere trattata come un dato perché si costruisce da sé attraverso le pratiche
interpretative che le persone mettono in atto nella loro vita quotidiana” (ivi, p.25).
In linea con i principi della logica situazionale, i criteri di qualità riconosciuti alla ricerca
qualitativa sono: “la situatività (situativity), che lega strettamente i metodi, i risultati e
l’interpretazione della ricerca allo specifico ambito in cui essa si svolge; la contingenza
(contingency), che assegna un valore «situato» – riferito a quella particolare comunità, a quella
situazione, a quel momento – ai risultati della ricerca; la riflessività (reflexivity), che esige che il
ricercatore sia consapevole della non neutralità delle sue posizioni, sia per quanto riguarda i suoi
interessi che per quanto riguarda le sue scelte metodologiche” (ivi, p. 31). 74
La scelta della metodologia etnografica e dell’analisi dei discorsi organizzativi rappresenta il centro
della nostra ricerca ed entrambe rispondono alla volontà di procedere alla comprensione dei
processi di formazione e di attività situata e discorsiva direttamente dall’interno del contesto
72
Mantovani usando il concetto di “realismo critico” si riferisce allo studio di S. Potter, Nursing relationship with
medicine, Aldershot, Avebury, 1995.
73
Per approfondimenti: M. Cole, Cultural psychology, Cambridge, Ma, Harvard University Press, 1996; G. Mantovani,
L’elefante invisibile. Percorsi di psicologia culturale, Firenze Giunti, 1998; G. Mantovani, Exploring borders.
Understanding culture and psychology, London, Routledge, 2000.
74
Mantovani cita S. Taylor, Evaluating and applying discourse analytic research in M Wetherell, S. Taylor, S.J. Yates
(a cura di ), Discourse as data. A guide for analysis, Milton Keynes, Open University, pp. 318-319.
175
organizzativo preso in considerazione. La combinazione di entrambe le metodologie a cui ci siamo
riferiti consente uno sguardo profondo sulle dinamiche sociali osservate ovvero complesso, capace
di dar ragione del “dato” osservato prendendo atto dell’orientamento culturale vigente e
raggiungendo un grado di maggiore specificità attraverso la parola degli stessi partecipanti.
L’etnografia, come spiega Mantovani, più che una metodologia o un metodo di raccolta dei dati, è
uno “stile di ricerca”, “consiste nello svolgere ricerca sul campo in situazioni di vita reale” (ivi, p.
23) 75. “[…] insieme alla prospettiva conversazionale e discorsiva, permette cioè di avere accesso a
quei mondi di significati in cui le azioni, le parole, i comportamenti degli «altri» hanno un senso, di
catturare la complessità sociale e le peculiarità dei sistemi di attività e di descriverne le pratiche
quotidiane di negoziazione” (Zucchermaglio, Mantovani, A. Spagnoli, 2003, p. 53). 76
Il ricercatore osserva le persone nel loro ambiente abituale e partecipa alle loro attività secondo
forme che devono evitare sia un atteggiamento di identificazione con l’oggetto di studio, sia un
atteggiamento di estraneità rispetto alla comunità che si vuole comprendere. Egli è parte integrante
del contesto osservato e la sua presenza non può dirsi neutrale né rispetto alle risposte dei
partecipanti né rispetto al suo approccio al dato. L’osservazione partecipante e la partecipazione
osservante sono i metodi di ricerca sul campo più usati nell’etnografia intesa in senso stretto, la cui
caratteristica principale è la circolarità del processo di ricerca che si costruisce nell’interazione tra
ricercatore e partecipanti. È infatti nella valutazione dei risultati intermedi del lavoro di ricerca che
il ricercatore trova gli indicatori utili a scegliere gli strumenti da usare nelle fasi successive,
definendo le ipotesi ed gli obiettivi finali. La ricerca determina il suo oggetto attraverso le scelte
metodologiche che compie e le domande che pone: tutti i soggetti coinvolti sono portatori di
interessi, valori, scopi che concorrono nel produrre i risultati finali. L’oggettività del dato “puro”
non è pertanto contemplata tra gli obiettivi di ricerca, in quanto il dato, in ogni caso, anche nelle
ricerche di tipo quantitativo, non può che essere l’esito di un processo di co-costruzione.
Gli strumenti dell’etnografia sono:
- osservazione partecipante;
- diario di campo;
- interviste;
- materiali fotografici, video-registrazioni, supporti informatici utili all’osservazione e in grado di
registrare i passaggi più delicati e/o ritenuti significativi.
75
L’espressione “stile di ricerca” è di J.D. Brewer, Ethnography, Buckingham, Open University Press, 2000, pag. 11.
Zucchermaglio fa riferimento a D. Boden, The business of talk. Organizations in action, Cambridge Polity Press,
1994; A. Fasulo, “La ricerca etnografica”, in Mannetti, L. (a cura di) Strategie di ricerca in psicologia sociale, Roma,
Carocci, 1998, pag. 191.
76
176
Il risvolto applicativo del metodo etnografico è dato dall’analisi dei contesti di vita quotidiana e
delle interazioni sociali ovvero dalle osservazioni condotte direttamente dall’interno dei sistemi di
attività quali ad esempio quelli familiari, organizzativi, lavorativi, scolastici, ecc. Il materiale che
scaturisce da questo particolare tipo di analisi fornisce una base solida su cui poggiare un attento
lavoro di evidenziazione e ricostruzione dei significati emergenti dalle interazioni degli stessi
agenti coinvolti. “Il compito principale dell’etnografia è quindi quello di rendere esplicito quello
che è normalmente implicito e tacito” (Zucchermaglio, 1996, 103). Ciò rende l’analisi etnografica
lo strumento più adeguato allo studio delle organizzazioni, soprattutto dal punto di vista psicoculturale, come hanno dimostrato i primi studi incentrati su questo metodo. Tra questi vanno
annoverate le ricerche di Mayo e lo studio di Hawthorne citato nel primo capitolo.
Già allora era chiara la distinzione tra organizzazioni formali e informali e la necessità di attingere
da entrambe queste prospettive, da un lato, e l’importanza centrale rivestita dai discorsi degli attori
sociali e dai significati da essi attribuiti alle situazioni vissute, alle attività svolte, alle relazioni
vissute, dall’altro. “L’etnografia si muove dal presupposto che le interpretazioni date dagli attori
guidino in modo sostanziale la loro azione. Questo non significa ritenere che le interpretazioni
siano in grado di spiegare completamente i comportamenti messi in atto, ma che invece possano
chiarire qual è il quadro di riferimento entro il quale l’azione si situa e il modo in cui le azioni delle
persone saranno comprese e otterranno risposta. L’insieme di queste interpretazioni e il modo in
cui costantemente si rafforzano o sono negoziate nell’interazione costituiscono la cultura” (Fasulo,
in Mannetti, 1998, p. 191).
Il sistema di interpretazioni di una data cultura è dato da pratiche discorsive, organizzazione
spaziale, temporale, artefatti o strumenti prodotti dagli individui, ma anche dalle modalità
attraverso cui i diversi aspetti della realtà acquisiscono valore all’interno di attività e pratiche
condivise. Il ricercatore può scegliere quali aspetti intende focalizzare in modo più specifico
rispetto ad altri, utilizzando i documenti, le parole e gli artefatti di un certo contesto non come
qualcosa di casuale o poco rilevante ai fini del suo studio ma come il prodotto di un processo di
adattamento reciproco o di un dialogo che avviene nel tempo tra le aspettative delle persone, i
vincoli organizzativi posti alla loro attività e le risposte dell’ambiente alle azioni sia dei singoli che
della comunità nel suo insieme. La logica dell’azione situata è fortemente orientante anche in
questo senso, soprattutto se si pensa alle dinamiche di cooperazione e condivisione all’interno di
comunità di pratiche. Wenger (2006) ritiene che i repertori condivisi agevolino la negoziazione
sociale del significato delle situazioni e che tale negoziazione è tanto più importante se le situazioni
sono percepite come ambigue: “il repertorio di pratiche combina due caratteristiche che gli
permettono di diventare una risorsa per la negoziazione del significato: la prima è che esso riflette
177
una storia di impegno comune, la seconda è che esso rimane intrinsecamente ambiguo. Le storie
delle interpretazioni date (nel passato alle varie situazioni) creano dei punti di riferimento condivisi
ma non impongono un significato particolare” (Wenger, 2006, p. 83). Le persone che lavorano
insieme sono i co-protagonisti di una storia comune ma non necessariamente hanno gli stessi punti
di vista su ciò che hanno esperito o su ciò che stanno vivendo. Tutti i punti di riferimento che
contraddistinguono la vita organizzativa come tale sono oggetto di negoziazione e conflitti.
Il ricercatore entrando in una comunità di pratiche non può non considerare che in ogni contesto di
lavoro sono presenti interessi diversi e peculiari non trasferibili al di fuori dell’ambiente in cui sono
stati generati. Conoscenze e capacità hanno infatti carattere “locale”, in genere sono poco
consapevoli e per questo a volte difficilmente descrivibili anche da parte degli stessi professionisti
che le sperimentano. Sta al ricercatore rintracciare i legami di senso che si nascondono nei discorsi
degli attori organizzativi e nelle fonti consultate sempre e solo a partire dalle voci dei diretti
interessati. Il senso formulato dalla ricerca etnografica è pertanto il prodotto di una costruzione
condivisa e di una riflessività che non è un’autoanalisi, ossia una consapevolezza raggiunta in
isolamento, il risultato di un monologo, ma l’effetto di un dialogo che momento per momento
colloca il problema nel contesto sociale evidenziando il fatto che esistono molti modi di costruire il
problema e studiarlo. È dunque attraverso il confronto con i partecipanti, intendendo con
partecipanti tutti quelli che partecipano all’azione in diverse aree di ampiezza della medesima, che
il ricercatore diventa consapevole delle scelte teoriche e metodologiche che lo guidano e sviluppa il
disegno di ricerca.
L’aspetto della condivisione e della compartecipazione proprie delle comunità di pratiche è ancora
più evidente nell’approccio narrativo e nell’analisi delle interazioni discorsive che, coerentemente
con la prospettiva “multimetodo” (Zucchermaglio, 1996, p. 112) di natura psico-culturale, sono
utilizzate in ambito organizzativo in combinazione con procedure d’osservazione di carattere
etnografico. Assumendo come le analisi delle pratiche lavorative e delle dinamiche comunicative
quotidiane possano rivelare i significati sottesi di una cultura organizzativa, le strategie di
funzionamento, ovvero le caratteristiche formali e informali della sua struttura, l’azione e il
linguaggio che l’accompagna, in accordo con la psicologia storico-culturale e sociale, vengono
riconosciuti per il loro essere “mezzi” di costruzione del mondo e del Sé. Il riferimento è a
Vygotskij, al pensiero inteso come interiorizzazione del dialogo (si veda capitolo 3), a Bruner, alla
narrazione riconosciuta come processo di definizione del Sé (si veda capitolo 2). Zucchermaglio,
alla quale si devono molti contributi di ricerca incentrati sulle metodologie conversazionali e
discorsive, afferma: “l’analisi della conversazione considera il linguaggio come pratica sociale e
non come rappresentazione dei processi cognitivi, superando sia la visione del linguaggio come
178
rappresentazione del mondo, sostenuta dai cognitivisti che quella di linguaggio come
comunicazione (basata sulla metafora del condotto: parlante, canale, ricevente). Il linguaggio è una
forma di azione sociale situata e per questo è essenziale studiare il discorso nei contesti della vita
quotidiana delle persone” (corsivo nostro) (ivi, p. 111). L’autrice usa indistintamente i termini
“conversazione” e “discorso”, scegliendo di non soffermarsi sulla loro distinzione: consapevole di
alcune importanti differenze, sottolinea l’aspetto emico di entrambe.
Discorso e conversazione sono però realtà diverse come spiega Mantovani (2003): “il discorso
comprende la conversazione ma non si limita ad essa” (Mantovani, in Mantovani, Spagnoli, p. 37).
Tra le differenze sostanziali è possibile citare il fatto che l’analisi conversazionale si occupa dei
meccanismi di mantenimento dell’ordine sociale nella vita quotidiana, riservando un’importanza
sostanziale, superiore alle stesse teorie di riferimento, alle tecniche di trascrizione (tra queste il
sistema jeffersoniano): dall’accuratezza della trascrizione dipende la validità della ricerca. L’analisi
del discorso, invece, vuole comprendere i modi in cui l’organizzazione del significato/discorso
interagisce, influenzandolo, con l’ordine sociale e viceversa. In questo senso, pur apprezzando i
vantaggi offerti dai sistemi di trascrizione, non vincola la riuscita della ricerca ad essi, dando ampio
spazio all’esplicitazione dei riferimenti teorici e metodologici tenuti in considerazione.
L’analisi delle narrazioni rappresenta un’ulteriore grado di specificazione all’interno della famiglia
dei metodi qualitativi usati nella ricerca sociale: “si occupa degli scambi sociali quotidiani
attraverso cui le persone cercano di dare un senso alle loro esperienze” (ivi, p. 40). La narrazione
non è solo un prodotto testuale ma anche e soprattutto una “pratica sociale, sovente inserita in altre
attività discorsive in corso e strumentale a vari scopi interazionali” (Ochs, Sterponi, in Mantovani,
Spagnoli, 2003, p. 131). Come detto nei precedenti capitoli, avendo valenza individuale e
cognitiva, linguistico-testuale, sociale e storico-culturale, la narrazione costituisce uno strumento
complesso di costruzione del significato e di formazione dell’identità individuale e collettiva,
prezioso per la comprensione non solo delle funzioni psicologiche del singolo ma del
coinvolgimento di quest’ultimo rispetto al contesto di cui è parte.
Non è questa la sede per entrare nel vivo delle implicazioni metodologiche riconducili a ciascuno
di questi tre strumenti di analisi (conversazionale, discorsiva, narrativa). Consapevoli delle
differenze esistenti tra ciascuno di essi, utilizzeremo le diverse famiglie terminologiche come
sinonimi, con l’intento di motivare l’attenzione riposta su questo tipo di approccio in relazione
all’intervista eseguita in sede di ricerca applicata. Nell’intervista, infatti, si trovano a convergere gli
aspetti salienti dei metodi d’indagine sopra detti, la cui peculiarità non è solo quella di lasciare
emergere “come” l’interazione verbale si svolge (ruoli dei parlanti, regole della comunicazione,
179
paradigmi sintattici, dispositivi semiotici ecc.), ma anche “che cosa” realizza in termini di
significato e di azione sociale. Le parole sono strumenti di costruzione del mondo, prolungamenti
del Sé e del contesto in cui ci si trova ad agire ed interagire: capire cosa fanno le persone con i
discorsi o mentre si raccontano, senza fermarsi solo a ciò che accade nella loro testa, costituisce
un’opportunità di ingresso al senso comune ovvero di comprensione della dinamica di cocostruzione in atto tra soggetto e ambiente sociale. Zucchermaglio (in Mantovani, Spagnoli, 2003,
p. 571) parla dei discorsi condotti entro i contesti di lavoro come spazi in cui ha luogo
“l’intellegibilità condivisa dell’azione”: “in questo senso il discorso non è solo legato alle
situazioni del suo uso, ma piuttosto serve in larga misura a definirle e a costituirle”.
L’intervista, che rappresenta il cuore della ricerca di cui parleremo nel prossimo capitolo,
solitamente si colloca a seguito di un primo periodo di osservazione etnografica del contesto
studiato, di modo che il ricercatore possa già aver focalizzato le aree concettuali d’interesse e gli
ambiti di significato da approfondire. È quindi uno strumento utile al completamento e
all’approfondimento degli aspetti teorici e metodologici derivati dal lavoro sul campo, un mezzo
che riveste un ruolo decisivo nella costruzione delle informazioni, sia per le elevate capacità e
potenzialità d’indagine, sia per il risvolto intenzionale sotteso alla voce di chi parla e dello stesso
ricercatore. La forza dell’intervistare e dell’essere intervistato sta proprio nell’atto di dare/avere
voce e ascolto. Fermo restando le resistenze metodologiche legate alla concettualizzazione e
all’interpretazione, l’intervista rappresenta un’occasione in cui anche chi non ha voce o ascolto può
averne. Di qui la necessità di assumere che “avere o non avere voce è da considerare una categoria
situazionale: si ha o non si ha voce nelle dinamiche decisionali e nella vita sociale, relativamente
ad alcuni aspetti e ad alcune dimensioni” (Ciucci, 2012, p. 12). Gli “stakeholder” che stanno in
mezzo o in basso alla piramide decisionale prendono la parola relativamente agli aspetti della vita
sociale considerati, offrendo un contributo utile ai fini della ricostruzione della realtà alla quale
partecipano. Il fatto di essere attori “intermedi” non inficia il potenziale epistemologico
dell’intervista e la sua capacità di valutare ad esempio un certo programma o intervento: “semmai
ci offre sguardi importanti su cosa (e su come) sta accadendo o è accaduto all’oggetto di
valutazione” (iv, p. 17).
L’intervista, in quanto strumento flessibile di analisi, favorisce l’istaurarsi di un legame di scambio
tra ricerca e programma/intervento sottoposto a valutazione (si pensi in tal senso ad una esperienza
di formazione). Le opinioni che emergono dal dialogo con gli stakeholder permettono
all’intervistatore di focalizzare le peculiarità dell’intervento valutato, ricostruendone meccanismi di
funzionamento ed effetti. In quest’ottica, la valutazione insita nell’intervistare può esser vista come
un “processo di apprendimento”: “l’interazione, le parole e il confronto consentono infatti di
180
aumentare la propria conoscenza sia al valutatore, che è anche mediatore e negoziatore, sia ai
soggetti coinvolti e intervistati” (ivi, pp. 17-18). 77 La libertà di espressione di chi racconta e la
capacità di assorbire i significati emergenti di chi ascolta, pur sottendendo dei rischi metodologici,
fanno dell’intervista uno strumento autorevole per le sue potenzialità conoscitive e per la sua
autenticità, capace di penetrare nei contesti e nelle situazioni, di interagire con gli attori sociali
ovvero di ricostruire il senso intenzionato delle loro azioni, attingendo direttamente dalle loro
narrazioni, dalle loro spiegazioni e dai loro racconti. Pertanto, se è vero che l’intervista è una
tecnica privilegiata di produzione delle informazioni, è anche vero che è un vero e proprio evento
che ha un inizio e una fine per il quale, nonostante una traccia da seguire, è impossibile prevedere
modalità di svolgimento ed esiti. Tale imprevedibilità rappresenta la ricchezza e al tempo stesso la
pericolosità di questo metodo d’indagine che richiede da parte del ricercatore un approccio
consapevole e attento sia in fase di ideazione che di esecuzione ed analisi.
Concludendo, la focalizzazione di alcune delle principali peculiarità della ricerca qualitativa che ha
avuto luogo in questo paragrafo ci ha permesso di soffermare la nostra attenzione su degli aspetti
salienti ai fini dell’inquadramento metodologico che ha sostenuto il progetto di ricerca di cui
parleremo tra breve. Di seguito, ricapitoleremo in pochi punti questi aspetti, tenendo presente che
costituiscono la base di partenza del nostro lavoro in azienda.
1) Lo sguardo del ricercatore sull’oggetto di ricerca non è mai “neutrale”, non può esserlo, in quanto
è fittizia e al tempo stesso arbitraria qualsiasi pretesa di sua estraneità rispetto all’oggetto studiato:
ciò a partire dall’assunzione del ruolo esercitato dalla cultura nella cognizione umana ovvero dalle
scelte epistemologiche, teoriche e metodologiche compiute dallo stesso ricercatore. La ricerca
sociale è essa stessa una situazione mediata culturalmente, in cui ricercatore e partecipanti sono
portatori di interessi, valori e obiettivi che inevitabilmente risultano caratterizzanti il contesto
stesso e la distribuzione della conoscenza all’interno di esso (cfr. la teoria della cognizione
distribuita di Hutchins).
2) Al ricercatore si chiede pertanto consapevolezza circa la mancata neutralità della sua posizione,
flessibilità nei confronti dell’oggetto di studio e apertura verso gli aspetti emergenti e imprevisti
della situazione presa in considerazione. Di qui la necessità di un visus etnografico e di un
coinvolgimento attivo degli altri attori sociali in tutti gli aspetti della ricerca. Attraverso il
77
Per la valutazione come apprendimento Ciucci rimanda a N. Stame, “La valutazione come apprendimento”,
Rassegna Italiana di Valutazione, Franco Angeli, Milano, n.34; C. Torrigiani, Valutare per apprendere. Capitale
sociale e teoria del programma, Franco Angeli, Milano, 2010.
181
confronto diretto con gli “altri” il ricercatore può rafforzare la consapevolezza delle sue scelte
metodologiche e teoriche e, se necessario, modificarle. 78
3) Le metodologie qualitative sono necessariamente centrate sulla “differenzazione” e non sulla
standardizzazione: di qui la contrapposizione tra “etico” ed “emico” proposta da Zucchermaglio e
la valorizzazione della specificità, situatezza e diversità dei contesti socioculturali e interattivi della
vita umana. Assumendo il linguaggio come pratica sociale, la prospettiva culturale e situata allo
studio delle organizzazioni non può esimersi dal prendere atto della valenza costruttiva delle
relazioni comunicative nei contesti quotidiani del lavoro e della necessità di analizzare le
conversazioni/discorsi/narrazioni dei lavoratori direttamente dall’interno dei contesti presi in
considerazione.
4) Le situazioni di vita reale, lavorativa e non solo, risultano essere funzionali allo studio delle
dinamiche appreditive e conoscitive umane: in modo specifico, i discorsi condotti entro i contesti
della vita quotidiana, riconoscibili essi stessi per specificità, situatezza e variabilità, consentono la
ricostruzione del senso comune condiviso di coloro che partecipano alla ricerca ovvero
l’individuazione dei significati insiti nel loro pensare e agire. Attraverso di essi il ricercatore ha
possibilità di svolgere valutazioni circa l’oggetto del proprio studio, evidenziando proficui
collegamenti tra le i contenuti narrativi e la pratica situata osservata.
Siamo pertanto consapevoli che l’inquadramento teorico-concettuale entro il quale abbiamo
collocato la nostra ricerca in azienda, vale a dire quello discusso nei primi quattro capitoli, così
come la metodologia qualitativa scelta siano di per sé frutto di una contestualizzazione
epistemologica di carattere costruttivista, psicosociale e psico-culturale, la cui tendenza risulterà
inevitabilmente attiva per tutto il resto del nostro lavoro. Volontariamente contestualizzante è stata
anche la scelta di costruire le diverse fasi della ricerca in corso d’opera. La fase di osservazione
etnografica con cui abbiamo scelto di dare inizio alle attività di ricerca intendeva rispondere alla
volontà di osservare, partecipando, un corso di formazione aziendale con l’obiettivo di cogliere gli
aspetti salienti dei vissuti dei formandi e attraverso di essi monitorare il fattore cambiamento
individuale ed organizzativo. A partire dalle informazioni ricavate con le prime osservazioni
abbiamo delineato una serie di macro-aree di interesse inserite all’interno di un’intervista proposta
78
Mantovani parla di “ricerca partecipata” e identifica gli “altri” della situazione di ricerca con “anzitutto il gruppo di
ricerca e le persone che sono direttamente coinvolte in essa. In secondo luogo le persone a cui la ricerca verrà riferita,
che la discuteranno, che ne accetteranno o respingeranno i risultati: i colleghi dei ricercatori, i ragazzi del quartiere (se
ci riferiamo alla ricerca-intervento ricordata sopra), le loro famiglie, eccetera. In terzo luogo le comunità più ampie,
come la comunità scientifica e professionale degli psicologi, quella degli insegnanti, e così via. In quarto luogo i media
e le istituzioni che in qualche modo, anche indiretto, ne leggono e commentano i risultati, talvolta le finanziano,
qualche volta persino le tengono presenti nelle loro decisioni”. Cfr. G. Mantovani “Fare ricerca “con”, non “su” gli
altri. Ma chi sono gli “altri”?”, Atti del Convegno “Ricerca interculturale e processi di cambiamento. Metodologie,
risorse e aree critiche”, Napoli, Febbraio 2010.
182
a tutti i partecipanti. Usando le categorie di significato emerse durante le interviste abbiamo poi
proceduto a formalizzare un’analisi delle interazioni discorsive e, attraverso di esse, a ricostruire il
“senso comune” della formazione e della stessa organizzazione.
4.3. Presentazione del progetto di ricerca
Linee generali
Luogo: Cucine Lube srl (Treia – MC), azienda settore mobile/arredamento.
Finalità: studiare l’esperienza di un corso di formazione aziendale usando dei criteri di analisi di
tipo psicosociale, osservando le dinamiche emergenti dal punto di vista individuale, gruppale ed
organizzativo.
Destinatari: gruppo dei partecipanti ad un’iniziativa di formazione “P.A.S.” – Programmazione e
Arricchimento Strumentale – incentrato sul metodo della modificabilità cognitiva dello studioso R.
Feuerstein (et al. 2008). Aree aziendali di appartenenza: ricerca & sviluppo, amministrazione,
finanza, ricerche statistiche, sistemi informatici, CED (centro elaborazione dati), estero, acquisti.
Metodologia di analisi: analisi qualitativa d’indirizzo etnografico.
È importante sottolineare come questo lavoro seppur non rientri nell’ambito della così detta
“ricerca-azione” 79, per quanto concerne la nostra ricerca, o della “formazione-intervento” 80, per
quanto concerne la formazione monitorata, presenti degli elementi di continuità non solo dal punto
di vista dell’appartenenza teorica ma anche della direttività dell’agire di ricerca e delle finalità
individuate. I termini “azione” ed “intervento” richiamano il concetto di cambiamento individuale e
organizzativo oggetto del nostro studio. Il progetto realizzato può essere definito come un’attività
di monitoraggio di una pratica di formazione aziendale che potremmo definire “eccezionale” per il
contesto nel quale ha avuto luogo. Il nostro interesse si è quindi focalizzato sulle attività svolte,
sulla reattività dei formandi (singoli e gruppo) rispetto alle tematiche presentate, sugli esiti finali e
sulle possibilità di transfer dei contenuti, sulla co-costruzione partecipata di un caso-studio che
racchiudesse gli elementi di significatività emersi.
A partire dai nodi concettuali che è stato possibile ricavare e dal confronto con le ipotesi iniziali,
abbiamo scelto di produrre un’analisi riflessiva volta a circoscrivere le problematicità del fare
79
Per approfondimenti: K. Lewin, I conflitti sociali, Milano, Franco Angeli, 1980 (ed. or. 1946); R. Barbier, La
ricerca–azione, Roma, Armando, 2007; J. Elliott, A. Giordan, C. Scurati, La ricerca–azione. Metodiche, strumenti,
casi, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
80
Per approfondimenti: R. Di Gregorio, La metodologia della Formazione-Intervento, Impresa Insieme, Milano, 2007;
S. Del Lungo, “Formazione intervento e formazione sviluppo dell’uomo e dell’organizzazione” in E. Rizziato,
Motivazione e sviluppo organizzativo: un approccio antropocentrico, in Quaderni Ceril, n. 2, 2007.
183
formazione in azienda e del produrre cambiamenti significativi entro contesti organizzativi
culturalmente connotati. La nostra attività di ricerca risponde alla volontà di ricostruire un quadro
situazionale corrispondente ad una formazione con metodo Feuerstein seguita in ambito aziendale
e, a partire da esso, sviluppare un’analisi che abbia valore orientante sia per la formazione intesa
come azione/intervento capace di supportare e produrre il cambiamento attraverso l’apprendimento
individuale e organizzativo, sia per l’organizzazione intesa come contesto di lavoro e al tempo
stesso di relazione e trasposizione psico-emozionale dell’attività di lavoro, in cui le dinamiche di
cambiamento hanno una natura vorticosa (il riferimento è alla “spirale” di cui parla Engerstom, in
Zucchermaglio, 2006) data dall’intreccio di parametri di natura psicologica, sociale, culturale,
economico, strutturale ovvero organizzativa. In un’azienda, quella studiata, in cui manca una
politica della formazione e le rappresentazioni emergenti sono legate ad un’immagine della
formazione classica di stampo scolastico e tecnico-scientifico, il nostro interesse e quello di coloro
che hanno partecipato e avallato il progetto è quello di “capire”, giungere, attraverso lo sguardo
della ricerca, ad un grado di approfondimento riflessivo e auto-riflessivo superiore, tale da poter
riformulare al termine dei lavori nuove ipotesi di ricerca.
Se l’interesse alla comprensione ovvero alla conoscenza e l’attenzione al cambiamento
rappresentano degli elementi di riferimento comuni con le metodologie sopra dette della “ricercaazione” e della “formazione-intervento”, rispetto ad esse gli elementi di varianza sono sostanziali e
principalmente dati dalla mancanza di una committenza della ricerca e di una collaborazione con
gli attori organizzativi in fase di analisi e progettazione delle attività di formazione (come vedremo
l’ente gestore della formazione non si è avvalso di questa opportunità). Lo spazio in cui s’è andata
ad inserire la nostra attività di ricerca è stato delimitato dalle concessioni negoziate con
organizzazione ed ente formatore. La nostra presenza, inizialmente silente ed osservante, si è
venuta definendo nel corso delle osservazioni concordate con il formatore. Nel tempo, infatti, si è
strutturato un canale di scambio dialogico tra ricercatore, formandi/attori organizzativi e formatore
che ci ha permesso di delineare la seconda parte della ricerca, quella dedicata alle interviste. Dopo
la fase dell’osservazione partecipante, che con un grado di maggiore precisione potrebbe essere
definita “partecipazione osservante”, abbiamo proceduto all’estrapolazione di alcune macro-aree di
interesse, il cui approfondimento è stato realizzato attraverso l’esperienza dell’intervista diretta
rivolta a tutti i partecipanti alla formazione Feuerstein.
Tra gli elementi caratterizzati il nostro lavoro e in qualche modo riconducibili ai concenti di
“ricerca-azione” e “formazione-intervento”, possiamo annoverare:
184
1- innanzitutto la scelta di volgere lo sguardo all’interno dell’azienda ospitante e di condurre una
ricerca “con” i formandi/lavoratori del corso Feuerstein seguito, la cui utilità, in termini di
conoscenza e consapevolezza, potesse essere patrimonio “per” tutta l’organizzazione;
2- l’affermazione della non-neutralità della ricerca, la partecipazione attiva al contesto studiato, il
confronto con gli attori organizzativi;
3- l’attenzione al contesto ambientale (formativo e organizzativo) e alle dinamiche sociali;
4- la circolarità tra teorie di riferimento e gli esiti delle fasi intermedie della ricerca;
5- l’esplorazione le realtà della formazione e dell’organizzazione a partire dalla pratica e
attraverso l’intenzionalità discorsiva dei partecipanti, secondo un iter d’indagine che
dall’azione passa alla parola e dalla parola cerca di rintracciare le traiettorie di partecipazione e
trasformazione seguite.
Focalizzazione delle teorie di riferimento
 Coerentemente con gli ultimi studi di Quaglino, si assume l’impossibilità di una teoria generale,
onnicomprensiva, della formazione e si fa riferimento al legame postulato dall’autore tra
apprendimento individuale e cambiamento organizzativo. Il progetto di una teoria generale univoca
della formazione non è più attuale. Ad oggi sembra un “paradosso” (Quaglino, 2006). Seppur le
condizioni in cui versa il “campo di lavoro” della formazione siano le medesime di vent’anni fa
(espansione della domanda, stallo dell’offerta, animazione della comunità degli operatori: ivi, pp.
3-5), importanti cambiamenti hanno avuto luogo nel settore organizzativo: incertezza,
discontinuità, turbolenza sono diventati i tratti distintivi del vivere quotidiano delle organizzazioni.
“Si potrebbe sostenere, con rapida formula, che il carattere dominante e assunto dall’orizzonte
organizzativo è di essere paradossalmente senza orizzonte” (ivi, p. 197). La comprensione delle
dinamiche trasformative sia individuali che organizzative rappresenta una vera e propria priorità. A
tal proposito si assume come punto di riferimento per la valutazione della nostra pratica di
formazione il modello elaborato dall’autore e presentato nel primo capitolo circa la potenziale
circolarità
tra
apprendimento/cambiamento
individuale
e
cambiamento/apprendimento
organizzativo. In tal senso un percorso di formazione può dirsi trasformativo gli individui coinvolti
manifestano disponibilità a cambiare e le organizzazioni a loro volta sono disponibili ad
apprendere.
 La teoria della formazione nell’ottica psicologia sociale e della psicosociologia (Avallone, 2009;
Kaneklin e Manoukian, 2005) rappresenta il nostro indirizzo di studio a partire dal quale valutare le
185
informazioni emergenti dalle osservazioni e dalle interviste realizzate. In quest’ottica, risultano
centrali e orientanti gli aspetti formali e informali della conoscenza organizzativa, i fattori culturali
e relazionali, il gruppo inteso come strumento di formazione e luogo di lavoro, la strategicità
dell’analisi della domanda di formazione e della progettazione, la narrazione e i flussi discorsivi
come strumenti formativi e di costruzione della conoscenza.
 Per quanto concerne l’apprendimento, il nostro sguardo è sociale e insieme costruttivista e
interazionista. Le teorie-guida sono dell’apprendimento sociale di origini vygotskiane e la teoria
dell’apprendimento situato di Lave e Wenger (2006) considerate in una prospettiva di
contaminazione con la teoria dell’attività e in rapporto al concetto di “cultura” di derivazione
storico-culturale e psicosociale. In questa prospettiva i vissuti apprenditivi trovano spiegazione
nella dimensione relazionale, locale e pratica, propria della comunità a cui si partecipa.
 La teoria delle intelligenze multiple di Gardner (2004) insieme alla concezione storico-culturale e
sociale dell’apprendimento costituiscono un binomio a cui riferirsi nel momento in cui si assuma
una visione ecologica e pluri-determinata della mente e si superi la visione classica
dell’apprendimento. Gli spunti educativi offerti dalla teoria delle intelligenze multiple sono
molteplici sia dal punto di vista dei contenuti che dell’impostazione metodologica. Ci rifaremo a
questo tipo di riflessioni per valutare l’impatto della formazione Feuerstein in azienda.
 La narrazione nella teoria psico-culturale di Bruner (1992) così come nella formazione psicosociale
viene considerata un mezzo di cui l’attore sociale e organizzativo dispone per la costruzione dei
significati e dell’identità personale e professionale, di conseguenza, come strumento formativo. Ci
rifaremo a quest’approccio per valutare l’impatto dei flussi discorsivi, comprese le nostre
interviste, sui vissuti formativi.
 La psicologia culturale delle organizzazioni e l’impianto teorico dei così detti “workplace studies”
incentrati sul tema della costruzione situata e distribuita della conoscenza nei luoghi di lavoro. Da
qui l’attenzione per gli studi di Wenger (2006) sulle comunità di pratica e quelli di Zucchermaglio
(1996; 2006) sugli aspetti discorsivi nelle organizzazioni intese come contesti sociali di
apprendimento e possibile cambiamento.
Per l’impostazione del lavoro di ricerca è stato fatto riferimento anche ad uno studio di Sabatano
(2005) sulla formazione diffusa nelle aziende italiane di grandi dimensioni: i dati emergenti
dall’indagine in oggetto mettono in luce come la pratica formativa sia ancora molto ancorata ad un
apprendere volto al trasferimento di conoscenze, quindi ad un modello “scolastico” e insieme
“tecnocratico” di formazione.
186
L’analisi del contesto e definizione del problema: gli interrogativi di partenza
La scelta del contesto d’indagine risponde a ragioni di diverso tipo.
1) Innanzitutto la conoscenza diretta dell’azienda. Essendo parte del corpo dipendenti di Lube
Cucine, abbiamo avuto modo di avviare il percorso di ricerca in oggetto avvalendoci di un sistema
di conoscenze organizzative consolidato a partire da un’analisi della quotidianità lavorativa
osservata e vissuta direttamente dall’interno. Ciò ha rappresentato un “plus” significativo ai fini del
progetto stesso. La condivisione degli spazi organizzativi, dei linguaggi d’uso comune, delle
interazioni umane e discorsive degli attori organizzativi, degli strumenti disponibili, vale a dire in
una sola parola della cultura organizzativa, ci ha permesso di assumere uno sguardo attento e
consapevole, aperto ai significati di cui risulta intrecciato il tessuto aziendale, flessibile rispetto ai
livelli di analisi realizzabili (partecipante-dipendente, partecipante-ricercatore). Essere parte dei
dipendenti e al tempo stesso ricercatore interessato alle dinamiche organizzative e di formazione,
seppur non ascrivile nelle tipologie di ricerca usuali e canoniche, richiamando l’idea di
“originalità” insita nella metodologia etnografica e in particolare nei casi empirici dei “workplace
studies”, ci ha permesso una partecipazione osservante in qualche modo privilegiata dal punto di
vista dell’accesso alle informazioni e alle storie di coloro che vivono la quotidianità aziendale.
2) La durata della ricerca e gli obiettivi individuati. Focalizzando l’attenzione sui vissuti
organizzativi e sui fattori psico-culturali che contraddistinguono l’organizzazione ospitante, il
monitoraggio delle attività di formazione ha avuto modo di dispiegarsi nel lungo periodo, dentro e
fuori i tempi delle attività programmate, seguendo passo dopo passo il piano delle lezioni, le
interazioni dei partecipanti negli intervalli di tempo tra una lezione e l’altra, le iniziative extracorso pianificate al termine della sessione formativa.
3) La lettura psico-culturale dell’organizzazione. L’attenzione rivolta all’organizzazione di lavoro
intesa non come ente, sovrastruttura, ma come complesso processo di attività e decisioni collettive
situate e mediate culturalmente, storie di gruppi e persone localmente costruite e continuamente
negoziate, fa di Lube un caso aziendale in cui poter dare applicazione agli orientamenti teorici
scelti.
Lube Cucine è un gruppo industriale di circa 500 dipendenti, la cui struttura, come mostra
l’organigramma aziendale, evolve in senso orizzontale. Sotto la direzione generale identificabile
con la proprietà dell’azienda, i centri di responsabilità prevedono una partecipazione diretta alle
principali decisioni aziendali e, identificando le diverse aree di lavoro, dirigono senza altra
intermediazione tutte le restanti risorse umane identificabili con le funzioni base. Ciò rende
l’organizzazione snella e flessibile ma fortemente dipendente, dal punto di vista della decision
187
making, dal nucleo centrale di direzione generale. Nel caso specifico dell’area di direzione del
personale, le responsabilità inerenti riguardano compiti puramente amministrativi. Non esiste,
infatti, un’area strutturata di gestione del personale di tipo psico-organizzativo, né una conseguente
gestione programmata delle attività di formazione. La formazione di tipo “relazionale” 81
rappresenta un’attività occasionale, raramente pianificata. Ad oggi, infatti, la maggior parte della
attività
di
formazione
realizzate
sono
state
di
risposta
a
delle
precise
esigenze
pratiche/contenutistiche di natura tecnica, subito spendibili nei diversi ambiti lavorativi. La
decisione di alcuni responsabili aziendali di investire per la prima volta in un’attività di formazione
comportamentale ed insieme relazionale ha permesso di stabilire un canale di collaborazione diretta
sulla base del quale il progetto di ricerca in oggetto e gli obiettivi ad esso sottesi sono stati
condivisi ed accettati, ovvero integrati nella stessa attività di formazione.
Il contesto della nostra ricerca può, pertanto, essere annoverato tra le aziende di grandi dimensioni
sulla base del criterio di classificazione stabilito dal Decreto Legge n. 229 del 1997. 82 Come
evidenziato dall’indagine nazionale sui modelli e sulle pratiche di formazione nelle grandi aziende
“Com.Pro.Form” condotta da Fausta Sabatano, il tessuto delle imprese italiano è in larga parta
costituito dalle così dette PMI – piccole e medie imprese – che hanno la peculiarità, data la
ristrettezza dei mezzi a disposizione e/o della cultura organizzativa vigente, di avvalersi di attività
di
formazione
prevalentemente
tecnica-specialistica
basata
sul
modello
dell’affiancamento/apprendistato o fornita dall’esterno, acquistata presso enti/agenzie specializzate.
La pianificazione della formazione dall’interno, sulla base di specifiche politiche di gestione del
personale, è una prerogative delle aziende considerate “grandi”. Nel caso specifico, il fatto che da
81
Con la definizione di formazione comportamentale e relazionale facciamo riferimento alla definizione proposta da
Paola Pagano nell’articolo “La formazione in azienda: una «rilettura critica»” pubblicato nella Rivista di Psicologia
Clinica n.2 del 2008, pp. 228-246. “La formazione comportamentale ha a che fare con i comportamenti individuali in
rapporto al contesto lavorativo specifico. […] Il fine della formazione è di indirizzare le persone in modo che
acquisiscano modelli comportamentali prestabiliti, insegnando cosa deve essere fatto ed il modo per farlo secondo la
polarizzazione valoriale giusto-sbagliato. Il metodo didattico prevede la presentazione, in genere una lezione
introduttiva, durante la quale vengono illustrate le componenti fondamentali del comportamento proposto, le sue
motivazioni e tutto ciò che può indurre ad adottare quel comportamento, poi si propone un esempio dimostrativo,
quindi, l’applicazione esemplificativa e, infine, lo sviluppo della pratica attraverso l’applicazione di quanto appreso a
situazioni reali. Nel percorso formativo la persona acquisisce consapevolezza su ciò che l’organizzazione si aspetta da
lui e su quale sia il modo migliore per soddisfare queste aspettative, facendo propri bisogni ed obiettivi del sistema”.
“La formazione relazionale agisce sull'apprendimento di tecniche e capacità proprie del comportamento:
comunicazione e gestione delle relazioni interpersonali, lavoro di gruppo e relazioni sociali, rapporto con il lavoro e
organizzazione, motivazione ed energia, valori, dinamiche di potere e di leadership. La formazione relazionale assume
un particolare rilievo quando la “turbolenza”, “l'imprevedibilità e le criticità dell'ambiente esterno” richiedono il
rafforzamento della persona”.
82
Il criterio di classificazione delle aziende è stato definito col decreto del governo n. 229 del 18 Settembre 1997 in
base al quale sono da considerarsi “grandi aziende” tutte quelle con un numero di dipendenti superiore a 250 e un
fatturato superiore a 40 milioni di euro, oppure un bilancio annuo superiore a 27 milioni di euro. Sono invece medie
imprese quelle con meno di 250 dipendenti e fatturato inferiore ai 40 milioni di euro; sono piccole imprese quelle con
un numero di dipendenti non superiore a 50 persone e fatturato non superiore a 7 milioni di euro (Sabatano, 2005, pp.
61-62).
188
un alto Lube possa essere considerata una azienda di grandi dimensioni e dall’altro non abbia un
sistema interno di gestione delle attività di formazione, ci fa pensare che il contesto organizzativo
in oggetto sia da considerarsi a-tipico e complesso allo stesso tempo.
Infatti, guardando alla crescita aziendale avvenuta negli ultimi dieci anni, alle evoluzioni del
tessuto lavorativo sia dal punto di vista del prodotto che delle infrastrutture, ovvero della tecnica e
del management strategico, la mancata apertura alle politiche di gestione del personale proprie dei
modelli organizzativi post-industriali appare come una resistenza al cambiamento che sta
investendo il mondo del lavoro e la realtà imprenditoriale odierna. Lube è un’azienda a conduzione
familiare sviluppatesi velocemente, fotografia di una conduzione di tipo tradizionalista entro una
struttura moderna e all’avanguardia. Il passaggio generazionale dai capostipiti a nuove figure
dirigenziali di riferimento, gli investimenti volti al miglioramento del prodotto, la maggiore
sensibilità verso i temi della comunicazione, dell’ecologia e dell’innovazione delineano il profilo di
un’azienda in fermento, attenta agli input provenienti dall’ambiente esterno, desiderosa di investire
in risorse attraverso cui seguire un iter evolutivo crescente, non solo dal punto di vista dei profitti
ma anche della capacità di “fare impresa” in senso sociale e culturale. I valori del “fare”,
dell’essere presente, del partecipare agli obiettivi aziendali scandiscono gli impegni di lavoro
quotidiani: inevitabilmente risultano depotenziati i valori del pensare, dell’ascolto e della
condivisione. Tutti questi fattori contribuiscono a delineare la cultura organizzativa vigente,
influendo sulle dinamiche di lavoro interne ed esterne, di comunicazione e relazione.
Sulla base di ciò, il corso “P.A.S.” monitorato e oggetto della nostra indagine risulta essere una
eccezione rispetto le usuali attività di formazione praticate. Questo rende il caso-studio ancora più
significativo dal punto di vista della nostra analisi, soprattutto se si tiene conto che la domanda di
formazione non è scaturita dietro all’evidenziazione di una situazione problematica interna, ma ad
un lavoro di sensibilizzazione verso la tematica della modificabilità cognitiva da parte di un
dipendente conoscitore e fruitore del metodo che ha svolto una funzione di intermediazione
informativa tra direzione e formatore lungo tutta la durata del training. Sostanzialmente è venuta a
mancare la fase di formulazione della “domanda”, mentre ha esercitato un ruolo fondamentale la
figura dell’intermediario/informatore di cui sopra. L’interesse scaturito verso il metodo e il
principio di miglioramento delle funzioni cognitive ha indotto la direzione ad avallare la proposta
di formazione, dando inizio ad una collaborazione con l’ente formatore promosso, centro di
formazione certificato presso l’International Centre for the Enhancement of Learning Potential
fondato e diretto da Reuven Feuerstein (ICELP).
189
Il corso di durata trimestrale si è articolato in 10 lezioni di 4/5 ore ciascuna articolate con cadenza
quindicinale. I dipendenti coinvolti erano 10 (di cui uno era l’osservatore partecipante),
principalmente responsabili di area, selezionati dalla direzione sulla base della strategicità delle
posizioni rivestite e della previsione di positività che il principio della modificabilità cognitiva
avrebbe potuto avere nelle loro rispettive aree d’azione. La fase di analisi della domanda ha
previsto degli incontri tra formatore e direzione volti all’approfondimento della conoscenza
aziendale e un contatto indiretto tra formatore e futuri formandi, ai quali è stato chiesto di profilare
la loro posizione in azienda (ruolo, funzionalità della propria area e della propria figura,
responsabilità, mansioni, collaboratori). Il formatore, quindi, non ha mai incontrato i partecipanti
prima dell’inizio del corso e la programmazione delle attività si è svolta sulla base degli scambi
informativi tra formatore-direzione-intermediario, azzerando i benefici derivanti dalla condivisione
e compartecipazione proprie dell’analisi della domanda di sui si è parlato a proposito della
formazione psicosociale.
Sulla base di quanto detto fin qui, dato l’interesse della nostra ricerca, le problematiche che ci è
sembrato opportuno affrontare riguardavano:
1) le reazioni dei formandi, ovvero l’impatto che una formazione di tipo comportamentale e
relazionale e in particolare il metodo Feuerstein avrebbe potuto avere sul gruppo di dipendenti
scelto e in generale, al di fuori di esso, sull’azienda stessa vista la possibilità di ricaduta dei
contenuti veicolati dal punto di vista della costruzione di nuovi significati attraverso le dinamiche
relazionali e conversazionali tra corsisti e collaboratori delle aree afferenti;
2) le dinamiche di gruppo innescate, quindi gli aspetti relazionali, sociali, emozionali emergenti
dalla formazione;
3) l’emersione degli aspetti culturali di natura organizzativa attraverso le transazioni narrative
proprie dell’esperienza formativa osservata dal punto di vista della sua valenza psicosociale;
4) l’approfondimento delle forme di apprendimento promosse dal corso Feuerstein in termini di
vicinanza/distanza dai principi dell’apprendimento sociale e situato presi come punto di riferimento
teorico;
5) il valore della pratica e dell’esperienza diretta veicolata e la possibilità di riconoscere nel
gruppo dei formandi le caratteristiche di una comunità di pratica e di riflessione;
6) le possibilità di cambiamento insite nell’esperienza di formazione studiata sia a livello
individuale che organizzativo.
190
Dalle problematiche sopra evidenziate è scaturito un disegno di ricerca di cui di seguito si danno i
dettagli.
Il piano di ricerca
Il nostro piano di ricerca si è articolato secondo una serie di tappe in divenire così organizzate:
1-
l’individuazione delle ipotesi
2-
gli obiettivi generali
3-
gli strumenti di ricerca
4-
le fasi della raccolta dati
5-
elaborazione e interpretazione dei risultati
6-
ricostruzione ed esposizione dei risultati, confronto con le ipotesi iniziali
7-
eventuali prospettive di studio
L’individuazione delle ipotesi e gli obiettivi generali
Con riferimento agli aspetti teorici trattati, agli interrogativi emergenti dall’analisi del contesto
sopra detti e alla tipologia di pratica formativa presa in esame sono state formulate delle ipotesi che
hanno guidato l’iter di ricerca, orientando le osservazioni e l’analisi delle informazioni raccolte.
Rispetto alle stesse, si è cercato di mantenere un atteggiamento esplorativo equidistante onde
evitare una centratura sulle tematiche ritenute salienti e la conseguente perdita della complessità
delle dinamiche situazionali.
Le ipotesi prese in considerazione possono così essere definite:
 se la formazione implica un cambiamento intrapsichico e interpersonale dei formandi a partire dal
quale è possibile innescare un processo di cambiamento organizzativo, allora il training osservato,
a partire dalla modificabilità cognitiva dei partecipanti e della comunità di pratica formativa
costituitesi, può produrre un cambiamento anche nell’organizzazione ospitante;
 se l’apprendimento è una pratica sociale e situata allora qualsiasi esperienza di formazione non può
proporsi unicamente come trasmissione di conoscenze mediante strumenti e artefatti cognitivi
immessi nel setting formativo e finalizzati all’uso lavorativo: al di là della bontà dei contenuti
proposti, se intende penetrare nel tessuto organizzativo deve piuttosto agire attraverso leve di tipo
esperenziale e partecipativo di carattere localizzato, le stesse che è possibile attribuire alle
dinamiche di formazione proprie delle così dette “comunità di pratica”;
191
 se le organizzazioni possono essere pensate come processi di azioni e decisioni collettive volte alla
costruzione di una cultura in parte formale ed esplicita, in parte informale ed implicita, allora
l’esperienza formativa identificabile con il termine “corso di formazione aziendale” in quanto
“tempo” di sospensione dalla normale attività lavorativa diviene occasione, a prescindere dai
contenuti veicolati, di scambio di opinioni e spazio narrativo ove poter rintracciare, tra le righe dei
discorsi dei partecipanti, le note salienti della cultura dell’organizzazione a cui si appartiene;
 se le organizzazioni possono essere pensate come processi di azioni e decisioni collettive volte alla
costruzione di una cultura in parte formale ed esplicita, in parte informale ed implicita, allora
l’esperienza formativa identificabile con il termine “corso di formazione aziendale” in quanto
“tempo” di sospensione dalla normale attività lavorativa diviene occasione “strategica”, a
prescindere dai contenuti veicolati, di scambio di opinioni e spazio narrativo ove poter rintracciare,
tra le righe dei discorsi dei partecipanti, le note salienti della cultura dell’organizzazione ospitante e
al tempo stesso operare una funzione di “mediazione” di natura cognitiva, culturale, sociale;
Gli obiettivi guida del nostro lavoro sono quindi, in generale, identificabili con:

l’osservazione delle attività di formazione e l’impatto dei contenuti proposti al gruppo dei
partecipanti;

la circoscrizione delle problematiche lavorative emerse e delle tracce del sapere comune
condiviso dai formandi sulla base delle quali profilare la cultura organizzativa dell’azienda
committente;

l’analisi delle dinamiche comunicative e relazionali proprie del setting di formazione e delle
possibili reazioni imputabili all’ambiente circostante;

l’approfondimento delle tematiche proposte dal formatore sia dal punto di vista teorico che
metodologico ovvero il confronto tra il corso Feuerstein e un modello di formazione di tipo
psicosociale;

la costruzione di uno strumento di rilevazione di informazioni, sulla base dei dati emergenti
dalle osservazioni raccolte, utile a dare approfondimenti agli aspetti ritenuti significativi e
mediante il quale dare voce all’aspetto narrativo, autobiografico ed emozionale, del vissuto
formativo di ciascun partecipante;

l’individuazione degli strumenti consegnati ai singoli formandi durante il corso, con particolare
riferimento ai concetti di “procedura di lavoro”, “funzioni cognitive” e “meta-cognizione”, a
partire dai quali valutare le possibilità e le modalità di trasferimento degli insegnamenti profusi
192
nell’attività lavorativa quotidiana, vale a dire la loro “messa in pratica” nel contesto
organizzativo.
Gli strumenti di ricerca
La metodologia di ricerca di tipo qualitativo ed etnografica si è avvalsa di:
1) una raccolta di informazioni mediante osservazione partecipante alle attività di training: nel
caso specifico è stato redatto un diario di appunti, osservazioni, riflessioni annotate durante tutto
l’iter del corso di formazione, dall’incontro preliminare di presentazione del corso fino all’ultima
lezione in cui il formatore ha proposto un questionario di gradimento; la stessa metodologia è stata
utilizzata anche nel fase successiva alla fine del corso di formazione, durante il monitoraggio delle
attività indette autonomamente dai formandi, volte all’approfondimento di alcune problematiche
lavorative.
2) i questionari di gradimento somministrati dal formatore al termine del corso: in seguito allo
stabilirsi di un rapporto di scambio e confronto diretto con il formatore P.A.S. abbiamo avuto la
possibilità di prendere visione dei questionari di gradimento compilati dai formandi durante
l’ultima lezione. I questionari ci sono stati consegnati in forma anonima. Si compongono di
domande aperte di valutazione dell’esperienza formativa dal punto dei visti dei vissuti personali e
professionali. Rappresentano un supporto particolarmente importante in quanto ci hanno permesso
di tracciare la significatività attribuita dai formandi al corso frequentato a ridosso della chiusura
dello stesso, captando un’emozionalità che è stata messa a confronto con quella emergente dalle
interviste somministrate a distanza di circa sei mesi. La combinazione dei due strumenti,
questionari e interviste, alla luce del fattore “tempo”, favorisce un approccio interpretativo su due
livelli, quello suggerito dal testo scritto per mano di ciascun individuo e quello del flusso di
pensiero, verbale, diretto e immediato dell’incontro in presenza. Il senso del sé emerge attraverso
questi due livelli raccontandosi e soffermandosi sui passaggi ritenuti salienti non solo in
riferimento all’esperienza di formazione vissuta ma alla stessa storia organizzativa.
3) un’intervista semi-strutturata costruita sulla base degli input dati delle osservazioni iniziali e
volta all’approfondimento delle tematiche salienti emerse nella fase osservativa. La scelta
dell’intervista piuttosto che del questionario è legata alla volontà di dare rilievo al racconto in
prima persona, in forma verbale e frontale, all’interiorizzazione dell’esperienza formativa di
ciascun partecipante, ovvero alla ricognizione dei vissuti formativi e alla loro integrazione entro il
contesto d’azione e cognizione del singolo individuo ovvero, detto con la terminologia di Lave e
193
Wenger, entro la sua comunità di pratica. Visto l’impianto teorico di partenza e le ipotesi
formulate, l’intervista faccia a faccia, a nostro avviso, è lo strumento più adeguato, data anche la
ridotta numerosità del campione, per evidenziare agli aspetti narrativi dei vissuti formativi e, in
modo particolare, agli aspetti culturali e sociali propri dell’esperienza dell’apprendere.
Le osservazioni hanno avuto luogo entro il setting “formale” ed “informale” della formazione: è
stato possibile osservare sia le situazioni d’aula ufficiali che le situazioni che potremmo definire
“confidenziali” in cui lo scambio di opinioni e il confronto verbale tra i formandi al di fuori delle
lezioni previste hanno lasciato emergere sensazioni ed impressioni sull’esperienza in atto.
Per le interviste semi-strutturate è stata prevista una scaletta dei temi da trattare attraverso la libera
esposizione delle opinioni degli intervistati. Il campione intervistato è composto dai nove
partecipanti al corso P.A.S.: di questi 7 ricoprono ruoli di responsabilità direttiva afferente ad una
particolare area aziendale. La mappa delle aree coinvolte sono: area sistemi informativi, centro
elaborazione dati, amministrativa, finanziaria, acquisti, ricerca e sviluppo, commercio estero.
Di seguito la traccia dell’intervista somministrata:
-
aspettative antecedenti all’inizio del corso: l’obiettivo è capire se prima dell’inizio del corso i
partecipanti conoscevano questo tipo di formazione, cosa si aspettavano, quali obiettivi
desideravano raggiungere;
-
percezione del corso e del metodo: l’obiettivo è la descrizione del corso P.A.S. da parte dei
partecipanti e i loro punti di vista sul metodo Feuerstein;
-
concetti e principi, ovvero cosa è rimasto dei contenuti proposti: l’obiettivo è raccogliere le
opinioni dei singoli sui principi base del corso, come ad es. quello del “prendersi del tempo” e sulle
funzioni cognitive;
-
vantaggi e cambiamenti vissuti: l’obiettivo è far emergere i possibili vantaggi e cambiamenti,
relativi alla persona, al modo di seguire le lezioni e di lavorare, riscontrati dai partecipanti durante
e dopo il corso;
-
difficoltà: l’obiettivo è rilevare l’impatto con il metodo Feuerstein e con l’uso delle funzioni
cognitive;
-
risultato: l’obiettivo è un bilancio di cosa i partecipanti pensano di aver imparato grazie alla
frequenza del corso P.A.S.;
-
transfert e “messa in pratica” degli apprendimenti: l’obiettivo è constatare se i formati hanno
avuto modo di utilizzare i principi appresi durante il corso nel loro lavoro, capire quali principi
194
utilizzano di più, quali aiutano a lavorare meglio, in quali ambiti specifici è stato possibile
sperimentarli, il tutto possibilmente avallato da esempi concreti;
-
contesto di lavoro: l’obiettivo è appurare se i partecipanti al corso hanno ricevuto o meno conferme
di un avvenuto cambiamento nel loro modo di lavorare, agire, parlare da parte dei collaboratori, se
hanno notato particolari reazioni da parte dei colleghi vicini;
-
a chi è rivolto il corso: l’obiettivo è far identificare agli stessi formati una tipologia di lavoratori a
cui il corso potrebbe risultare utile;
-
riunioni di gruppo e procedura di comunicazione: l’obiettivo è lasciar trapelare la procedura che il
gruppo di studio P.A.S. all’unanimità ha deciso di attuare dopo la fine del corso (si tratta di una
vera e propria procedura attraverso cui gestire la comunicazione interna all’azienda e dare futuro e
concretezza agli insegnamenti appresi durante la formazione).
Le fasi della raccolta dati
La raccolta dei dati è avvenuta secondo tre fasi:
1) lezioni in aula come dal calendario del corso P.A.S.
2) attività di gruppo programmate dai formandi nel periodo successivo alla fine del corso
3) interviste
Le lezioni hanno avuto durata trimestrale. Il calendario prevedeva lezioni di due mattine
consecutive con durata di 4 ore ciascuna. La cadenza delle lezioni è stata quindicinale.
Le riunioni di gruppo indette al termine delle lezioni sono scaturite dal desiderio degli stessi
formandi di approfondire il tema della comunicazione interna all’azienda sentita come
problematica e disfunzionale, quindi causa di difficoltà comuni dal punto di vista lavorativo. A
distanza di circa 2 mesi dalla fine delle lezioni sono stati realizzati due incontri di gruppo con
cadenza bimestrale in cui i partecipanti hanno sviscerato la situazione della comunicazione interna
all’organizzazione sulla base delle riflessioni emerse sull’argomento durante il corso.
Coerentemente con i principi del metodo Feuerstein e gli strumenti consegnati ai formandi durante
il training l’obiettivo delle riunioni era costruire una procedura condivisa per regolamentare i flussi
comunicativi aziendali da estendere al resto dei dipendenti. Durante la prima riunione sono state
gettate le basi della procedura, messe per iscritto nel periodo successivo all’incontro; nella seconda
riunione invece è stata argomentata la traccia scritta realizzata e ampliata alla luce di nuove
195
riflessioni. Sulla base di quanto emerso nel corso delle due attività è stata redatta una procedura
ufficiale.
Le interviste sono state somministrate a distanza di circa sei mesi dalla fine del corso e di circa un
mese dall’ultima attività di gruppo. La distanza di tempo dal termine delle lezioni risponde alla
necessità di lasciar sedimentare i contenuti proposti e i vissuti della formazione per poterli
recuperare attraverso lo stimolo narrativo, valutandoli e interpretandoli in base alla loro “presenza”
più o meno attiva sia nella mente (cognizione ed emozione) che nella prativa lavorativa degli
intervistati.
Nel prossimo capitolo l’analisi dei risultati.
Elaborazione e interpretazione dei risultati
Le interviste dei nove partecipanti hanno una durata media di circa 30 minuti (da un minimo di 13
minuti c.a. ad un massimo di 47 minuti c.a.). Sono state registrate come file audio e sono state
trascritte fedelmente mantenendo la stessa struttura conversazionale emersa durante i colloqui. Ad
alcune interviste sono seguiti dei commenti da parte degli intervistati e anch’essi sono stati annotati
a titolo di completezza di ciascun profilo. La lunghezza delle registrazioni, il grado di
partecipazione, il confronto ricercato sono da ritenersi degli indici di gradimento dell’approccio
narrativo e autobiografico usato, risposta ad uno stimolo partecipativo che ha visto molti
intervistati uscire dalla linea degli argomenti proposti per parlare di sé, del proprio ruolo
professionale e in modo particolare dell’azienda e delle dinamiche organizzative in cui si trovano
immersi. Alla luce di ciò è stato possibile evidenziare che la maggior parte dei significati emersi
nelle interviste convogliano attorno ad alcune aree tematiche peculiari, funzionali all’esposizione
delle informazioni cosi raccolte. Tra queste:
-
il coinvolgimento narrativo dei partecipanti e l’interiorizzazione dei significati condivisi
-
la dimensione di gruppo nella formazione
-
le rappresentazioni della formazione e la cultura aziendale vigente, l’organizzazione del lavoro e le
situazioni vissute come problematiche
-
la trasferibilità della formazione
-
il cambiamento in intermini individuali e organizzativi.
196
CAPITOLO CINQUE:
“L’ORGANIZZAZIONE CHE FORMA: STORIE DI LAVORO, STORIE DI PERSONE”:
I RISULTATI DELLA RICERCA
5.1. Il corso “P.A.S.”: contenuti, obiettivi e strategia formativa
Il “P.A.S.”, Programmazione Arricchimento Strumentale, è costruita sul metodo dello psicologo
rumeno, allievo di Piaget, Reuven Feuerstein e sulla sua teoria della modificabilità cognitiva.
Demetrio (Demetrio, Fabbri, Gherardi, 2002, p. 81) annovera la metodologia del P.A.S. tra i
sistemi di educabilità cognitiva in età adulta e, in quanto tali, adeguati a gestire la diversificazione
dei percorsi di vita, cognitivi e formativi, individuali e quelle che definisce “penalizzazioni
apprenditive” indotte dalla vita organizzativa a favore di eventuali “rimobilitazioni della mente”. Il
principio di base è che ogni individuo adulto presenti un suo “stile manipolatorio” ovvero abitudini
cognitive consolidate a partire dalle quali pensa e agisce. “[…] l’educabilità cognitiva consiste nel
capire se queste abitudini […] si sono consolidate e irrigidite in schemi al punto da impedire ogni
ulteriore cambiamento di itinerario” (ivi, p. 84).
L’impostazione teorico-scientifica del metodo P.A.S sottende delle origini piagetiane
successivamente evolute a favore del pensiero pensiero vygotskiano, in particolare delle nozioni di
apprendimento sociale, di mediazione e di zona di sviluppo prossimale. Sono molti i rimandi
all’opera di Vygotskij (“Il processo cognitivo”, 1978), così come è evidente un allineamento,
seppur concettualmente delimitato dallo stesso autore, con la teoria delle intelligenze multiple di
Gardner (“Formae Mentis”, 1987). “La pratica originariamente riabilitativa ed educativa di
Feuerstein è ispirata da una forte intenzionalità, una fiducia profonda nelle possibilità di sviluppo di
ogni persona ed, inoltre, da una fiducia nell’educazione come modalità per consentire lo sviluppo”
(Reggio, 2003, p.2) L’essere umano è al centro della pratica formativa, mai come semplice oggetto
ma soggetto attivo del proprio sviluppo e cambiamento. Tra educazione e sviluppo e tra
apprendimento e sviluppo Feuerstein stabilisce un nesso di circolarità ricorsiva tale che lo sviluppo
viene percepito come un fenomeno che può avvenire grazie alla capacità del soggetto di cogliere le
opportunità della vita quotidiana ed assumerle come esperienze di apprendimento. Secondo tale
prospettiva diventano strategiche le capacità di pensiero, lo sviluppo di consapevolezza circa le
proprie modalità cognitive, la competenza nell’affrontare problemi e nell’adottare strategie efficaci
di apprendimento.
197
Da qui la domanda centrale nella prospettiva dell’educabilità cognitiva “è possibile insegnare a
pensare?”. Feuerstein sostiene che sia possibile sia per individui con difficoltà cognitive che per
normo-dotati. Da ciò scaturiscono le tre aree focali del suo sistema: il concetto di valutazione
dinamica delle potenzialità cognitive e il modello L.P.A.D. (“Learning Potential Assessment
Device”), la modificabilità cognitiva strutturale riferibili al soggetto in apprendimento e
l’esperienza di apprendimento mediata intesa come strategia formativa fondante. Alla base delle
ricerche del prof. Feuerstein, vi è la convinzione che l’intelligenza umana non sia innata, né statica,
ma che, al contrario, si possa sviluppare grazie alla plasticità e alla plasmabilità delle strutture che
compongo il cervello. Facendo leva su questa straordinaria possibilità e attraverso un insieme di
esercizi che si configurano come una sorta di palestra mentale, il formatore nel ruolo di
“mediatore” pone il partecipante nella condizione di acquisire un numero crescente di nozioni: gli
esercizi carta-matita attraverso cui il metodo Feuerstein si esplica non propongono, infatti, solo un
contenuto, ma mirano a sviluppare un nuovo modo di agire dell’individuo nel quale sono
opportunamente sviluppate la flessibilità, la memorizzazione, la classificazione, la capacità
strategico-previsionale, l’abilità nell’organizzare dati e informazioni. I principali steps della
formazione P.A.S. sono circoscrivibili in una fase intensiva di avvicinamento al metodo e agli
strumenti somministrati, approfondimento e condivisione dei principi base, tecniche di
comunicazione e meta cognizione; una seconda fase di mantenimento volta alla cristallizzazione
delle conoscenze acquisite.
Il concetto di “cambiamento” ovvero di “modificabilità cognitiva strutturale” (MCS) sottende
un’immagine di apprendimento inteso come risposta ad un stimolo: non si tratta però di una
risposta meccanica (SR) ma di una risposta “mediata” (S-H-O-H-R): l'organismo (O) esposto
direttamente agli stimoli (S) li riceve e risponde (R) ad essi con competenza solo dopo che le loro
caratteristiche, sono state selezionate, inquadrate, modificate da un mediatore umano (H)
(Feuerstein et al. 2008; Feuerstein, Rand, Rynders 1995). La mediazione esercita un potere
determinante sulle risposte dell’individuo che apprende, permettendo di dare ad esse un significato
e un valore sociale, trasformando possibili comunicazioni non adeguate, o adattandole alle
particolarità specifiche dello stimolo. Ovviamente, come già detto, in questa prospettiva non
possono non essere altrettanto determinati il valore del contesto in cui l’individuo si trova a vivere,
le opportunità e gli stimoli a sua disposizione ovvero le sue capacità di cogliere questo tipo di
sollecitazioni.
Le componenti dell’atto mentale sono concepite da Feuerstein nei termini di “input-elaborazioneoutput”: in tal senso, se nei soggetti con carenze le disfunzioni di apprendimento vengono fatte
riferire alla fase di “elaborazione” dei dati in ingresso, nei soggetti normo-dotati che presentano
198
difficoltà nell’affrontare problemi complessi si parla di funzionamento carente dal punto di vista
delle fasi di “input” ed “output”. A livello di input possono ad esempio verificarsi situazioni di
scarsa precisione o inesattezza nell’acquisizione dei dati, di difficoltà di percezione; a livello di
output le problematicità possono essere imputabili ad una comunicazione inefficace, egocentrica,
scarsamente protesa all’interlocutore o a blocchi nella trasposizione verbale delle caratteristiche dei
propri processi cognitivi. Tali inadeguatezze possono essere attribuite anche a soggetti con una vita
professionale e sociale ben integrata: qualsiasi persona può infatti essere artefice di prestazioni
poco soddisfacenti o di “diseconomie” nell’uso del pensiero. “Proprio la constatazione della
crucialità di una corretta gestione delle funzioni cognitive correlate alle fasi di input ed output
dell’atto mentale apre possibilità di intervento formativo e di possibile cambiamento del soggetto,
che può essere sollecitato a riconoscere e modificare quanto riesce ad osservare concretamente”
(corsivo nostro) (Reggio, 2003, p. 3).
L’essenza della formazione Feuerstein risiede quindi nell’esperienza di apprendimento mediato. Il
formatore opera una trasposizione verso la specifica situazione in cui prende avvio l’esperienza di
formazione: individua gli elementi contestuali rilevanti ai fini formativi, avvalendosi di essi di
modo da accompagnare i formandi in un processo di revisione cognitiva a partire dal proprio
panorama significazionale. L’esperienza di formazione assume così una connotazione di familiarità
e la mediazione, frutto di un’esplicita intenzionalità del formatore, agisce tra soggetto ed esperienza
nel contesto di riferimento. Guardando in modo specifico alla formazione degli adulti negli
ambienti di lavoro, la mediazione consente di avvicinare i contenuti di apprendimento (ad esempio
un problema da risolvere, una competenza da acquisire, un argomento da comprendere)
direttamente a partire dal proprio modo di pensare. Il fatto che tali contenuti possano risultare
ostici, poco interessanti o lontani da sé, richiede l’esercizio di “forme di mediazione, cioè di
interpretazione contestualizzata dell’oggetto di apprendimento” (ibidem). Sostanzialmente, il
formatore si interpone tra soggetto e contenuto di apprendimento fungendo da mezzo per accedere
alla comprensione. Svolge, pertanto, una funzione metodologica, “paradigmatica di un modo di
procedere dinnanzi alla conoscenza” (ibidem) e priva di valenza contenutistica: come il mediatore
di cui parla Vygotskij, accompagna il soggetto che apprende oltre il potenziale esistente, dal livello
manifesto di funzionamento corrente verso la così detta “zona di sviluppo prossimale”. Gli
strumenti formativi predisposti veicolano solo in minima parte contenuti di tipo disciplinare, non
necessitando, per questo motivo, di particolari basi di istruzione quali prerequisiti per il loro
utilizzo. Tale caratteristica ne consente l’applicazione in situazioni di vario genere e con persone di
diverse condizioni sociali, culturali e professionali. Nel ruolo attribuito ai contenuti, culturalmente
199
intesi, e nell’intenzionalità del soggetto mediatore stanno le sostanziali differenze rispetto agli
approcci vygotskiano e gardneriano:
“Noi ci differenziamo da Vygotskij perché sottolineiamo l’importanza critica dell’essere umano come
mediatore, che agisce in modo intenzionale e voluto e non crede che oggetti materiali (come gli “strumenti
psicologici” di Vygotskij) possano avere lo stesso potenziale di mediazione. In secondo luogo noi
pensiamo che l’Esperienza di Apprendimento Mediato produca strutture e potenziali che cambiano
sostanzialmente la ZSP [Zona di Sviluppo Potenziale]. Abbiamo sostituito il concetto di potenziale con
quello di “propensione” per comprendervi l’idea del cambiamento esteso e illimitato che può verificarsi
applicando la Modificabilità Cognitiva Strutturale (MCS)” (Feuerstein et al., 2008, pag. 55).
“Per Guilford e Gardner, ciò che definisce i differenti tipi di intelligenza è la loro relazione a differenti tipi
di contenuto. L’assunto di base è che per ogni tipo di “contenuto” (di situazione, di comportamento) esista
un apposito ed esclusivo repertorio di abilità. Diversamente, Feuerstein ritiene che l’intelligenza sia
costituita da condizioni di attività operazionale ampiamente sganciate dai contenuti (o neutre). Perciò
l’intelligenza è concepita come un repertorio di funzioni cognitive universali che possono evidenziarsi
attraverso vari contenuti dati o, per essere più precisi, ogni funzione può e deve operare perfettamente su
ogni contenuto. Ciò permette di trasferire una funzione, che è attiva in un’area di contenuto, a un’altra area
di contenuto dove essa potrebbe emergere o come proiettata strutturalmente (ed efficiente) o come carente
(e non sufficientemente trasferita)” (ivi, pp. 175-176).
Il programma di arricchimento strumentale si basa sulla sollecitazione sistematica delle funzioni
cognitive secondo le fasi di input-elebaorazione-output (si veda appendice 1). Il corretto
funzionamento delle suddette funzioni cognitive risulta essere propedeutico agli stessi atti operatori
così come individuati da Piaget. I 14 strumenti di cui il programma è composto sono dedicati
ognuno ad una specifica funzione cognitiva, anche se in realtà ogni strumento racchiude in sé la
possibilità di sollecitare le funzioni afferenti. Di seguito, l’elenco degli strumenti P.A.S. di cui
sopra: Organizzazione di Punti, Orientamento spaziale (1 e 2), Comparazione, Percezione
analitica, Classificazione, Relazioni familiari, Relazioni temporali, Progressione numeriche,
Consegne, Sillogismi, Relazioni transitive, Pochoirs, Illustrazioni. La successione dei diversi
strumenti segue un criterio di crescente complessità: in sede di formazione la somministrazione
degli strumenti segue la logica stabilita in sede di progettazione didattica sulla base degli obiettivi
evidenziati e delle caratteristiche cognitive dei formandi.
La formazione P.A.S. condotta nei contesti organizzativi e quindi rivolta a soggetti adulti,
lavoratori dotati di specifiche competenze professionali, si caratterizza per percorsi di gruppo volti
al “ri-apprendimento” (Demetrio, Fabbri, Gherardi, 2002, p. 101), ovvero al potenziamento delle
funzioni cognitive applicate a specifiche operazioni di lavoro e alla consapevolezza meta-cognitiva.
Programmi di questo tipo di svolgono per un minino di 40/50 ore fino ad un massimo di 160 ore,
secondo sequenze di due incontri settimanali di durata di 1/2 ore. Possono essere inseriti all’interno
di altri programmi di formazione o previsti prima che un percorso abbia inizio. Gli obiettivi della
didattica P.A.S. ruotano attorno alla funzione di mediazione esercitata dal formatore, la quale, in
200
quanto frutto della sua specifica intenzionalità, può essere attivata sia tra compito e soggetto in
apprendimento che in modo reciproco tra partecipanti, secondo una sorta di “peer-education”.
Sulla base di ciò, il formatore-mediatore lavora a:
-
favorire la presa di coscienza dell’importanza delle funzioni cognitive, la loro comprensione e
riconoscimento in sede operativa;
-
supportare l’individuazione delle strategie mentali utilizzate nel corso delle proprie azioni e il
conseguente riconoscimento di errori e modalità di superamento degli stessi ovvero permettere ai
formandi di auto-modificare le proprie capacità e prestazioni;
-
consentire la costruzione di un metodo cognitivo stabile che, sulla base di una procedura di
pensiero rassicurante, offra sostegno nel problem solving quotidiano;
-
infondere fiducia ai partecipanti circa le possibilità di emancipare il proprio potenziale cognitivo,
dare sostegno dinnanzi allo sforzo necessario a risolvere un compito, sviluppando sentimenti di
competenza e motivazione;
-
aiutare ciascun soggetto a riconoscere le proprie risorse, valorizzandole;
-
stimolare la verbalizzazione e la narrazione dei compiti proposti e delle funzioni cognitive ad essi
applicate e il ragionamento a partire dalla propria esperienza e di quella dell’Altro;
-
far apprezzare i vantaggi della mediazione e della consapevolezza meta-cognitiva;
-
sollecitare la capacità di trascendere da un certo compito generalizzando e trasponendo le
indicazioni di tipo cognitivo in esso contenute in altri contesti di attività così da mostrare la
plurivalenza e versatilità delle nozioni proposte: a tal proposito di parla di “bridging” 83.
La programmazione delle attività d’aula viene realizzata oltre che sulla base degli obiettivi di
metodo sopra detti anche sulla base della così detta “carta cognitiva”, un insieme di criteri sulla
base dei quali il formatore pianifica sia una singola sessione che un intero intervento. Seguendo le
indicazioni-guida della carta cognitiva, gli strumenti P.A.S. vengono adattati alle specifiche
esigenze e peculiarità del gruppo di formazione. Tra i criteri presi in esame si possono annoverare:
1) il contenuto (anche se il metodo Feuerstein non prevede il riferimento a contenuti disciplinari
specifici, ogni strumento propone un proprio tema); 2) le modalità di espressione del compito
(verbale, iconica, numerica, ecc.); 3) la fase del processo cognitivo su cui lavorare (input83
Il “bridging” è un momento fondamentale della formazione incentrata sul metodo Feuerstein: attraverso questa
tecnica i formandi vengono invitati a stabilire collegamenti, analogie tra le funzioni cognitive evidenziate dagli
strumenti P.A.S. e le situazioni della quotidianità lavorativa e non solo. Così facendo, il formatore evidenzia la
possibilità di rintracciare i principi appresi in aula nella vita reale, favorendo il transfer consapevole delle acquisizioni
formative nei contesti operativi.
201
elaborazione-output); 4) le funzioni cognitive implicate; 5) il livello di astrazione degli strumenti da
somministrare (deve essere graduale e intenzionale); 6) la complessità dei compiti; 7) il livello di
efficienza richiesto ai formandi sia dal punto di vista dell’esecuzione del compito che dell’utilizzo
delle funzioni cognitive sottese.
Contestualizzando il raggio d’azione del metodo Feuerstein, è possibile definire la formazione
P.A.S. come una didattica della mediazione di tipo esperienziale, volta facilitare il rapporto tra
soggetto ed organizzazione ovvero tra soggetto e contenuti professionali da acquisire o sviluppare.
Una formazione di questo tipo, oltre a costituire una possibilità di apprendimento nelle
organizzazioni, può anche supportare tutti quei percorsi formativi volti all’acquisizione di
particolari competenze professionali. Formare nelle organizzazioni è oggi un’esigenza sempre più
ancorata ai processi da padroneggiare piuttosto che ai contenuti da possedere. Pertanto, il problema
da porsi e a cui il programma di arricchimento strumentale intende dare delle risposte è come
“imparare ad imparare”, come poter auto-determinare la corretta funzionalità cognitiva a partire
dalla capacità di riconoscimento delle proprie modalità di pensiero e azione e da una maggiore
consapevolezza delle possibili strategie di apprendimento e lavoro.
Ricostruzione dei significati emergenti: osservazioni, questionari e discussioni di gruppo
Il corso P.A.S. in Lube ha avuto durata trimestrale: due lezioni settimanali da 4/5 ore per due
incontri mensili. Il gruppo di persone coinvolte era costituito da 10 persone (tra cui l’osservatore
partecipante) scelte dalla direzione generale: di questi 8 sono dirigenti con background
professionali
diversi.
L’aggancio
di
ciascun
formando
è
avvenuto
tramite
un
intermediario/informatore anch’esso partecipante. Il primo contatto con il formatore è avvenuto
nell’incontro di presentazione del corso a cui è intervenuto l’amministratore delegato, il quale ha
dato spiegazione del perché di una formazione come quella proposta: detto in estrema sintesi, il
miglioramento delle capacità delle risorse umane invitate a partecipare. Ciascun dipendente
rappresenta un bagaglio di esperienze e capacità preziose per l’azienda e il potenziamento di questo
bagaglio non può che essere indispensabile ai fini di una progettualità di crescita organizzativa.
Sulla base di ciò è evidente uno scopo utilitaristico che dall’individuale volge al piano
dell’organizzazione intesa come struttura e processo. Durante l’incontro di presentazione del corso
il formatore ha sondato le aspettative di ciascun partecipante circa l’esperienza di formazione,
senza rivelare particolari né dal punto di vista dell’organizzazione né dei contenuti.
Le lezioni in aula sono state realizzate nella sala riunioni principale. Il gruppo era distribuito su tre
tavoli disposti ad “U” con il formatore al centro (figura 6). A suo fianco una lavagna utilizzata
202
come supporto alle argomentazioni proposte e alla verbalizzazioni dei principi-guida. Ogni
sessione formativa oltre all’impegno d’aula ha previsto degli impegni di approfondimento ed
esercitazione da gestire fuori dall’orario del corso, nella settimana di pausa tra una lezione e l’altra
(una sorta di “compiti a casa”). Durante la prima lezione sono stati consegnati ai corsisti alcuni
strumenti a supporto della didattica: un quaderno per le annotazioni, un raccoglitore ad anelli con
relative cartelline, matite e gomme per cancellare.
Figura 6
Gli strumenti P.A.S. proposti nei tre mesi di formazione sono:
-
Organizzazione Punti
-
Orientamento Spaziale
-
Confronti
-
Percezione Analitica
-
Immagini
203
Ogni sessione della formazione seguita, così come previsto dal programma di arricchimento
strumentale, si è sviluppata per fasi attraverso momenti di lavoro individuale e momenti di lavoro
di gruppo, in continua interazione con il formatore. Ogni sessione di lavoro ha previsto:
1)
presentazione dell’esercizio:
-
brainstorming, spiegazione dei termini, preparazione ad un lavoro autonomo o di gruppo
-
ricerca e riconoscimento delle funzioni cognitive richieste
-
elaborazione di una procedura di lavoro e delle strategie utili alla gestione del compito
2)
risoluzione individuale o di gruppo
-
invito alla riflessione, al prendersi tempo (secondo il motto “un momento sto pensando!”),
alla risoluzione graduale e progressiva dell’esercizio, al ragionamento ponderato sulla base
della procedura precedentemente decisa
3)
riflessione di gruppo sulle modalità impiegate nella risoluzione del compito,
-
condivisione del lavoro compiuto, verbalizzazione delle strategie adoperate da ciascun
individuo o gruppo e delle difficoltà incontrate
-
evidenziazione dei ragionamenti realizzati e dei possibili errori, sollecitazione delle
funzioni cognitive carenti
4)
riconsiderazione dell’esercizio svolto in base alla discussione e alle eventuali correzioni
-
stimolazione della capacità di giudizio, di riflessione e meta-cognizione
-
produzione di motivazione attraverso il rinforzo delle iniziative di interazione tra i discenti,
lo scambio di opinioni, la verbalizzazione/narrazione e la condivisione
5)
attività di bridging:
-
nella discussione in gruppo i formandi cercano una regola comune da generalizzare ad altre
situazioni e attraverso cui spiegare le strategie utilizzate e rivelatesi utili
-
vengono creati dei collegamenti tra i compiti affrontati, le mansioni lavorative,
l’organizzazione aziendale e l’esperienza di vita in generale così da evidenziare la
trasversalità dei principi appresi
-
resoconto attento di quanto accaduto ed emerso nel corso dell’incontro o a chiusura di un
esercizio e annotazione di quanto.
204
Gli obiettivi che il formatore ha condiviso con i formandi nel corso delle prime lezioni possono
così essere riassunti:
-
imparare a pensare e a prendersi il tempo necessario a farlo (“un momento sto pensando!”)
quindi sviluppare flessibilità cognitiva, memorizzazione, capacità di classificare le
informazioni e trasmetterle agli altri, organizzare con precisione dati e dare istruzioni,
frenare l’impulsività di fronte ad un compito, fare ipotesi e previsioni, pianificare strategie
d’azione, pensare in modo riflessivo e auto-riflessivo, comunicare in modo efficace ovvero
non egocentrico;
-
fare bridging e trasferire in altri campi esperenziali ciò che è stato appreso in ambito
formativo;
-
usare con padronanza gli strumenti cognitivi e meta-cognitivi acquisiti durante il corso ed
estenderli al proprio al gruppo di lavoro e collaboratori.
Sulla base di ciò la formazione è stata scandita secondo due fasi:
-
fase intensiva di avvicinamento al metodo e agli strumenti somministrati, approfondimento
e condivisione dei principi base, tecniche di comunicazione e meta cognizione;
-
una seconda fase di mantenimento volta alla cristallizzazione delle conoscenze acquisite.
Brevemente ricostruiamo i significati veicolati durante le attività osservate nei tre mesi di corso e le
relative reazioni da parte del gruppo di formazione. Faremo riferimento ad alcuni dei principi
emersi e trascritti in modo condiviso sulla lavagna, agli argomenti di discussione e alle modalità
utilizzate per il superamento delle conflittualità emerse. Procediamo per temi-chiave.
“Un momento sto pensando!”. Il formatore presenta la copertina della prima scheda
(Organizzazione di punti) su cui si evidenzia la presenza di due immagini (un bambino che pensa e
la costellazione del carro) e di uno slogan che rappresenterà il leitmotiv di tutto il percorso di
formazione: “un momento sto pensando!”. Viene attivato un brainstorming sulle immagini e sullo
slogan di cui sopra, avviando la focalizzazione dei concetti di strategia, di pensiero e di tempo per
pensare. Pensare viene definito dai partecipanti come “riflettere su un’azione, elaborare, ricordare,
valutare diverse possibilità, produrre/fare ipotesi, escogitare la migliore soluzione, rielaborare,
immaginare quello che pensano gli altri, progettare il futuro”. La docente avvia una primordiale
mediazione a favore del vocaboli che ricorreranno lungo tutto il cammino di formazione. Parla,
pertanto, delle funzioni cognitive relativamente ai processi in “input”, “elaborazione” e “output” e
dell’importanza di verbalizzare e trasmettere le proprie strategie di pensiero agli altri, imparando a
mettersi nei loro panni e a riconoscere gli altrui schemi mentali ovvero preoccupandosi di mettere
205
chi ci ascolta nella condizione di capire cosa stiamo dicendo. Spiega la differenza tra
comunicazione diretta e indiretta (inferenziale) e motiva la necessità di utilizzare consapevolmente
una delle due modalità a seconda degli obiettivi da perseguire. Chiede degli esempi pratici ad
alcuni partecipanti che raccontano al gruppo alcune loro situazioni di lavoro.
Principio fissato sulla lavagna: “per raggiungere un obiettivo devo prima di tutto averlo chiaro e
prendermi tutto il tempo che serve per elaborare strategie idonee per affrontarlo”.
“Come lo sai?”. La tecnica di mediazione utilizzata dalla docente si contraddistingue per una
domanda spesso ricorrente: “come lo sai?”. Invita a dare giustificazione delle proprie opinioni e dei
processi di pensiero compiuti di modo che i formandi siano consapevoli di cosa stanno dicendo e
perché. Accanto al fattore “tempo per pensare” emerge quello del “fare ipotesi” e quello della
“verifica”. È infatti fondamentale evitare una modalità di ragionamento condotto per “tentativi ed
errori” e favorire una logica ponderata di valutazione delle informazioni a disposizione prima di
qualsiasi azione e/o scelta. Di qui il concetto di “piano di lavoro” e l’esigenza di far precedere
qualsiasi esercizio da una pianificazione attenta di come si intende lavorare alla soluzione del
compito proposto. Il piano di lavoro deve essere scritto e condiviso con il gruppo di formazione
perché solo attraverso il confronto con gli altri è possibile fuoriuscire dal proprio sguardo di analisi
e percepire, attraverso quello altrui, altri possibili modi di procedere. La differenza tra implicito ed
esplicito e la gestione dell’ambiguità si rivelano fondamentali ai fini della corretta interpretazione
delle informazioni e della comprensione dei propri interlocutori. La scelta tra una comunicazione
implicita ed esplicita dove avvenire consapevolmente in quanto da essa dipendono gli eventuali
errori di interpretazione e le reazioni di chi ci ascolta. L’attività di interpretazione dovrebbe essere
in tal senso soggetta il meno possibile a personalismi. L’obiettivo è stabilirsi su un livello di
oggettività condivisa e condivisibile da un gruppo di persone, in modo particolare dai propri
collaboratori.
Principio fissato sulla lavagna: “controllare l’impulsività nell’agire comporta prendersi del tempo
per pianificare strategie operative ed efficaci per raggiungere l’obiettivo”.
Il gruppo dei formandi accoglie favorevolmente i principi del prendere tempo, del controllo
dell’impulsività, del pensiero divergente, della comunicazione efficace, ma sollevano dei dubbi nel
momento in cui sono invitati a trasferire questi principi all’interno del contesto di lavoro. Notano
infatti che il fattore tempo in azienda risulta determinante ai fini del successo di un compito e non
c’è mai possibilità di contrattare la quantità di tempo a disposizione. Il tempo per pensare e agire è
sempre ridotto al minimo e il prendersi tempo non è un’operazione semplice e non sempre
realizzabile. In Lube c’è una tendenza diffusa a sovrapporre diverse attività tra loro: il telefono che
206
squilla continuamente, il lavoro, le riunioni, ecc. Tutto si connota di urgenza e come tale richiede di
essere gestito in tempi brevi. A fronte di questi dubbi, la mediatrice risponde sollecitando esempi di
casi in cui il non prendersi il tempo necessario a pensare pregiudichi la qualità del proprio lavoro.
Inoltre, evidenzia come molto spesso si categorizzi per abitudine come “urgente” qualcosa che in
realtà non lo è a causa di un principio di adeguamento al ritmo di velocità tipico del vivere
quotidiano.
L’errore. La capacità di percepire ed evitare l’errore richiama i concetti di contesto ed emozione.
La valutazione paziente delle informazioni non può avvenire al di fuori del contesto in cui ci si
trova ad agire. La lettura attenta delle variabili ambientali insieme al controllo dell’impulsività
costituiscono due ulteriori strumenti d’azione e di controllo dell’errore. L’uso consapevole di
comunicazione e del pensiero, vale a dire la meta-cognizione rappresentano due obiettivi ma al
tempo stesso due strumenti di riduzione dell’errore, utili alla gestione delle funzioni di input,
elaborazione e output e allo svolgimento di compiti di lavoro.
Principio fissato sulla lavagna: “è importante l’identificazione precisa di un errore, classificandolo,
e condividere nel gruppo la modalità di gestione dell’errore stesso. Capire bene l’errore e
riconoscerne le cause aiuta a circoscriverlo ed evitarlo nel futuro”.
Il linguaggio. La padronanza del proprio linguaggio costituisce uno strumento indispensabile
all’espletamento delle funzioni cognitive, al ragionamento, alla verbalizzazione di ciò che si sta
facendo, alla gestione dell’errore. Il tema dell’analogia trattato contestualmente a quello del
linguaggio suscita un acceso diverbio tra alcuni formandi e la docente. Stabilire un nesso di tipo
analogico tra una serie di elementi a propria disposizione richiede un certo grado di interpretazione
soggettiva. Concentrare la propria attenzione su alcuni elementi piuttosto che altri può risultare
però sviante rispetto allo svolgimento di un certo compito. I formandi contestano l’arbitrarietà della
scelta guidata dal formatore, vale a dire la necessità di reputare come significativi certi elementi e
di tralasciarne degli altri. Interpretano l’azione di mediazione del formatore rispetto al compito
come una “forzatura” che in quanto discenti competenti non possono accettare. La docente gestisce
il conflitto direttamente tramite lo strumento della scheda sulle analogie. Mostra come assumendo
alcuni particolari elementi come utili non si riesca ad avanzare nella risoluzione dell’esercizio.
Essi, dice, seppur non trascurabili, fungono semplicemente da corollario al ragionamento effettuato
e alla regola di lavoro tracciata, pertanto, possono essere presi in considerazione e nel contempo
“messi tra parentesi”. La prensione episodica della realtà è un atteggiamento proprio di coloro che
guardano un insieme di cose legate da caratteristiche comuni e non riescono a vedere l’analogia che
le accomuna.
207
L’azienda. L’azienda può essere pensata come un intero suddiviso in sottoparti. Le diverse
sottoparti possono essere distinte o sovrapporsi. Seguendo questo tipo di logica i formandi sono
chiamati dalla docente a riconoscersi come parti di un “tutto” dato dalla struttura aziendale, ovvero
a rintracciare le proprie mansioni dal punto di vista del funzionamento generale. L’individuazione
delle parti e delle loro peculiarità, la condivisione del lavoro di discrimine compiuto risultano
fondamentali ai fini della comprensione e ricostruzione dell’intero inteso come sintesi delle parti.
Principio fissato sulla lavagna: “la sintesi è molto più che una semplice somma di parti. Può
prevedere una particolare distinzione delle parti così che possano essere facilmente riconoscibili da
tutti. È importante lavorare sull’identità della sintesi”.
Il raccontarsi. Il formatore prima dell’inizio di ciascuna lezione invita i partecipanti a ripercorre,
verbalizzando, i principi veicolati nelle precedenti lezioni e il senso delle esercitazioni svolte dopo
una pausa tra una sessione formativa e l’altra. Il racconto è uno strumento utilizzato al fine di
permettere a ciascuna persona di parlare di sé, delle proprie impressioni e sensazioni, ricostruendo
poi nel gruppo una serie di significati condivisi. Il senso attribuito alle cose, ai concetti parla
dell’esperienza e del pensiero della persona che compie l’atto di attribuzione. Capire perché l’altro
usa una determinata terminologia nel parlare ci permette di capirlo (chi è e dove vuole andare).
Irrigidirsi sulla propria modalità di connotazione è limitante.
Principio fissato sulla lavagna: “spesso non è facile trovare l’insieme di appartenenza di un
concetto. Dobbiamo fare i conti con le denotazioni e le connotazioni della parole. Il concetto di
connotazione implica la necessità di mettersi nei panni del proprio interlocutore”.
La comunicazione. La gestione efficace delle informazioni ai fini della risoluzione di un compito
prevede la suddivisione delle stesse informazioni in insiemi e la connotazione di detti insiemi
mediante concetti sovraordinati. Un attento lavoro di confronto e classificazione dei dati permette
di evitare ridondanze e possibilità di fraintendimenti. L’esecuzione di una scheda sui confronti apre
un’animata discussione tra formandi. Nel specifico, due di loro si scontrano sui concetti
sovraordianti di “forma” e “dimensione”. Da ciò, la docente lascia scaturire la dimostrazione di
come i due partecipanti abbiamo una connotazione diversa del concetto di dimensione. Nel
contempo, sottolinea come ad es. la distinzione tra “direzione” e “verso” sia tipica degli ingegneri e
come la diversità delle intelligenze e degli specialisti propri di ciascun individuo contribuiscano a
connotare le realtà circostante attraverso personalismi evidenti nei flussi di pensiero ed azione.
Principio fissato sulla lavagna: “ci possono essere varie modalità di classificazione dei dati”. “Se
le informazioni che ci vengono date non contengono coerenza ai fini di una classificazione, bisogna
208
fare la fatica di confrontarsi per suddividere le informazioni in classi/categorie in modo equilibrato
e comprensibile”.
Il cambiamento. Il formatore chiede ai formandi se hanno notato dei cambiamenti nel loro modo di
lavorare in seguito all’esperienza del corso. Ognuno è chiamato dar conto dei propri vissuti.
Emergono tra tutti i fattori di 1) controllo dell’impulsività, 2) prendersi tempo per pensare, 3)
l’importanza della verbalizzazione, 4) fare ipotesi e valutare tutti i dati a disposizione. Sulla base di
questi primi risultati, la docente condivide con i partecipanti il passaggio alla fase di
cristallizzazione delle conoscenze acquisite. Contestualmente, vengono rivisti e rifocalizzati alcuni
dei principi-guida già visti (es. l’esplorazione del contesto, il controllo dell’impulsività, valutare le
ipotesi, rimandare una decisione e prendersi tempo, fare il monologo interiore, mettersi nei panni
dell’altro, ecc.), utilizzando schede simili a quelle già proposte ma con livelli di difficoltà superiori.
Nelle ultime due sessioni, il formatore dedica una parte del tempo a disposizione al tema della
comunicazione interna ed esterna all’azienda. Raccoglie la richiesta di uno dei partecipanti di
approfondire la situazione della comunicazione interna sentita come problematica da molti
lavoratori e chiede a ciascun formando di realizzare una procedura durante la settimana di pausa
prima della fine del corso. Le procedure divengono oggetto di discussione e confronto in sede di
formazione. Visto l’interesse comune dei partecipanti verso questo tipi di argomenti e il desiderio
di voler cambiare gli aspetti più problematici del sistema di comunicazione vigente, la mediatrice
invita il gruppo di formazione a riunirsi autonomamente dopo la fine del corso così da lavorare ad
una procedura di comunicazione interna ed esterna da estendere all’intera azienda. Accanto al tema
della comunicazione, a conclusione del percorso di formazione, la docente procede alla
focalizzazione dei possibili stati emotivi emergenti dai vissuti di apprendimento: il sentimento di
disagio che si prova di fronte all’urgenza, l’auto-efficacia del proprio operato, il coraggio di chi
non accetta il rischio di errore ma continua a cercare le informazioni utili a prendere una decisione
ponderata.
Qui di seguito, nella tabella 1, procediamo ad analizzare alcuni estratti e focus tematici (parolechiave) rintracciabili nelle risposte dei partecipanti al questionario di gradimento somministrato dal
formatore al termine del corso. Per la nostra ricerca rappresentano un resoconto di breve periodo
delle impressioni dei partecipanti e delle competenze trasferite, quindi un termine di paragone con
quanto emerso dalle interviste realizzate a distanza di circa sei mesi dalla fine del corso.
209
Partecipante_4
Partecipante_3
Partecipante_2
Partecipante_1
Tabella 1 – Focus tematici estratti dai questionari di gradimento di fine corso
Come ti ha
cambiato questo
training a livello
personale?
Quanto ti senti
cambiato nel tuo
modo di
comunicare e che
risultati ti sembra di
aver raggiunto nel
migliorare le tue
modalità
comunicative?
Cosa hai capito di
te durante i mesi
del corso?
Quanto pensi di
riuscire ad
utilizzare d’ora in
avanti tutti gli
spunti del
training per
migliorare
comunicazione e
relazioni con gli
altri?
Desideri offrire
spunti di
cambiamento al tuo
reparto,
suggerendo
progetti di
modificabilità? Lo
ritieni possibile? Se
si o no perché?
Ritieni che le
aspettative che
avevi all’inizio del
corso siano state
soddisfatte?
Spiega perché.
Che cosa ti
aspetti dalla
Lube dopo
questo corso?
“Nel lavoro sto
iniziando a
ragionare e
comportarmi in
modo diverso
cercando anche di
coinvolgere chi mi
sta vicino”. Focus:
precisione nel
comunicare,
riduzione
dell’errore, tempo
per pensare.
“Decisamente sono
molto cambiato…
sono consapevole
che quando
comunico qualcosa
ragiono molto in
funzione di chi deve
ricevere la mia
informazione”.
Focus: mettersi nei
panni
dell’interlocutore,
uso dell’e-mail.
“…ho capito che si
può e si deve
sempre cercare di
migliorarsi”.
Focus:
consapevolezza
degli errori,
capacità di metacognizione,
mettersi nei panni
dell’altro.
“…nell’ufficio dove
lavoro… mi resta
molto difficile
applicare gli
spunti appresi”.
Focus: volontà di
sperimentarsi e
trasferire ai
colleghi quanto
appreso, certezza
della possibilità di
cambiamento.
“…lo farò
sicuramente perché
sono certo che i
risultati si possano
ottenere”. Focus:
passa parola tra
colleghi, tutoring tra
pari.
“…non
conoscendo il
corso non avevo
grandi
aspettative”.
Focus:
coinvolgimento
crescente.
“Mi aspetto che
questo corso
venga esteso
anche ad altri
gruppi
strategici per
l’azienda…”.
Focus:
coinvolgimento
di altre
persone.
“Mi ha permesso di
rivedere i miei
processi mentali alla
luce della lista delle
funzioni cognitive”.
Focus: analisi del
contesto, metacognizione.
“Il cambiamento
l’ho ravvisato in una
maggiore
consapevolezza
della necessità di
essere precisi nella
verbalizzazione”.
Focus: uso dell’email, attenzione
all’interlocutore.
“Ho anche capito
che con un lavoro
sistematico su se
stessi davvero ci si
può modificare”.
Focus: precisione,
pianificazione,
verbalizzazione
come strategia
per il lavoro e
controllo
dell’ansia.
“Sono convinto
che l’utilizzo
sistematico delle
informazioni
apprese durante il
corso possa
davvero
migliorare le mie
relazioni con gli
altri”. Focus:
impegno futuro,
uso preferenziale
dell’e-mail.
“Il primo risultato
utile per l’azienda
sarebbe la
strutturazione di
una procedura di
comunicazione
interna”. Focus:
procedura come
mezzo per
aumentare la
professionalità e
diminuire l’ansia.
“Le aspettative
sono state
ampiamente
soddisfatte”.
Focus: parere
positivo su
metodo e
strumenti.
“Mi aspetto che
venga dato un
seguito al
lavoro fatto
durante il
corso”. Focus:
sostegno alla
procedure di
comunicazione
interna, nuova
strategia di
formazione.
“Ho riscoperto le
mie qualità
intellettive e la loro
fondamentale
funzionalità per il
raggiungimento
degli obiettivi
aziendali”. Focus:
controllo
dell’impulsività,
formazione come
occasione per
mettersi in
discussione.
“Grazie alla
riscoperta delle mie
qualità intellettive
ho subito capito
l’esigenza della
precisione nella
verbalizzazione”.
Focus: messa in
pratica della nuova
metodologia,
sensazione di
benessere, risultati
migliori.
“A livello
professionale
(anche privato)
posso dare molto
di più se le mie
qualità
caratteriali
vengono
supportate da
quelle
intellettive”.
Focus: prendersi il
tempo per
pensare come
esigenza.
“Cercherò di
utilizzare quando
le necessità li
richiederanno e
con tutti coloro
con cui dovrò
relazionarmi”.
Focus: uso
consapevole delle
competenze
apprese.
“All’interno del mio
ufficio ho già
provato a
modificare alcuni
sistemi di lavoro…
ottenendo risultati
positivi”. Focus:
impegno nella
diffusione del
metodo e
promozione del
cambiamento.
“Non avevo
aspettative!”.
“Una maggiore
collaborazione”.
Focus:
collaborazione
come fonte di
benefici per
l’intera azienda.
“Mi ha reso
consapevole
dell’esistenza e del
significato delle
varie funzioni
cognitive. Mi ha
aiutato a
distinguerle e
metterle in pratica”.
Focus: gestione
delle emozioni e
controllo
dell’impulsività,
comunicazione
efficace.
“Ho aumentato
l’utilizzo della
comunicazione
scritta limitando
l’uso di quella
verbale”. Focus:
attenzione al
destinatario,
inferenza
ponderata.
“Lavorare sulla
parte psicologica
è fondamentale.
Ho capito che il
lavoro di gruppo è
vincente. Esso mi
aiuta a crescere, a
lavorare meglio e
accresce la mia
autostima”.
Focus: controllo
delle pressioni e
dello stress.
“Spingerò perché
venga ratificata
da noi una
procedura
apposta che
racchiuda tutti o
quasi, i principi
del corso e mi
batterò per
rispettarla e farla
rispettare”. Focus:
impegno per un
cambiamento
generale.
“Propongo come
prima cosa di
estendere il lavoro
ad altri colleghi”.
Focus:
implementazione
del lavoro di
gruppo.
“…non sapevo
bene cosa
aspettarmi. In
ogni caso mi
sento soddisfatto
perché ne esco
arricchito e più
consapevole…”.
Focus: parere
positivo su
risultati personali
ottenuti.
“Che lo estenda
a tutti quelli per
cui sarà
possibile…”.
Focus: sostegno
alle iniziative di
messa in pratica
degli
apprendimenti.
210
Partecipante_5
Partecipante_6
Partecipante_7
“Sono riuscito a
raggiungere tramite
tale metodo dei
risultati
assolutamente
inaspettati e
inattesi”. Focus:
capacità di
verbalizzazione
sinonimo di
professionalità.
“Che tutto si può
fare ed affrontare
nella vita… che c’è
modo di poter
migliorare
mettendosi
all’ascolto e
aprendosi agli
altri”. Focus:
confronto con il
gruppo e con
l’altro.
“…il metodo che
ho imparato a
conoscere viene e
verrà utilizzato nel
mio lavoro spero
costantemente”.
Focus: impegno
futuro, riscontro
positivo dei
colleghi.
“…ho cercato di
trasferire loro le mie
impressioni ed il
metodo. Questo ha
portato ad una
maggior
partecipazione alla
vita dell’ufficio”.
Focus: transfert,
verbalizzazione, uso
dell’e-mail.
“…il corso è
andato oltre le
mie
aspettative…”.
Focus: riscontro
positivo in termini
di sicurezza,
emotività.
“…Mi aspetto
che lavori di
gruppo
vengano fatti
per risolvere i
vari tipi di
questioni”.
Focus: sostegno
alle iniziative di
gruppo.
“Il corso mi ha
aiutato a fissare su
carta il processo
cognitivo che
sottende a molte
fasi della mia
giornata, lavorativa
e non”. Focus:
verbalizzare per
conoscersi, sentirsi
più valorizzato e
sicuro.
“Gli elementi
appresi al corso mi
hanno dato nuovi
strumenti e
sicurezza”. Focus:
verbalizzazione e
consapevolezza
degli aspetti
lavorativi.
“Ho rafforzato
certezze su di me
che derivano da
un continuo ed
approfondito
processo di
autoanalisi”.
Focus: riflessione
come metodo per
la gestione delle
emozioni.
“In realtà sto già
prendendo spunto
da queste
esperienza che
ormai è entrata
stabilmente nel
mio bagaglio
emozionale”.
Focus:
trasversalità delle
competenze
apprese.
“…andrebbe creata
e diffusa la nostra
professionalità”.
Focus: incentivare
comportamento di
pianificazione,
sponsorizzazione
delle attività svolte,
creazione di
procedure di base
per tutti.
“Mi attendevo
molto dal corso…
Ora, voltandomi
indietro, scopro di
aver percorso
parecchia
strada…”. Focus:
disponibilità a
continuare ad
apprendere.
“…Quello che
mi piacerebbe è
che si desse
seguito al corso,
invadendo poco
alla volta tutte
le fasi di vita
aziendale”.
Focus: sostegno
per nuovi
obiettivi
comuni.
“Mi ha dato una
possibilità per
rimettermi in
discussione come
persona e come
dipendente Lube”.
Focus: umiltà, stima
reciproca e fiducia
in noi stessi.
“La chiarezza, la
sintesi, e
ovviamente i
contenuti, stanno
caratterizzando
sempre più la
mia/nostra
comunicazione in
azienda e fuori”.
Focus: uso di
telefono ed e-mail,
regole condivise.
“Ho capito che
“tutto si può
fare”, occorre
metodo, costanza,
fiducia nelle
proprie capacità”.
Focus: imparare
ad essere
mediatori di se
stessi.
“Soprattutto nella
parte di
comunicazione
credo si possa
arrivare ad ottimi
risultati”. Focus:
impegno nella
pratica, continuità
dell’esercizio e del
gruppo di
formazione.
“Credo potremo
assolutamente
estendere gli
apprendimenti circa
la comunicazione
interna/esterna
all’azienda a tutti i
colleghi…”. Focus:
rivoluzione del
sistema
organizzativo.
“Le aspettative
dal punto di vista
del metodo/
strumenti
acquisiti sono
state sicuramente
soddisfatte”.
Focus: necessità
di valutare la
messa in pratica
degli
apprendimenti.
“Mi aspetto che
iniziative come
queste possano
essere
replicate”.
Focus: gestione
e attenzione
alle risorse
umane.
“Maggiore
accuratezza nel
confrontarmi con gli
altri nei contesti di
vita quotidiana”.
Focus: prendersi
tempo e controllo
dell’impulsività.
“Penso di aver
migliorato il modo
in cui richiedere
informazioni volte
ad una più efficiente
(- tempo, +
chiarezza)
risoluzione di
problematiche”.
Focus: gestione
della comunicazione
per evitare
incomprensioni.
“Ho notato che
sono presenti in
me alcune lacune
a livello
comunicativo e
che bisogna
sempre porsi
dall’altra parte di
chi mi ascolta e/o
aspetta risposte”.
Focus: analisi di
contesto e
mettersi nei panni
dell’altro.
“…metterò il
massimo impegno
poiché ho notato
personalmente i
vantaggi di questi
metodi”. Focus:
confronto con il
resto dell’azienda,
reazioni generali
come banco di
prova.
“…credo che parte
di quanto ho
appreso possa
essere illustrato e
applicato
soprattutto dopo
averne dato prova
dei miglioramenti”.
Focus: condivisione
dei principi appresi
nel gruppo di
lavoro.
“Si, ma vuole
molta
applicazione e
pazienza”. Focus:
necessità di
investire impegno
e perseveranza.
“Mi aspetto che
vengano presi
provvedimenti
ascoltando le
richieste/propos
te di ogni
dipendente”.
Focus: difficoltà
nel trasferire il
metodo al resto
dell’azienda.
“Mi ha fatto capire
che ci sono modi
diversi di porsi
davanti ai
problemi”. Focus:
auto-analisi, autocorrezione, impegno
nel mantenimento e
trasferimento delle
competenze
apprese.
“Sto cambiando il
mio modo di
comunicare…
Continuerò a
lavorare
personalmente per
migliorare ma la
sfida è il
cambiamento
aziendale”. Focus:
comunicare male
crea disagio,
desiderio di
cambiare.
“Ho capito che
dovrei pianificare
di più e che dovrei
chiedere maggiori
informazioni
quando mi si
chiede un lavoro”.
Focus:
competenza nella
razionalizzazione,
gruppo come
esperienza
positiva.
“Penso di
utilizzare
parecchio oggi ed
in futuro le
considerazioni
fatte a margine
degli esercizi”.
Focus: gestione
delle relazioni.
“…nei progetti
cercherò di
applicare le cose
nuove che ho
appreso… utili per
gestire situazioni
complicate e
rapporti con colleghi
«difficili»”. Focus:
impegno nel
cambiamento.
“Il corso mi ha
completamente
sorpreso, non
avevo
aspettative”.
Focus: difficoltà
iniziale con il
concetto di
prendersi il tempo
per pensare.
“Una maggiore
attenzione e
sensibilità alla
formazione del
personale”.
Focus:
sensibilizzare la
direzione ai
principi appresi.
Partecipante_9
Partecipante_8
“Il cambiamento per
me è stato radicale
ed ho visto
modificato il mio
comportamento non
solo sul lavoro ma
anche a livello
personale”. Focus:
sicurezza di sé,
consapevolezza.
211
Dall’analisi dei questionari di gradimento possiamo dedurre l’impatto positivo della formazione
P.A.S. sul gruppo dei partecipanti. Ognuno di loro, infatti, esprime un’opinione volta a riconoscere
la significatività dell’esperienza vissuta e delle competenze apprese. Tutti hanno già iniziato a
misurarsi con il processo di trasferimento delle nuove conoscenze nel proprio contesto d’azione e
prevedono di continuare a farlo. Tra gli obiettivi comuni, il consolidamento dei traguardi raggiunti
e il cambiamento organizzativo. Pur non visualizzando le modalità utili a pervenire ad un esito del
genere, l’esigenza di evolvere, soprattutto dal punto di vista della gestione dei flussi comunicativi
aziendali, è percepita omogeneamente. Sicuramente, il sostegno della direzione, il coinvolgimento
di altri gruppi di persone e la stabilizzazione di una strategia di formazione di lungo periodo a
sostegno dei possibili percorsi di trasformazione costituiscono le fondamenta di qualsiasi
previsione futura.
Un primo banco di prova delle opinioni emerse dai questionari di gradimento è rappresentato dalla
procedura di comunicazione interna ed esterna all’azienda. Emersa durante il training, è stata
discussa e condivisa da tutti i partecipanti, i quali dopo la fine del corso, a distanza di un paio di
mesi circa, hanno deciso di riunirsi nuovamente e autonomamente per focalizzare insieme quelle
che sarebbero dovute essere le linee base della procedura di comunicazione. Il primo incontro si è
svolto nella sala riunioni generale (la stessa del corso) e ha visto la partecipazione di sette dei
formandi. La discussione è partita dall’analisi delle procedure prodotte durante il corso e si è poi
incentrata attorno alla evidenziazione delle problematiche legate al sistema di comunicazione
aziendale attuale, alla circoscrizione delle possibili ipotesi di soluzione e infine alla scelta degli
strumenti di comunicazione da utilizzare. Gettate le fondamenta della procedura, è stato concordato
un secondo incontro dopo la redazione di una prima bozza del documento ufficiale.
Il secondo incontro ha avuto luogo a distanza di circa due mesi nella sala riunioni generale, sei i
partecipanti presenti. La discussione si è concentrata sull’analisi della prima bozza della procedura,
sui risultati conseguiti dopo l’applicazione delle prime direttive decise e sulle modalità di
estensione al resto dell’azienda. Tra le proposte: la pubblicazione nell’intranet aziendale, la
creazione di un evento ad hoc, la presentazione ufficiale del documento in occasione della
promozione di un nuovo software di gestione clienti. La decisione finale ha accolto quest’ultima
opportunità, considerando la prevista compresenza di responsabili di area e direzione, e stabilito
l’inizio di un periodo di sperimentazione da parte del gruppo. La bozza del procedura è stata
arricchita con ulteriori spunti e informazioni. L’incontro si è quindi concluso con l’avvio di un
periodo di prova e la programmazione del documento ufficiale che è stato redatto in forma
definitiva a distanza di due mesi circa. Tuttavia, l’evento di presentazione ipotizzato non ha avuto
luogo. I contenuti della procedura sono rimasti ai singoli partecipanti. Le interviste somministrate
212
subito dopo la produzione della procedura ufficiale hanno lasciato trapelare le cause
dell’interruzione del lavoro iniziato, le aspettative da cui ha preso il via e i significati ad esso
attribuiti da ciascun formando.
5.2. L’importanza dell’aspetto narrativo e del coinvolgimento diretto del Sé narrante:
ricomposizione dei vissuti personali, emozionali e professionali
È stato messo in risalto il carattere “narrativo” delle interviste da noi intese come “autobiografie
dell’apprendere”. Nelle interviste s’intrecciano le testimonianze dei vissuti personali e
professionali e le riflessioni, anche meta-cognitive, dei formandi. Emerge forte il processo di
costruzione narrativa del Sé, inteso in senso bruneriano. L’uso del pensiero narrativo da parte
dell’uomo, secondo Bruner (1992), è necessario per dare senso all’universo simbolico in cui è
inserito. Ogni accadimento eccezionale, ovvero non abituale, richiede un’ attribuzione di
significato per essere inserito nel sistema simbolico culturale di appartenenza. L’evento
eccezionale in questo studio è rappresentato dalla formazione P.A.S., dai contenuti veicolati in
termini di funzioni cognitive, meta-cognizione, pensiero divergente e in generale dalla situazione
nuova in cui ciascun corsista è inserito per la prima volta. Il “neofita” attraverso la narrazione cerca
di inserire gli elementi di novità nell’universo simbolico a cui appartiene, cerca cioè di connotare di
significato familiare l’esperienza che vive attingendo da ciò che conosce. In tal modo la narrazione
diviene uno strumento di costruzione della conoscenza e al tempo stesso di definizione del proprio
sé in relazione al mondo circostante. Il legame tra narrazione e sé trova la sua massima espressione
nel racconto autobiografico, uno strumento che consente l’attribuzione di senso a ciò che si è
esperito e a se stessi per presentarsi e calarsi nella cultura a cui si appartiene. In questo specifico
caso il riferimento è alla cultura organizzativa oltre che alla cultura del sistema sociale a cui si
appartiene.
Dell’importanza della narrazione nella formazione abbiamo più volte parlato lungo tutto questo
lavoro. Il rimando è alla teoria del pensiero narrativo di Bruner e all’impostazione qualitativa e
conversazionale degli studi situati condotti in azienda da studiosi come Zucchermaglio.
Confermando la valenza auto-biografica dell’intervista come anticipato nel paragrafo 4.2. e
usufruendo della sua speciale capacità di essere mezzo atto ad elargire racconti fortemente
connotati dal sé parlante sia dal punto di vista delle opinioni che dei sentimenti e in generale delle
esperienze di vita, ci avvarremo qui di seguito di una serie di estratti delle interviste realizzate con i
partecipanti al training P.A.S. e, attraverso di essi, cercheremo di mostrare come sia possibile
rintracciare nelle loro parole un resoconto dei vissuti formativi e, nel contempo, una comprensione
213
condivisa dei contenuti veicolati ovvero una conoscenza, da un lato, co-costruita e, dall’altro,
interiorizzata della formazione seguita.
L’intervista si fa occasione di riflessione, di recupero dei ricordi significativi, di ricomposizione di
un senso precedentemente partecipato e organizzato. Il tempo trascorso dalla fine del corso ha
lasciato sedimentare gli aspetti emotivi e cognitivi attivati. La sollecitazione di questi aspetti
attraverso il racconto richiede un atto riflessivo e auto-riflessivo che può esso stesso essere
percepito come momento di apprendimento. La riflessione, lo abbiamo visto attraverso la teoria
dell’apprendimento trasformativo di Mezirow (2003), è la chiave di volta della trasformazione.
L’ancoraggio tra pratica formativa e riflessione è indispensabile ai fini della conoscenza, così come
della consapevolezza di sé e del percorso compiuto. Vediamo, quindi, come gli intervistati
parlando dell’esperienza di formazione facciano riferimento ai propri vissuti formativi, personali e
non solo, professionali, famigliari e in generale di vita. Nel racconto lasciano emergere gli aspetti
di un Sé che non può essere identificato con il solo ruolo di lavoratore o “discente”, ma di soggetto
conoscente polivalente che nell’interazione formativa trova uno spazio di espressione oltre che di
crescita individuale. L’intervista diviene per il formando una pausa di riflessione situata, il
momento della riappropriazione del sé e dei “mondi possibili” di cui parla Bruner.
Il primo intervistato fa riferimento alla sincerità del suo resoconto e nel raccontare il corso dice di
essere stato “scettico” inizialmente: poi però l’esperienza diretta delle lezioni lo ha portato a
percepire un cambiamento di prospettiva e un’apertura, un’occasione evolutiva rispetto al bagaglio
conoscitivo di partenza.
Partecipante_1: “Sinceramente ne parlerei molto bene. Io sono partito con il corso in maniera un
po’ scettica, non conoscendo approfonditamente quello che si sarebbe fatto. Poi di lezione in
lezione, ho apprezzato ogni volta sempre di più il corso, perché di volta in volta sentivo che mi
dava dei suggerimenti in più rispetto al mio bagaglio culturale. Mi sento sicuramente di
consigliarlo per chi lavora in gruppo […]”.
Il secondo intervistato raccontando le sue aspettative antecedenti all’inizio del corso parla di sé,
della propria esperienza lavorativa e delle difficoltà quotidiane ovvero di come queste difficoltà lo
abbiamo fatto “sperare” in una formazione dalla quale potesse scaturire una possibile evoluzione
personale e comunitaria, un cambiamento capace d’investire l’intero sistema-azienda.
Un’evoluzione pensata nei termini di maggiore razionalità nello svolgimento dei compiti lavorativi
e di maggiore consapevolezza nei colleghi di lavoro e nell’organizzazione.
Partecipante_2: “Si, più che altro speravo che mi aiutasse a gestire qualche situazione lavorativa
quotidiana, nel senso che avendo a che fare tutti giorni con varie richieste di vario tipo, spesso
tutte urgenti, con informazioni che mi arrivano spesso incomplete, devo praticamente ogni volta
investire parecchio per capire ecc. e spesso capita che per riuscire a dare delle risposte, per
cercare di, in un certo senso, accontentare tutti, secondo me spesso il lavoro che ne esce non è
214
ottimale… ecco.. mettiamola così... diciamo pure che a volte il lavoro potrebbe essere
approssimativo. Allora, speravo che la cosa mi aiutasse ad affrontare in maniera più razionale,
seguendo una metodologia magari più... in un certo senso standard perché a volte le richieste...
può capitare che a volte faccio certi tipi di percorso per arrivare alla soluzione altre invece
azzardo subito e dietro non c'è una metodologia standard che utilizzo. E poi la cosa più importante
che speravo era che facesse effetto sugli altri... Non per presunzione, però diciamo che certi
principi, quello di razionalizzare le cose, di prendermi sempre del tempo per ragionarci, ecc. forse
anche in maniere eccessiva a volte ce li ho. E per molti altri colleghi, personaggi qui dentro questo
non c'è… c'è molta frenesia? Questo porta oltre all'errore, nel lavoro specifico di chi attua questo
comportamento, porta a comportarsi allo stesso modo anche gli altri... Perché tu per stargli dietro
spesso non hai la forza di frenarli perché se li freni sembra che non dai risposte... Allora pensavo
che il corso potesse servire per dare un po’ questa consapevolezza anche agli altri... del fatto che
bisogna un attimo fermarsi ed è meglio di cose invece di farne 10 fatte male farne una bene…
come principio generale”.
Il terzo intervistato usa l’intervista come spazio per raccontarsi, per dare evidenza ai propri vissuti
non solo professionali ma anche extra-professionali. Parla della curiosità con cui ha approcciato al
corso e del transfer fatto nella dimensione del “privato”. La verbalizzazione delle proprie opinioni
si traduce in un atto di auto-valutazione delle capacità possedute e di quelle apprese, di
concettualizzazione a posteriori del valore dell’esperienza di formazione.
Partecipante_3: “Come tutte le cose nuove, io sono dell'avviso che tutto ciò che è nuovo serve da
stimolo e arricchimento.. per cui.. ho approcciato a questa cosa come a mille altre con la curiosità
di vedere cosa portava”.
Partecipante_3: “Devo di dire questo.. penso che, l'ho pensato dopo aver fatto il corso, non
avendo dei punti di riferimento su questo metodo non sapevo dove si sarebbe andati a parare..
penso che serva a chi non ha metodo non solo nel lavoro ma anche nella vita si lascia un po’
travolgere dagli eventi. Dal momento che, per esperienze mie e tutta una serie di cose, non mi
succede spesso questa cosa qui.. io ho notato che questa cosa (il metodo) ha influito su poche parti
della mia vita.. in alcune si.. soprattutto il discorso.. ero molto più esclusivo.. diciamo che lo sono
anche adesso ed è un fatto che cerco di evitare.. però ecco.. su un'e-mail da girare, sul dare
risposta subito alle cose, dopo questo corso ci sto molto più attento.. ci sto più attento comunque
perché mi rendo conto che la risposta sull'onda dell'emotività è rischiosa, sia che tu dica delle cose
giuste che non le dica.. è meglio far passare un po’ di tempo e analizzare con un po’ più calma
quello che è successo.. anche se non sempre certi aspetti me li ricordo effettivamente.. però è la
cosa più interessante che ho applicato per quanto mi riguarda.. Per il resto il discorso del metodo,
dell’approcciare da altri punti di vista più o meno l’ho sempre fatto. Adesso non è che devo dire
che sapessi tutto.. però insomma.. è il mio modo di approcciare alle cose..”.
Partecipante_3: “Ecco il discorso è.. sembra strano che l’ho applicato magari più fuori da qui che
qui dentro.. cioè qui ormai il mio tipo di approccio al lavoro è questo qui e non lo so.. […]”.
Il settimo intervistato rivela degli aspetti legati alla propria emozionalità e all’esperienza del
percorso professionale compiuto in azienda e attraverso di essi conferma la positività dei vissuti
formativi. La formazione è qui intesa come occasione di scoperta, auto-analisi, revisione delle
abitudini professionali. Il lavoratore si forma e nel contempo si apre a nuove opportunità di
definizione del sé pensate ed agente.
215
Partecipante_7: “Non so se è importante quello che ti dico, però per il fatto che – come ti ripeto –
sono abbastanza emotiva, (il corso) mi ha dato anche forza sotto certi punti di vista […]”.
Partecipante_7: “Soprattutto mi ha aiutata, in certi frangenti, a scoprire i miei difetti. Dopo tanti
anni che faccio questo tipo di lavoro, non ho mai avuto un metodo, perché l’ufficio l’ho creato da
sola, quindi, non avendo mai avuto altre esperienze lavorative al di fuori di questa, mi sono sempre
confrontata con due/tre persone, sempre le stesse”.
Le interviste ci offrono tracce dei Sé parlanti, dei loro vissuti e al tempo stesso dei panorami
conoscitivi a cui il training ha permesso di accedere. La formazione in azienda rappresenta
un’occasione preziosa di approfondimento delle problematiche comuni e non semplice passaggio di
conoscenze: in quanto sospensione dell’attività lavorativa e tempo di riflessione condivisa
fuoriesce dalla veloce routine quotidiana, acquisendo una maggiore forza trasformativa. Il senso
profondo di questa trasformazione sta proprio nel processo di costruzione della conoscenza a cui
ogni individuo partecipa, nel superamento del così detto “realismo ingenuo” a favore di un
approccio critico rispetto ai temi oggetto di attenzione conoscitiva e rispetto se stessi, soggetti
conoscenti, capaci di discernimento e meta-cognizione. Nell’interazione formativa, il riferimento è
alla teoria vygotskiana, ha luogo “una ri-definizione condivisa della situazione” (Pontecorvo, in
Pontecorvo, Ajello, 2004, p. 33), attraverso livelli di progressiva maggiore intersoggettività che
lasciano spazio alla negoziazione di significati e all’acquisizione di consapevolezza da parte dei
formandi. La consapevolezza per Vygotskij è il risultato dell’abilità linguistica di un soggetto
esperto (es. l’adulto, il formatore, l’insegnante) e del processo sistematico di insegnamentoapprendimento che permette una riorganizzazione consapevole dei concetti “spontanei” ( ivi, p.
62). Nelle nostre interviste è possibile cogliere i risultati del processo di negoziazione di cui sopra e
della consapevolezza acquisita, risultato della formazione ed effetto del lavoro di verbalizzazione
condotto dalla docente in aula. Ne sono testimonianza i molteplici vocaboli propri del gergo
“P.A.S.” entrati nel linguaggio dei formandi ed ora d’uso comune, il “realismo critico” circa i temi
del pensare, del funzionamento cognitivo, dell’organizzare il lavoro, del comunicare che sono stati
fatti propri da ciascun partecipante grazie all’intervento di mediazione del formatore e il lavoro
d’intensa verbalizzazione e di trasposizione nel quotidiano dei principi-guida del metodo
Feuerstein.
Il discorso in aula e il linguaggio “tecnico-specifico” che lo ha caratterizzato possono essere
considerati “il punto di incontro tra processi comunicativi e sociali da un lato, e aspetti cognitivi
dall’altro” (ivi, p. 63). Nell’interazione discorsiva che ha luogo nel gruppo di formazione, la
mediazione esercitata dalla docente così come la mediazione cooperata tra formandi hanno favorito
l’interiorizzazione delle attività di natura sociale e culturale che hanno scandito l’iter formativo.
Come infatti sottolineato da Pontecorvo in “Discutendo s’impara” (2004; 1991), l’interazione
216
sociale caratterizza l’attività congiunta dei soggetti della formazione nell’area metaforica definita
“zona di sviluppo prossimale” a un livello di funzionamento interpsicologico che consente il
passaggio di procedure, operazioni, conoscenze dal piano “sociale” a quello “individuale”
attraverso il meccanismo dell’interiorizzazione. Gli esiti di tale passaggio sono ravvisabili nelle
parole dei nostri intervistati, nei riferimenti concettuali contenuti nei loro discorsi, nei nessi metacognitivi compiuti, nel riconoscimento conferito all’esperienza della socializzazione formativa.
Il primo intervistato ci offre un quadro esplicito del corso realizzato: in che cosa è consistito, cosa
hanno trovato più utile, quali riflessioni ha suscitato, quali collegamenti meta-cognitivi ha richiesto
di compiere. Numerosi sono i riferimenti terminologici e concettuali al gergo Feuerstien (lavorare
sul linguaggio, la chiarezza, la precisione comunicativa, il controllo dell’errore, la scrittura e
riscrittura di procedure e piani di lavoro, ecc.) e al tema della comunicazione interna percepita
come problematica e divenuta argomento di discussione e formazione. Le esercitazioni proposte
dalla docente, a conferma dell’importanza degli aspetti pratici dell’apprendere, sono state percepite
come uno strumento “utilissimo” attraverso cui “rivedersi” nello svolgimento di un compito e del
proprio lavoro. La situazione formativa, così come le esercitazioni proposte, sostengono un
processo di riflessione auto-diretta ovvero di meta-cognizione che permette di trasferire i risultati
dell’interiorizzazione compiuta dalla scena formativa all’ambito professionale e della quotidianità.
Questo aspetto è particolarmente evidente nella testimonianza del “Partecipante_6” in cui non solo
sono evidenti dei riferimenti terminologici ma una forte autoconsapevolezza da cui deriva una vera
e propria padronanza dei significati appresi.
Partecipante_1: “il corso è consistito nello stimolare ogni persona a esprimersi in un certo modo,
a comunicare delle informazioni di lavoro con determinate modalità per rendere le informazioni il
più chiare possibile ai propri interlocutori, meno interpretabili possibile, corrette, univoche,
esplicite, così da ridurre al minimo l'errore. Questo è stato fatto tramite tutta una serie di esercizi
di volta in volta diversi che in un primo momento potevano sembrare lontani, distanti dal nostro
percorso, poi piano piano mi sono sembrati più chiari. Tutti con l'obiettivo di migliorare la
comunicazione tra me e l'altro”.
Partecipante_1: “In questo senso sono state fatte delle esercitazioni pratiche, concrete, legate per
ognuno al proprio lavoro. Questo è stato uno strumento utilissimo perché sono stato costretto a
rivedere, rivedermi in una mia particolare fase di lavoro e in qualche modo cercare di
correggermi. Quindi vedere come ho lavorato fino a quel momento e poi con i suggerimenti del
corso, con l'obiettivo che dovevo raggiungere con l'esercitazione, mi ha portato a vedere i miei
errori, cercare di correggerli e poi riscriverli, nel senso di riscrivere una procedura più adatta a
rendere più efficace, più veloce, il mio lavoro in un determinato ambito”.
Partecipante_6: “Beh, per me si, sicuramente l’aspetto di pensare ad un piano di lavoro prima di
iniziare. Questo mi ha giovato anche per la tesi... perché anche nello scrivere un capitolo, la
strutturazione dei paragrafi, de contenuti dei paragrafi, la direzione di un piano di lavoro.. cioè..
utilissimo. Io ho trovato veramente grande giovamento sin da subito dalla visualizzazione delle
funzioni cognitive. Ripensare l’atto mentale in funzione di questa esemplificazione delle funzioni
217
cognitive aiuta ad essere più consapevoli perché ti accorgi dov’è che.. il punto su cui fai difetto e
quindi tu devi intervenire. Secondo me quello c’ha un grandissimo valore aggiunto... perché se tu
ripensi ad ogni atto mentale o comunque ogni lavoro che fai qui, se hai questa forza, ovviamente..
bisognerebbe prendere l’abitudine... ecco perché non bastano 50/60 ore. Però se uno riesce
acquisisce questa abitudine riesce a pensare agli atti mentali alla luce delle funzioni cognitive. E
allora dice “dov’è che ho mancato? Dovevo spendere più tempo nella fase di input? C’è stato un
problema nella fase di elaborazione? È un discorso di output?”.
Nelle interviste del secondo e quinto partecipante emergono i concetti di gruppo, di gestione
dell’ansia, del controllo delle emozioni, del mettersi nel panni dell’altro, della percezione analitica,
della comunicazione e degli strumenti del comunicare. Entrambi rispondo alla richiesta
dell’intervistatore di parlare dell’esperienza del corso, di cosa sia rimasto di più dentro di loro,
operando una sorta di rielaborazione “critica” dei contenuti e dei vissuti formativi e professionali.
Mentre il “Partecipante_2” sembra aver trovato nell’esperienza del corso una conferma dei principi
già presenti in lui e che aspettavano solo di poter essere verbalizzati e condivisi, il
“Partecipante_5”, pur non sapendo dire se certi argomenti fossero già nella sua mente, afferma
chiaramente che il percorso formativo è stato propedeutico ad “organizzare” e “ri-modulare” certi
tipi di conoscenze. Ciò infatti che ci sembra utile confermare con le parole del “Partecipante_7” è
che, nonostante tutti i partecipanti siano dei professioni affermati, per lo più responsabili di area,
quindi possessori di bagagli di competenze ben precise e strutturate, spesso sono chiamati a
modellare il ruolo rivestito sulle esigenze emergenti dal tessuto organizzativo. Ne deriva un
processo di adeguamento progressivo, di de-focalizzazione rispetto ai modelli di riferimento,
dinnanzi al quale una formazione di tipo comportamentale e relazionale può offrire l’opportunità di
un ri-orientamento professionale.
Partecipante_2: “Innanzitutto.. questo lo poteva fare qualsiasi corso.. non è detto questo in
maniera specifica.. ma mi ha confermato che il lavoro di gruppo.. fare le cose insieme è
fondamentale. Qui lavoriamo troppo separati. […] Però ripeto la cosa principale è quella della
gestione.. è importante la gestione dell'ansia.. del prendersi tempo.. dei propri stati d'animo è
fondamentale. Di non lasciarsi trasportare ma controllare il proprio lavoro, anche le proprie
emozioni, mantenendo sempre lucidità per capire qual è la cosa giusta da fare. Per fare questo ci
vuole un discreto controllo e non lasciarsi trasportare dalla frenesia.. non facile.. Poi un'altra cosa
che mi è piaciuta è di mettermi nei panni degli altri.. quando cerco di comunicare all'altro, cerco
di capire cosa sa cosa non sa, quello che può capire, non dare per scontato determinate cose
perché trasmettere bene delle informazioni significa che poi lui farà bene la cosa e non mi
ritornerà in dietro.. […] l'importanza del discorso della comunicazione..”.
Partecipante_5: “Il discorso della percezione analitica, il mettersi nei panni dell’altro, cercare di
capire che quando si esprimono dei concetti non è detto che dall’altra parte vengano percepiti
nella stessa maniera, quindi usare certi strumenti, l’e-mail ad esempio, perché è quella che uso di
più ovviamente per lavoro, magari anche prima ma adesso anche di più, riprendo nella testa quelli
che erano gli argomenti del corso. Penso che il discorso della comunicazione, di come va
modulata, e di quali sono gli strumenti da utilizzare in azienda.. questa è la base che mi è rimasta
di più. Non lo so se erano degli argomenti che tutto sommato in modo confusionario avevo in
218
mente, quindi mi è servito organizzarli, ri-modularli, o perché è una di quelle cose in cui credo che
l’azienda possa e debba spingere”.
Partecipante_7: “[…] il fatto di sapere che esistono anche nuove metodologie per poter ragionare,
mettere in pratica altri aspetti, è stato sicuramente un aspetto molto positivo. […] Avere avuto
l’opportunità, soprattutto essere riuscita anche a riflettere su certi aspetti; per cose che magari
faccio con una certa metodologia, cercare un’altra strada per giungere a un risultato; mettere le
cose a confronto; evitare di fare sempre le stesse cose e cercare un’altra strada per vedere se è
diversa oppure… […] Quindi, il fatto di poter mettere nero su bianco quello che uno fa… Ho
valorizzato e dato più importanza, perché dico “ma caspita, faccio queste cose e non me ne ero
accorta”.
Concludendo questa prima parte di elaborazione delle informazioni circoscritte nelle nostre
interviste, gli aspetti su cui ci siamo soffermati sono essenzialmente due:
1) il valore dell’aspetto narrativo dell’intervista e la forza costruttrice del pensiero narrativo;
2) la costruzione sociale dei significati condivisi in sede formativa, l’acquisizione di tali significati
nel gergo comune ovvero nel panorama conoscitivo di ciascun partecipante.
Per quanto concerne il primo punto, le analisi condotte sulle interviste si allineano con quanto
argomentato nei precedenti capitoli a proposito del ruolo edificante della narrazione, del racconto
di sé e dei propri vissuti sia dal punto di vista della didattica (intesa come metodologia e
valutazione), sia dal punto di vista della riflessione intesa come momento di recupero e
riappropriazione dei significati co-costruiti in sede formativa i quali, nonostante il tempo trascorso
dall’esperienza di formazione, sono vivi e presenti alla mente di chi parla, sono entrati a far parte
del bagaglio culturale e in certi casi, della pratica lavorativa, degli intervistati. Il “dare voce” agli
ex-formandi è stata un’esperienza importante sotto molteplici punti di vista: per i Sé colti nella
sfera dell’essere lavoratori, partecipi di una vita organizzativa “frenetica” (si veda gli estratti del
Partecipante_2) e rigidamente strutturata; per i Sé ormai “formati”, i quali dopo la fine del training
hanno visto come unico momento di ascolto la compilazione di un questionario di gradimento ed
hanno vissuto la difficoltà di gestire nel contesto di lavoro gli apprendimenti acquisiti; per i Sé
spontanei, veri, privati, a cui si è chiesta un’opinione sincera e il “dono” di un estratto della loro
esperienza di formazione e di vita, le tracce di un’identità che come si è potuto vedere fuoriesce dai
confini del ruolo professionale per andare ad attingere da altri ambiti esistenziali.
L’atto del “dare voce” così come del narrare hanno un potere costruttivo senza eguali in quanto
processi di (ri)costruzione dell’identità. Come vedremo e continueremo ad approfondire anche nei
prossimi paragrafi, nei racconti degli intervistati l’identità narrativa si muove tra presente e passato,
tra vari contesti situazionali, definendosi attraverso riferimenti e storie che spesso vanno ben oltre
le richieste dell’intervistatore. “Nel lungo percorso del racconto, il soggetto che agisce e di cui si
narra non solo cerca la propria identità, ma lo fa assumendone molte in successione. Non c’è una
219
posizione stabile: nel corso della vita si assumono diverse identità, in diversi archi temporali. Il
racconto è ciò che unisce in maniera sensata e sintetica queste posizioni. […] in questa prospettiva
«l’individuo è qualcosa che non esiste prima del discorso, ma emerge come individuo nel momento
in cui è inserito nel discorso»” (Ciucci, p. 84). 84 Tale osservazione oltre a puntualizzare il carattere
linguistico dell’esperienza umana, conferma quanto sopra detto, ovvero che l’identità si costruisce
nel discorso, nel racconto, nello scambio conversazionale e di conseguenza, qualsiasi attività
auspichi all’apprendimento e cambiamento umano non può fare a meno di gestire, mediando,
questo tipo di fattori.
Un ultimo aspetto su cui ci sembra utile soffermarci a riflettere è il fatto che la formazione
Feuerstein pur essendo priva di contenuti disciplinari o tecnico-specifici utilizza gli strumenti
P.A.S. come artefatti attraverso cui mediare la costruzione di specifiche competenze conoscitive sia
di tipo linguistico che cognitivo e pratico. Si pensi al valore rivestito dalla lista delle funzioni
cognitive e dal modello del piano di lavoro. L’immissione di tali artefatti all’interno della struttura
organizzativa ha richiesto da parte dei formandi un processo di negoziazione sociale dal punto di
vista dei significati e delle abitudini lavorative consolidate. La mediazione operata dal formatore
con esempi, spiegazioni e richieste di verbalizzazione e narrazione ha offerto una serie di
“impalcature” di sostegno in grado di accompagnare i professionisti coinvolti nella transizione tra
le richieste mosse dalle esercitazioni alle competenze evocate. I dispositivi simbolici e strumentali
che hanno sostenuto i formandi lungo tutta la pratica formativa e che sono stati loro consegnati
come pegno di modificabilità cognitiva e promessa di cambiamento sono ravvisabili in tutte le
interviste prese in esame non solo dal punto di vista del linguaggio ma delle stesse modalità
argomentative. È evidente l’incontro operato in sede di training e la successiva crasi tra le teorie
scientifiche proprie del metodo Feuerstein e le “teorie-in-use”, le teorie implicite nell’azione dei
lavoratori che difficilmente sono chiamati a esplicitare e che spesso senza una guida esterna non
riescono neanche a formulare.
La formazione, lo abbiamo già detto, rappresenta un momento di rottura della routine lavorativa, di
possibile presa di coscienza delle problematiche di ciascun partecipante e di quelle comuni:
dinnanzi all’esclusività di un contesto siffatto, è evidente come non possa sottrarsi dallo spirito
della “mediazione” e della “partecipazione” di cui abbiamo più volte detto nel corso di questo
lavoro (si veda i capitolo sull’apprendimento in situazione). Le riflessioni sui contesti di pratica e
sui costrutti personali mosse durante il corso P.A.S. hanno lasciato emergere saperi sommersi,
teorie organizzative taciute di cui parleremo nel prossimo paragrafo. La dimensione del gruppo ha
84
Ciucci cita M. Dent, S. Whitehead (eds), Managing Professionale Identities: knowledge, performativity and the
“new” professional, Routledge, London, 2001.
220
favorito un “guardarsi negli occhi” che spesso si perde nella velocità quotidiana: insieme è stato
possibile oggettivare e rappresentare le difficoltà, i problemi, le pratiche in uso, le teorie
consolidate. L’attivazione di percorsi collaborativi e partecipativi ha quindi consentito ai formandi
di operare una definizione percettiva e semantica dei temi trattati, di aprire uno spazio cognitivo in
cui rivedersi in prospettiva. Ciò ha favorito un primo livello di cambiamento, individuale e di
gruppo, inteso sia come restituzione e ricostruzione di senso, esito della negoziazione e della
condivisione di nuovi significati attraverso l’uso di un linguaggio comune, sia come competenza
cognitiva e meta-cognitiva ovvero come avviamento ad una pratica di organizzazione del lavoro e
di gestione della comunicazione efficace.
Le interviste ci hanno mostrato e continueranno a farlo, attraverso continui riferimenti alla
quotidianità lavorativa, come gli ex-formandi siano degli esperti, nella loro vita professionale e
nella gestione dei problemi che quotidianamente incontrano nel loro campo di attività. Riconoscere
questa esperienza è punto fondamentale per qualsiasi esperienza di formazione in azienda, tale per
cui qualsiasi operazione di sovrascrittura di teorie scientifiche a quelle dell’azione situata
risulterebbe una forzatura e provocherebbe reazioni di rottura, bloccando ogni possibilità di
cambiamento. Da ciò consegue un’ulteriore riflessione inerente la natura “non situata” della pratica
attivata dagli strumenti del metodo Feuerstein che affronteremo più avanti. Ora, chiudiamo dicendo
che se per ipotizzare qualsiasi tipo di cambiamento individuale e organizzativo occorre innanzitutto
riprendere in mano le fila dell’identità di chi apprende, osservandola riflessivamente per poi
modificarla ed eventualmente ricostruirla, il corso P.A.S. ha prodotto in tal senso un esito positivo,
in quanto tutti gli intervistati hanno dato testimonianza di aver compiuto questo processo di
recupero e ri-focalizzazione del proprio Sé.
5.3. Rappresentazioni della formazione e cultura organizzativa: limiti e punti di forza
Abbiamo più volte ribadito l’importanza di approcciare allo studio delle organizzazioni utilizzando
uno sguardo capace di cogliere gli aspetti formali e informali della cultura organizzativa, e in
particolar modo gli aspetti rappresentazionali della conoscenza organizzativa. L’incipit della
formazione psicosociale e psicosociologica è dato proprio dall’atto di discernimento delle così
dette teorie del senso comune dalle teorie scientifiche: se le prime, anche dette “ingenue”, possono
rappresentare un ostacolo alla conoscenza “vera”, allo stesso tempo sono elementi imprescindibili
ai fini della formulazione di un sapere che voglia dare ragione dei fatti della realtà. Bruner parla di
“psicologia popolare” o “senso comune” come sistema di costruzione e ricostruzione della
conoscenza umana. La netta separazione tra i saperi scientifici e del senso comune, di cui lo stesso
221
Moscovici parla a sostegno della sua teoria delle rappresentazioni sociali, non può che essere un
atto arbitrario, contrario alla natura stessa del conoscere, vista la relazione di circolarità che
connette queste due “prospettive” conoscitive.
La rappresentazione della formazione che gli intervistati attribuiscono all’organizzazione richiama
il senso dell’esperienza “scolastica”, un tornare a scuola che provoca un distacco dall’attività
lavorativa, quindi impegno e perdita di tempo in una fase della vita in cui il lavoro costituisce
l’attività peculiare dell’adulto. Formazione come distrazione, ma allo stesso tempo formazione
come immissione di conoscenza e strumenti che vengono spesso percepiti come non utili alla
specificità della pratica lavorativa quindi poco funzionali. In modo particolare, l’immissione
repentina di nuove conoscenze nel proprio universo di significati suscita spesso delle crisi che
potremmo definire “identitarie”, dal momento che si riesce con difficoltà a dare equilibrazione agli
elementi di novità (la funzione narrativa viene meno o non viene esercitata in sede di formazione)
sentiti come un’intrusione della ruotine quotidiana che seppur difficile o sbagliata offre comunque
sicurezza.
Un modello di formazione quello scolastico e trasmissivo che potremmo definire con Sabatano
“tecnocratico” (Sabatano, 2005), vale a dire una formazione focalizzata sugli oggetti conoscitivi
della professione rispetto ai vissuti culturali e formativi dei soggetti inseriti nei contesti
professionali. Il modello “tecnocratico” è quello maggiormente diffuso nel tessuto organizzativo
italiano fatto in prevalenza di piccole e medie imprese. La formazione in siffatti contesti di lavoro
viene percepita come “spesa” piuttosto che investimento, interruzione dell’attività lavorativa sentita
come problematica e comunque sempre orientata ad aumento della produttività piuttosto che come
strategia. È ancora fortemente presente il visus “addestrativo” tipico dei modelli organizzativi
industriali. Come evidenzia l’autrice, è evidente una discrepanza tra la cultura della formazione
diffusa nelle nostre aziende rispetto il paradigma post-industriale che contraddistingue il mondo del
lavoro odierno, all’interno del quale le competenze specialistiche non sono l’unica necessità:
nessuna specializzazione può infatti saper rispondere alla complessità del mondo odierno. Per saper
rispondere alle continue istanze di cambiamento e adattamento occorrono competenze “core”
(ossia capacità ad alto range di utilizzo, connesse ad un elevato grado di flessibilità individuale e di
capacità innovativa) (ivi, p. 57) che prevedono un coinvolgimento del soggetto apprendente e
agente non solo dal punto di vista professionale, ma sociale, emotivo, affettivo, in quanto, come
visto nel capitolo dedicato all’apprendimento, è impossibile imporre una cesura tra la dimensione
cognitiva e quella psico-sociale, psico-emotiva del formando.
222
Ciò che emerge chiaramente dallo studio di Sabatano circa l’immagine della formazione diffusa
nelle aziende italiane è che la formazione solo raramente viene menzionata tra le strategie
aziendali: è invece utilizzata in maniera funzionale alle logiche della spendibilità immediata, delle
conoscenze tecniche da riversare sulla qualità del prodotto finale. L’obiettivo di fondo è
l’acquisizione di know-how corrispondenti a delle precise esigenze aziendali o, detto altrimenti, la
produttività (similmente alla logica dei paradigmi industriali) ovvero le prestazioni lavorative dei
soggetti. È evidente “una certa resistenza verso azioni formative di tipo non strettamente tecnico,
centrate sua una “formazione in prospettiva”, volta cioè ad innescare processi di trasformazione e
di crescita culturale e comportamentale e per questo giocata su lunghi tempi” (ivi, p. 100).
L’utilizzo del termine “tecnocratico” sta proprio ad indicare questa impostazione tradizionale
basata sugli aspetti tecno-specialistici del lavoro, in cui l’analisi dei bisogni dei soggetti coinvolti
ricopre un ruolo marginale spesso neanche preso in considerazione. Un dato ulteriore a
completamento di questa “fotografia” della formazione italiana è rappresentato dal fatto che la
pratica formativa è prevalentemente gestita da personale interno alle aziende e durante l’attività
lavorativa tramite veri e propri “full immersion” rispetto ai quali i dipendenti formati possono
confermare la significatività dell’esperienza formativa solo dal punto di vista della crescita
professionale, invalidando, visto il modello in auge, quella personale.
La rappresentazione della formazione emergente dalle interviste dei nostri partecipanti non si
discosta molto da quanto racchiuso nel modello tecnocratico. Nonostante, come detto nel precedete
capitolo, Lube possa essere definita un’azienda di grandi dimensioni, la cultura della formazione
diffusa e condivisa è fortemente ancorata al concetto del “fare”, quindi della produttività delle
risorse umane. L’avallo della formazione Feuerstein è seguito ad un accordo tra committenza ed
ente formatore circa i possibili esiti finali: tra questi in primis sono stati annoverati proprio i fattori
prestazionali: migliorare l’efficienza lavorativa di figure chiave e nel contempo valutare la
reattività di questi personaggi a fronte di particolari “stimolazioni”. Questo è quanto emerge dalle
impressioni di uno dei partecipanti:
Partecipante_6: [la committenza ha vissuto la formazione] come una sorta di test nei confronti di
chi partecipava, invece questo corso aveva tutto meno che una finalità di test.
Intervistatore: Test di che tipo?
Partecipante_6: “Test attitudinale, perché magari la figura chiave – perché tutto sommato c’erano
personaggi importanti – deve dare, mi aspetto che dia certe risposte quando viene “sottoposta” a
questi stimoli. Allora voglio avere un ritorno del tipo di risposta che il responsabile ha di fronte a
questo tipo di stimolazione”.
In generale tutti gli intervistati affermano di pensare che la formazione abbia un valore
determinante non solo per l’azienda ma anche per il singolo individuo. Si tratta di una formazione
223
tecnico-specialistica quindi volta ad implementare le competenze dei lavoratori funzionalmente a
particolari esigenze organizzative. All’intervistatore che domanda se l’azienda è in grado di
sostenere i lavoratori nella formazione di particolari tipi di competenze (non specifica “quali” per
non orientare la risposta), il Partecipante_1 risponde positivamente, precisando però che tale
sostegno
è
prevalentemente
rivolto
all’implementazione
di
“competenze
specifiche”,
professionalizzanti, circoscritte ad esempio alle aree “sicurezza”, “qualità”, ecc. quindi escludenti i
saperi trasversali di cui si è già detto. Anche il Partecipante_5 conferma un atteggiamento di
apertura verso al formazione specialistica, vincolando però questa disponibilità al concetto di
“vantaggio”, inteso probabilmente in termini di produttività e/o competitività.
Partecipante_1: “[…] Sempre limitatamente però già in questo senso, nello svolgimento di lavori
particolari, penso alla sicurezza, penso alla qualità, al controllo qualità ecc. l’azienda promuove
la formazione da parte del personale che si deve occupare di questi temi con formazioni specifiche,
con corsi organizzati per formare il personale alla sicurezza, alla qualità, al processo di qualità
interno all’azienda.. per cui questo è sempre stato fatto e credo che nel futuro, dato che il lavoro
predilige figure sempre più professionali e con competenze specifiche, continuerà ad esser fatto”.
Partecipante_5: […] “se tu dimostri con un progetto, con un programma di formazione che quel
progetto, quel programma, quelle lezioni, possono portare vantaggi a un determinato ufficio,
nessuno direbbe mai "no, non la fare", come non è mai successo. Tutti i corsi di informatica, brevi,
lunghi, a obiettivo, tutti quelli che sono stati fatti è perché l'azienda c'aveva letto dietro un
vantaggio”.
L’azienda promuove e sostiene la formazione tecnocratica: manca però una cultura della
formazione di largo raggio e lunga veduta, capace di investire nelle competenze trasversali e
sull’apprendere ad apprendere, ovvero sulle potenzialità trasformative delle risorse umane, così
come manca un’area delegata alla gestione di questo tipo di tematiche. La formazione Feuerstein è
stata un’eccezione in tal senso e per questo ci è sembrato particolarmente interessante valutare
l’impatto di questa esperienza dal punto di vista del cambiamento individuale e organizzativo.
Parleremo di questo nell’ultimo paragrafo di questo capitolo.
Nonostante l’azienda si mostri disponibile a sostenere esperienze di formazione professionalizzante
(utilizziamo questo termine in senso specialistico, così come richiede l’immagine della formazione
che stiamo valutando, omettendo il valore personalistico e identitario che invece necessariamente
ricomprende), molti dipendenti vedono la formazione come una “perdita di tempo”, un mettere in
discussione un sistema di lavoro radicato nel tessuto organizzativo. Il Partecipante_10 ad esempio
risponde all’intervistatore che chiede quali fossero le sue aspettative prima dell’inizio del corso:
Partecipante_10: “Perdita di tempo. Vuoi che so' sincero?”.
Intervistatore: “Sì? Ti sembrava una perdita di tempo..”
Partecipante_10: “Sì”.
Intervistatore: “Ed è stata una perdita di tempo?”.
Partecipante_10: “Assolutamente no”.
224
Come conferma il Partecipante_1, l’investimento sul tempo della persona che lavora può essere
determinante sia per la crescita aziendale che del lavoratore che viene formato. È un investimento
che non si ferma al concetto di tempo perso ma guarda al futuro e alle possibilità evolutive di
coloro che vengono coinvolti. La forza di questo investimento viene però bloccata dalla sensazione
diffusa, come dice il Partecipante_5, di sprecare un monte ore che “nell’immediato non porta
vantaggi”.
Partecipante_1: “[…] è radicato il concetto secondo il quale non sempre la formazione è ben
vista. Spesso è vista come una perdita di tempo, piuttosto che come un momento formativo, un
investimento sul tempo della persona che lavora che poi, nel tempo, può portare ad un
miglioramento in termini di efficienza... per cui purtroppo la formazione è spesso vista come
perdita di tempo soprattutto quando non si conosce bene di cosa si parla, gli obiettivi del corso che
si andrà a fare... Spesso quindi può esserci superficialità e non approfondendo cosa si andrà a fare
si rischia che un corso venga vista come una perdita di tempo e non come un momento formativo
utile alla crescita dell’azienda e del personale dell’azienda.
Partecipante_5: “Però gli stessi dipendenti quando si devono staccare dalla propria scrivania e
impegnarsi per "x" ora a fare una cosa che apparentemente o comunque nell'immediato non porta
vantaggi.. è dura, molto dura, ma è comprensibile perché, ti dico, anche io quando so di mettermi
ad affrontare un argomento nuovo, per quanto legato all'informatica, dico sempre "ma c'è
realmente vantaggio?, in quanto tempo?"
A fronte di questa resistenza, il Partecipante_5 muove una ipotesi risolutiva: un’azione di
marketing interno volta a promuovere la formazione come se si trattasse di un prodotto da vendere.
Un’iniziativa quindi volta a lasciare emergere tutti i dettagli informativi del progetto formativo in
modo che l’ipotetico formando possa scegliere in totale consapevolezza se sostenere o meno un
certo training. Nonostante la positività del concetto di marketing interno, quindi di gestione delle
politiche di formazione, e l’obiettivo di consapevolezza, resta sul fondo del discorso un ancoraggio
all’ideologia di formazione come prodotto e non come processo, a conferma della tecnicità a cui ci
siamo più volte riferiti.
Partecipante_5: “Quindi fondamentalmente bisognerebbe spingere a fare un po’ di marketing
interno su quello che è la formazione, a far vedere realmente come quando devi comprare un
prodotto, "io sono convinto, lo faccio per te, lo faccio per l'azienda, quindi t'impacchetto la
formazione, in modo tale che tu sai che sei te che devi aver voglia di acquistarla diciamo, di farla
tua", e quello sta a chi mi prepara, a chi mi racconta quello che è la formazione, ma anche a chi fa
la lezione, come la fa, con che frequenza, e quali sono poi gli strumenti con cui vai a valutare
anche in corsa quello che realmente è stato acquisito”.
Le remore nei confronti della formazione non sono solo legate al fattore “tempo” ma anche a
quello “cambiamento”. La formazione implica il cambiamento. Abbiamo ribadito questo nesso
causale in tutti i precedenti capitoli. Il cambiare è nella natura dell’apprendere e quindi del fare
formazione. Questo nesso, nella maggior parte dei casi sotteso e taciuto, seppur parte della cultura
informale dell’organizzazione studiata, è un punto di riferimento per tutti gli intervistati. Pur non
225
condividendo questo punto di vista, lo percepiscono come generalizzato. Alcuni di essi lo
esplicitano, verbalizzandolo e identificandolo come un sentire comune.
Partecipante_4: “ […] Questa è una azienda di persone che sono nate qui, hanno fatto sempre
questo tipo di lavoro, hanno creato il loro metodi e via dicendo. Quindi è difficile arrivare a un
certo punto e dire “forse è meglio che facessi così”... come se gli dici cosa fare... non è ben vista
questa cosa... poi magari più avanti si capirà che ti risparmi del lavoro che avresti dovuto fare... in
prospettiva dovrebbe essere una cosa positiva, però non verrebbe vista bene. Servirebbe far
parlare persone che hanno visto il miglioramento che c’è stato e portare concretamente degli
esempi…
Pertanto, nonostante il bisogno di apprendere e modificare ovvero ampliare il bagaglio delle
proprie conoscenze, anche quando si tratti semplicemente di nozioni tecniche, è possibile incorrere
in veri e propri blocchi da parte degli aspiranti formandi. È un “controsenso” ma identifica la
maggiore difficoltà del fare formazione in azienda come afferma il Partecipante_5: “è come se una
persona che sta morendo di fame, si rifiuta di imparare a tenere la forchetta quando tu gli hai messo
davanti un bel piatto di pasta”. Pur di evitare lo sforzo dell’apprendere e di non mettersi in
discussione, la reazione comune è quello di continuare a fare quello che si è sempre fatto. In modo
particolare, quanto il cambiamento richiesto va a confluire entro ambiti che fuoriescono
dall’esecuzione dei compiti quotidiani e chiama in causa un coinvolgimento più ampio, sociale,
emotivo, meta-cognitivo come quello del corso P.A.S. (Partecipante_3).
Partecipante_5: “Io ho fatto qualche corso di informatica ed effettivamente a volte si dava per
scontato che saper usare Word o Excel fosse una cosa, un'aspirazione di tutti, anche da chi
oggettivamente avrebbe dovuto saperlo usare, poi oggettivamente non era così, quindi ti dovevi
inventare qualcosa per stimolare l'individuo che c'aveva estremamente necessità di saper usare
quello strumento, ti dovevi inventare qualcosa per invogliarlo, che è un controsenso, perché dici
"ma come, è come se una persona che sta morendo di fame, si rifiuta di imparare a tenere la
forchetta quando tu gli hai messo davanti un bel piatto di pasta"... però è così perché a volte lo
sforzo per tenere la forchetta è superiore anche della fame in questo caso, quindi "vado avanti con
quello che posso, perché l'ho sempre fatto e seguito a farlo". Quindi questa è la cosa più difficile
per qualsiasi formazione in azienda.
Intervistatore: “Secondo te c'è qualche pregiudizio nei confronti della formazione?”.
Partecipante_3: “Di questo tipo di formazione si. Perché è talmente aleatoria che si parla di
concetti.. già il fatto che sei stato ad una lezione e dici che sei stato ad unire dei punti, questa cosa
al 95% degli occhi viene visto come una stupidaggine.. tutto lì.. quindi è chiaro che sulle cose non
pratiche comunque un’azienda che è molto pratica questa cosa non viene vista con il giusto
occhio, perché non viene capita probabilmente e non si fa uno sforzo per capirla..”.
La rappresentazione della formazione così come emersa nel corso dei racconti sopra citati va ad
ascriversi all’interno di una cultura organizzativa i cui tratti sono desumibili dalle parole degli
stessi intervistati, dalle storie riferite, dai collegamenti puntualizzati. Facciamo riferimento alla
“teoria” della formazione emergente dall’intervista del Partecipante_8 per introdurre il tema della
cultura organizzativa, intesa come connubio di saperi ufficiali ed ufficiosi sull’azienda.
226
Partecipante_8: “Secondo me, abbiamo tre tipi di approccio per tre fasce diverse di persone. […]
Abbiamo una fascia di persone, che appartengono a un livello pseudo-direzionale – anche se qui i
dirigenti non ci sono, non ci sono queste figure – che sanno che serve e che, però, sanno che va
fatta in un certo modo, che non deve essere una perdita di tempo perché se no fai prima a fartela
da solo, la formazione. […] Però, se è ben fatta e mi può dare quel valore aggiunto – come può
essere stato il corso che abbiamo fatto qui che, ripeto, non c’entra niente con il lavoro che fai ma ti
dà una visione diversa, oppure qualcosa di nuovo, anche che non c’entra niente con quello che fai
tu ma che ti fa allargare gli orizzonti, […] – allora su questa fascia di persone avrebbe un buon
appeal. Purtroppo, però, abbiamo sotto la gran parte degli operatori che, nei tentativi passati –
forse anche perché la formazione era stata fatta in maniera troppo all’acqua di rose, banale,
superficiale, poco personalizzata, poco professionale – hanno sempre reagito male alla
formazione. […] secoli fa abbiamo provato a fare dei corsi di inglese e poi di informatica, era più
la gente che diceva “ah, non ce la faccio, vado via”, che stava lì e non gliene fregava niente. Cioè
alla fine dici “ma chi me lo fa fare?”. Senza capire, però, che noi a quello puntavamo, soprattutto
nel corso di informatica: a ridurre l’impegno nel Ced e nella manutenzione sia delle macchine, sia
dell’assistenza all’operatività. Perché se tu già impari a fare la pulitura del disco ed eviti che il
computer ti zompa perché tanta roba si è accumulata, capisci che è come lavarsi i denti il mattino,
che lo devi fare una volta a settimana, così le macchine durano di più, il Ced lavora di meno e tu
lavori di più perché il giorno che la macchina ti zompa per due giorni non lavori. Se però non lo
capisci…”.
La teoria del Partecipante_8 conferma l’immagine di una azienda organizzata orizzontalmente, con
una dirigenza proprietaria centralizzante, e una filosofia aziendale basata sul “fare”, “produrre”,
“gestire”, “risolvere problemi”, “organizzare” ottimizzando l’efficienza dei meccanismi/procedure
di esecuzione dei compiti. Lo stile pragmatico pervade il tessuto organizzativo a tal punto che non
esiste un’area che si occupi della gestione delle risorse umane e della formazione. L’assenza di una
figura di riferimento stabile che operi costantemente un’azione di promozione, condivisione,
ascolto ovvero di “mediazione” presso i lavoratori a cui si chiede di apprendere preclude la riuscita
delle iniziative di formazione e l’istaurarsi di una vera e propria cultura delle formazione.
L’apprendimento adulto, lo abbiamo visto con la teoria di Knowles ha delle peculiarità ben precise.
Il coinvolgimento diretto nel progetto formativo così come la comprensione profonda delle finalità
e dei vantaggi dell’intraprendere un iter di formazione costituiscono due priorità invalicabili. La
cultura organizzativa e la mediazione dei valori e delle finalità organizzative hanno, pertanto, un
ruolo determinante ai fini del “contratto psicologico” che lega gli attori della formazione.
L’autorizzazione, l’accettazione e il successo della formazione rispondo evidentemente anche ad
una dinamica di tipo culturale.
Il “fare” non è l’unico fattore preponderante. Il fare è contestualizzato in una dimensione temporale
scandita dalla “velocità”. Si parla di “frenesia”, di tempistiche di lavoro concitate che a volte non
permettono un’adeguata consultazione, comunicazione e condivisione, valutazione degli
investimenti in termini di carico di lavoro, tempo, rapporto costo/produttività.
227
Partecipante_7: “Guarda, io sono tanti anni che lavoro qui, tipo, dopo vent’anni questo è il primo
corso che facciamo, quindi probabilmente la risposta sta in questo. Però, forse, manca il tempo,
perché magari tutti siamo presi. Quando abbiamo partecipato al corso, quella mattinata era un
disastro, chissà quello che succedeva. L’hai visto. Però, alla fine, siamo tutti qui e siamo tutti
sopravvissuti”.
Partecipante_2: […] “spesso mi è capitato di ricevere delle richieste che poi in realtà non
servivano. Poi magari tu ci metti 2 settimane a fare un lavoro e quando glielo presenti è stata
trovata una soluzione alternativa e a quello non gli serve più e questo significa che poteva non
farti la richiesta o comunque valutare meglio.. quindi.. essere consapevoli di questo.. quello che
comporta fare determinati lavori può essere un vantaggio”.
Partecipante_2: [considerazioni post-intervista/annotazioni dell’intervistatore] “Il problema
fondamentale è che non ci si ferma a pensare. […] Le risorse umane così facendo risultano
sottostimate: le persone all’interno dell’azienda hanno molto più potenziale di quello che è
possibile tirar fuori con la gestione odierna. Nell’ottica del risparmio di tempo e denaro spesso ci
si accontenta di realizzare misure e iniziative non corrispondenti a quello di cui si avrebbe bisogno
veramente. […]”.
La vorticosità della routine quotidiana impedisce di prendersi il tempo per pensare, per parlare, per
comunicare, per condividere, per formare o auto-formarsi. L’orientamento al risultato prevarica
qualsiasi atto mentale e i lavoratori, dal punto di vista evolutivo e della qualità del tempo
lavorativo, si irrigidiscono entro posizioni che spesso possono risultare riduttive rispetto alle loro
possibilità. La riflessione è sempre più difficile all’interno delle pratiche di lavoro abituali,
contribuendo alla perdita dei benefici legati alle potenzialità trasformative che in prospettiva
ciascuna persona può significare. Questo è quanto emerge chiaramente dall’intervista del
Partecipante_8 che descrive l’azienda come fortemente orientata al business e incapace a volte di
mettersi in ascolto dei propri dipendenti. La condivisione degli intenti, l’attenzione anche
“narrativa” degli innumerevoli passaggi che precedono l’ottenimento di un risultato, ovvero la
comunicazione interna a partire dalla quale si regolano non solo i flussi di informazioni ma anche il
sentire comune continua ad essere percepita come una problematica stabile. In un clima
organizzativo come questo, viste le dimensioni dell’azienda e le possibilità di dispersione, può
capitare che i cambiamenti sotto-sistemici abbiano luogo senza essere percepiti, valutati.
Partecipante_8: “[…] Questa azienda fa cucine. Abbiamo la dirigenza che sa che fa le cucine, che
vende le cucine, comprare le cose migliori al minor prezzo possibile, vendere più cose possibili al
minor prezzo possibile. È questo il business che hanno dentro la testa; gli altri sono accessori, di
cui secondo me, fondamentalmente, non hanno nemmeno modo di apprezzare i cambiamenti. Tante
cose qui sono cambiate senza che loro, alla fine, sapessero niente o gliene fregasse niente; sono
cambiate perché dovevano cambiare e sono cambiate in meglio. […]”.
Alla luce di quanto detto nel quarto capitolo a proposito della cultura nelle organizzazioni e dei
modelli proposti dalla teoria di Bellotto e Trentini, la combinazione della rappresentazione della
formazione e degli aspetti di cultura organizzativa emersi dalle nostre interviste sembrano potersi
ascrivere all’interno del paradigma cultura “tecnocratico-paterna”/“concezione psicosociale” della
228
formazione. Il termine “tecnocratico” ricorre e ci conferma il senso dell’argomentazione seguita fin
qui, senza però voler operare una riduzione formale del modello culturale organizzativo discusso.
Ribadiamo, infatti, l’impossibilità di sistematizzare rigidamente qualsiasi conoscenza sulle
organizzazioni in quanto “ogni organizzazione è un sistema unico e irripetibile, i cui elementi
costitutivi non sono solo “tecnici”, ma anche “sociali”; essi cioè fanno riferimento a “mondi
vitali” 85 dei soggetti che, con i loro modi di entrare in relazione, le loro aspettative, le loro
percezioni di sé e di sé come membri dell’organizzazione, contribuiscono alla creazione ed alla
strutturazione dell’identità dell’organizzazione stessa. Tali elementi sono, dunque, sì legati ad una
dimensione soggettiva – ai singoli individui che, in quanto componenti del sistema, li portano e li
riversano su di esso –, ma fortemente connotanti la dimensione organizzativa. Non è, quindi, solo
l’organizzazione che plasma a “sua immagine” il soggetto che in essa si inserisce, attraverso la
trasmissione di norme, valori, linguaggio e procedure, ma è anche l’individuo che, con la sua
presenza, rigenera e modifica l’assetto organizzativo” (Sabatano, pp. 38-39). È a nostro avviso
questo un aspetto particolarmente significativo, soprattutto all’interno del contesto organizzativo
preso in esame. Il co-costruirsi di azienda e lavoratori, dal punto di vista della conoscenza formale
e informale, dal punto di visto della pratica, è sicuramente un elemento di forza, ma se non tenuto
in considerazione, quindi gestito, può influire negativamente sull’andamento del organizzativo.
La formazione quindi può rappresentare una strategia di coordinamento di questo “co-divenire”,
un’occasione per “fare cultura”, organizzativa e formativa, quindi comunicare, raccontarsi
attivando il sentire comune, un tempo per fermarsi e apprendere a partire da un approccio analitico
e riflessivo potenzialmente trasformativo della persona e della stessa organizzazione. L’idea di
questa forza e potenzialità è già presente in Lube ed emerge dalle parole del Partecipante_5 che
definisce l’azienda come qualcosa di più della somma dei singoli lavoratori, un’entità “culturale”
fatta di cose buone e meno buone che vive dentro ciascuna persona, caratterizzandola e
condizionandola, e che viene consegnata ufficialmente e ufficiosamente a ciascun nuovo
dipendente. La formazione viene percepita come ciò che può fare la differenza ai fini della
funzionalità della dimensione culturale e della conoscenza rispetto a quella del lavoro.
Partecipante_5: “Perché poi c’è lo status dell’azienda che è fatto sì dalla somma degli status di
tutte le persone, ma secondo me, comunque, l’azienda ha un’anima che prescinde da quello che è
la singola persona. Se uno potesse far partire un’azienda da zero, forse, tante cose che nel tempo
sai che possono essere migliorate, non le attiveresti neanche all’inizio. Ma, così non è. Perché
85
“Si tratta di mondi vitali definibili: dalle percezioni dei soggetti della loro organizzazione e da come queste
influenzano i loro comportamenti; dalle aspirazioni delle persone e dalle strategie che esse mettono in atto per
realizzarle e che non sempre sono congruenti con gli obiettivi organizzativi; dalle relazioni informali tra le persone e da
come queste modificano poteri, procedure e confini formali di divisione del lavoro; dai comportamenti dell’autorità e
dai valori impliciti comunicati con gli stessi; da riti, miti, aneddoti, storia, simboli, linguaggio, tabù organizzativi”. D.
Callini (a cura di), Su misura. Fabbisogni di professionalità e di competenze, Milano, FrancoAngeli, 2003, pag. 26.
229
l’azienda ha un suo background e c’è uno zoccolo duro di cose buone e cattive che fanno la base.
Quindi secondo me questo corso, come altri, devono servire a limare e a smussare le cose, diciamo
negative, diciamo le cose che non contribuiscono ad un’efficienza massima, nello sviluppo dei
processi aziendali, e ovviamente far sedimentare il buono sempre di più in modo che sia una base
per tutti anche per i nuovi che si accingono a fare determinati lavori, in qualunque area”.
Concludiamo dicendo che l’argomentazione seguita negli ultimi due paragrafi e la rivisitazione
delle nostre teorie di riferimento alla luce del teorie del senso comune rintracciate nelle interviste
fin qui analizzate hanno permesso di confermare una delle nostre ipotesi di ricerca iniziali, vale a
dire la “strategicità” della formazione in azienda, non solo da punto di vista della crescita e
dell’innovazione come frequentemente sottolineato dalla letteratura sull’argomento, ma anche e
soprattutto dal punto di vista della “mediazione” di natura cognitiva, culturale, sociale che è
possibile operare all’interno del tessuto organizzativo, investendo gli aspetti identitari degli stessi
lavoratori e i “mondi intenzionali” (Demetrio, Fabbri, Gherardi, 2002, p. 51) a cui partecipano in
qualità di esseri viventi e conoscenti.
5.4. Il gruppo come strumento di formazione e come esperienza dell’Altro diverso da sé
Nel gruppo è possibile scoprire un nuovo senso dell’organizzazione, dell’essere “parte di”:
“partecipare”, soprattutto all’interno della dimensione di gruppo, assume un valore preponderante,
superiore all’apprendere inteso come acquisizione di sapere. Si tratta piuttosto di un apprendere
come esperienza sociale. Ciò che indistintamente si è sedimentato in tutti gli intervistati è, infatti,
l’importanza dell’esperienza della condivisione e della conoscenza negoziata all’interno del gruppo
di formazione. È evidente come tornino in auge i riferimenti alla teoria vygotskiana, alla
dimensione sociale dello sviluppo e del cambiamento dell’individuo. Nelle parole dei nostri
intervistati emergono chiaramente interessanti spunti di riflessione su temi che potrebbero essere
collocati nell’ambito della psicologia sociale e in particolare della psicologia dei gruppi.
La dimensione di gruppo è l’abituale declinazione della formazione P.A.S. nei contesti aziendali. Il
formatore trova nel gruppo le condizioni ottimali dell’esercizio della funzione di mediazione e
della mediazione cooperata tra pari. Il gruppo nelle situazioni di formazione può essere considerato
come “strumento della formazione complessa” (Pojaghi, 2000), la cui complessità sta proprio nella
multidimensionalità della sua natura individuale e insieme sociale, cognitiva e affettiva, nell’essere
una “totalità dinamica” (Lewin, 1972, p. 229) basata sull’interdipendenza dei suoi membri piuttosto
che sulla loro similarità, all’interno della quale il cambiamento di uno solo dei componenti
coinvolge inevitabilmente tutti gli altri. La situazione gruppale, forte della sua complessità, risulta
quindi particolarmente favorevole a supportare certi tipi di dinamiche formative. Sulla base di ciò,
“è fuori discussione che il gruppo serva per affrontare certi particolari problemi e per risolverli in
230
modo più produttivo di quanto non possa l’iniziativa individuale” (Palmonari, in Pojaghi 2000, p.
13). L’unione di un certo numero di individui chiamati a formarsi favorisce un percorso di
apprendimento “unico”, “nuovo”, sicuramente “diverso” da quello che ciascun partecipante
potrebbe fare da solo o dalla somma di tutte le singole applicazioni apprenditive: “il contributo che
ciascuno di essi dà è in funzione del suo rapporto con l’altro. Non abbiamo solo una somma di
forze, ma un’organizzazione di sforzi”. 86
Il tema del gruppo ha originato numerosi studi e ricerche in materia psicologica, in modo
particolare da parte di quanti si sono occupati e si occupano di formazione e di dinamiche
organizzative. Abbiamo già fatto riferimento nel I e II capitolo agli insegnamenti di Lewin, alle
successive elaborazioni di Mayo, ai contributi sui training-group e alla posizione psicosociale e
psicosociologica (si veda il secondo capitolo). Ciò che risulta più significativo ai fini del nostro
studio e dell’analisi delle nostre interviste è circoscrivibile attorno ai fattori socio-cognitivi
dell’essere in gruppo, vale a dire ai processi di relazione e di costruzione della conoscenza tra un
Sé e l’Altro diverso da sé. “[…] l’assunto del gruppo inteso quale luogo dell’esperienza immediata
di sé e della vita sociale e quindi quale luogo dei fenomeni attraverso i quali gli individui accedono
alla loro identità personale e alla loro identità sociale qualifica il gruppo stesso quale strumento
essenziale di collegamento tra mondo mentale e mondo sociale esterno, momento articolatorio tra
mondo affettivo e mondo cognitivo, e quale strumento di modifica del mondo esterno”. 87
Il gruppo di formazione svolge la funzione di “mediare”, da un lato, la dimensione individuale con
quella collettiva e, dall’altro, la dimensione cognitiva con quella affettiva. Il formando che vive
l’esperienza del gruppo si trova quindi a beneficiare degli effetti di tale “mediazione”: recupera se
stesso e (ri)costruisce i significati del proprio Sé, sperimentandosi, nel contempo, come elemento di
una nuova comunità, una comunità di apprendimento che persegue fini formativi ben precisi. Vista
l’impossibilità di scindere il coinvolgimento cognitivo dell’apprendere con quello affettivo, anche
le emozioni subiscono gli effetti della mediazione sopra detta e l’essere in gruppo oltre che un
esperienza conoscitiva e sociale diviene anche un’esperienza emozionale.
Il Partecipante_6 fa riferimento ad una mediazione delle possibili emozioni negative dell’individuo
che si accinge a compiere un percorso di formazione o che è in corso di apprendimento. Nel gruppo
il formando trova le condizioni utili a superare, attraverso la vicinanza di altre persone, il senso di
negatività, di sforzo insito nell’apprendere. La situazione gruppale viene percepita e vissuta come
86
S. Asch, Psicologia sociale, Società Editrice Internazionale, 1963 (ed. orig. 1952), pp. 199-200 citato in B. Pojaghi,
Il gruppo come strumento di formazione complessa, Milano, Franco Angeli, 2000.
87
C. Kaneklin, “Incidenza critica dell’interazione sociale e dinamica di gruppo”, in C. Scarpellini, E. Strologo,
L’Orientamento, La Scuola, Brescia, 1976, pag. 859, citato in C. Kaneklin, F. Olivetti Manoukian, Conoscere
l'organizzazione. Formazione e ricerca psicosociologica, Carocci, Roma, 2005.
231
luogo di sentimenti positivi. La positività però scaturisce dalla condivisione, dalla riflessione
partecipata, dalla cooperazione, dal superamento dei possibili conflitti e non è l’esito di un atto di
neutralizzazione.
Partecipante_6: “ […] nel momento in cui tu fai un corso, ti metti in gioco, forse hai anche un
momento di negatività, però sei coinvolto… diciamo questa negatività sparisce come nasce perché
comunque rimani coinvolto in un contesto. Quindi, se vedi intorno a te un certo entusiasmo, alla
fine quel pensiero negativo, che nasce dal fatto che tu hai delle resistenze e che quindi fai una
fatica, se vedi comunque intorno a te altre persone coinvolte, magari lo metti in secondo piano.
Quando invece ritorni nel tuo habitat, e quindi questo coinvolgimento del gruppo non c’è più,
quella negatività non te la risolve nessuno. Anzi, poi succede che fai gruppo al negativo e quindi la
negatività forse si esalta”.
Mentre, nel coinvolgimento cognitivo e razionale è sottesa l’idea del “gruppo come gruppo di
lavoro”, il cooperare per il perseguimento di uno scopo comune, nel coinvolgimento emozionale è
sottesa l’idea del “gruppo come gruppo degli assunti base” 88, la realtà latente, inconscia e affettiva
dell’esperienza gruppale, ovvero i desideri, le speranza, le emozioni, le paure dei singoli
partecipanti. Un riferimento in tal senso è quello che emerge dall’intervista del Partecipante_7,
all’interno della quale è possibile rintracciare una certa inesperienza della situazione gruppale e un
eco della cultura organizzativa condivisa dai formandi così come affrontata nel precedente
paragrafo.
Partecipante_7: […] “la cosa che mi è piaciuta di più del corso – non so se qui sto cogliendo
proprio la domanda – è stato il fatto di fare gruppo; la mia aspettativa era quella di trovarmi un
po' a disagio con il gruppo, perché lavoriamo da una vita insieme, però mai abbiamo lavorato
effettivamente o ragionato insieme su tanti aspetti. Quindi il fatto di aver fatto gruppo è una delle
aspettative che avevo e forse è quello che si è rispecchiato di più”.
L’intervistato oltre a riconoscere che il “fare gruppo” è stata la cosa più significativa del corso,
ricorda di aver avuto l’aspettativa di un possibile “disagio” iniziale. Lavorare in gruppo, infatti,
come conferma il Partecipante_8, soprattutto in alcune specifiche aree di competenza, è una
strategia poco diffusa in Lube:
Partecipante_7: “Mi ha lasciato un buon ricordo, diversamente da altri corsi. Ogni tanto vado
anche a rivedere i concetti. A livello di curiosità, mi sono rimasti il metodo, la questione dei punti,
le considerazioni, la tavola rotonda che facevamo. Mi è rimasto positivo il metodo di lavoro… su
presupposti anche assurdi o lontani si crea la discussione che ti fa confrontare e ti apre anche la
mente. Anche su un normale fumetto o su una vignetta, si apre una discussione che ti fa relazionare
con gli altri – che è sempre una cosa positiva – anche in funzione del lavoro e del miglioramento
del lavoro di squadra che, qui da noi, è sempre abbastanza difficile da realizzare”.
La Partecipante_7 torna a sottolineare questo aspetto organizzativo in un estratto successivo:
88
W. Bion, Esperienze nei gruppi, Armando, 1971, (ed. orig. 1961), pag. 156, in B. Pojaghi, Il gruppo come strumento
di formazione complessa, Milano, Franco Angeli, 2000, pag. 32.
232
Partecipante_7: […] “Per me è determinante. Se l’azienda fosse la mia, io veramente ogni mese
facevo un corso, facevo l’incontro, ogni reparto, si cercava di vedere quale poteva essere l’aspetto
più positivo per risolvere un problema, perché altrimenti se le persone non si parlano, alla fine
non si conoscono, perché poi – ripeto – quelli che hanno fatto il corso li conoscevo, A. stesso,
oppure con M., ci conosciamo con G., ci conosciamo da una vita, però, facendo lavori diversi, è
chiaro che non riesci a… Invece è importantissimo, secondo me, avere questo tipo di relazione, di
comunicazione […]”.
Pertanto, non sono frequenti le occasioni in cui lavoratori di settori diversi possono incontrarsi per
scambiarsi opinioni, riflettere su argomenti di interesse comune o cooperare ad uno stesso progetto.
Sperimentare la condivisione propria della pratica formativa ha permesso ai partecipanti del corso
P.A.S. di accedere ad uno stato di cose nuovo o poco conosciuto, avvalorando le sensazioni
scaturenti dal confronto con l’Altro e l’efficacia di tale confronto.
L’esperienza del gruppo di formazione implica un percorso evolutivo, quindi di cambiamento,
volontario. Il coinvolgimento volontario è particolarmente significativo, soprattutto negli adulti.
Nell’approccio psicosociale, la compartecipazione dei formandi nell’individuazione degli obiettivi
formativi rappresenta un momento della stessa metodologia d’intervento. L’intento del formatore è
proprio quello di attivare il senso di volontà dei soggetti chiamati ad apprendere. Il Parecipante_6
opera un collegamento tra i concetti di cambiamento, gruppo e volontà.
Partecipante_6: “Eh, la modificabilità del cervello, strutturale, è comunque innanzitutto un atto
volontario, […] in un’azienda, perché si produca modificabilità ci deve essere un atto di volontà
forte. Nel momento in cui fai il corso c’è il condizionamento del gruppo che forse si sostituisce al
tuo atto di volontà: ti lasci condizionare e, quindi, comunque un cambiamento lo produci. Nel
momento in cui poi ritorni nel tuo ambiente e “sei solo”, nel senso che sei tu l’unico responsabile
del tuo metodo di lavoro, viene fuori la tua determinazione alla modificabilità, cioè non c’è più il
mediatore”.
Affinché si possa produrre modificabilità, afferma, è necessario un vero e proprio “atto di volontà”
da parte del formando, frutto di un sentire e di un pensare consapevoli. Il gruppo di formazione,
secondo l’intervistato, si sostituisce all’atto di volontà del singolo, operando un condizionamento
che ha durata tutto l’arco del training e che termina con la fine delle attività. Il riconoscimento del
concetto di volontà è sicuramente importante ai fini della nostra argomentazione: rinvia a quello di
“cooperazione volontaria” di cui parla lo stesso Bion (1961). Il gruppo, sostiene l’autore, anche
quanto ha origini casuali, si riunisce con l’obiettivo perseguire uno scopo rispetto al quale ogni
persona collabora in base alle proprie capacità. È bene però specificare che nella dimensione
gruppale i partecipanti non devono trovarsi nella condizione di subire un condizionamento o di
rinunciare alla propria individualità.
Nella situazione di gruppo convogliano tre diverse dimensioni formative tra loro interdipendenti:
“individuale”, “intersoggettiva”, “cooperativa” (Pojaghi, 2000, p. 43). Il valore aggiunto
233
dell’apprendere in gruppo si trova proprio nell’interazione di queste tre dimensioni ovvero nel
delicato bilanciamento del Sé colto nella sfera individuale e nel contempo nella situazione di
relazione e di collaborazione con l’Altro. La metodologia P.A.S. ha supportato l’integrazione di
queste tre dimensioni chiamando ciascun formando ad un funzionamento cognitivo prima
individuale poi gruppale e infine collaborativo. Il contributo individuale è il punto di partenza
dell’esperienza di interazione e cooperazione. Nel confronto con persone diverse da sé, l’individuo
prende coscienza dell’esistenza di altre visioni del mondo, di altre chiavi-interpretative, di altre
possibili risposte. “In questa dinamica si crea l’opportunità per i membri del gruppo di
sperimentare la molteplicità delle idee di contro all’univocità dell’idea. Proprio questa molteplicità
aiuta a comprendere e valorizzare i differenti contributi che possono essere messi a disposizione in
una logica di integrazione e di negoziazione più che di esclusione” (ivi, p. 45).
Nella discussione in gruppo e, nel nostro specifico caso, nella verbalizzazione e narrazione
all’interno del gruppo di formazione, ha luogo un processo di co-costruzione della conoscenza a cui
ognuno dei formandi partecipa a partire dal proprio bagaglio di significati. Questo intenso processo
evolutivo non può escludere il “conflitto socio-cognitivo”, così come inteso da Doise e Mugny
(1987). Il conflitto, attraverso la negoziazione di vedute e intenti, può risolversi nel superamento
delle divergenze a favore di una decisione comune capace di accogliere e integrare le diverse
modalità di risposta dei soggetti coinvolti. Sotto la guida di un esperto conduttore e attraverso il
reciproco influenzamento, chi partecipa ad un gruppo di formazione può disfarsi dell’approccio
ingenuo nei confronti della realtà conosciuta e adottare un approccio critico frutto di una attività di
confronto e condivisione. Il risultato finale non può che essere una “novità” che suscita senso di
appartenenza e di unione. Tutti, ognuno con il proprio ruolo, le proprie competenze, contribuiscono
alla vita del gruppo e alla formazione della sua identità, rendendolo unico.
Il Partecipante_2 offre una conferma di quanto detto fin qui: non solo definisce il “fare insieme le
cose” come qualcosa di “fondamentale”, ma sottolinea anche con forza come il lavoro di gruppo
rappresenti una vera e propria necessità ai fini della riuscita stessa del lavoro.
Partecipante_2: […] “mi ha confermato che il lavoro di gruppo.. fare le cose insieme è
fondamentale. Qui lavoriamo troppo separati. […] dovremmo vederci più spesso e affrontare le
problematiche insieme... perché ognuno vede solo una parte della sua problematica e non può
trovare la soluzione perché non va bene a lui o non va bene all'altro, oppure magari va anche bene
all'altro però la tiene per se stesso, non la comunica e in realtà non condivide niente.. c'è un modo
di crescere, di condividere.. l'azienda deve andare avanti, è fatta da tutti noi.. Il fatto di aver fatto
dei lavori di gruppo mi è piaciuto e secondo me ci siamo conosciuti e con alcune persone in
maniera più approfondita, persone con le quali parlavi ogni tanto, e che poi ho avuto modo di
conoscere sotto aspetti che prima non avevo considerato e che m'ha accresciuto la stima nei loro
confronti, poi quindi ci lavoro meglio nel quotidiano. Questa è una considerazione che magari va
al di là del corso specifico”.
234
Dall’incontro dei diversi punti di vista può scaturire una soluzione a cui nessuno singolarmente
potrebbe accedere. La situazione gruppale rappresenta un’occasione di incontro, di discussione che
a causa della velocità con cui si vive la quotidianità in azienda risulta infrequente, soprattutto con i
colleghi di aree non prossime. Conoscere cosa fa l’altro, cosa pensa, come lavora è però
un’esigenza per molti, sia per il senso di appartenenza a cui ci siano riferiti sopra, sia per
l’importanza di relazionarsi con l’Altro indipendentemente dalla sua prossimità, sia per la necessità
di possedere un’immagine globale di funzionamento dell’azienda all’interno del quale sapersi
collocare.
Nel gruppo di formazione gli intervistati hanno raccontato di aver avuto modo di entrare in
confidenza gli uni con gli altri e misurarsi su argomenti di interesse comune mai affrontati prima,
lasciando emerge tutti quegli aspetti sottesi o rimasti taciuti dell’esperienza professionale e di vita.
Attraverso questo graduale processo di reciproca presa di confidenza è stato possibile tirar fuori i
propri sentimenti, tra cui la “stima”, sulla base dei quali si è avvertito a posteriori, nella fase di
fuoriuscita dalla situazione gruppale, al termine dei corso, un miglioramento dell’interazione
lavorativa quotidiana.
Partecipante_3: […] “e poi ti ho detto il miglioramento di rapporto con certi colleghi.. che per
carità.. io penso che la maggior parte dello sforzo sia venuto da parte loro, però anch’io
probabilmente avrò fatto in modo che qualcosa migliorasse.. perché tanto se le cose vanno meglio
è sempre in doppia direzione..”.
La formazione Feuerstein è stata riconosciuta da tutti gli intervistati per gli aspetti sociali oltre che
cognitivi proposti. L’aspetto sociale da molti è sentito addirittura come preponderante. Ciò che ci
sembra indicativo sottolineare è la consapevolezza dell’interdipendenza mostrata: nella rilettura
dell’esperienza gruppale, possiamo rintracciare il valore attribuito alla diversità delle opinioni,
delle competenze, dei ruoli, il bisogno gli uni degli altri ai fini della gestione di un problema, della
soluzione di un compito o del raggiungimento di un obiettivo. La consapevolezza, da parte degli
attori implicati, della reciproca interdipendenza del loro agire e pensare è la condizione necessaria
perché il gruppo possa essere luogo di crescita formativa. Il Partecipante_5 specifica come la vita
del gruppo di formazione P.A.S. sia stata scandita da un processo di evoluzione graduale, stadiale,
attraverso il quale, dopo un primo atteggiamento di “ritenzione”, dubbio, difficoltà, a volte di
ostilità, si è arrivati ad un “equilibrio socio-cognitivo” a partire dal quale è stato possibile
raggiungere dei risultati positivi generali in termini di cambiamento.
Partecipante_5: “[…] Sono convintissimo che tutta la formazione, a maggior ragione questo tipo
di formazione porti a dei cambiamenti che alla fine si vanno comunque a sedimentare nella mente
e nella coscienza di ogni individuo, ma soprattutto credo per il discorso che dicevamo prima della
relazione con chi frequenta questo corso. La condivisione di certi anche atteggiamenti che poi si
evolvono, abbiamo visto che all’inizio certa una certa ritenzione a fare certe cose, poi magari ci
235
siamo abituati su quello, ci siamo sciolti, quindi in alcuni casi è stato un po’ lo specchietto per le
allodole, farti sembra che quel tipo di esercizio o di argomento potesse servire a, in realtà poi ha
sviluppato e prodotto altre cose positive, in realtà poteva essere una strategia spesa a tavolino dal
docente.. comunque ha prodotto delle cose positive. […]”.
Il bagaglio di conoscenze ed esperienze che il gruppo di formazione ha generato per ognuno dei
partecipanti del corso P.A.S. rappresenta un risultato talmente importante che il Partecipante_5
riconosce l’utilità di coinvolgere altre persone, seguendo una pianificazione delle presenze.
L’ipotesi riguarda la combinazione di competenze, esperienze, ruoli, valori, intelligenze secondo
“mappe” con valenza cognitiva e sociale, capaci di amplificare la positività di un percorso di
formazione. La necessità di una gestione così attenta allude alla funzionalità del ruolo del leader
(inteso non come conduttore, quanto come “opinion leader”), delle personalità che possono farsi
“faro” per gli Altri, così come scambievolmente avviene negli iter di educazione cognitiva del
metodo Feuerstein.
Partecipante_5: “Si, si, in questo corso specifico il fatto di aver condiviso quel tempo tutti quanti
insieme, perché io con la maggior parte di quelle persone non avevo mai fatto un corso di
formazione insieme, penso che quello sia il bagaglio più grande che si siamo portati via tutti. E
immagino che sia anche semplice amplificare questa cosa nel tempo se riuscissimo ad espanderla
a più persone. È chiaro che poi nel momento in cui si fanno gruppi e gruppetti come è normale che
sia non sarebbe la stessa cosa.. penso. Quindi bisognerebbe fare delle mappe proprio di come
strutturare i gruppi e di come incrociarli, intersecarli tra di loro, perché secondo me il leader di un
gruppo, il famoso "faro", lo è in un gruppo o in una lezione ma non lo è in un altro e quindi la
condivisione porta a questo”.
I valori più significativi restano alla fine della nostra analisi quelli dell’interdipendenza
consapevole, della cooperazione, dell’ascolto, della condivisione. Sperimentarsi, sperimentare
l’Altro, in queste particolari condizioni permette di sfondare muri, assopire resistenze, superare
conflitti che altrimenti rimarrebbero senza voce.
Partecipante_5: “Poi quella cosa che è rimasta soprattutto è la facilità con cui adesso si posso
affrontare certi argomenti con delle persone che magari prima facevano anche resistenza”.
Gli esiti dei vissuti gruppali, dell’apprendere partecipando, possono essere trasferiti in altri contesti
di vita, oltre che professionali, assurgendo il fine ultimo della formazione.
Partecipante_5: “[…] però secondo me una cosa fondamentale è stato il fattore della condivisione
in tutto e per tutto in quelle ore da parte di persone che altrimenti non si sarebbero neanche
incrociate nonostante che poi si lavori nella stessa azienda. E questo è un po’ l'approccio che le
altre aziende fanno con corsi in outdoor, di leadership.. magari corsi estremi, di quelli che vanno a
fare corsi con la tenda.. penso che poi alla fine quello che è aggregante e che porta ad avere una
condivisione reale è proprio il fatto di stare insieme ad altre persone. Quindi declinare
quell'esperienza che tu hai fatto in un contesto differente nel tuo quotidiano con le stesse persone.
[…]”.
236
Affronteremo il tema della trasferibilità dei contenuti della formazione nel prossimo paragrafo.
Sulla base di quanto detto fin qui, sono oggetto di transfer non solo i contenuti appresi, ma le stesse
esperienze di natura sociale oltre che individuale, cognitiva ed affettiva.
5.5. La trasferibilità dei contenuti della formazione e l’operatività delle funzioni cognitive.
Pratica formativa e pratica lavorativa, comunità di apprendimento e comunità di pratiche.
Una riflessione alla luce del modello della formazione psicosociale
“Ogni processo formativo implica la negoziazione di nuovi significati, la creazione di strutture di
conoscenza emergenti, l’elaborazione di identità e rappresentazioni personali e professionali
attraverso la trasformazione di schemi e di strutture di significato preesistenti in grado di
prefigurare nuove “traiettorie di partecipazione” all’interno di pratiche condivise da una comunità.
Apprendere in una comunità significa costruire forme di mutua implicazione che conducono a
comprendere e orchestrare il processo di apprendimento come impresa socialmente condivisa e a
sviluppare nuovi significati, nuove teorie, nuovi repertori” (Fabbri, 2007, p. 17). Pertanto,
nonostante il modello dell’apprendimento come trasmissione di conoscenza sia quello più diffuso
nella nostra società, quello più radicato nell’immaginario collettivo, dal punto di visto
dell’orientamento della nostra ricerca, storico-culurale e psicosociale, appare come quello meno
funzionale alla realizzazione di un percorso di formazione, soprattutto dal punto di vista dei
contesti aziendali e in genere di lavoro. Uno stile di apprendimento volto alla sola acquisizione si
traduce in procedure di pensiero e azione astratte e spesso decontestualizzate. Uno stile di
apprendimento,
invece,
volto
alla
trasformazione,
all’attuazione
della
conoscenza
o
all’intercettazione della stessa attraverso la pratica, produce un pensiero riflessivo e un’azione
capace di sperimentazione proattiva. Il fine ultimo della formazione sta proprio in questa capacità
di messa in pratica delle competenze, de-contestualizzandole dall’ambito didattico per trasferirle
nei campi della quotidianità. Perché questo trasferimento, detto transfer avvenga, “il soggetto, non
solo deve apprendere e memorizzare, ma deve anche generalizzare l’uso delle competenze e
applicarle in contesti diversi da quello formativo” (Fraccaroli, 2007, p. 177).
La mancanza dell’atto di appropriazione e restituzione pratica dei principi appresi ed insieme di
partecipazione e condivisione degli stessi all’interno della propria comunità pregiudica il successo
di qualsiasi progetto formativo. Nella formazione con gli adulti, le conoscenze che non trovano
riscontro negli ambiti dei propri interessi e delle proprie attività non generano identificazione e non
vengono interiorizzate (si vedano i fattori dell’apprendimento adulto di Knowles). Le variabili,
pertanto, attorno alle quali concentriamo la nostra attenzione sono date dall’operatività delle
funzioni cognitive veicolate nel corso del training P.A.S. e il transfer dei principi chiave promossi:
237
il prendersi il tempo necessario per pensare e pianificare le proprie strategie, il modello del piano di
lavoro inteso come procedura di analisi e programmazione delle proprie attività, il pensiero
divergente, la precisione nell’organizzazione delle informazioni e nella loro verbalizzazione, ecc.
Tra tutti una significatività particolare è quella che attribuiamo alla comunicazione, tema centrale
del corso di formazione seguito e fulcro dell’attenzione e dell’interesse di tutti i partecipanti.
Riconosciuto come uno dei maggiori problemi aziendali, è stato argomento di discussione e
riflessione, materia di esercitazione e stimolo alla creazione di ulteriori attività di gruppo.
Nell’analisi delle nostre interviste utilizzeremo come indicatori di significato: a) le conoscenze
verbali e la corrispondenza terminologia delle parole usate, ovvero il sapere dichiarativo acquisito
durante il training, b) il riconoscimento attribuito alle funzioni cognitive e ai principi chiave del
P.A.S., c) la consapevolezza legata al loro utilizzo e ai percorsi di problem-solving adottati, d) il
grado di integrazione loro riservato all’interno del proprio ambito di lavoro, quindi il transfert
compiuto e) l’esemplificazione promossa, f) la condivisione dei concetti e delle pratiche in oggetto
con figure professionali della comunità di appartenenza o di comunità vicine, g) l’acquisizione di
nuovi atteggiamenti o la modifica dei vecchi, h) variazioni legate all’espressione della motivazione
o dell’auto-efficacia.
Il linea generale, possiamo affermare che tutti gli intervistati hanno dimostrato di possedere una
conoscenza verbale coerente con l’iter di formazione seguito. In ognuno dei resoconti analizzati è
possibile rintracciare testimonianze di messa in pratica di alcuni dei principi P.A.S. e delle funzioni
cognitive mediate dal formatore. In alcuni casi si può parlare di prestazioni consolidate e
trasformate in automatismi. Nell’intervista del Partecipante_1, tra gli esiti contemplati, emergono
l’acquisizione, l’applicazione e lo sviluppo di strategie cognitive efficaci che rappresentano gli
indici di modificabilità perseguiti dal metodo Feuerstein e materia delle numerose esercitazioni
proposte. Due sono i fattori-chiave di questa testimonianza: innanzitutto il tentativo
dell’intervistato di fare esperienza dei principi del metodo P.A.S. all’interno della pratica
quotidiana e attraverso di essa affinare i modi di portare a termine i propri compiti lavorativi con
procedure più fluide, meno onerose e più efficaci, a fronte delle quali poter constatare una serie di
miglioramenti nella qualità del lavoro e affermare un certo grado di soddisfazione. La percezione di
un miglioramento e il sentimento di soddisfazione sono due fattori funzionali alla motivazione del
formando che ha modo di confermare i suoi apprendimenti e sceglie di continuare a trasferirli
all’interno dei suoi ambiti d’azione.
Partecipante_1: “[…] quotidianamente provo ad applicare i suggerimenti del corso nelle mille
difficoltà legate non solo ovviamente a me ma anche a tutte le persone con le quali lavoro a stretto
contatto. Nonostante ciò cerco per quanto mi è possibile di applicare la metodologia che mi è stata
238
proposto e in qualche modo insegnata. Concretamente mi trovo tutti i giorni a, innanzitutto, a
cercare di non lasciare nulla per scontato, comunicare il più possibile in modo scritto, quindi via
e-mail, dare quante più informazioni possibili al mio interlocutore, soprattutto il più chiare
possibili, tutto questo mi ha portato a ricevere meno telefonate per chiarimenti o in qualche modo
ad evitare errori e fraintendimenti perché risulta tutto scritto e documentato. Questo è stato un
risultato quotidiano e positivo che mi ha soddisfatto. Poi anche mi sono trovato più volte a pensare
prima a come impostare un determinato tipo di lavoro, quindi scrivere, come si faceva durante le
esercitazioni, una sorta di procedura per punti concettuali”.
Inoltre, la disponibilità di condividere i propri apprendimenti con i colleghi di lavoro:
“razionalizzare un problema e scrivere una procedura” rappresenta una soluzione operativa ma al
tempo stesso una strategia di lavoro avente una valenza sociale ben precisa: la condivisione che ne
scaturisce, offre dei vantaggi sia dal punto di vista della semplificazione dei compiti di un interno
ufficio che dell’efficacia comunicativa.
Partecipante_1: “Mi trovo quindi a razionalizzare un problema e a scrivere una procedura che
può essere condivisa con i miei collaboratori. Il che significa anche poter facilitare chi lavora insieme a
me con una procedura scritta, chiara e condivisa. Questi sono degli elementi concreti che attuo
quotidianamente e che ho ricevuto come insegnamento dal corso, per i quali sono soddisfatto perché mi
hanno permesso di ottenere dei vantaggi”.
La procedura, inteso come piano di lavoro chiaro e preciso, realizzato sulla base di una attenta
valutazione del contesto d’azione e delle informazioni a disposizione, è entrato a far parte
dell’universo simbolico dei partecipanti e viene da tutti riconosciuto come il corretto approccio al
lavoro, una strategia efficace con cui fronteggiare la frenesia del lavoro quotidiano, la ridondanza
delle informazioni emergenti, la confusione e le possibilità di errore che ne deriva.
Alla richiesta di produrre esempi concreti di transfer, il Partecipante_1 risponde:
Partecipante_1: “[…] l’esempio più concreto è quello di un maggiore utilizzo della mail piuttosto
che del telefono. Ovvero per essere più chiari ed evitare lo stress delle telefonate è preferibile
utilizzare lo strumento scritto della mail che è immediato. Rimane una documentazione ufficiale,
sempre ricercabile negli archivi. Nella mail cercare di essere sempre chiari e completi dal punto di
vista delle informazioni che intendo dare. Penso anche al contatto con il cliente, alla stessa
produzione, al contatto con il fornitore. Gestire queste situazioni con più calma, con l’obiettivo di
dare una risposta certa e il più esaustiva possibile. Oppure mi viene anche in mente il rapporto
con il cliente che può fare una domanda alla quale non si sa rispondere. Se prima rispondevo sulla
scia dell’impulso, quindi a delle volte anche non corretta, solo per dare una risposta veloce al
cliente che aspetta, ora invece posso dire "un momento sto pensando" e magari se non so
rispondere prendo tempo, m’informo da chi ne sa più di me o comunque prendo le informazioni
che mi occorrono per rispondere quindi richiamo o invio una mail ecc. In questo modo ho si
allungato i tempi ma nel contempo ho dato più professionalità, ho dato un’informazione più
completa al cliente. Quindi quando possibile, questo magari non è sempre attuabile, cerco di
concretizzare i suggerimenti del corso in questo modo”.
L’e-mail identifica per gli intervistati l’esempio di transfer per eccellenza. Punto nevralgico della
procedura di comunicazione elaborata dai formandi nelle attività di gruppo auto-gestite al termine
del corso, rappresenta per tutti la soluzione ideale per comunicare con precisione e chiarezza sia
239
all’interno che all’esterno dell’azienda. L’e-mail è un mezzo alla portata di tutti: attraverso di esso
non solo è possibile prendersi il tempo per riflettere sull’oggetto del proprio discorso e organizzare
le informazioni di modo da mettere il proprio interlocutore nella condizione di operare
un’interpretazione del messaggio corretta ed esaustiva, ma nel contempo contribuisce anche a
ridurre il carico di telefonate in entrata ed uscita dall’azienda. L’uso del telefono, infatti, è vissuto
da tutti i lavoratori come particolarmente problematico e controproducente. In tal senso,
l’ottimizzazione dello strumento dell’e-mail, nonostante necessiti di un dispendio di tempo
maggiore, è stato inquadrato da tutti gli intervistati come il più utile e pregnante caso di
trasferibilità da realizzare nel breve periodo (il corso di training e nel post-training).
Un’ulteriore conferma rispetto al tema della comunicazione e degli strumenti operazionali entrati in
uso (con essi intendiamo le funzioni cognitive declinate nella chiarezza espositiva, nella precisione,
nell’ascolto e nel mettersi nei panni dell’Altro, nel prendersi il tempo per riflettere, ecc.) è quella
del Partecipante_5, il quale, oltre a confermare che certi tipi di accorgimenti sono diventati parte
della sua pratica quotidiana, molto di più rispetto al periodo precedente al corso, sostiene di aver
sviluppato uno spirito “critico” tale da richiedere maggiore precisione ai suoi interlocutori e non
accontentarsi di procedere ad interpretare, per tentativi ed errori, le informazioni ricevute (evitare
di procedere per tentativi ed errori è una delle finalità del metodo Feuerstien che in alternativa
dispone l’applicazione consapevole delle funzioni cognitive). Il senso “critico” a cui si riferisce,
sembra a nostro avviso una “consegna” positiva della formazione, un approccio conoscitivo e un
atto di meta-cognizione interessante da parte dell’intervistato. Come giustamente rileva lo stesso
Partecipante_5, nel contesto del lavoro e della quotidianità, il fattore contestuale, quello cioè
afferente alla situazione in cui ci si trova e al compito da svolgere, riveste un’importanza primaria,
in quanto nessuno atteggiamento o operazione o riflessione può essere mossa a prescindere
dall’attività ovvero alla dimensione sociale che ci si trova a vivere.
Partecipante_5: “Beh la buona pratica, per il discorso delle e-mail e della comunicazione, è il
discorso di cercare sempre di formalizzare tutto nero su bianco il modo tale da capire, da
rifletterci, da fermarsi un attimo e vedere se quello che vuoi esprimere.. quello che hai scritto è
realmente quello che vuoi esprimere. […] Quello lì di fare sempre attenzione a come scrivi, dando
sempre riferimenti giusti, temporali, legati appunto all’oggetto della discussione.. ci faccio sempre
caso.. prima un po’ meno, adesso invece mi metto sempre nei panni dell’altro. Però d’altra parte
questo mi ha portato ad essere più critico verso chi mi scrive e questo non so se è stato un bene..
perché a volte cercavo di interpretare, adesso dico “no, caspita.. non c’è scritta la data, non c’è
scritto l’ora, devi essere più preciso.” Quindi questa cosa qua a volte, non dico che rallenta,
perché il bisogno di precisione quanto fai un lavoro c’è, che poi ti venga concessa in prima istanza
o in seconda battuta perché tu richiedi ulteriori informazioni.. ci vuole la precisione. In alcuni casi
viene letta come eccesso, quasi maniacale, di informazioni. “Dai! Capiscilo da solo!”. È tutto
relativo. Dipende anche dal tipo di lavoro che devi fare”.
240
Un esempio di trasferimento diverso, a completamento di quelli fin qui presi in esame, è quello del
Partecipante_2 che, più che sull’aspetto operatorio e comunicativo, si sofferma a dar conto degli
aspetti legati alla relazione, della condivisione, della cooperazione. Forte dei vissuti positivi legati
all’esperienza del “gruppo” di formazione, spiega di aver deciso di investire nel confronto con i
propri collaboratori, interno ed esterni all’azienda, e in modo particolare con i soggetti committenti
dei compiti di lavoro. A supporto di questa strategia di socializzazione della fase di “input” del
compito, ha scelto lo strumento della “riunione”. La riunione costituisce uno spazio di ascolto
reciproco di condivisione e riflessione di tutti i punti di vista dei soggetti interessati al lavoro da
svolgere. Ognuno dei presenti ha la possibilità di offrire un contributo in termini di definizione del
problema, di analisi di tutte la variabili in gioco. Solo dopo aver evidenziato tutti i particolari della
specifica situazione, compresi gli oneri e i tempi, è possibile procedere alla formulazione della
strategia d’azione. Questo tipo di approccio, nonostante necessiti di una certa quantità di tempo,
crea la consapevolezza necessaria a comprendere l’entità degli impegni di ciascun soggetto, quindi
a bilanciare i carichi di lavoro ed essere più produttivi.
Partecipante_2: “In genere, ora, se c'è da fare un lavoro che è un po’ più complesso
dell'intervento che si esaurisce magari nel giro di mezz'ora, una cosa che impiega qualche giorno,
ho speso molto di più nel confronto con chi mi ha commissionato il lavoro, fare delle riunioni tutti
insieme e mettere seduti tutti quelli che sono nell'ordine della cosa, proprio per avere un quadro
completo e preciso di quello che serve e poi condividere insieme con loro quello che proponevo e
solo dopo iniziare a ragionarci (enfasi). Questo lo abbiamo fatto più volte. Poi ho cercato di
sensibilizzare per far capire i problemi che ci sono nel fare certe cose.. a costo di essere
fastidioso.. […] quindi.. essere consapevoli di questo.. quello che comporta fare determinati lavori
può essere un vantaggio. […] C'hanno sempre tutti da fare però se sei un po’ costante, fai capire
che anche tu c'hai da fare.. non è un chiacchierare.. è una cosa che serve quindi non stai perdendo
tempo.. stai facendo un lavoro per cui t'hanno interpellato.. insomma.. ho notato un certo
riscontro.. ecco..”.
Il Partecipante_2 fa riferimento, a chiusa dell’estratto, al riscontro positivo ricevuto da parte dei
colleghi coinvolti in questo suo nuovo approccio alle richieste intervento (inerenti l’area CED,
Centro Elaborazione Dati, vale a dire una delle aree aziendali dove confluiscono maggiori richieste
d’intervento, anche semplicemente tecniche, al giorno). Il riscontro del transfer operato da ciascun
intervistato è, ai fini della nostra analisi, un indice di grande interesse. Si tratta di evidenziare la
presenza o meno e la tipologia di feed-back emergenti dal contesto di riferimento ovvero dalle
persone con cui gli intervistati interagiscono nella dinamica lavorativa quotidiana. A tal proposito
sono emerse alcune risposte positive significative. Il Partecipante_1 muove l’esempio concreto di
un progetto, l’ideazione di una brochure informativa di prodotto, iniziata nel periodo di
svolgimento del corso P.A.S. e modificata sulla base degli assunti emergenti in fase di
apprendimento. L’intervistato chiarisce come abbia strutturato questo strumento di comunicazione
241
Partecipante_1: “Ho ricevuto un confronto positivo di un mio collaboratore, al quale avevo
spiegato che per sviluppare un nuovo modello, Creativa, in attesa dell’uscita del catalogo e del
listino, per cercare di facilitare la comprensione da parte dei fornitori e clienti ecc. avevo
realizzato una brochure esplicativa … Questa persona, questo mi collaboratore mi ha detto: “ok,
bene, è un bello strumento che in futuro potrebbe anche essere utilizzato per altri modelli di cui
non è ancora pronto listino e catalogo… si potrebbe realizzare una brochure sintetica esplicativa
nella quale spiegare tutte le caratteristiche di questi modelli”. Ho iniziato prima del corso col
metodo Feuerstein, poi però durante il corso ho cercato di modificarla, ampliarla e correggerla
sulla base della logica dell’informazione corretta, più precisa possibile, più esplicativa possibile.
Perciò nel corso del corso… ho modificato questa brochure quasi in contemporanea con il corso”.
Il Partecipante_4 afferma di coltivare l’applicazione del metodo Feuerstein nel suo reparto e, in
modo specifico, negli scambi i collaboratori: “Lo sto coltivando... prendendo spunto da quello che si
è detto... quello che vedo qui dai ragazzi.. vedo quello che ne può venire fuori...”. Apporta anche
un ulteriore esempio, relativo agli scambi che quotidianamente intrattiene con un collega di un’area
diversa dalla propria. Specifica di aver modificato modalità di comunicazione senza offrire
spiegazione del cambiamento e di aver ricevuto una risposta positiva, adeguata allo stimolo dato.
Partecipante_4: “Si. L’ho sperimentato con l’uff. amministrativo con il quale comunico spesso per
e-mail per avere informazioni circa i fatturati e si.. all’inizio l’ha presa in maniera ironica perché
non capiva come mai questo cambiamento..”.
Intervistatore: “E il riscontro quale è stato?”.
Partecipante_4: “Interessante. Lui è un ragazzo e si è adeguato anche lui a questa direttiva ed ha
risposto molto schematicamente a quello che avevo chiesto e lui l’ha apprezzato.. magari qualcun
altro avrebbe continuato a fare quello che avrebbe fatto.. in questo particolare caso ha
funzionato..”.
L’importanza di ricevere un riscontro positivo da parte del contesto in cui si vive e agisce non
riguarda solo l’opinione delle persone con le quali ci si relaziona, ma anche la propria opinione.
Accorgersi della modificabilità del proprio comportamento (come è accaduto alla Partecipante_7),
monitorare e auto-valutare, secondo meta-cognizione, l’efficacia della propria azione in termini di
risultati conseguiti è fondamentale ai fine della motivazione a continuare ad apprendere e trasferire
le competenze apprese.
Partecipane_7: “[…] ho risolto due o tre situazioni, perché magari tante volte inizi un lavoro e
poi alla fine dici “oddio…” ne fai dieci contemporaneamente. Invece no. Ho pensato: faccio
questo lavoro dieci volte finché non abbiamo risolto e chiamo una cliente e ci confrontiamo, e a
quel punto… una situazione che ho risolto dopo tre anni… lo so, è un sacco di tempo… perché
chiaramente, se prendi di vista un solo aspetto, in questo caso, sicuramente riesci ad ottenere un
risultato, invece magari su più fronti, quando lavori, alla fine fai tutto e non concludi niente.
Invece questo mi ha aiutato a fare chiarezza”.
La testimonianza del Partecipante_10 si allinea con le due precedenti e raggiunge un livello di
specificazione superiore in quanto l’intervistato dice di aver applicato i principi del metodo
Feuerstein, in particolare le indicazioni pratiche elaborate in sede di formazione a proposito della
comunicazione interna, nella relazione con il suo team di lavoro (“i ragazzi”). Dice di aver
242
cambiato opinione circa il corso di formazione P.A.S. (nutriva l’aspettativa che si potesse trattare di
una “perdita di tempo”) “perché abbiamo riportato nell'ambito lavorativo i consigli della
dottoressa che teneva il corso (il formatore) e ho visto dei risultati”. Nel dettaglio:
Partecipante_10: “La precisione nella comunicazione, nelle mail che mando; e la risposta dei
ragazzi a questo tipo di richiami. […] Perché un conto è comunicare con le e-mail e quindi
ponderare quello che dici, gli stati d'animo, le parole, e un conto è dirle e potrebbe anche travisare
l'altro, l'interlocutore. Quindi è stato molto utile”.
Viene riproposto il riferimento all’e-mail, alla precisione nella comunicazione, ma in questo caso si
predilige il sistema di comunicazione scritto per la possibilità che rappresenta di “ponderare”
quello che si dice, le parole, compresi gli stati d’animo. Il controllo dell’impulsività, così come
delle emozioni negative è fattore su cui si è molto discusso in sede di formazione e che ha riscosso
l’attenzione di tutti i formandi. Lo stress lavorativo, la velocità con cui si chiede ai lavoratori di
eseguire i compiti o di realizzare un progetto, sollecitano negativamente la qualità della vita
organizzativa. Investire del tempo nella riflessione, nella stesura di una procedura di lavoro o nella
condivisione equivale per i nostri intervistati a rendere migliori i propri spazi d’azione. La
semplicità dei principi P.A.S., quasi da sembrare una cosa sottintesa ha permesso di rendere
espliciti ed operativi delle fasi del lavoro quotidiano che, essendo prima confuse o semplicemente
“non dette”, risultavano aleatorie e fuori controllo.
Intervistatore: “E hai riscontrato dei vantaggi?”
Partecipante_10: “Sembrava una cosa sottintesa, semplice e abbiamo avuto dei vantaggi
notevoli”.
Intervistatore: “E quando parli di ragazzi che intendi? Che tu, nel tuo gruppo di lavoro...
Partecipante_10: “Nel mio gruppo di lavoro, perché la maggior parte... le e-mail, gli scambi, le
comunicazioni ce le ho con il mio gruppo di lavoro. […]”.
Intervistatore: “E hai avuto un riscontro da parte delle persone con le quali lavori?
Partecipante_10: “Sì... […] perché anche loro hanno... anche loro debbono rispondermi.
Rispondendo, questo significa che loro devono pensare a quello che dicono. Pensare a quello che
dicono significa pensare già al problema. Mi devono rispondere, quindi, l'input che gli do, oppure
il problema che ho sollevato, loro lo metabolizzano e, nel momento in cui mi rispondono, entrano
nel problema già rispondendomi. Quindi, molto utile”.
Sulla base di quanto affermato dal Partecipante_10, la riflessione intesa come tempo per pensare,
per approcciare con spirito meta-cognitivo all’analisi di un problema, per metabolizzare un input,
ovvero per produrre una risposta congruente ad uno stimolo impartito entra a far parte
dell’operatività di un team di lavoro a partire dal transfer operato dalla figura dirigenziale nelle
procedure di comunicazione e distribuzione dei compiti di lavoro.
Torniamo al concetto di trasferimento. Posto che lo scopo esplicito della formazione nelle
organizzazioni è permettere che i lavoratori possano apprendere conoscenze, competenze e
243
comportamenti, quindi applicarli in situazioni di lavoro quotidiane, apportando miglioramenti
riscontrabili sia dal punto di vista delle prestazioni che della qualità di vita lavorativa, il transfer
“coinvolge direttamente la questione dell’efficacia e dell’utilità della formazione, nonché della sua
capacità di impatto sulla vita produttiva delle organizzazioni. Apprendimento e formazione senza
trasferimento organizzativo significa dispendio di risorse finanziarie e organizzative, mancato
raggiungimento di obiettivi sovra-individuali, produzione di cambiamento individuale senza
cambiamento organizzativo” (Fraccaroli, 2007, p. 2007). 89 L’argomento, naturalmente, risulta
centrale ai fini della nostra ricerca e delle ipotesi inizialmente formulate.
L’operazione di trasferimento può aver luogo già durante il percorso ed essere incentivata dal
formatore con specifiche iniziative di “bridging” e di graduale messa in pratica. Questo iter, così
come accaduto nel corso della formazione P.A.S., si può sviluppare secondo varie modalità e con
gradi di autonomia e di adattamento diversi a fronte dei quali si rivelano fondamentali procedure di
autoregolazione e automonitoraggio ovvero di autovalutazione del trasferimento dei propri saperi.
Nel caso del metodo Feuerstein, durante il training, il lavoro del formatore si è concentrato sulla
costruzione di schemi cognitivi che favorissero il recupero di determinate informazioni a fronte di
specifiche situazioni di lavoro. Il transfer può essere considerato, in questo contesto formativo,
come un “complesso processo cognitivo” di acquisizione, memorizzazione, recupero e
interpretazione delle informazioni, ma anche come costruzione di una “meta-competenza” relativa
al saper applicare in modo appropriato e nel momento più adatto le competenze acquisite
all’interno del proprio ambiente lavorativo (ivi, p. 179). Un’attestazione del transfer operato dalla
formazione Feuerstein in azienda emerge dall’intervista del Partecipante_8:
Partecipante_8: “Invece questo mi è sembrato una cosa molto interessante; con una cosa
paradossalmente lontana dalle cose che fai tutti i giorni ci puoi trovare un riscontro per le cose
che fai tutti i giorni. Questo è stato sorprendente, da questo punto di vista. Cercava di darci – o
comunque io cercavo di prenderci – un modo nuovo per vedere tutte le cose che faccio, non una in
particolare. Non gliene frega niente di quello che fai tu; ti dice come dovresti affrontare le cose.
Poi se uno fa un muro, uno fa il pavimento, uno fa l'arredamento, tu comunque applichi questo
metodo a tutto, quindi a prescindere. Infatti era trasversale anche in questo, partecipavano
soggetti di tutti i tipi, di tutte le mansioni, fregandosene di cosa faccio io, tu, M. o chiunque altro.
Poi tu applicavi le cose che imparavi eventualmente alla tua attività di tutti i giorni; da questo
punto di vista è forte. È stato come se facessi un corso prima di cominciare un lavoro. Poi dopo, a
quel punto, hai la preparazione per affrontare quel lavoro e applichi le conoscenze tecniche in
funzione delle nozioni che hai acquisito durante il corso. È forte come cosa, non l’avevo mai
sperimentata”.
89
L’autore cita uno studio del 2002 di Goldestein e Ford in cui si stima che solo il 30% di ciò che viene appreso nella
attività formative è effettivamente utilizzato nelle situazioni di lavoro. Per approfondimenti si veda: I.L. Goldestein,
J.K. Ford, Training in organizations, Pacific Grove, CA, Wadsworth, Thomson Learning.
244
L’intervistato sottolinea la trasversalità delle procedure operative, cognitive e meta-cognitive,
apprese e l’ampia possibilità di trasporle in qualsiasi tipo di contesto, sia di vita privata che
professionale, ciò indipendentemente dal bagaglio di competenze personali e dalla specificità delle
situazioni che, comunque, devono essere lette e interpretate di volta in volta a supporto del
comportamento di esplorazione e pianificazione. Il tempo dell’esperienza lavorativa e il tempo
dell’apprendimento sono stati gestiti separatamente. È stato come fare un corso prima di iniziare un
lavoro, dice il Partecipante_8: ricevere una serie di “strumenti” e le rispettive istruzioni d’uso
attraverso cui organizzare ed esprimere le proprie conoscenze tecnico-specifiche. Accanto alla
competenza cognitiva e meta-cognitiva, il P.A.S. però lavora anche sulla dimensione sociale e
situazionale
dell’apprendere,
supportando
una
tipologia
di
trasferimento
volta
alla
“generalizzazione dello stimolo”: la generalizzazione che si compie mediante la tecnica del
bridging è finalizzata proprio ad evidenziare i principi generali di un compito e ad identificare le
situazioni lavorative in cui tali principi possono essere applicati. Si chiede al soggetto che apprende
di applicare le competenze acquisite in contesti lavorativi che non presentano le stesse identiche
condizioni della condizione formativa (ibidem). 90
A fronte della consistenze variabilità di situazioni lavorative in cui poter applicare i principi P.A.S.
e lo sforzo compiuto a proposito del progetto di elaborazione della procedura di comunicazione
interna, a nostro avviso la trasferibilità operata dagli intervistati è da ritenersi circoscritta entro un
numero ristretto di attività e atteggiamenti che, seppur significativi in termini di apertura a nuove
possibilità di crescita, restano comunque limitati. Tra questi ricordiamo sicuramente l’uso della
comunicazione scritta e in particolare dell’e-mail, la stesura del piano di lavoro inteso sia come
atteggiamento mentale, sia come scelta operativa di analisi, interpretazione, formulazione di ipotesi
e stesura di una strategia di esecuzione di un compito. Accanto a questi indicatori, quelli
maggiormente riconosciuti dagli intervistati, e agli esempi di messa in pratica ad essi legati, sono
emersi alcuni dubbi circa l’estendibilità dei principi promossi in sede di formazione alla
molteplicità e complessità delle situazioni proprie della vita organizzativa.
Una prima avvisaglia di questa di questa “negatività” è rilevabile dalle parole del Partecipante_5
che parlando del corso seguito afferma:
Partecipante_5: “[…] quindi una buona sorpresa per alcune cose, per altre no perché magari ci
sono stati alcuni momenti per cui, vuoi per il tipo di materia, vuoi per come è stata trasmessa, vuoi
per tutto quello che ci accade quotidianamente in azienda, il corso in alcuni momenti è stato visto
come qualcosa di inutile. Quindi questa parte qua, la negatività, è stata dovuta ad alcuni
90
F. Fraccaroli, Apprendimento e formazione nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 2007, pag. 179. Il riferimento è
ad uno studio di Noe del 1998: R.A. Noe, Employee training and development, Boston, Irvin McGraw-Hill, 1998.
245
argomenti, per come sono stati trattati o perché magari qualcuno si aspettava di trattarli in
maniera differente, alcune ripetizioni magari, no?”.
Le motivazioni dei momenti di “negatività” di cui parla l’intervistato sono legate non solo al tipo di
materia e al modo in cui è stata trasmessa dal formatore, ma anche al “tutto quello che ci accade
quotidianamente in azienda”, vale a dire alla varietà di situazioni, di specifiche problematiche e
necessità che ogni giorno scandiscono la vita aziendale. Trapela una sorta di “rigidità” del metodo
rispetto ai vissuti e alle peculiarità dell’agire lavorativo, tale da lasciar percepire una parte della
formazione come “inutile”. “Può essere utile se applicato nella giusta maniera” sostiene il
Partecipant_4, che suggerisce la necessità di un’analisi contestuale concomitante alla messa in
pratica dei principi del P.A.S. perché non solo a suo avviso “certe cose non sono fattibili al 100%”,
ma occorre anche valutare se le persone che sono parte del contesto in cui si opera e che non hanno
una ricevuto una formazione adeguata sono pronte ad essere coinvolte in una dimensione
relazionale così specificatamente connotata.
Partecipante_4: “Che m’è sembrato? M’è sembrato che in qualche modo può essere utile se
applicato nella giusta maniera... solo che bisogna vedere i contesti volta per volta... perché certe
cose non sono fattibili al 100% per cui bisogna vedere se tutti gli organismi sono pronti ad essere..
ad immedesimarsi in questo meccanismo… Si. Sicuramente questo. Infatti lo abbiamo detto anche
durante il corso... dicevamo “si però farlo capire agli altri”... alla fine come ho già detto non è che
lavori da solo... tu potresti farle queste cose però non è che da solo vai lontano... certo potrebbe
essere un inizio, però sicuramente ci vuole la volontà di tutti e una gestione proprio dall’alto
aziendale che dà la direzione che ti permetta di farlo... altrimenti finisce subito... non dura
diciamo...”.
È sempre più chiara quindi l’idea che la specificità del contesto di lavoro, sia dal punto di vista del
coinvolgimento cognitivo che sociale, assume per gli intervistati un peso specifico, un peso
condizionante l’impatto della formazione e il cambiamento individuale e organizzativo. Questo è
quanto dichiara il Partecipante_7 che, sulla base dell’esperienza quotidiana del suo lavoro (“Se stai
al telefono e ti chiamano, non puoi dire “un momento, sto pensando”. Quindi devi cercare subito
la soluzione dentro di te, cercare la soluzione che serve al cliente e soprattutto a noi”), arriva ad
affermare che alcuni assunti del metodo Feuerstein non sono contestualizzabili all’interno degli
ambienti aziendali e in modo specifico in Lube.
Partecipante_7: “Poi alla fine, invece, ho visto che tanti aspetti non potevano essere utilizzati in
azienda, secondo me. Perché sì, è giusto “un momento, sto pensando”, però in alcuni settori “un
momento, sto pensando” è quasi impossibile. Se stai al telefono e ti chiamano, non puoi dire “un
momento, sto pensando”. Quindi devi cercare subito la soluzione dentro di te, cercare la soluzione
che serve al cliente e soprattutto a noi. […] nel senso che purtroppo alcune cose non erano
contestualizzate all’azienda”.
La mancata conoscenza da parte del formatore della specificità del contesto in cui il training ha
avuto luogo è stata avvertita come un limite della formazione, dal punto di vista della penetrazione
246
dei contenuti nel tessuto organizzativo e della loro messa in pratica. La riflessione arriva a
coinvolgere la stessa progettazione della attività e le politiche di gestione della formazione. Infatti,
si parla di “consigli concreti e diretti” per le esigenze di singoli settori, di formazione aziendale più
specifica, di una pianificazione della formazione che coinvolga non un singolo gruppo sporadico,
ma tutti i centri nevralgici, così da non lasciare soli i singoli formandi di fronte all’incombenza di
trasferire l’esperienza formativa nel contesto di lavoro.
Partecipante_7: “È chiaro che lei non conosce proprio i meandri della Lube […] però forse il
fatto di non aver dato dei consigli concreti e diretti per ogni singolo settore, forse un po’ è
mancato. [...] Anzi, tante volte i migliori [strumenti], secondo me, sono quelli che vengono
conquistati sul campo, però è tutto opinabile. Questo è un metodo sicuramente riuscitissimo per
tanti aspetti, però dal punto di vista della formazione in azienda dovrebbero essere, secondo me,
più specifici per ogni singolo settore e poi, magari, dovrebbero essere allargati agli altri impiegati.
Poi sì, io lo faccio, però se quelli vicino a me, con i quali lavoro, non l’hanno fatto, è chiaro che il
vantaggio va a diminuire, perché poi io non posso trasferire le emozioni o anche il metodo stesso
che ho cercato di comprendere; diventa veramente difficile, secondo me”.
Per quanto concerne la formazione degli adulti nei contesti di lavoro, la percezione
dell’inapplicabilità degli apprendimenti nella pratica quotidiana, ovvero la sensazione di inutilità è
altamente inficiante la riuscita di qualsiasi tipo percorso formativo. Nonostante la bontà dei
contenuti, trasversali, auto-diretti, transdisciplinari, l’impossibilità di spendere tali contenuti negli
ambiti d’interesse costituisce un freno sia all’apprendere che al trasferimento dei risultati
dell’apprendere, vale a dire un blocco della futuribilità degli apprendimenti acquisiti.
Ricollegandoci a quanto emerso nel capitolo dedicato all’apprendimento situato e recuperando il
costrutto di comunità di pratica, così come elaborato da Lave e Wenger (2006), la scissione tra
pensiero e azione, tra conoscenza e pratica risulta lontana dalla realtà dell’essere umano che
apprende. La conoscenza è, infatti, “expertise”, sapere in azione, pratica inserita all’interno di un
sistema di attività, di una comunità culturalmente e storicamente orientata. È nell’agire quotidiano
che il professionista acquista e consolida l’expertise di cui sopra e si scopre soggetto competente.
Nella pratica costruisce la propria identità e conoscenza del mondo. La formazione, qualora
ambisca a realizzare forme di apprendimento costruttivo e trasformativo, non può fare a meno di
prevedere forme di integrazione diretta tra i contenuti veicolati e la pratica situata e partecipata.
La pratica, quindi, rappresenta l’esito del processo di trasferimento e al tempo stesso il suo
principio fondante. Il processo di trasferimento, come dicevamo poco più sopra, può presentare
delle inerzie o degli arresti per motivazioni riconducibili al soggetto che apprende, al progetto
formativo o alla stessa organizzazione (Fraccaroli, 2007, p. 180). Guardando all’esperienza di
formazione seguita, pur avendo potuto constare nei racconti degli intervistati riferimenti concreti di
transfer, ribadiamo la convinzione dell’esistenza di una serie di limitazioni che hanno impedito di
247
dare maggior seguito alle competenze apprese. A livello individuale, la convinzione personale che
le nuove competenze non siano del tutto utili ai fini del proprio lavoro o applicabili al contesto in
cui si opera ha rappresentato una resistenza al cambiamento. Di fatto, smettendo di spaziare nella
messa in pratica e di investire nelle nuove procedure, si rimane ancorati a poche situazioni
consolidate o addirittura si torna alle vecchie abitudini perché si teme di perdere la sicurezza di ciò
che è ampliamente esperito, quindi tempo ed energia. A livello organizzativo, invece, i fattori
“contro” sono circoscrivibili attorno alla mancanza di una gestione pianificata e dichiarata della
formazione, quindi facilitante, ovvero di una figura di responsabilità per questo genere di decisioni
e attività che sia rappresentativa per tutti i lavoratori. Molti intervistati hanno dichiarato di aver
vissuto con difficoltà il confronto con il contesto di lavoro, vale a dire con tutti quei colleghi che
non essendo stati coinvolti nell’iter formativo hanno manifestato un atteggiamento di chiusura, di
scherno o di screditamento. Il misurarsi con questo tipo di reazioni può provocare insicurezza o
indebolire la motivazione di chi prima apprende e poi s’impegna a trasferire le competenze
sviluppate. L’evitamento di questo genere di relazionalità può indurre il formando a minimizzare
l’importanza dei risultati del proprio apprendere e a focalizzare la propria attenzione sugli aspetti
negativi dei vissuti formativi. Sono diverse in tal senso le testimonianze emerse dalle nostre
interviste:
Partecipante_5: “Il problema è il solito... chi frequenta il corso non è detto che poi riesca a far da
leader per tutti quelli che gli stanno intorno. Quindi se trovi terreno fertile, soprattutto perché poi
il fatto di aver frequentato il corso incuriosisce chi non l’ha frequentato, ma questo dipende da
come te lo rivendi te, alcune volte può generare anche invidia. Quindi il trasferire informazioni se
non è fatto in modo tale per cui io sono convinto di volertela trasferire è un’arma a doppio taglio,
un boomerang, anzi... viene visto come il gruppetto di eletti che ha fatto qualcosa che gli altri non
hanno fatto. Penso che all’inizio ci sia stata una situazione di questo tipo. Quindi si rischia che
quelle poche leve negative che dicevamo prima diventino… si esasperino, vengano esaltate, in
modo negativo anche dagli stessi corsisti per non apparire “l’eletto”. Quindi dice “si lo faccio il
corso ma è noioso”. No, in realtà non è noioso, perché non devi dire che sei stato fortunato ad
esserci? Capisco anche che per come siamo abituati a correre ogni giorno lasciare “x” ore la
scrivania, il computer, il telefono, non è semplice. Quindi penso che il tutto siamo riusciti a
concluderlo perché alla fina c’era quell’input importante iniziale, quello della proprietà, però
capisco anche che se fossimo stati di più o magari in più sessioni non nello stesso gruppo questo
poteva essere qualcosa che entrava veramente nel DNA dell’azienda, perché tutto sommato se
entra nel DNA dell’azienda di chi in realtà lavora nell’azienda è un bagaglio, un tesoro proprio
dell’azienda stessa”.
La partecipazione alla formazione P.A.S. è stata vissuta come un fattore “discriminante” sia da
parte degli intervistati che dei colleghi. La percezione di questa difficoltà ha frenato l’iter di
trasformazione intrapreso da ciascun intervistato, ancorando il cambiamento alla sfera individuale.
La mancanza di omogeneità e di una strategia formativa condivisa con gli stessi lavoratori che
248
fuoriesca dalla logica “compensativa” fa percepire la scelta di alcuni soggetti da formare come una
sorta di “premio” a riconoscimento di alcuni e screditamento di altri.
Partecipante_7: “[…] perché se io lo faccio e cinque persone vicino a me no, è chiaro che poi alla
fine sono io quella diversa, quindi è normale che vengo assorbita dalle altre persone. Se tutti fanno
in quel modo, è difficile poter essere diversi quando il gruppo va da un’altra parte. […] E
soprattutto, fare il corso ad altre persone non le fa sentire diverse, perché io ho fatto caso, magari
si chiede: “Tu hai fatto il corso?”. “Io no, non l’ho fatto”. E quindi tanta gente dice che se l’hai
fatto significa che sei privilegiata, in questo caso, quindi chi non l’ha fatto assume un valore
doppiamente negativo, perché dice “non ho partecipato perché sono diverso? Perché? Cosa ho di
meno?”. Quindi un pochino crea problemi di disparità.
Anche a livello di progetto formativo sono emerse alcune lacune. In sede di analisi della domanda,
i formandi sono stati esclusi dalla definizione degli obiettivi finali e dalla conseguente
progettazione. L’esigenza di miglioramento delle competenze perseguite e la stessa modificabilità
cognitiva non sono state sufficientemente condivise e partecipate, inficiando il processo di transfer.
La compartecipazione dei soggetti chiamati ad apprendere, così come avviene nella formazione
d’orientamento psicosociale, è strategica ai fini della ricostruzione della cultura organizzativa,
formale e informale, dell’identificazione delle esigenze formative reali, della messa in chiaro degli
obiettivi da raggiungere, della loro resa pratica ovvero della predisposizione della attività sulla base
di tutti questi fattori. Senza questo grado di approfondimento e di conoscenza non è possibile
comprendere fino in fondo la realtà in cui si è chiamati ad operare, localismi e variabili situazionali
funzionali alla realizzazione della formazione e alla trasposizione dei risultati conseguiti nella
quotidianità di coloro che sono stati chiamati ad apprendere.
La motivazione e il sentimento di auto-efficacia, spesse volte correlati l’un l’altro, dipendono,
lungo tutto il percorso formativo (fase pre-training, fase del training, fase post-training), dal grado
di coinvolgimento che il formatore è in grado di suscitare nei formandi. Un calo di motivazione,
così come il percepirsi non in grado di apprendere o di trasferire determinate competenze
impediscono il raggiungimento degli obiettivi formativi individuali e organizzativi. Di qui
l’importanza di considerare nella progettazione iniziative che possano sostenere entrambe queste
caratteristiche individuali dell’apprendimento adulto (cfr. paragrafo 3.1.). Nel corso P.A.S.
monitorato, nonostante la disponibilità del formatore di modellare parte delle attività sull’esigenza
emersa in corso d’opera di affrontare la tematica della comunicazione interna, la metodologia
adoperata è rimasta ancorata agli strumenti previsti dal metodo, alle schede selezionate dalla
docente, alla pratica formativa rappresentata dalle esercitazioni individuali e di gruppo e alle
generalizzazione operate mediante bridging. Sostanzialmente non si è mai usciti dalla dimensione
d’aula per entrare in quella del lavoro e della pratica quotidiana. Si sono venute cioè a creare delle
discrepanze tra la politica del “fare” propria della cultura organizzativa e quella del “pensare” del
249
metodo formativo: una loro maggiore integrazione, così come sottolineato dalla corrente
situazionale dell’apprendimento, avrebbe potuto significare una maggiore penetrazione da parte
degli argomenti proposti e un maggior grado di trasferimento.
L’esercitazione è uno degli strumenti più utilizzati nel caso della didattica scolastica e
professionale. Nel caso specifico della formazione psicosociale e psicosociologica, ne abbiamo
parlato nel secondo capitolo, l’esercitazione rappresenta un “fare” che permette di apprendere e
dare approfondimento ai propri apprendimenti. Lo sforzo dell’esercitazione consente, attraverso
l’osservazione diretta di sé e degli altri, di arrivare a generalizzare leggi e principi di
funzionamento attraverso cui interpretare la realtà stessa. La scheda “Organizzazione di punti”, ad
esempio, rappresenta un compito di tipo complesso a partire dal quale rintracciare le peculiarità del
proprio pensare e di quello altrui in termini di funzioni cognitive, focalizzando schemi di
comportamento tipici o modalità di problem solving abituali che, veicolati come procedure efficaci,
possono rispondere alle necessità del contesto di lavoro e in generale della vita quotidiana. I dubbi
di coloro che pensano che la realtà lavorativa sia altra cosa dall’esercitazione sono emersi in corso
di formazione e sono rimasti inalterati anche in fase di transfert. L’esercitazione esperita, infatti,
rappresenta un fare situato nella dimensione d’aula, pertanto artificiale. Anche nel caso delle
esercitazioni prescritte dalla docente nei periodi di pausa tra una lezione e l’altra, l’applicazione
pratica del compito nel contesto organizzativo, insieme alla riflessione e la meta-cognizione
richieste, sono state demandate alla speculazione personale e, nelle occasioni di successivo
reintegro nell’attività d’aula e di gruppo, hanno comunque ricoperto una posizione secondaria.
Inoltre, nel caso particolare della formazione Feuerstein, l’assenza di contenuti specifici, se
costituisce una peculiarità metodologica favorevole dal punto di vista delle possibilità di
applicazione e della flessibilità, dal punto di vista dell’apprendere comporta una sorta di
“snaturamento” dell’essenza sociale e culturale ovvero situata della conoscenza. Questo sembra, a
nostro avviso, ancora più pregnante se si pensa all’apprendimento adulto nei contesti di lavoro. Chi
apprende, al di là dei riferimenti verbali costruiti mediante bridgnig, è spesse volte inserito in un
contesto privo delle strutture relazionali e degli strumenti culturali normalmente presenti all’interno
della propria comunità di pratica. C’è, in altre parole, una netta separazione tra processo di
produzione della conoscenza e luogo di utilizzazione della conoscenza.
Gli intervistati, così come gli adulti di cui scrive Knowles (2008), necessitano di apprendere
“dentro” la situazione di cui si sforzano di comprendere caratteristiche e funzionamento. Si chiede
loro un livello di astrazione che non sempre possiedono e che, sebbene costituisca essa stessa
un’abilità perseguita dall’iter di formazione P.A.S., enfatizza la percezione di aleatorietà dei
contenuti veicolati. Gli intervistati hanno vissuto l’esperienza dell’esercitazione come una
250
simulazione della realtà e in quanto tale, seppur inizialmente significativa ai fini del confronto con
la realtà del metodo Feuerstein e della comprensione dei concetti veicolati, alla fine ne evidenziano
la ripetitività (dal punto di vista degli argomenti e del metodo con cui vengono affrontati: si veda
qui di seguito il Partecipante_7) e la distanza dalla pratica quotidiana (basti pensare a quanto
affermato a proposito della strategia operativa del prendersi il tempo necessario per pensare a
fronte delle esigenze di velocità insite nella routine lavorativa).
Partecipante_7: “Un cosa negativa del corso, invece, è che è durato troppo. Alla fine le cose si
ripetevano, quindi ha perso un po’ di interesse. Ho avuto questa sensazione. Magari – come dicevi
all’inizio – avevamo delle aspettative. Poi alla fine, magari, quando è diventato… Mi sembra che
le ultime due o tre lezioni sono state un po’ più noiose, secondo me. Ho avuto questa sensazione.
Forse all’inizio era tutto nuovo, il fatto dei punti, l'unione... […]”.
L’interesse del soggetto adulto che apprende si deposita e rimane laddove può trovare vantaggi utili
a migliorare le proprie condizioni di vita, quindi al proprio benessere psico-sociale. La mancata
lettura e soprattutto la mancata gestione di questo tipo di esigenze, delle resistenze e insieme dei
cali di interesse, sia da parte del formatore che delle figure organizzative di riferimento, hanno
lasciato che alcune particolari negatività, di natura individuale, organizzativa e progettuale,
neutralizzassero, fino a disperderli, parte dei risultati conseguiti in sede di formazione e molte delle
possibilità di cambiamento preventivate. Ciò conferma quanto supposto in una delle ipotesi iniziali
della nostra ricerca, ovvero che essendo l’apprendimento una pratica sociale situata, la formazione
in azienda non può proporsi unicamente come trasmissione di conoscenze mediante strumenti e
artefatti cognitivi immessi nel setting formativo e finalizzati all’uso lavorativo: al di là della
validità dei contenuti e delle metodologia proposte, se l’obiettivo della formazione è penetrare nel
tessuto organizzativo, modificandolo, occorre piuttosto prevedere modalità di azione attraverso
leve di tipo esperienziale e partecipativo di carattere localizzato, le stesse che è possibile attribuire
alle dinamiche di apprendimento proprie delle così dette “comunità di pratica” di cui ci parla
Wenger (2006). L’appartenenza efficace a una comunità di pratica, afferma l’autore, implica
l’apprendimento. L’apprendimento è un’esperienza di identità che coinvolge la persona nella sua
interezza e nella pluralità delle sue capacità. Lavorare, ad esempio, con persone che condividono il
medesimo stato d’animo e/o scopo è un fattore centrale nella definizione delle attività a cui ci
dedichiamo quotidianamente. Quando definiamo queste attività e quando le esercitiamo insieme,
interagiamo tra noi e con il contesto lavorativo, modelliamo le relazioni tra noi e con la nostra
organizzazione. In altre parole, apprendiamo. “Accumuliamo competenze e informazioni, non
come fini in astratto ma per metterle a servizio di un’identità. È in quella formazione di una identità
che l’apprendimento può diventare una forma di significatività e di energia personale e sociale”
(Wenger, 2006, p. 242).
251
Di qui la necessità di mantenere uno sguardo plurale sulla persona che apprende e insieme
sottolineare la pregnanza del pensiero funzionale e pratico in ambito lavorativo: Scribner parla di
“intelligenza a lavoro” (Scribner, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995, pp. 264-297),
intendendo riferirsi all’intelletto che opera in qualsiasi situazione e attività e al contesto di lavoro in
cui si opera. La variabilità dell’agire competente durante l’esecuzione di un compito è
riconducibile al pensiero pratico, il quale quand’anche esperto risulta orientato allo scopo, si
modifica al variare dei problemi e delle condizioni del contesto del compito. Lo studio di Scribner
dimostra che l’intelligenza a lavoro si modula sulla necessità e volontà ovvero sull’obiettivo del
risparmio di energie e ottimizzazione dello sforzo. Sulla base di uno studio condotto in una realtà
industriale del settore caseario, l’autrice afferma:
“il pensiero legato alla pratica diventa adattivo quando serve gli interessi di un’economia dello sforzo. […]
Il risparmio dello sforzo funzione come criterio distintivo dell’esecuzione esperta rispetto a quella
«novizia» […]. Non sappiamo quando sia generale questa caratteristica dell’intelligenza pratica. Potrebbe
essere specifica dell’ambiente dello stabilimento industriale o potrebbe essere specifica della cultura
occidentale con la sua enfasi sull’efficienza e il risparmio di tempo e fatica. Come alternativa, il risparmio
dello sforzo potrebbe essere una caratteristica generale del pensiero legato alla pratica in grado di conferire
«eleganza» tanto alle soluzioni di problemi di matematica teorica che a quelle incorporate sui banchi dei
negozianti” (ivi, p. 297).
L’intelligenza, pertanto, com’anche la stessa teoria delle intelligenze multiple di Gardner (1983) ci
dice, non può che essere condizionata da variabili contestuali e culturali. Immersa nei simboli della
cultura d’appartenenza del soggetto che conosce e apprende, si modula su specifici canali di
espressione e strutturazione, così da emergere attraverso vie preferenziali. Nonostante le
competenze linguistiche e logico matematiche siano quelle più coltivate e riconosciute nella nostra
società e in generale nel mondo occidentale, a scuola così come nel mondo del lavoro 91, esistono
molte altre abilità che concorrono a completare ed esaltare le potenzialità intellettive dell’essere
umano. Gardner, a cui abbiamo già fatto riferimento nel terzo capitolo, parla di otto diverse
intelligenze, “ciascuna delle quali è suscettibile di esprimersi in un sistema simbolico o
notazionale” (Gardner, 2009) senza con ciò prevedere una qualche forma di scissione tra pensiero e
azione, tra l’atto del conoscere e l’atto del mettere in pratica. Non esiste, pertanto, possibilità di
parlare di intelligenza o di intelligenze al di fuori di una dimensione culturale che funge da
medium. “L’intelligenza è allora «skill in a medium». […] Si tratta innanzitutto di sistemi di segni
91
Pur non esistendo una letteratura specifica sull’applicazione della teoria della intelligenze multiple negli adulti,
nell’ambito del “Project Zero” dell’Università di Harvard, in collaborazione con World Education, è stato istituito un
progetto di ricerca per il cinquennio 1996-2001 denominato “Adult Multiple Intelligences Study”. L'obiettivo generale
dello studio AMI era quello di dare risposta alla mancanza di ricerca, pratiche e risorse per l'alfabetizzazione degli
adulti a fronte di dati indicativi un'alta incidenza di difficoltà di apprendimento in età adulta, una bassa auto-efficacia
dell’alfabetizzazione dei discenti adulti, la necessità di migliorare i tassi di abbandono degli studenti, le scarse
opportunità di sviluppo professionale per gli educatori che si occupano di alfabetizzazione degli adulti. Per
approfondimenti: S. Kallenbach, J. Viens, “Open to Interpretation: Multiple Intelligences Theory in Adult Literacy
Education. Findings from the Adult Multiple Intelligences Study”, NCSALL Reports n. 21 May 2002.
http://pzweb.harvard.edu/Research/ResearchMI.htm (consultato Marzo 2012).
252
e di sistemi di simboli, di cui il più rilevante è il linguaggio orale, ma a cui, attraverso la
socializzazione scolastica, si aggiunge il ruolo degli “strumenti” offerti dalla cultura con le loro
particolari caratteristiche e richieste” (Pontecorvo, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 2004, p.
23).
Assumendo l’intelligenza come un’entità di natura multipla e complessa, sintesi di cognizione e
cultura, non solo la mente risulta essere la struttura che connette diversi sistemi cognitivi
interagenti, ma l’apprendimento è potenzialmente plurale e dal punto di vista gardneriano necessita
di una stimolazione in grado di evitare fenomeni di atrofizzazione e/o iper-specializzazione di
alcune parti della mente a discapito di altre: “soltanto l’equidistribuzione e la finalizzazione delle
differenti intelligenze garantirebbero al soggetto quella normalità corrispondente all’uso di
un’adeguata plasticità rispetto alle sollecitazioni ambientali” (Demetrio, Fabbri, Gherardi, 2002, p.
106). Gli adulti sono inclini a presentare e radicalizzare, soprattutto per esigenze professionali,
forme di specializzazione volte all’utilizzo di alcune intelligenze a discapito di altre. “Chi non ha
ricevuto e non riceve stimoli a più livelli, […] dal punto di vista qualitativo, è dotato di una mente
differente; potrà possedere molte più conoscenze di chi è stato stimolato ad usare più formae
mentis, ma le avrà specializzate a tal punto da non riuscire più a entrare in altri mondi intelligenti”
(ivi, p. 107). 92 Di qui la necessità di pensare ad una formazione al “plurale”, in grado di contenere
questo fenomeno e di “educare al comprendere” ovvero in grado di sostenere percorsi evolutivi
all’interno dei quali il sapere non ha forma trasmissiva, ma investe la persona, attivandola, nelle
sue motivazioni, emozioni, nonché pratiche e valori morali e sociali. L’idea di fondo non è solo
quella di vedere integrarsi le diverse strutture della mente tra di loro, le capacità di pensiero con la
pratica, ma definire e utilizzare al “plurale” tutti quegli strumenti che mediano l’apprendimento
umano.
Come preventivato in una delle nostre ipotesi di ricerca iniziali, definendo i contesti di lavoro come
spazi di azione e cognizione culturalmente e socialmente connotati, luoghi di incontro e confronto
di competenze e intelligenze pluralmente intese, la formazione aziendale non può prescindere dal
rivolgersi alla pluralità degli universi di simbolizzazione impersonati dai diversi formandi che
apprendono. Detto altrimenti, se la formazione è un’esperienza che attraversa l’individuo dal punto
di vista cognitivo, emotivo, sociale e culturale, allora non può fare a meno di valorizzare tutti gli
aspetti dell’apprendere, senza trascurare e valorizzare le diversità di carattere individuale insite
nella sua natura.
92
Per approfondimenti: H. Gardner, Sapere per comprendere, Feltrinelli, Milano, 2009 (ed. orig. 1999); H. Gardner,
Formae mentis, Feltrinelli, Milano, 2004 (ed. orig. 1983).
253
5.6. Apprendimento individuale e cambiamento organizzativo
Wenger (2006) guarda al cambiamento come un elemento dell’identità di partecipazione ad una
comunità di pratica. La pratica trasformativa di una comunità di apprendimento offre un contesto
ideale per lo sviluppo di nuove idee. La comunità di pratica, quando capace di fuoriuscire dagli
standard organizzativi, producendo nuove soluzioni ai problemi posti da una pratica che cambia,
genera innovazione (Brown, Duguid, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, Roma, 2004).
Includendo nella pratica di formazione, come precedentemente sostenuto, la pratica lavorativa che
ne rappresenta una parte integrante e contigua, il problema di fondo della concettualizzazione e
della gestione del cambiamento nei contesti di lavoro resta ancorato al passaggio tra apprendimento
individuale e cambiamento organizzativo (Quaglino, 2005).
Abbiamo già affrontato il tema del cambiamento nel primo capitolo di questo lavoro: l’obiettivo
era dare ragione del legame profondo, considerato dai più inestricabile, tra questo macro-tema e
quello della formazione. È stato inevitabile tornare a parlare di cambiamento lungo tutta
l’evoluzione argomentativa seguita, in modo particolare nel capitolo dedicato all’apprendimento.
L’apprendere, così come la formazione che ne costituisce il setting formale, sottendono, per loro
stessa natura, l’atto del cambiare, e al contempo protendono verso di esso inquadrandolo come
obiettivo finale sulla base del quale organizzare ogni possibile attività. Nel mondo del lavoro, così
come nei sistemi sociali che contraddistinguono la nostra epoca, il cambiamento è uno vero e
proprio stato di fatto, inevitabile, che occorre necessariamente imparare a conoscere e controllare.
Nel momento in cui il mondo della formazione incontra quello del lavoro, le prospettive di
cambiamento individuale e organizzativo possono coordinarsi e intraprendere traiettorie di
partecipazione volte alla crescita congiunta, di comunità, oppure possono discernersi seguendo
tempi e modalità differenti e percorrere strade opposte. Le motivazioni legate a queste circostanze
sono da ricercarsi, ad esempio, come preventiva la letteratura della formazione psicosociale, nel
mancato accordo di intenti tra gli attori coinvolti (formandi, committenza e formatore): gli obiettivi
dichiarati possono, infatti, non essere stati condivisi equamente e possono sottende un “non detto”
che riduce la portata trasformativa del percorso formativo. Oppure, può accadere che le attività
programmate non siano adeguate alla specifica situazione organizzativa e alle caratteristiche dei
formandi: nel caso del P.A.S. seguito in Lube, abbiamo visto come la carenza di aspetti pratici
concreti, ad esempio casi studio reali o progetti inerenti attività d’interesse comune, abbiamo
sminuito il valore del percorso di formazione svolto.
Ripercorrendo i nessi logici della teoria elaborata da Quaglino (2005), per la cui circolarità
rimandiamo alla figura 2, posto il cambiamento individuale come fine unanimemente riconosciuto,
la formazione può, entro determinate condizioni, condurre ad un cambiamento anche di tipo
254
organizzativo: per arrivare a questo tipo di risultato, se è infatti vero che gli individui debbono
essere disposti a cambiare, le organizzazioni a loro volta devono essere disposte ad apprendere.
Dunque, la formazione come “processo”, “orientamento strategico”, “tecnologia” ed “espressione
dei valori” rappresentano le condizioni vincolanti ogni attività formativa al pieno raggiungimento
delle finalità individuate dal legame tra apprendimento individuale e cambiamento organizzativo.
Traslando la teoria all’interno della situazione osservata, la formazione P.A.S. in Lube ha
rappresentato un evento formativo sporadico e al tempo stesso significativo dal punto di vista
dell’apprendimento individuale. Gli apprendimenti conseguiti sono stati trasferiti nell’attività
lavorativa producendo degli esiti, a livello di cambiamento, riconducibili alla singola persona e al
gruppo di formazione. Il cambiamento non ha avuto modo di varcare i confini di gruppo in quanto,
pur essendo stato percepito dai vari contesti di riferimento, non ha raggiunto livelli di condivisione
e partecipazione tali da entrare nella pratica di comunità, ovvero nell’identità culturale
organizzativa. Pertanto, nonostante la positività dell’esperienza formativa, confermata in tutte le
interviste realizzate, pur essendo stato auspicato da parte dei formandi l’inizio di un cambiamento
di tipo organizzativo, così come conferma l’iniziativa di gruppo legata alla procedura di
comunicazione interna, la formazione realizzata ha prodotto risultati rintracciabili unicamente nella
sfera d’azione del singolo individuo formato. Si è quindi avuto un cambiamento del bagaglio
conoscitivo dei lavoratori coinvolti, un cambiamento di prospettive del soggetto conoscente, non
più solo rivolto all’esterno da sé ma anche al suo interno, un cambiamento del metodo di lavoro e
dell’approccio al pensiero e alla comunicazione, un cambiamento come educabilità cognitiva e
meta-cognizione, come “imparare a pensare” e “apprendere ad apprendere”.
L’apprendere ad apprendere (il “deutero-apprendimento” o “livello due” di cui parla Bateson
(2005), a cui abbiamo fatto riferimento sia in relazione all’apprendimento metacognitivo che
all’apprendimento organizzativo, costituisce il cuore del metodo Feuerstein e l’obiettivo di
qualsiasi percorso di formazione “adulto”, ai fini di una presa di coscienza e di una autonomia
attraverso cui costruire l’identità professionale del singolo individuo. Se nell’imparare ad imparare
e nell’imparare a pensare possiamo individuare il traguardo verso cui muove il P.A.S. e, nei limiti
sopra individuati, l’esito del training monitorato, sicuramente è innegabile che, al di là del
coinvolgimento del singolo individuo ma anche grazie ad esso, un livello superiore di
apprendimento sarebbe stato possibile e insieme ad esso un cambiamento di sistema. In tal senso, la
nostra ipotesi iniziale di cambiamento organizzativo a partire dalla modificabilità dei singoli
formandi è stata disattesa.
L’entità dei risultati individuali conseguiti merita un’ulteriore riflessione: come abbiamo visto, non
solo essi sono riferibili ad un certo numero di situazioni, ma al tempo stesso tendono a modificarsi
255
nel tempo. Il P.A.S. ha favorito l’apprendimento individuale ma non è stato in grado di promuovere
la ritenzione dei contenuti promossi a medio-lungo termine. Come dimostrano i questionari di
gradimento somministrati dal formatore nel periodo immediatamente successivo alla fine del corso,
la percezione della trasferibilità e dell’avvenuto cambiamento suggeriti dai formandi è forte e
inequivocabile. A distanza di sei mesi, nel momento delle interviste, la stessa percezione appare
meno decisa, sicuramente minata da alcuni dubbi di fattibilità, e le situazioni di transfert risultano
circoscritte nonostante la trasversalità degli strumenti consegnati. Sulla base di ciò, risultano
evidenti dei limiti sia dal punto di vista del cambiamento individuale che organizzativo. Come
sostenuto dall’analisi condotta fin qui, confermando le “condizioni” di cui parla Quaglino (2005),
le motivazioni sono annoverabili attorno ad alcune macro-aree:
-
la cultura della formazione
-
gli obiettivi
-
la progettazione delle attività
Le conferme di questa nostra impostazione, sono rintracciabili nelle testimonianze dei nostri
intervistati e, in particolare, nelle affermazioni che hanno ad oggetto la procedura di comunicazione
interna e le possibilità di trasferirla dalla “carta” (le schede del P.A.S.) al contesto organizzativo.
Alla procedura di comunicazione possiamo quasi attribuire un valore “simbolico”, in quanto
rappresenta la risposta del gruppo di formazione alle sollecitazioni offerte dal formatore, la
situazione definita come problematica e fonte di difficoltà riconosciute da parte di tutti i formandi,
il frutto della libera iniziativa del gruppo di formazione trasformatosi per l’occasione in gruppo di
discussione, il tentativo di risolvere un problema di entità organizzativa ovvero il cambiamento
organizzativo auspicato mediante un percorso di apprendimento rivolto all’intera comunità
lavorativa.
Relativamente al primo punto, la cultura della formazione, torniamo a dire che l’assenza di una
politica della formazione, di una pianificazione condivisa delle attività, di una responsabilizzazione
di tutti i soggetti coinvolti ovvero di una equità di fondo compromette, in linea generale, la validità
dei progetti formativi posti in essere. In tal senso, le testimonianze degli intervistati si concentrano
sul tema della formazione comportamentale/relazionale come evento isolato, come “episodio”
dichiara il Partecipante_6, sulla mancanza di appoggio e comprensione da parte del contesto
relazionale esterno al gruppo dei partecipanti e infine sulla scarsa numerosità dei formandi e sulla
loro impreparazione al confronto con il mondo organizzativo, rimasto intatto nelle sue peculiarità.
Partecipante_6: “Beh, la formazione non è un episodio. Questo è chiaro. Per noi è stato un felice
episodio. Se si elaborasse, se ci fosse una filosofia di formazione, è chiaro che il cambiamento non
256
sarebbe neppure… non arriverebbe neppure tardi. Proprio sono convinto di questo. Però,
ovviamente, se tu lo vivi come un episodio, è come se vai a fare una vacanza”.
Tutti gli intervistati hanno identificato in questa serie di determinanti la causa del mancato
cambiamento organizzativo. È interessante come, parlando di cambiamento, pur non essendoci
stata una menzione specifica a quello di tipo organizzativo da parte dell’intervistatore, i lavoratori
abbiano risposto facendo riferimento ad un cambiamento generale, di sistema, quasi a sottendere
che il cambiamento individuale, se vogliamo in termini di modificabilità cognitiva, rappresenta un
traguardo raggiunto, intimamente riconosciuto e come tale rimasto al singolo, al suo discernimento
e alla sua consapevolezza. L’iniziativa del P.A.S. viene infatti percepita come “una goccia nel
mare”, il “primo step” di un percorso lungo e articolato verso il cambiamento organizzativo, un
percorso questo che attualmente sembra restare incompiuto:
Partecipante_1: “Se la formazione è rimasta e rimane ad un primo step come adesso la vedo
difficile che gli sforzi per quanto concentrati di un gruppo di 7/8 persone possano cambiare in
qualche modo un metodo di lavoro radicato negli anni. Sicuramente è una goccia nel mare.. per
cui se la formazione riguarderà più persone sicuramente io sono convinto che possa migliorare ed
essere utile. Se invece rimane confinata alla formazione di un gruppo di persone è sicuramente
molto più difficile”.
Ipotizzando un progetto di formazione volto a coinvolgere tutte le aree aziendali e a far leva su un
numero maggiore di formandi e su figure-chiave dal punto di vista decisionale e strategico, sarebbe
possibile anche prevedere delle attività di aggiornamento delle nuove competenze apprese, quindi
volte ad aumentare le capacità di ritenzione e di transfert del singolo e a contenere la dispersione
nel medio-lungo periodo di cui si parlava in precedenza.
Partecipante_1: “[…] per quanto mi è possibile cercherò di giustificarlo e di farlo eseguire anche
ad un altro gruppo di persone strategiche per l’azienda perché credo che se il corso viene
ampliato e allargato ad altre persone di una certa responsabilità… e poi di conseguenza anche a
tutte le persone che sono intorno ad esse… sarà sicuramente un vantaggio personale dei singoli
ma anche di tutta l’azienda”.[…] Perché lavorare con persone che hanno avuto una formazione
simile, oltre che semplificare il lavoro di ognuno, in sinergia, si avrebbe modo di amplificare a
macchia d’olio una procedura di lavoro diversa e ottimale.. per cui più sono le persone, anche
persone strategiche e responsabili per l’azienda, che seguono questo corso, maggiori saranno
sicuramente i risultati”.
La quotidianità lavorativa, come afferma il Partecipante_1, è densa di tensioni e di sollecitazioni
provenienti dall’esterno dell’azienda, continue richieste di adattamento e trasformazione. Per
contenere e gestire tutti questi fattori di carattere dispersivo occorrerebbe consolidare un metodo di
lavoro comune al maggior numero possibile di lavoratori, partendo a cascata dalle figure di
responsabilità, secondo una logica d’azione condivisa e coesa.
Partecipante_1: “Il cambiamento ad oggi si è fermato al fatto che poche persone hanno seguito il
corso e poi alla quotidianità del lavoro che non sempre permette l’applicazione di quanto
257
suggerito dal metodo Feuerstein. Però, come ripeto, se sono tante le persone che cercando di
applicarlo, poi la quotidianità può cambiare. Ad oggi il cambiamento si è fermato perché ad oggi
sono poche le persone che conoscono questo metodo e vince purtroppo quasi sempre, non sempre,
ma quasi sempre, il lavoro quotidiano che è fatto di tantissime variabili, tantissime persone esterne
e collaboratori che lavorano hanno radicato un metodo di lavoro da tantissimi anni”.
Un esito simile è quello individuato dal Partecipante_3 che definisce l’accordo inizialmente dato
alla formazione come una sorta di “innamoramento” che tende a svanire nel tempo. Nonostante,
dice, sia possibile parlare di un cambiamento, forse più personale che lavorativo, da parte dei
partecipanti al corso P.A.S., il sistema di lavoro attuale continua ad essere vissuto come
problematico e carico di stimoli negativi (dal punto di vista della frenesia, del clima, delle difficoltà
di comunicazione) quindi controproducente ai fini del trasferimento dei principi appresi.
Partecipante_3: “[…] penso che si siano innamorati inizialmente della cosa poi secondo me non
interessa più... forse anche per un marketing di chi c'è stato e magari non è stato positivo... vedo
che è stata un po’ sminuita alla lunga questa cosa... vista come una stupidaggine, una perdita di
tempo… […] io penso che qualche traccia sia restata e che resterà... soprattutto quelle cose che
riguardano il fattore del lavoro e dell'ansia... quei colleghi insomma che erano in balia delle onde
emotive hanno visto che c'era un giovamento in questa cosa e spesso lo portano avanti... però è
una cosa più personale che lavorativa... per il resto penso che alla lunga questa macchina che si
chiama Lube ti... non riesci… non penso... a meno che non sei così anche fuori da qui e allora fai
di questo approccio il tuo stile di vita... altrimenti penso che qui alla lunga devi alzare bandiera
bianca... perché ti ho detto, ci sono troppi stimoli negativi che ti vengono da troppe parti...”.
La possibilità di pervenire ad un cambiamento organizzativo per mezzo di un intervento di
formazione è funzione della cultura della formazione stessa e degli obiettivi, dichiarati e sottesi,
entrambi solitamente individuati in sede di analisi della domanda. È nostra intenzione ribadire la
strategicità di questa specifica tappa del processo di formazione, come solitamente accade nella
formazione di indirizzo psicosociale, in quanto è svelando gli obiettivi sottesi e ricercando la
condivisione e la compartecipazione di formatore, committenza e formandi, che è possibile
strutturare un intervento formativo sulle reali esigenze dell’azienda ospitante, destinandolo ad un
seguito di successo o di contrarietà/dispersione.
Nel caso specifico della formazione seguita, si è verificata una carenza di chiarezza e una
divergenza di obiettivi, in particolare di quelli riconducibili ai formandi, da un lato, e di
committenza-formatore, dall’altro. L’evento della procedura di comunicazione ci offre una
conferma in tal senso. Mentre formatore e committenza hanno concordato degli obiettivi
riconducibili alla sfera del singolo individuo e, in particolare, legati al miglioramento delle sue
prestazioni lavorative, i formandi, durante il periodo di formazione, a stretto contatto con i principi
del P.A.S., in risposta alle sollecitazioni ricevute, hanno manifestato con esplicita richiesta
l’esigenza di varcare i confini del gruppo e pensare ad un cambiamento che riguardasse, non solo la
singola persona, la sua modificabilità, ma l’intero sistema di lavoro. Hanno, cioè, elaborato in corso
258
di training la necessità di affrontare e risolvere la problematica della comunicazione interna
all’azienda, individuando nei principi del P.A.S. gli strumenti utili ad apportare un cambiamento
dei flussi di comunicazione organizzativi. Essendo mancata la fase di ascolto e di partecipazione
dei formandi nel periodo pre-training, non è stato possibile rendere conto di questa loro esigenza e
di orientare la formazione anche attraverso di essa.
La risposta del formatore è stata quella di accogliere l’istanza dei formandi, rilegandola però ad
un’attività da gestire fuori dall’aula, nella dimensione privata, e alla fine del corso. La procedura di
comunicazione interna ha infatti trovato conclusione solo grazie all’iniziativa di alcuni dei
partecipanti che, nelle settimane seguenti al training, hanno deciso di riunirsi autonomamente per
confrontarsi e fissare i punti di una procedura generale. Nel quadro della nostra analisi, la
procedura di comunicazione interna rappresenta l’azione concreta di messa in pratica di cui
abbiamo parlato nel precedente paragrafo: non si tratta solamente di una richiesta di trasposizione
dei principi appresi, ma di vera e propria integrazione della pratica lavorativa entro la pratica di
formazione, un progetto condiviso e partecipato da tutti i formandi. Lo spazio dedicato dal
formatore è stato troppo esiguo rispetto alle aspettative dei partecipanti, i quali, convinti
dell’episodicità dell’esperienza formativa del P.A.S. e dello squilibrio tra gli obiettivi organizzativi
e formativi hanno deciso di interrompere il lavoro intrapreso, lasciando la procedura di
comunicazione, ormai scritta e formalizzata, incompiuta nella fase della trasposizione pratica e del
confronto con il resto dell’azienda. La causa dell’incompiutezza viene fatta riferire alla mancanza
di condivisione degli intenti e degli obiettivi, in modo particolare, alla mancanza di un’azione di
supporto da parte della direzione.
Il Partecipante_9 sottolinea come sia proprio la condivisione la chiave d’accesso al cambiamento.
La condivisione tra tutti i lavoratori delle regole fondanti la procedura di comunicazione interna è
ciò che può permettere, insieme alla pratica, di superare la diffidenza di coloro che non mostrano
interesse verso questo tipo di argomenti o che non hanno ricevuto i fondamenti del metodo
Feuerstein. Inoltre, la condivisione dei principi del P.A.S. all’interno del tessuto organizzativo, al di
fuori del ristretto gruppo di formazione, coinvolgendo, secondo una strategia ben precisa, quanti
più stakeholder possibili, può sostenere e al tempo stesso validare un processo di rinnovamento
organizzativo a partire dalla pratica quotidiana messa in atto dai singoli lavoratori.
Partecipante_9: “Se uno la condivide [la procedura di comunicazione interna], poi, viene
automatico. La dobbiamo condividere tutti. Se io la condivido, tu la condividi, la condividiamo
tutti insieme, ci ritroviamo tutti insieme che abbiamo tratto giovamento e ora adoperiamo questo
sistema. Ma se io la condivido, l’altro non la condivide, siamo in pochi...”.
Intervistatore: “Come si può fare, però, per condividerla?”
259
Partecipante_9: “Eh, rifare il corso in maniera più intensiva, oppure... cioè crederci. Però, se non
lo rifai, è rimasto così, è rimasto un episodio. Io ho ricominciato la mia routine, tu hai
ricominciato la tua, ognuno ha ricominciato la propria. Invece, la quotidianità nel farlo, cioè...
Poi, se lo mettiamo subito in pratica, mentre c'è il corso, funziona. Se tu fai il corso e poi lasci
perdere, cioè... Non va bene”.
Un’argomentazione simile è quella che emerge dall’intervista del Partecipante_6, il quale
sottolinea come sia la volontà forte da parte della direzione, quindi la trasposizione della procedura
di comunicazione all’interno degli obiettivi e delle strategie aziendali, ad essere mancata e ad aver
scoraggiato il cammino di cambiamento intrapreso dal nostro gruppo di formazione. La direzione,
però, non è stata mai coinvolta ufficialmente dai formandi all’interno di questo iter, in quanto
l’interesse e l’impegno per l’argomento della comunicazione interna hanno subito una sorta di
affievolimento in corso d’opera dovuto, da un lato, alla fuoriuscita dal gruppo e al ritorno alla
routine quotidiana e alla dimensione della propria pratica lavorativa, dall’altro, al sentimento di
incapacità di sostenere un cambiamento tanto importante a fronte della cultura organizzativa
attuale. La procedura quindi resta ad oggi patrimonio del singolo formando.
Intervistatore: “Resta al singolo, quindi, la procedura?”
Partecipante_6: “Per forza, perché manca il coinvolgimento a livello organizzativo. Se questo è un
episodio… L’organizzazione è un’organizzazione grande […] Siamo non so quante persone.
Allora, come si organizza un organismo come questo? Si organizza dal basso o dall’alto? Io non
ho fatto studi su questo, ma ragiono, penso a voce alta. Se si dovesse organizzare dal basso, ci
vorrebbe comunque un coinvolgimento più grande. Tu pensi che possa partire un’organizzazione
dal basso da dieci persone, quando duecento, trecento non sono per niente a conoscenza di queste
cose? La vedo molto dura, a meno che proprio non abbiamo beccato le figure chiave, quei leader
che trascinano anche altre persone, perché se no la vedo molto dura. Funziona molto di più
l’investitura dall’alto, cioè l’alto che organizza, la figura del responsabile delle risorse umane, che
dice: «Da oggi qui si fa così»”.
La procedura di comunicazione, così come qualsiasi cambiamento che voglia dirsi organizzativo,
può varcare i confini del piccolo gruppo e coinvolgere l’itero sistema-azienda solo in presenza di
un vero riconoscimento da parte della direzione e quindi di un’azione di sostegno ufficiale che
parta dall’esplicitazione condivisa degli obiettivi di fondo, ovvero di un piano di formazione esteso
a tutta la popolazione lavorativa che si basi su un’attenta scelta delle figure chiave che potrebbero
operare come “opinion leader”, quindi trascinatori e mediatori di cambiamento.
Partecipante_6: “Allora, la procedura era stata pensata per risolvere un problema che non era
circoscritto a noi. […] Eh. E quindi il grosso potenziale di questa procedura rimarrà
assolutamente inutilizzato, perché non toccherà i punti focali. Non l’abbiamo scritta per noi. […]
Solo per noi.
Intervistatore: “Quindi l’unico modo per farla “funzionare” sarebbe un’investitura da parte della
direzione”.
Partecipante_6: “Sì, oppure – tra l’altro sono cose complementari – l’ampliamento di questa
esperienza, l’estensione di questa esperienza ad altre persone”.
Intervistatore: “Parli dell’esperienza di formazione?”
260
Partecipante_6: “E certo. Magari indirizzata… Il fatto che probabilmente non viene riconosciuta
neppure dall’alto questa come un'esigenza primaria, perché se questa fosse l’esigenza primaria, e
la direzione si accorge che noi qui dentro abbiamo un problema di comunicazione, allora fai un
corso, magari di questo tipo, che ha questa finalità specifica, che non è solo il miglioramento del
singolo […]”.
Il Partecipante_5 riconosce, invece, la necessità di un’operazione di “marketing interno”, piuttosto
che forme di prescrizione dall’alto: una strategia di promozione del cambiamento mediante azioni
di formazione mirate, rivolte a specifiche figure professionali di riferimento che, come gli esperti
delle comunità di pratica di Lave e Wenger (2006), trasmettano il senso di una nuova cultura e di
un nuovo agire. Torna il riferimento alla necessità di lavorare sulle dinamiche di gruppo, sulle
figure dei leader che, in quanto tali, hanno gli strumenti necessari ad operare una sensibilizzazione
dei lavoratori attraverso la pratica quotidiana.
Partecipante_5: “[…] L'imposizione non funzione mai. Ci vorrebbe più marketing interno. In
modo furbo, veicolare qualcosa... soprattutto ecco... i famosi leader no? Nel gruppo servono a
quelli... quelli che poi in realtà ti fanno un passaparola positivo senza neanche saperlo che stanno
lavorando per te perché realmente fanno passa parola su quanto di buono c'è stato, c'è nel
metodo... […] Però ecco forse la formazione fatta in questo modo dovrebbe essere più strategica,
più furba, non lo so come definirla più... se fosse messo nero su bianco "domani farete il corso da
quest'ora a quest'ora" ho paura che non funziona... no qui... non funziona in genere… […] Fare
una promozione, lavorare su... iniezioni di micro-formazione molto mirata, verso soggetti specifici,
verso soprattutto quello che possono essere i leader del mio progetto...”.
Il cambiamento quindi come fenomeno annesso alle dinamiche di cultura e strategia organizzativa,
prodotto della condivisione, del coinvolgimento delle figure direzionali, della sensibilizzazione dei
lavoratori e, ricollegandoci al tema della progettazione delle attività formative, della pratica.
Abbiamo già fatto riferimento al valore della pratica e della necessità di rendere l’esperienza di
lavoro parte integrante di qualsiasi percorso di formazione in azienda. L’immissione dall’alto di
teoria o di modelli d’azione avulsi dalla storia, dalla cultura e dalla pratica della comunità a cui si
rivolgono possono causare delle reazioni negative, comportare delle limitazioni nel transfert delle
competenze apprese a discapito della formazione e degli obiettivi individuati. In tal senso, l’esito di
un percorso di cambiamento organizzativo non risiede tanto nel set di regole date, come potrebbero
essere i principi del metodo Feuerstein, quanto piuttosto nell’uso che ne fanno i soggetti destinatari.
Adottare una procedura di comunicazione come quella ideata dai formandi significa mettere le
comunità di pratiche nella condizione di fare un’esperienza di “apprendistato” degli elementi di
novità in essa contenuti. Il che comporta la necessità di aprire alla “partecipazione periferica
legittima” (Lave, Wenger, 2006), di tutti i lavoratori coinvolti, ovvero guidare e supportare questo
tipo di vissuto. Nel caso della procedura di comunicazione presa in considerazione, è venuto a
mancare questo tipo di coordinamento e l’intuizione, da parte dell’organizzazione,
dell’innovazione insita nell’agire non canonico del gruppo di formazione. Questo ci induce a
261
ribadire la necessità di non separare l’apprendimento dalla pratica, in quanto “la questione centrale
dell’apprendimento è diventare un praticante e non imparare cose «sulle» pratiche” (Brown,
Duguid, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 2004, p. 341).
La dinamica legata alla gestione della procedura di comunicazione ci dimostra come la riflessione
legata alla pratica non sia solo di tipo concettuale ma metodologico. L’impatto con la pratica in situ
delle competenze apprese non solo infonde sicurezza, agendo sulla motivazione e la self-efficacy,
in fase di formazione e transfert, ma entra in maniera preponderante nel processo di costruzione
della conoscenza e dell’identità del singolo e della comunità a cui partecipa. Il fatto che un’idea
tragga significato dal modo in cui viene utilizzata, ci induce a pensare che in sede di formazione
sia necessario prevedere dei dispositivi in grado di creare questo tipo di consapevolezza ed
insieme delle opportunità di trasferimento, di riflessione, di ricostruzione dei “copioni” in uso a
partire da ciò che è già conosciuto e praticato. “Chi deve apprendere nuovi copioni ha bisogno di
condizioni che consentano una assunzione progressiva di responsabilità dentro un sistema di
attività formative che chiama in causa processi di partecipazione ad un sapere in azione a cui si è
progressivamente introdotti. La formazione assume la forma di scaffolding in grado di evocare
pratiche di apprendimento che consentano di acquisire nuove competenze iniziando dalla periferia
delle attività e muovendosi progressivamente verso una piena partecipazione all’attività stessa”
(Fabbri, 2007, p. 169).
È nostra opinione che il formatore debba fornire delle “impalcature” in grado di accompagnare i
professionisti nella transizione tra il set di formazione e l’ambiente di lavoro, guidando
l’applicazione pratica delle competenze apprese. Ciò facendo leva su esempi, semplificazioni,
sperimentazioni, narrazioni, progetti condivisi, scontri e quant’altro necessario a rendere il contesto
di formazione non un luogo di astrazione, quindi percepito come possibile perdita di tempo, ma di
co-costruzione e pratica condivisa. Nel caso della formazione Feuerstein seguita, le esercitazioni
previste non sono risultate sufficienti a risolvere i dubbi dei partecipanti circa la trasferibilità dei
contenuti veicolati. In tal senso, sarebbe stato utile integrare, in sede di progettazione, gli strumenti
del P.A.S. con attività mirate a confrontare i modelli proposti con quelli organizzativi in vigore,
quindi a bilanciare gli aspetti della teoria con quelli della pratica lavorativa. Potrebbero essere un
esempio di tali attività l’analisi di casi-studio proposti dai partecipanti, la ricostruzione di
specifiche situazioni lavorative mediante documenti o dispositivi abitualmente usati nei vari
contesti di lavoro, la realizzazione di progetti personali o di gruppo volti alla risoluzione di quelle
problematiche che in corso di formazione o in sede di analisi della domanda sono emerse come
impellenti e necessitanti (cfr. gli strumenti della formazione psicosociologica, secondo capitolo).
262
L’esigenza di regolamentare la comunicazione interna poteva essere gestita come un’opportunità
progettuale rispondente alle caratteristiche sopra dette. L’aver seguito l’evoluzione concettuale e
teorica della procedura di comunicazione e non aver operato alla sua attuazione, alla negoziazione
e all’orchestrazione di un agire collettivo durante l’iter di formazione ha infierito negativamente sul
progetto stesso, favorendone il processo di reificazione rispetto a quello di partecipazione e
delineandone la mancanza di solidità. “Lo strumento può fossilizzare l’attività intorno alla sua
inerzia” sostiene Wenger (2006, p. 75). Se, infatti, non esiste un’iniziativa formativa in grado di
aiutare i lavoratori a interagire con i nuovi paradigmi, “vengono a mancare le condizioni per cocostruire e condividere un progetto di cambiamento professionale e di sviluppo organizzativo. Ciò
che ci si può attendere sono semmai soluzioni individuali a problemi comuni” (Fabbri, p. 173). Ma
questo è ben lontano dall’obiettivo dei nostri partecipanti e dal concetto di cambiamento
organizzativo.
Di qui l’importanza sia, in linea teorica, dell’azione di formazione ai fini del cambiamento del
singolo, della comunità di cui è parte e dell’intera organizzazione, sia, dal punto di vista operativo,
della progettazione di attività funzionali a consegnare ai formandi degli strumenti a partire dai quali
farsi essi stessi “mediatori” dei propri apprendimenti all’interno dei contesti della quotidianità.
Coloro che si affacciano ad un’esperienza di formazione possono essere riconosciuti come portatori
di conoscenze e pratiche proprie delle comunità a cui partecipano. Il gruppo di formazione che
nasce dall’incontro delle diverse expertises può rappresentare l’occasione per creare una comunità
tra persone che altrimenti non avrebbero modo di incontrarsi. “Questa comunità allargata, le
relazioni che si creano e il relativo scambio di esperienze potrebbero benissimo rivelarsi più
significative del contenuto di qualunque programma formativo. Il valore di un contesto di
apprendimento istituzionalizzato risiede spesso nel suo potenziale di costruzione di una comunità,
non meno che nelle intenzioni pedagogiche del programma di insegnamento. Il punto non è che la
formazione d’aula vada evitata o che un’unità di formazione sia inutile, ma che entrambe devono
integrare, e non sostituire, il potenziale di apprendimento insito nella pratica. C’è una grossa
differenza tra organizzare la formazione d’aula che dovrebbe costituire la totalità dell’evento
didattico e vedere il tempo trascorso in aula come una risorsa per la pratica di comunità che hanno
la responsabilità del proprio apprendimento. […] Diversamente dalla focalizzazione sulla
formazione d’aula, il concetto di architettura di apprendimento trasforma i problemi di
trasmissione del sapere in problemi di progettazione organizzativa. Eleva l’apprendimento da
funzione secondaria a principio organizzatore fondamentale. Lo scopo, dunque, non è
principalmente quello di progettare e tenere corsi, ma quello di sviluppare il potenziale di
apprendimento di un’organizzazione” (corsivo nostro) (Wenger, 2006, p. 278).
263
Il tema della progettazione ha una portata più ampia di quella a cui abbiamo fatto riferimento in
precedenza: non si limita al solo set di formazione e alle attività programmate, riguarda piuttosto
l’organizzazione e la possibilità di sviluppare percorsi di apprendimento organizzativo. Infatti, oltre
a preventivare le possibili ricadute di un intervento di formazione dal punto di vista della persona
che apprende, progettare implica prevedere strumenti utili a sostenere i formandi nella gestione
degli elementi di novità emergenti dal training all’interno delle rispettive comunità di pratica e,
sulla base di ciò, formulare ipotesi e obiettivi circa le possibilità evolutive della stessa
organizzazione. Fermo restando che l’apprendimento nelle organizzazioni dipende dalle
opportunità di negoziazione di significato, attingendo dalla metafora vygotskiana dello sviluppo,
possiamo considerare il cambiamento come “una zona di sviluppo prossimale dell’attività
collettiva” (Clot, Scheller, in Zucchermaglio, Alby, 2006), un confine culturale modificabile,
un’area negoziale che tutti gli attori organizzativi coinvolti contribuiscono attivamente a cocostruire.
Engestrom supera la dicotomia tra apprendimento organizzativo e trasformazione organizzativa
proponendo, in linea con i principi della teoria dell’attività storico-culturale, il concetto di
“apprendimento espansivo” (Engestrom, in Zucchermaglio, Alby, 2006). Facciamo riferimento a
questa impostazione teorica perché riteniamo possa fornire degli spunti utili a motivare il mancato
cambiamento organizzativo tra gli esiti del percorso di formazione seguito. Assumendo
l’apprendimento di terzo livello proposto da Bateson (2005) come apprendimento espansivo,
l’autore considera lo sviluppo come una riorganizzazione locale di tipo qualitativo, una “rimediazione” in senso vygotskiano del sistema di attività a fronte di episodi di contraddizione o
crisi. La direzione dello sviluppo è quella della negoziazione e del riconoscimento e valorizzazione
dei possibili scontri locali. Si tratta di “apprendere a cambiare il contesto delle azioni” e avviare
“un processo storico complesso nel corso del quale la forma di una pratica sociale e istituzionale
viene trasformata” (ivi, p. 231). Il cambiamento, sia che sia individuale o organizzativo, è pertanto
l’esito di una trasformazione di prospettiva e di significato e coincide con l’accesso al terzo livello
di apprendimento batesoniano, che si contraddistingue rispetto agli altri livelli per la capacità di reinterpretare le precedenti esperienze di apprendimento e approdare così ad una nuova e stabile
visione del mondo.
Ciò che ci sembra più interessante rilevare è che qualsiasi apprendimento di tipo espansivo ha
origine, come nel caso del tema della comunicazione interna in Lube, dall’analisi di un certo
numero di problemi e criticità, una sorta di contraddizione evolutiva, centrale per un certo sistema
di attività. Gli attori organizzativi analizzano le possibili trasformazioni delle problematicità
individuate e, mediante l’interazione e la discussione collettiva, arrivano a un prototipo di
264
soluzione che viene gradualmente arricchita fino ad essere generalizzata e stabilizzata entro una
pratica che ha lo scopo di trasformare l’intero sistema di attività. L’apprendimento espansivo, così
come emerge dal lavoro di Engestrom (2006), prevede un ciclo di azioni peculiari che si
determinano grazie all’unione di pratiche di apprendimento e di lavoro. Nonostante possa esser
avviato anche da una sola persona, per evolvere necessita della compartecipazione di un gruppo di
persone e di essere infine esteso a tutta la collettività ovvero consolidato entro una nuova pratica
comune. La mancanza di condivisione o lo stanziamento del ciclo di apprendimento collettivo in
una delle fasi intermedie, come accaduto ai nostri partecipanti, compromette, interrompendolo,
l’iter evolutivo iniziato.
Le trasformazioni evolutive implicano movimenti verticali verso performance migliori e
competenze maggiori, come nel caso della formazione: secondo le assunzioni di Engestrom sono
però possibili trasformazioni anche in senso orizzontale, movimenti tra contesti o nuove
combinazioni di contesti. La trasformazione di un sistema di attività non è mai un processo isolato:
comporta la ridefinizione dei confini del sistema stesso e una ri-negoziazione delle relazioni con
l’esterno. In tal senso, le “zone di scambio” con l’esterno costituiscono dei luoghi di sviluppo e
innovazione capaci di sostenere l’apprendimento espansivo. L’autore prende in considerazione
anche una visione alternativa del concetto di sviluppo, di carattere negativo: sviluppo come rifiuto
parzialmente distruttivo del vecchio anziché risultato positivo di un apprendimento. Da qui le
possibili turbolenze e fratture, le negazioni implicate nei processi di apprendimento. Abbiamo già
fatto riferimento a resistenze simili parlando del comportamento dei lavoratori verso la formazione,
intesa come processo di cambiamento e revisione delle abitudini di lavoro consolidate.
Torniamo ora al modello circolare di Quaglino (figura 2) da cui siamo partiti. Le riflessioni
condotte sugli esiti della nostra esperienza di ricerca in azienda, a metà tra le teorie di riferimento e
la pratica dei vissuti formativi, ci hanno permesso di comprovare che seppur il cambiamento del
singolo sia un momento determinante ai fini del cambiamento organizzativo, da solo non è
sufficiente a sorreggere un complesso processo trasformativo la cui essenza è data dalla reale
disponibilità ad apprendere da parte dell’organizzazione. Se per l’individuo cambiare in caso di
apprendimento è pressoché fisiologico, per un sistema d’attività è determinante presentare un agire
aperto e consapevole, sia in termini progettuali, sia in termini culturali e sociali. La formazione
P.A.S. ci ha infatti dimostrato che dal punto di vista dell’organizzazione processuale dell’iter
formativo, in modo particolare in fase di analisi della domanda e di pianificazione, qualora manchi
la disponibilità del formatore a ricercare, ascoltare, condividere, possono verificarsi carenze nella
scelta delle attività da compiere, delle metodologie, delle problematiche da monitorare, degli
obiettivi da raggiungere. La chiarezza negli obiettivi a tal riguardo risulta essere funzionale a
265
implementare la motivazione e la volontà della persona che apprende. Individuare traiettorie di
apprendimento seguendo una prospettiva storico-culturale situata nella pratica di comunità è
innanzitutto un atto di accoglienza volto a suscitare e sostenere la volontà dell’Altro, soggetto
conoscente, che, quando escluso dalla partecipazione alla co-costruzione del suo percorso di
formazione, risulta sminuito delle sue potenzialità apprenditive.
Dal punto di vista culturale e sociale, la consapevolezza di cui parliamo passa attraverso la
progettazione, il giusto bilanciamento di strumenti pratici e teorici, per sfociare nella presa di
coscienza da parte del formando della propria autorevolezza. È nostra opinione assumere come
premessa di qualsiasi esperienza di formazione aziendale che il lavoratore è parte di un sistema di
produzione da cui è modificato e che contribuisce attivamente a modificare. Il tempo della
formazione è un momento utile per fermarsi a riflettere sull’importanza di questo scambio
circolare, attivando il sentimento di responsabilità insito nel ruolo di chi, lavorando, contribuisce a
costruire e modificare, oltre che se stesso, il senso comune e l’identità della propria comunità.
Scoprirsi attore sociale e culturale ha un risvolto significativo ed insieme propositivo ai fini
dell’apprendimento, della formazione e della competenza professionale. Il formatore può pertanto
contribuire ad affinare una sensibilità meta-comunicativa e meta-cognitiva a partire dalla quale
formarsi, così come cambiare, divengono manifestazioni di volontà dichiarative e non esperienze
impersonali o di carattere colmativo.
Possiamo rintracciare in quest’ultima affermazione una delle tematiche centrali del nostro lavoro,
ricorrente sin dall’inizio della nostra analisi teorica, vale a dire l’esigenza di ri-pensare la
formazione nei termini della valorizzazione del Sé che apprende. Come si è potuto evincere lungo
tutto questo percorso di ricerca, contestualizzando la pratica formativa all’interno di ambienti
organizzativi, il soggetto che lavora e si forma ricopre una funzione attiva e creatrice (“agency”)
che lo eleva dallo status di “ricevente” e dallo scambio lineare di contenuti ad “agente” di
cambiamento. La significatività delle situazioni della quotidianità emerge con forza mediante
supporti narrativi e discorsivi, sottolineando, “la responsabilità e l’azione degli attori organizzativi
come attivi creatori di scenari e cambiamenti culturali” (Zucchermaglio, Alby, 2006, p. 16).
Considerazioni finali e possibili prospettive
Giunti alla fine di questo nostro percorso di studio e ricerca, è necessario e inevitabile soffermarci a
riflettere sulle possibili prospettive della formazione alla luce delle linee teoriche fin qui esaminate
e dei nodi tematici emersi dall’esperienza diretta della ricerca condotta in azienda. La realtà
emergente dai vissuti formativi e lavorativi dei partecipanti coinvolti è risultata essere intrisa di
266
significati peculiari, identificativi di una serie di canali evolutivi a partire dai quali approfondire e
convalidare ulteriormente le nostre teorie di riferimento, dando voce, coerentemente con un
approccio di tipo psico-culturale e conversazionale, alle storie di coloro che vivono e trasformano
la quotidianità organizzativa. Ogni storia, seppur frutto di un processo “creativo” singolare,
scaturisce dalla pratica di comunità e nella pratica subisce un modellamento condiviso, di entità
sociale e culturale. Chi racconta l’organizzazione, lo abbiamo potuto constare nelle parole dei
nostri intervistati, attinge da un sapere comune che riceve e al tempo stesso co-costruisce, secondo
una logica interazionale che ci impedisce di trattare qualsiasi questione organizzativa o inerente
l’apprendimento professionale, fuori da una prospettiva psico-sociale e storico-culturale.
Alla luce dei nuclei significazionali dedotti dalla nostra ricerca, ricollegandoci alle problematiche
della formazione odierna evidenziate nella prima parte di questo nostro lavoro, ci sembra utile
focalizzare la nostra attenzione attorno ad una prospettiva di analisi che guarda alla pratica
formativa non tanto come ipotesi di “business” (per chi la fa e per chi la richiede), ma come reale
opportunità di crescita, di un singolo individuo, di un gruppo o di un sistema di attività, sancita da
una regolamentazione di legge, quindi riconoscibile all’interno di una panoramica di sapere
esplicita e dichiarata, e condivisa da quanti, studiosi e non riconoscono nel nostro complesso
sistema sociale, la così detta società della conoscenza. Seppur condivisibile, come sottolineato da
Quaglino (2005), l’esigenza di svincolare la formazione dalle logiche dell’organizzazione,
recuperando il senso del fare formazione in una prospettiva eminentemente individuale,
occupandoci di apprendimento adulto in un’ottica contestuale e situata, è stato inevitabile entrare in
contatto con uno specifico mondo, quello organizzativo, ove è tanto diffusa la parola “formazione”,
soprattutto in relazione al concetto di “lifelong learning”, ma che all’atto pratico presenta carenze e
contraddizioni lontane dagli obiettivi dichiarati dalle politiche nazionali ed europee.
Le politiche nazionali ed europee, infatti, hanno mostrato e continuano a mostrare grande
attenzione all’idea del “welfare della conoscenza”. Lo sviluppo di un sistema di formazione
continua rappresenta un obiettivo perseguito da tutti i paesi dell’Unione Europea, coerentemente
con il documento programmatico sancito a Lisbona per il decennio 2000-2010 e rinnovato, visto il
mancato raggiungimento degli obiettivi concordati da larga parte dei paesi membri, per quello
2010-2020. 93 L’attuale crisi economica, dilagante negli ultimi anni in Europa e nel mondo, non ha
fatto altro che enfatizzare il rallentamento dei progressi compiuti in materia di educazione e
formazione, lasciando emergere le molteplici contraddizioni e lacune che imperversano nel settore
93
Per
maggiori
dettagli
si
veda
il
portale
UE
su
Education
and
Training
2010:
http://ec.europa.eu/education/policies/2010/et_2010_en.html (consultato a Ottobre 2012);
http://europa.eu/legislation_summaries/education_training_youth/lifelong_learning/index_it.htm (consultato a ottobre
2012); B. Castagna, Educazione e Formazione in Europa 2020, Enaip Formazione & Lavoro, n. 3, 2010.
267
dell’istruzione e mondo del lavoro odierni. Conoscenza, competenza, sostenibilità sociale e
ambientali sono i capi saldi delle politiche comunitarie, che, vista l’urgenza e la rilevanza,
rilanciano le sfide di Lisbona nella Strategia Europa 2020. 94 La sintesi del programma Europa 2020
è fatta di tre priorità che si rafforzano a vicenda e che mirano ad una crescita “intelligente”
(un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione), “sostenibile” (un’economia efficiente
sotto il profilo delle risorse, attenta ai protocolli ambientali e più competitiva) e “inclusiva”
(un’economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale).
Centrale resta la questione della qualificazione del capitale umano, intesa non solo come elemento
essenziale delle strategie di gestione delle gravi difficoltà occupazionali settoriali e territoriali e
dello sviluppo, ma anche come condizione necessaria di anticipazione delle stesse crisi economiche
e sociali. Tra le competenze chiave richieste ai lavoratori europei: la comunicazione nella madre
lingua, la comunicazione nelle lingue straniere, la competenza matematica e le competenze di base
in scienza e tecnologia, la competenza digitale, l’imparare ad imparare, le competenze sociali e
civiche, lo spirito di iniziativa e imprenditorialità, la consapevolezza ed espressione culturale
(Castagna, 2010).
Non è questa la sede per entrare nel vivo delle molteplici iniziative di legge e delle politiche
nazionali e internazionali. Quello che possiamo affermare è che le fonti consultate lasciano
emergere l’idea di “diritto” all’apprendimento e alla formazione correlato alle strategie dei sistemi
educativi e di formazione professionale, ma anche ai sistemi locali delle piccole e medie imprese.
Viene altresì riconosciuto il pari livello e valore dell’apprendimento “formale”, “informale” e “non
formale” 95, facendo della formazione una leva per la crescita culturale, produttiva e civile dei
territori anche in un’ottica di salvaguardia dei circuiti di conoscenza informale e tacita in questi
presenti. In tal senso, gli investimenti legati al lifelong learning o all’apprendimento degli adulti
favoriscono il consolidamento delle condizioni utili a migliorare l’adattabilità dei territori agli
94
Per approfondimenti si veda: Conclusioni del Consiglio del 12 maggio 2009 su un quadro strategico per la
cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione (ET 2020) (2009/C 119/02). B. Castagna,
Educazione e Formazione in Europa 2020, Enaip Formazione & Lavoro, n. 3, 2010.
95
Cfr. Commissione delle Comunità Europee, Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, COM
(2001) 678 Bruxelles, 21.11.2001. Per approfondimenti si veda: Commission of the European Communities, Progress
towards the Lisbon objectives in education and training. Indicators and benchmarks 2008, Luxemburg, publication
based on document SEC 2293, 2008; European Commission, Improving competences for the 21st Century: An agenda
for European Cooperation on schools, COM, 2008, 425; European Commission, The European Research Area: New
perspectives, Commission Staff Working Document annexed to the Green Paper, SEC, 2007a, 412/2 of 4th April 2007;
European Commission, Delivering lifelong learning for knowledge, creativity and innovation, Draft 2008 joint
progress report of the Council and the Commission on the implementation of the “Education & Training 2010 work
programme”, COM, 2007b, 703 final; European Commission, Action Plan on Adult learning - It is always a good time
to learn, Communication from the Commission, COM, 2007c, 558 final.
http://europa.eu/legislation_summaries/education_training_youth/lifelong_learning/index_it.htm (consultato a ottobre
2012).
268
scenari socio-economici, e a promuovere il diritto del singolo individuo a soddisfare una domanda
di saperi e conoscenza.
L’idea di diritto si stabilizza e rafforza ulteriormente se posto in relazione al concetto del “rischio”.
Il riferimento non può che essere ai temi della sicurezza a lavoro, della salute e del benessere
organizzativo. Lavorare però non implica solo rischi “fisici”. Il Decreto Legislativo 626/94 e il più
recente Testo Unico sulla salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro
(D.Lgs 81/2008) sanciscono la necessità di intervenire su tutte le componenti della sicurezza
(impiantistiche, organizzative, umane), evidenziando l’importanza di fare prevenzione anche
rispetto a rischi di natura psicosociale. Si parla infatti di rischi da “stress lavoro-correlato”, ovvero
rischi psicosociali che riguardano il vivere organizzativo e, in particolare, l’impatto delle nuove
tecnologie, l’ampio ricorso a forme contrattuali temporanee, la mobilità di carriera, la frequenza di
ristrutturazioni, fusioni e incorporazioni tra aziende, e così via. L’attenzione riposta sulla
dimensione psicosociale del lavorare collega e integra il costrutto di sicurezza al costrutto di
“sostenibilità della vita organizzativa”. Il termine “sostenibilità” rimanda allo studio della “qualità”
del rapporto tra soggetti e vivere lavorativo proprio dell’epoca postmoderna di cui si è detto nel
primo capitolo, alla necessità di confrontarsi con una prospettiva responsabile di sviluppo
economico e sociale, in grado di venire incontro alle esigenze della generazione attuale senza
compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie necessità (United
Nations’ World Commission on Environment and Development, 1987) (Galuppo, Gorli, in
Kaneklin, Scaratti, 2010). 96
Formare ed educare hanno un ruolo trainante all’interno di quella che molti definiscono
“rivoluzione della sostenibilità” 97, sostenibilità intesa dal punto di vista ecologico e ambientale,
economico e lavorativo, etico. Entrambi rispondenti sia ad esigenze di “crescita” che di
“conservazione”, sono da considerarsi due sfide per il futuro, in quanto attraverso di esse passa
l’impegno volto a garantire, da un lato, un sistema di “equità” sociale sulla base del quale il diritto
all’apprendimento corrisponde ad una forma di tutela dei percorsi professionali del cittadino,
dall’altro, un livello di costante di conoscenza e innovazione entro un contesto territoriale e sociale,
sostenendo lo sviluppo economico e preservando nel contempo il capitale umano e naturale delle
risorse disponibili.
96
Per approfondimenti sul tema dei rischi psicosociali e dello stress lavoro-correlato: F. Fraccaroli, C. Balducci, Stress
e rischi psicosociali nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 2011.
97
A.R., The Sustainability Revolution. New Society Publishers, Gabriola Island, 2005 citato in L. Galuppo, M. Gorli,
Op. Cit., pp. 18-19.
269
La conoscenza, in quest’ottica, viene concepita come un “bene” che valorizza i tradizionali fattori
produttivi, vale a dire il lavoro, il capitale, il progresso tecnico (Alessandrini, 2008). Le peculiarità
di questo bene nell’era del digitale e dell’Information and Communication Technology (ICT)
stanno però subendo profonde trasformazioni. Le tecnologie digitali hanno infatti cambiato e
continuano a cambiare il tessuto connettivo su cui è costruita l’attuale organizzazione del sapere
sociale e individuale. L’evoluzione degli strumenti della conoscenza ha sostanzialmente modificato
il sapere di cui disponiamo, la sua organizzazione, trasmissione e costruzione, fino a rendere
necessarie “nuove forme di divisione del lavoro cognitivo” rispetto alle forme di specializzazione
proprie della società industriale. “La formazione – proprio per il fatto di emergere come bisogno
originario di ricomposizione dell’umano dalla divisione e specializzazione del lavoro cognitivo – si
afferma come l’unica possibilità ricorsiva di generazione di senso e dunque di ulteriorità per la
stessa società della conoscenza” (Margiotta, 2005). L’apprendimento, a sua volta, più che essere
concepito come specializzato, necessita di continuità, ovvero di distribuirsi lungo tutto l’arco della
vita della persona e di essere diluito nel vissuto e nel lavoro quotidiano. La formazione, di
conseguenza, non può essere relegata in contesti separati dal quotidiano: deve essere continua,
distribuita nel tempo e nello spazio, immersa nei luoghi di produzione.
L’idea di continuità si associa alla necessità di apprendere dall’esperienza diretta contribuendo a
ridefinire l’immagine della formazione della nostra epoca. Lo scenario attuale, quello a cui le stesse
normative fanno riferimento, si caratterizza per la logica dell’essere in “rete”: la rete diviene un
modello per il sapere, il lavoro, le organizzazioni. Ciò implica per la formazione la necessità di
rispondere non con la somministrazione di conoscenze a priori, decontestualizzate o semplicemente
funzionali ad uno specifico scopo, ma con delle competenze trasversali (comunicative, relazionali,
meta-cognitive) a partire dalle quali imparare ad approcciare ad un problema attingendo non solo
dalle risorse conoscitive possedute/possedibili ma anche da quelle della rete più vasta di cui si è
parte. Difatti, “lavorare in rete significa che lavoro e apprendimento non appartengono più a
momenti e luoghi differenti, ma si sovrappongono nella pratica lavorativa e di vita. Se lavorare
significa essenzialmente risolvere problemi attraverso la sperimentazione e la comunicazione, una
parte crescente del tempo di lavoro viene dedicata ai processi di apprendimento che devono
accompagnare l’azione. Per agire, occorre apprendere nel corso dell’azione, dal momento che
l’apprendimento pre-costituito non è sufficiente. Inoltre, l’apprendimento implica non tanto una
ricerca solitaria, quanto una comunicazione entro la rete per usare il sapere disponibile presso altri
operatori o per ricerca insieme” (Margiotta, 2005).
L’esperienza di formazione monitorata e sui cui è stato costruito il nostro progetto di ricerca
rappresenta una conferma rispetto a questo stato di cose: il clima organizzativo generale ha lasciato
270
trapelare una sensibilità volta a ridiscutere il rapporto tra formazione come momento teorico e
formazione come momento pratico-operativo, tra formazione percepita come crescita e
cambiamento e formazione percepita come atto di conservazione dell’identità comunitaria.
Nonostante si possa parlare di un sentire diffuso, riconosciuto sia dal punto di vista sociale che
economico e politico, in realtà la sensibilità a cui stiamo facendo riferimento è ancora lontana dalla
possibilità di confrontarsi con un sapere formale, condiviso. Siamo ancora lontani dal consolidare
una vera e propria “cultura della formazione postmoderna” (Bochicchio, 2012), in linea cioè con le
prerogative della società dell’informazione e della conoscenza a cui siamo riferiti sopra. I retaggi
del modello tecnocratico di vita e pensiero sono preponderanti, così come possono dirsi ancora
presenti le eredità dei paradigmi modernista e neo-modernista. È per questo che nel caso specifico
del tessuto economico italiano costituito prevalentemente da piccole e medie imprese, “per essere
utile ai processi di riorganizzazione del sistema economico e sociale, la formazione deve saper
coniugare la propria specificità tecnica con la capacità di creare valore, di accrescere la flessibilità,
la professionalità e la motivazione, rispettando e valorizzando le diverse culture aziendali” (Salatin,
in Alessandrini, 2005, p. 199).
I dati di alcune ricerche condotte negli ultimi anni nelle piccole e medie aziende italiane
evidenziano una sostanziale polarizzazione tra approcci basati sul formare (cioè su modalità
tradizionali di insegnamento di tipo corsuale) e approcci basati sull’apprendere (cioè su modalità
più riflessive ed elaborative) e nel contempo uno stretto rapporto tra promozione delle competenze
delle persone e miglioramento delle performance aziendali. L’analisi delle competenze a cui ci si
riferisce non si limita ai fabbisogni di aggiornamento tecnico (specialistico), ma comprende anche
le dimensioni comportamentale e culturale della prestazione (competenze trasversali), i saperi non
formali e le conoscenze tacite tipiche dell’apprendimento organizzativo. Accanto al fenomeno della
polarizzazione di cui sopra, è stata rilevata anche una progressione verso un modello di formazione
continua aziendale come sistema di supporto al cambiamento delle persone e dell’organizzazione e
come circolazione tra formazione intenzionale e apprendimento tacito. 98 La gestione del
cambiamento è infatti un’esigenza “sistemica” potremmo dire, soprattutto in ambito lavorativo:
seppur non sempre esplicita e consapevole o direttiva – le informazioni ricavate dalle nostre
interviste ne sono una dimostrazione – viene comunque avvertita la necessità di appropriarsi di
competenze utili a gestire la crescente complessità degli stimoli informazionali e dei vissuti
personali e professionali.
98
A. Salatin, Op. cit.; l’autore fa riferimento ad uno studio di P. Bresciani, Formazione al cambiamento e cambiamento
della formazione nelle piccole e medie imprese, in Confindustria Veneto-SIAV (2004), pp. 103-14.
271
Al termine di questo lavoro, consapevoli di non poter pervenire ad una conclusione definitiva,
riaffermando la complessità del fenomeno in oggetto e l’impossibilità di muovere semplificazioni,
possiamo recuperare i nuclei tematici più significativi della nostra analisi ed esperienza di ricerca e
a partire da essi pensare possibili successivi approfondimenti. Innanzitutto, considerando
l’orientamento assunto dalle attuali politiche dell’apprendimento in ambito europeo, è indubbio che
la formazione è chiamata ad affrontare “la sfida delle sfide” vale a dire, riferendoci a Morin (1999),
formare “teste ben fatte” anziché “teste piene”. Gli strumenti più utili, così come emerso nel corso
della nostro argomentazione, e sui cui impegnare il presente e il futuro del “fare formazione” si
chiamano sostenibilità, inclusione, ri-culturalizzazione, riappropriazione dell’umano.
Il ristabilirsi del legame tra individuo e contesto resta a nostro avviso il punto di partenza di
qualsiasi discorso sulla formazione. Il bisogno formativo è un bisogno di identità (Bochicchio,
2012) ma non è mai associato a scopi esclusivamente personali: la formazione, di conseguenza, è
un’esperienza soggettiva che partecipa alla strategia e allo sviluppo della comunità di cui si è parte.
Recuperando il senso dell’identità della persona che si forma, si compie sostanzialmente una scelta
di libertà: l’individuo si riappropria della dell’autorevolezza del proprio apprendere, della propria
creatività e agentività rifuggendo strumentalizzazioni e omologazioni. Chi apprende partecipa,
costruisce, lavora: vive l’esperienza di essere “parte di” un gruppo, una comunità,
un’organizzazione. L’esperienza di partecipazione diretta all’interno dei contesti della pratica
costituisce una peculiarità dell’apprendimento adulto e, come tale, è soltanto attraverso di essa che
è possibile immaginare una formazione efficace e una possibilità di cambiamento.
Un’attenta progettazione di contenuti e di attività formative appare evidentemente come un
momento fondamentale dal punto di vista strategico, un passaggio ineliminabile ma non sufficiente
a produrre una vera trasformazione. È piuttosto utile concentrare le risorse a disposizione
sull’attivazione di condizioni proficue per lo sviluppo di processi di crescita individuale e di
gruppo in un contesto che è sociale, culturale oltre che organizzativo. Creare condizioni favorevoli
l’apprendimento e la consapevolezza – si pensi ai risultati dalla nostra ricerca e al valore
dell’ascolto, al ruolo del gruppo, al confronto verbale, alla narrazione – rappresenta l’unica via
percorribile verso il cambiamento individuale e organizzativo. La ricostruzione delle interviste
realizzata nei precedenti paragrafi ci ha infatti dimostrato che, nonostante la possibilità di valutare
positivamente, soprattutto nel breve periodo, alcuni aspetti di apprendimento e trasferimento propri
del percorso formativo compiuto, l’apprendimento e il cambiamento di portata organizzativa, anche
quanto sentiti come un obiettivo, seguono un altro tipo di iter. Perché si compiano, non solo
necessitano di precise condizioni contestuali ma dell’attivazione “espansa” di una comunità attorno
ad una pratica concreta.
272
Alla luce del panorama significazionale a cui c’è stato possibile accedere mediante un approccio
culturale e interazionista allo studio delle organizzazioni e della formazione in azienda, alla fine del
percorso di ricerca e analisi teorica seguito fin qui, riprendendo le fila della questione iniziale sulla
complessità della realtà della formazione odierna, nessuna prospettiva di inclusione, di sostenibilità
ed equità sociale, di riappropriazione della centralità del soggetto che apprende può supportare
realmente la grande sfida a cui ci siamo riferiti in precedenza, senza prima di ogni altra cosa
favorire un processo atto a “riculturalizzare” (Merlini, Bonoli, 2010) la formazione stessa. Così
come è nostra convinzione non sia possibile formare senza prima entrare nel vivo del bagaglio
conoscitivo proprio del contesto d’attività in cui s’interagisce, quindi recuperando i nessi formali e
informali della cultura di riferimento, allo stesso modo nessuna evoluzione può darsi per una
formazione che non sia capace di auto-analisi, di rivendersi e riproporsi nella funzione di
mediazione culturale. La rappresentazione funzionalista della formazione si trova spesse volte a
scontrarsi con una rappresentazione di tipo “umanista”: invero è proprio in questo scontro che sta
uno dei principali limiti del fare formazione oggi. Una finalità non esclude l’altra: entrambe
possono equilibrarsi e orientarsi a sostegno della crescita dell’uomo entro il suo contesto d’azione.
Interrogarsi oggi sulla formazione significa quindi porsi di fronte a problematiche di natura storicoculturale. Di conseguenza, qualsiasi intervento di revisione e innovazione necessita di un approccio
capace di utilizzare questo tipo di linguaggio. La cultura è chiamata ad intervenire ed esercitare un
ruolo mediatore di “meta-livello”, volto cioè alla ricomposizione degli orientamenti della
formazione attuali e delle pressioni provenienti dal mercato su lavoro e conoscenza, e nel contempo
alla veicolazione di un senso del formare che necessariamente deve essere riabilitato esso stesso
della sua funzione di mediazione culturale e costruzione sociale. Al di fuori di quest’approccio,
infatti, si finirebbe per utilizzare un linguaggio improprio, incapace di strutturare e interpretare gli
innumerevoli universi di senso insiti nell’esperienza del fare formazione.
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283
Appendice 1
Funzioni Cognitive (Abilità della mente)
Fase di input
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Comportamento esplorativo pianificato, riflessivo e sistematico
Strumenti verbali ricettivi
Orientamento spaziale e temporale
Bisogno di precisione e bisogno di accuratezza nella raccolta dei dati
Considerare due o più fonti di informazione simultaneamente
Conservazione di concetti costanti in un elemento nonostante la variazione di
alcuni fattori
Fase di elaborazione
1. Scelta degli indizi pertinenti per risolvere il problema a discapito di quelli non
pertinenti
2. Capacità di individuazione e di definizione di un problema effettivo
3. Comportamento comparativo spontaneo
4. Bisogno di comportamento sommativo che non si appoggia ad una prensione
episodica della realtà
5. Bisogno di perseguire l’evidenza logica
6. Pensiero divergente
7. Interiorizzazione (transfer di un principio in altri domini cognitivi)
8. Pensiero ipotetico e inferenziale
9. Strategie per la verifica delle ipotesi
10. Comportamento di pianificazione
11. Abilità necessarie ai fini del problem-solving
12. Capacità di stabilire relazioni virtuali
13. Elaborazione delle categorie cognitive
Fase di output
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Capacità di non comunicare in modo egocentrico
Capacità di contenere un comportamento impulsivo e di passaggio all’atto
Blocco
Abilità di evitare risposte per tentativi ed errori
Utilizzo di strumenti verbali idonei per comunicare risposte elaborate
Bisogno di precisione nella comunicazione di risposte elaborate
Trasposizione visiva
Proiezione di relazioni virtuali
284