SPECIALE SIRIA L`Occidente entra in scena

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SPECIALE SIRIA L`Occidente entra in scena
POLITICA Scende in
campo l’altra sinistra
INCHIESTA Università
al capolinea DI P. GRECO
SCIENZA Emergenza
Alzheimer DI S. GARATTINI
N. 34 | 31 AGOSTO 2013 LEFT+L’UNITÀ 2 € (0,80+1,20)
Da vendersi obbligatoriamente insieme al numero del 31 agosto de l’Unità.
Nei giorni successivi euro 0,80 + il prezzo del quotidiano
SPECIALE SIRIA
L’Occidente entra in scena
TEATRO
DI GUERRA
di Emanuele Bompan, Paola Mirenda, Ennio Remondino, Cecilia Tosi
SETTIMANALE LEFT AVVENIMENTI
POSTE ITALIANE SPA - SPED. ABB. POST.
D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004
N. 46) ART. 1, COMMA 1 DCB ROMA
ANN0 XXV - ISSN 1594-123X
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LA TESTATA FRUISCE
DEI CONTRIBUTI
DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250
left 31 agosto 2013
LA NOTA DI
Maurizio Torrealta
Teatro di guerra
sempre lo stesso copione
I
l copione ormai è ben rodato. Prima
fase: si grida alla mancanza di democrazia e di diritti umani. Seconda fase: si
inviano consiglieri, che sostengono i militanti della libertà e si inventa un aggettivo per la rivoluzione in atto, può essere arancione, rosa, dei cedri, dei gelsomini, ecc. I consiglieri partecipano alle proteste e poi agli scontri: aumentando di numero e intensificando il loro coinvolgimento. Nel Vietnam arrivarono a 25mila prima della dichiarazione di guerra. Terza fase: il casus belli. È
successo con il famoso incidente del golfo del Tonchino quando il cacciatorpediniere degli Stati Uniti, Maddox, fu attaccato in acque internazionali da tre cannonieri del Vietnam del nord e fu salvato dagli aerei Usa. Fu il via all’intervento
americano. In realtà l’incidente non sembra essere mai avvenuto, almeno secondo le 400 pagine scritte nel 2001 da Robert Hanyok, storico della National security agency, e l’agente Matthew Aid,
intervistato dal New York Times. Il Vietnam venne così martoriato da ben 7 milioni di tonnellate di bombe, circa tre volte l’esplosivo utilizzato durante la Seconda guerra mondiale. Il casus belli talvolta
può essere aiutato, come nel 1991 quando Saddam avvertì l’ambasciata americana che avrebbe invaso il Kuwait e non
ottenne commento di alcun genere. Ma
chi tace non sempre acconsente: il Kuwait fu occupato dall’Iraq e qualche mese dopo, l’esercito di una larga coalizione di Paesi, questa volta sostenuta dalle
Nazioni unite, liberarono il Kuwait e per
l’abbrivio invasero anche il sud dell’Iraq.
Successe anche nel 1999 per la guerra in
Kossovo e in Serbia, quando senza alcun
sostegno dell’Onu, Stati Uniti e Inghilter-
ra bombardarono un Paese del continente europeo. Il pretesto fu l’uccisione di 45
albanesi a Racak nel Kosovo il 16 gennaio 1999, ma in realtà furono ammazzati
da altre parti e trasportati di notte nello
stesso posto per creare l’immagine della
strage, come racconta Ennio Remondino nel suo articolo. In conseguenza della
decisione della Nato, il governo D’Alema
autorizzò l’utilizzo dello spazio aereo italiano. Il numero delle vittime fu nell’ordine di 10-20mila. Successe di nuovo nel
2001: un gruppo di terroristi, in maggioranza sauditi, distrussero in diretta televisiva mondiale le Torri gemelle di New
York, per ritorsione fu attaccato l’Afghanistan dove si supponeva vivesse Bin Laden, il capo dei terroristi. Fu trovato e ucciso anni più tardi in Pakistan, Paese alleato degli Stati Uniti. Sempre come ritorsione all’attacco alle Torri gemelle fu invaso l’Iraq che sta all’Arabia Saudita come l’Austria all’Italia. Allora la stampa
occidentale, guidata da un noto settimanale italiano, accusò Saddam di importare uranio dalla Nigeria per le armi di sterminio di massa. Notizie poi risultate basate su documenti falsi. La guerra iniziò
il 20 marzo 2003 e in tre settimane gli Stati Uniti occuparono l’Iraq, Saddam venne
catturato e poi condannato a morte. Dunque finalmente pace e democrazia? Non
proprio. Il terrorismo etnico e religioso scatenato dall’intervento occidentale non trova da allora ancora pace. Spero
non vi meraviglierete se per la Siria non
partecipiamo alla messa in scena, troppo prevedibile, troppo scontata, troppo
banale. Quello che rattrista è la mancanza anche solo di un’ombra di dubbio nello sguardo dei colleghi che ne parlano.
Spengo il televisore, non me ne abbiate.
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Il presidente
contro i giudici
Caro direttore, è strano
che i tanti critici della discussa Dichiarazione del
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
dello scorso 13 agosto abbiano concentrato la loro
attenzione su due aspetti gravi (l’insistenza sulla necessità che continui
il Governo Letta e lo spiraglio lasciato ad un’eventuale richiesta di grazia)
ma molto meno gravi di un
altro aspetto, l’assicurazione cioè che Berlusconi non andrà in carcere. Insistendo sulla necessità
che continui l’esperienza
di governo col Pdl, Napolitano è andato oltre le sue
prerogative ma ha lasciato alle forze politiche la li-
la settimanaccia
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left.it
bertà di decidere sulle future alleanze. Lasciando
aperto uno spiraglio alla
domanda di grazia da parte di Berlusconi, Napolitano ha suscitato aspettative
che avrebbe potuto benissimo non suscitare spiegando i motivi per i quali
non ci sono le condizioni
per accogliere un’eventuale domanda ma, anche in
questo caso, non ha fatto
alcun errore formale perché non ha anticipato alcun giudizio. L’errore grave, invece, Napolitano l’ha
fatto quando ha assicurato che Berlusconi non andrà in carcere perché in tal
modo è intervenuto su una
decisione che è di esclusiva prerogativa della magistratura. Cordiali saluti .
Franco PelellaPagani(Sa)
Un sindaco
in regola
Cara redazione, left ha sostenuto la causa dell’acqua
pubblica e della ripubblicizazione della gestione dei
servizi idrici. Volevo segnalare che il sindaco di Pistoia
è uno dei pochissimi (forse
2 o 3) sindaci del Pd nei Comuni capoluoghi di provincia (che sono decisivi nelle
sede decisionali a livello di
Conferenze di Sindaci degli
ex Ato) sinceramente e coerentemente impegnati nel
difficilissimo percorso che
è necessario per dare attuazione all’esito referendario
(un altro è il sindaco di Reggio Emilia). E lo è in quella
metà d’Italia dove la gestione dei servizi idrici, da oltre
un decennio, è stata affida-
ta a Spa Publi/private (come
Publiacqua Spa) con dentro
almeno il 40 per cento di capitale privato.
Si potrebbero aggiungere
anche il sindaco di Napoli (che non è del Pd) e altri
ma fanno parte della metà
d’Italia dove un percorso di
ripubblicizzazione è più facile, perché la gestione dei
servizi idrici era affidata a
Spa con il 100 per cento di
capitale pubblico (e avevano mantenuto le tariffe del
Cipe, senza la remunerazione del capitale investito)
e quindi non hanno il problema di cacciare il capitale privato in presenza di affidamenti contrattuali che
scadono nel 2021 e oltre.
Il 96 per cento di Sì sul secondo quesito referendario
(quello che proponeva di
abrogare il profitto negli investimenti sui servizi idrici)
ha dato un un’indicazione
politica precisa: la gestione
dei servizi idrici deve essere
affidata ad aziende consortili interamente pubbliche e
controllate dai Consigli comunali e dai cittadini.
Questa indicazione politica degli italiani è attuabile solo dal Parlamento (tramite una legge nazionale di
sostegno a questa prospettiva) e dagli oltre 8mila Comuni: per questo penso sia
una grande notizia che il
sindaco di Pistoia abbia inviato una lettera al Forum
italiano dei movimenti per
l’acqua ribadendo il proprio
impegno e la propria determinazione a dare attuazione
all’esito referendario.
Giuliano Ciampolini
31 agosto 2013
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left.it
sommario
IANNO XXV, NUOVA SERIE N. 34 / 31 AGOSTO 2013
SIRIA
POLITICA
ARTE
BOMBE DEMOCRATICHE
L’INELUTTABILE DECADENZA
MUNCH DA URLO
Gli americani intervengono in
Siria seguendo il modello Kosovo: prima le bombe, poi
la legittimazione. A spingere
Obama in Medio Oriente ci sono questioni
interne (le pressioni dei repubblicani) e internazionali (il coinvolgimento britannico a
fianco dei ribelli).
Luigi Ferrajoli spiega perché
non c’è alcuno spazio per salvare lo scranno parlamentare
di Berlusconi. Nonostante i ricatti alle istituzioni del centrodestra e gli
stranissimi dubbi di alcuni giuristi di sinistra. «Un ricorso sulla legge Severino
non avrebbe senso».
Per i 150 anni della nascita di
Edvard Munch, Oslo presenta
la più ampia retrospettiva mai
dedicata all’autore dell’Urlo. In
mostra 300 opere del maestro norvegese,
cultore di Kierkegaard e Nietzsche e che
anticipò l’espressionismo. Mentre cresce
l’attesa per la monografica a Genova.
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LA SETTIMANA
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04
06
LA NOTA
LETTERE
LA SETTIMANACCIA
FOTONOTIZIA
COPERTINA
16 Le bombe democratiche
di Ennio Remondino
20 Mezzoriente di fuoco
di Paola Mirenda
22 Fronte orientale di Cecilia Tosi
23 I dubbi del Congresso
di Emanuele Bompan
24 Mini: la verità sulla guerra di c.t.
SOCIETÀ
26 L’altra sinistra di Manuele Bonaccorsi
30 Il Porcellum non vuole morire
di Sofia Basso e Rocco Vazzana
32 Università al capolinea
di Pietro Greco
36 L’ineluttabile decadenzai
di Luigi Ferrajoli
MONDO
40 Born to run foto di Tim Clayton
left 31 agosto 2013
36
IDEE
12 ALTRAPOLITICA
di Andrea Ranieri
12 L’OPINIONE
di Carlo Patrignani
13 L’OSSERVATORIO
di Francesco Sylos Labini
14 KEYNES BLOG
di Daniela Palma e Guido Iodice
14 IN FONDO A SINISTRA
di Fabio Magnasciutti
15 IN PUNTA DI PENNA
di Alberto Cisterna
52 TRASFORMAZIONE
54
RUBRICHE
08 COSE DELL’ALTRO MONDO
a cura della redazione Esteri
10 COSE DELL’ALTRITALIA
a cura della redazione Interni
38 LA SCUOLA CHE NON C’È
di Giuseppe Benedetti
56 PUNTOCRITICO
ARTE di Simona Maggiorelli
CINEMA di Morando Morandini
LIBRI di Filippo La Porta
58 BAZAR
DOCUFILM, TENDENZE, JUNIOR
59 IN FONDO di Bebo Storti
di Massimo Fagioli
60 TI RICONOSCO
di Francesca Merloni
CULTURA E SCIENZA
46 Invecchiamento cerebrale
di Silvio Garattini
50 Il dolce suono degli scrittori neogreci
di Filippo La Porta
54 Gli spettri di Munch di S. Maggiorelli
Chiuso in tipografia il 28 agosto 2013
Foto di copertina: Brabo/Ap/Lapresse
5
fotonotizia
La protesta di Rio
Rio de Janeiro, 27 agosto
2013. La polizia circonda un
manifestante dopo le cariche
al corteo indetto per protestare contro il governatore dello Stato, Sergio Cabral. I manifestanti, appartenenti ai diversi movimenti che da mesi
lottano per i trasporti pubblici e gratuiti, hanno circondato Guanabara Palace - sede
del governo - chiedendo le dimissioni di Cabral, accusato
di scorretta gestione dei fondi pubblici.
(Dana/Ap/Lapresse)
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31 agosto 2013
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left 31 agosto 2013
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cose dell’altromondo
left.it
LA RIVOLTA DELLE CIPOLLE
In India il partito nazionalista
Bharatiya janata party (Bjp)
ha organizzato cortei di protesta contro l’aumento dei
prezzi nel settore alimentare.
Il simbolo dei manifestanti è
la cipolla, un tubero fondamentale nella dieta dei cittadini di ogni classe sociale,
il cui costo è aumentato di
cinque volte in un mese. Le
oscillazioni del prezzo della
cipolla hanno un’influenza
pesante sulla politica indiana
e in passato hanno provocato
la caduta di più di un governo.
© TOPGJAL/AP/LAPRESSE
© SCHREIBER/AP/LAPRESSE
CROAZIA-UE La prima lite
Appena uniti e già divisi.
La Croazia, membro della
Unione europea dal primo
luglio, è entrata in rotta di
collisione con Vivianne Reding, commissario Ue agli
Affari interni. Oggetto
«È giunto il momento
di lanciare un allarme
su alcune delle conseguenze
negative della libera
circolazione dei lavoratori
all’interno dell’Unione
europea»
del contendere, il
mandato di arresto
europeo, che Zagabria non intende applicare per i reati commessi
prima del 2002. Il 28 giugno, tre giorni prima dell’ingresso nella Ue, il Parlamento croato aveva approvato la legge Perkovic, che
pone un limite temporale al mandato. La Reding aveva formalmente
chiesto spiegazioni al ministro della Giustizia, la cui risposta doveva
arrivare entro il 23 agosto. Ma dalla Croazia silenzio. «Risponderemo, ma non adesso», ha fatto sapere il premier Zoran Milanovic.
L
Lodewijk
Asscher,
vicepremier
vice
olandese
e ministro
de
del Lavoro
LA CRISI DELLA SETTIMANA A due anni dallo tsunami, il rischio nucleare in Giappone tocca il suo apice. L’autorità nazionale per le centrali atomiche ha dichiarato che la pericolosità dei reattori di Fukushima è aumentata tanto da dover alzare
il livello di minaccia a “serio” e chiede all’Autorità internazionale per l’energia nucleare (Iaea) di esprimere il suo parere.
L’autorità ha anche annunciato di essere preoccupato dalla possibilità di sversamenti da altri depositi di acqua contaminata
all’interno della centrale. Ma la Iaea per ora temporeggia, lodando i progressi fatti nella sicurezza atomica nell’arcipelago..
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31 agosto 2013
left
left.it
ECONOMIA L’Africa è di moda
150mld
La catena di abbigliamento low cost H&M ha deciso di
cambiare fornitori. Niente più Paesi asiatici, meglio puntare su quelli africani. Dietro la scelta non ci sono motivi umanitari: la maison svedese non lascia il Bangladesh
a causa delle dure condizioni di lavoro, ma semplicemente perché non le conviene economicamente. L’Etio-
guenza della politica adottata nel 2007 dal governo per attirare gli investitori esteri.
Se l’ordinazione test voluta
da H&M darà i risultati attesi, a dicembre 2013 dovrebbe cominciare la produzione nelle due fabbriche che
il marchio farà costruire nei
pressi della capitale.
© LENNIHAN/AP/LAPRESSE
pia, Paese in cui H&M potrebbe trasferire parte della produzione, offre salari più
bassi e vantaggi fiscali più alti, come conse-
Il prezzo pagato dalla Germania
per il salvataggio dei Paesi europei
in crisi. La stima è stata fatta dal
quotidiano economico tedesco
Handelsblatt, che precisa: i 42 miliardi
saranno restituiti presto.
La Merkel, dal canto suo, ha dichiarato
che il costo per il contribuente tedesco
«è impossibile da quantificare»
LA CURIOSITÀ Chi cucca al Drive-in
No car no sex. In Svizzera aprono i drive in del sesso. Garage di legno, accessoriati
con lavatrice e doccia, già ribattezzati scatole del sesso, apriranno presto per i clienti
delle prostitute, che nella Confederazione possono esercitare liberamente il loro mestiere. Le lavoratrici del sesso si disporranno in una piccola rotonda per essere scelti dagli
automobilisti, che poi si infileranno nei garage. La maggior parte degli svizzeri è contenta dei nuovi drive in perché porteranno i luoghi di prostituzione lontano dal centro.
UN FUTURO DA ALLUVIONATI
left 31 agosto 2013
L’Organizzazione per
lo sviluppo e la cooperazione economico (Ocse) ha ipotizzato quali saranno, nel
2050 le 20 città in cui
un’eventuale alluvione potrebbe causare i danni più ingenti.
Confrontato con quello del 2005, il maggior aumento di rischio - se gli standard di protezione
del territorio restano
quelli attuali - lo corre Alessandria d’Egitto (+154%). In termini assoluti, la stima
dei danni complessivi
potrebbe passare dai
6 miliardi di dollari del
2005 ai 52 miliardi di
dollari del 2050.
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cose dell’altritalia
left.it
FULMINI E SAETTE
SULLA CAPITALE
© LAPRESSE
Il colpo di coda di quest’estate
è stato violento su Roma. Il bollettino del nubifragio di martedì
scorso è impietoso: allagamenti nel centro storico, metropolitane bloccate, alberi caduti e disagi in tutta la provincia. Inclusa Fiumicino, dove all’aeroporto
sono stati sospesi i voli per mezzora e dirottati all’aeroporto napoletano di Capodichino.
DOVE L’ACQUA È UN LUSSO
LE 10 CITTÀ PIÙ CARE
LE 10 CITTÀ PIÙ ECONOMICHE
Secondo il
dossier annuale di
Cittadinanzattiva
negli ultimi 6 anni
il costo dell’acqua
non ha fatto che
aumentare: +33%
in media. Con
un’impennata
nell’ultimo anno
(+6,9%). Gli
aumenti più
consistenti a
Reggio Calabria
(+164,5%),
Lecco (+126%)
e Benevento
(+100%). Ma è
la Toscana la
regione più cara.
BOLOGNA Fate largo alla Lamborghini
L’AQUILA Crocetta contro i terremotati
Nonostante la crisi la Lamborghini progetta un’espansione degli stabilimenti di
Sant’Agata Bolognese. L’investimento servirà per il lancio della nuova supercar della Casa del Toro. L’ampliamento, già autorizzato dalla Provincia di Bologna in aprile, ha incassato anche l’approvazione della variante al
Piano regolatore da parte del Comune emiliano che prevede l’espansione della superficie produttiva di 4-5 ettari. Aumentano anche i posti di lavoro: si giungerà a quasi mille dipendenti, tutti a tempo indeterminato, contando le circa 60 assunzioni previste entro il 2013. La storica casa automobilistica potrebbe trarre giovamento dal
bando sulla ricerca per le zone del sisma - Sant’Agata è un
Comune terremotato - che la Regione sta per pubblicare,
con un appetitoso fondo di 50 milioni di euro.
Il presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta ha presentato un ricorso alla Corte costituzionale contro il finanziamento
della ricostruzione de L’Aquila. La legge è quella del 24
giugno 2013 e il ricorso di Crocetta riguarda l’articolo
7 bis che rifinanzia la ricostruzione privata nei Comuni
abruzzesi colpiti dal terremoto del 2009 aumentando
l’imposta di bollo: 98,6 milioni di euro nel 2013 e 197,2
milioni di euro dal 2014 in poi. Per Crocetta l’imposta
di bollo è, secondo lo Statuto della Regione Sicilia, «un
tributo erariale di spettanza regionale», dunque quei
soldi vanno spesi in Sicilia e non altrove. Dure le reazioni in Abruzzo, il coordinatore Pdl Alfonso Magliocco ha definito il ricorso «un atto di sciacallaggio».
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31 agosto 2013
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left.it
MEGLIO TERRONI
CHE EUROPEISTI
«Non bisogna fare di tutta l’erba un
fascio. Il Sud non è solo malaffare e
mafia, e il Nord non è sempre virtuoso
e immune dal malaffare. Bisogna
giudicare caso per caso, realtà
per realtà. La gente vuole buona
amministrazione e buongoverno
e questo vale a Reggio come a Verona»
Flavio Tosi dal 2007 sindaco di
Verona, esponente di spicco della
Lega nord e segretario della Liga
veneta, non è alla sua prima uscita
“meridionalista”. L’anno scorso si
schierò difendendo il governatore
ernatore
calabrese Giuseppe Scopelliti
elliti
dalle grinfie di Legambiente:
nte:
«Invito tutti i veronesi a godere
delle bellezze e delle qualità
lità
ambientali calabresi». L’uomo
uomo
dell’«antieuropeismo maturo»
turo» si
fa avanti in vista delle primarie
marie
del centrodestra.
Ma il primo e secco no
è arrivato proprio da
Umberto Bossi: «Meglio
Marina Berlusconi», ha
detto il Senatùr
NISCEMI Muos, lavori ad alta tensione
Dopo gli scontri della scorsa settimana,
ricominciano a pieno ritmo le operazioni
per ultimare l’impianto satellitare di Niscemi. Lo annunciano su facebook i militanti NoMuos, che da mesi si battono contro la costruzione dell’impianto satellitare Usa,
documentando l’avanzamento con foto e video. Le immagini mostrano operai al lavoro e gru in movimento vicino alle torrette su cui dovranno essere innalzate le parabole del Muos. Intanto alcuni manifestanti presidiano il
cantiere e il team legale ha depositato la diffida alla continuazione dei lavori per mancanza delle certificazioni ambientali. Nel frattempo, gli attivisti chiamano a raccolta
i NoMuos da tutta la regione. Dopo la grande manifestazione del 9 agosto di certo gli attivisti non hanno intenzione di restare con le mani in mano.
left 31 agosto 2013
CATTURATO IL BOSS.
GALEOTTO FU FACEBOOK
La fidanzata del boss non resiste e, presa dalla foga
delle vacanze, scrive su facebook: «Finalmente in ferie, se me le rovinano li divoro». Peccato che il boss,
Michele Di Nardo, era latitante e che i carabinieri, grazie al social network, agli sms e alle telefonate, lo hanno raggiunto mentre sorseggiava un drink con la sua
compagna nella piazzetta di Palinuro, centro turistico del Cilento. Di Nardo, 34 anni, ritenuto l’attuale reggente del potente clan napoletano Mallardo di Giugliano, era ricercato dallo scorso anno in tutta Europa
perché destinatario di due mandati di cattura. Secondo i carabinieri, al momento dell’arresto il boss non ha
opposto resistenza, né ha tentato di fuggire. Il malavitoso è stato catturato e rinchiuso nel carcere di Vallo della Lucania, mentre la sua compagna, anche lei di
Giugliano, è stata denunciata per favoreggiamento.
62%
Le aziende italiane irregolari secondo
i controlli degli ispettori del lavoro nei
primi 6 mesi del 2013. Cresce l’evasione
contributiva (+117%). E aumentano
gli abusi di lavoro precario: +39% i
contratti flessibili che mascherano lavoro
subordinato, come le collaborazioni a
progetto e le finte partite Iva. Stabili
i lavoratori “totalmente in nero”: 22.992
11
idee
left.it
altrapolitica
di Andrea Ranieri
Una guerra inutile e assurda
L’
L’intervento
militare
aggraverà
le tensioni
in Medio
Oriente.
È lo stesso
copione
visto in Libia
intervento militare è destinato ad aggravare la crisi della Siria e le tensioni nel Medio
Oriente. Sarebbe una sciagura se si ripetesse l’infausto copione delle spedizioni in Afghanistan,
Iraq, Libia, che hanno provocato esiti rovinosi per
le popolazioni e per la pace. Le armi non hanno
mai messo fine agli orrori. Ma quel che è più grave
è che la guerra non appare più, come diceva von
Clausewitz, «la prosecuzione della politica con
altri mezzi», ma il surrogato di una clamorosa assenza di una politica capace di affrontare le contraddizioni che lacerano il Mediterraneo.
Una battuta del protagonista de Il fondamentalista riluttante, un film uscito lo scorso anno, ci
dà una chiave di lettura non banale di queste contraddizioni. Un giovane pachistano tornato fra la
sua gente dopo anni impiegati a far soldi coi soldi a Wall street, sospettato di terrorismo, spiega così perché non è diventato un fondamentalista: «Perché ho sentito nei loro richiami ai “fondamentali” della fede un’eco di quei fondamentali dell’economia di cui mi avevano riempito la testa a Wall street, e in nome dei quali mi avevano
educato a fregarmene delle persone, dei loro dolori e delle loro speranze». Uscire da questi due
fondamentalismi è stata la grande speranza del-
le Primavere araba. Ma dopo la vittoria il fronte si
è inesorabilmente diviso su due faglie. Da un lato
gran parte del popolo delle città, la parte più benestante e colta della popolazione, disponibile a
coniugare i temi delle libertà democratiche con i
dettami del libero mercato; dall’altra la parte più
povera della popolazione, che ha trovato nelle diverse correnti dell’islamismo il terreno su cui dare espressione alla rivolta contro miseria e sottosviluppo. Una contraddizione superabile coniugando istanze democratiche e istanze di rinnovamento sociale, tagliando i legami di dipendenza
neocoloniale che sono all’origine del sottosviluppo. È difficile che i popoli di quei Paesi possano
aspettarsi questo dagli Usa, dalla Gran Bretagna
e dalla stessa Francia, che hanno sempre anteposto i propri interessi geopolitici al grado di democrazia e di progresso sociale dei diversi Paesi del
Medio Oriente.
Il dramma dei protagonisti delle primavere arabe, che ci hanno provato, è che non hanno trovato sponde internazionali credibili. Dovrebbe essere il compito di una sinistra degna di questo nome, un punto fondativo della sua idea d’Europa.
Prendendo intanto posizione apertamente contro una guerra inutile e assurda.
l’opinione
Insieme
a Gramsci
12
I
l Pd ha paura della volontà popolare che conta sempre meno come la
sovranità mentre crescono populismo
e astensionismo. Meglio il “sacrificio”
di dover reggere il governo delle larghe
intese di Enrico Letta con il Pdl di Silvio Berlusconi, l’alleato condannato a
quattro anni per frode fiscale e in odor
di decadenza da senatore, in nome del
bene del Paese. Anche nel 2011 fu obbligato a reggere con il Pdl il governo
tecnocratico di Mario Monti rivelatosi tutt’altro che il “Salva Italia”. Un ruolo decisivo al varo dei due governi, l’ha
avuto il Presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano.
Subisce perché non ha identità, come
denunciato dal suo leader Guglielmo
Epifani né un progetto di società da
contrapporre al modello neoliberista
della “ragion dei mercati finanziari”.
Gli sono estranei i valori base, libertà,
uguaglianza, giustizia sociale, laicità,
sui quali il Pse vuol costruire “le società progressiste” per le elezioni europee
di maggio 2014. Più che applicare le
droit d’inventaire, il diritto d’inventario sulle promesse fatte e mantenute, il
Pd è avvinghiato alla prassi togliattiana del compromesso utile da giustificare ogni volta con una ragione superiore. Un gioco caro a Palmiro Togliat-
31 agosto 2013
left
idee
left.it
l’osservatorio
di Francesco Sylos Labini
Pseudo-intellettuali del XXI secolo
S
e l’economia fosse una scienza, i politici e
l’opinione pubblica si potrebbero sentire
confortati seguendo i consigli che gli economisti
forniscono a ritmo continuo dai maggiori quotidiani italiani. Sono gli “intellettuali” del XXI secolo, quelli che discutono di qualsiasi aspetto della
vita umana, dalla politica economica a quella universitaria, dalla relazione del ciclo mestruale con
i più bassi salari delle donne all’influenza del testosterone nella propensione al rischio finanziario, alle differenze dell’integrazione culturale dei
musulmani: risultati basati su analisi statistiche
che fornirebbero risultati “scientifici”.
Se l’economia fosse una scienza basterebbe leggere il giornale per sapere come orientarsi. Chi
sono questi moderni oracoli? Basta vedere quante citazioni hanno ricevuto i loro articoli “scientifici” e subito si avrà una misura della loro eccellenza. Molti insegnano in università americane,
o sono stati per un periodo in Usa: il loro mondo è semplicemente americano-centrico. Dunque i migliori cervelli, col bollino dalle università
Usa, studiano economia e diventano opinionisti,
consiglieri o ministri e, se proprio sono scadenti, vanno a insegnare nella provincia dell’impero perché non abbastanza bravi da trovare un po-
sto in Usa. Rimarranno però tutta la vita con questo cruccio che sfogheranno sui maggiori quotidiani cercando di propagandare metodi “scientifici” per importare qualità, eccellenza, efficienza come avviene Oltreoceano. Nei loro editoriali
si ritrova sempre la stessa ricetta ideologica della destra americana: abbassare le tasse e tagliare la spesa pubblica. Mai un accenno al fatto che
il successo scientifico e tecnologico degli Usa è
avvenuto grazie al sistematico e ingente investimento dello Stato.
Se l’economia fosse una scienza, però, non potrebbe accadere che due tra i più “importanti”
economisti di una delle “migliori” università americane sbaglino a fare i conti alla base delle politiche di austerità perché non sanno usare i rudimenti informatici di un foglio Excel. Ci sarebbe solo da ridere se gli autoproclamatosi eccellenti non fossero presi sul serio non solo da quella classe imprenditoriale che si piazza agli ultimi
posti per investimento in ricerca e sviluppo, ma
anche da quello pseudo-centrosinistra che non
perde occasione, si veda il documento di Boccia,
per sottolineare la sua subalternità culturale rispetto al vuoto pneumatico neoliberista, causa
prima della devastante crisi attuale.
Economisti
e opinionisti,
laureati
negli Usa,
proclamano
la scientificità
delle loro
ricette. Ma
collezionano
strafalcioni
di Carlo Patrignani
ti. Usò “pacificazione nazionale e religiosa” per imporre la svolta di Salerno del ’44, il governissimo con Pietro
Badoglio, il decreto di amnistia del ’46
per i reati commessi dai fascisti, il voto favorevole all’art. 7 della Costituzione nel ’47 sui Patti Lateranensi. Quel
Concordato che per Antonio Gramsci
era «la capitolazione dello Stato moderno» perché «[…] si realizza una interferenza di sovranità in un solo territorio statale». Gramsci studiò a fondo
l’Azione Cattolica e i gesuiti, che operavano attivamente nel sociale. «La
Chiesa è uno Shylok anche più implacabile dello Shylok shakespeariano:
left 31 agosto 2013
essa vorrà la sua libbra di carne anche
a costo di dissanguare la sua vittima».
Nel ’64 con il “tintinnar delle sciabole”
Pietro Nenni impose i governi di centrosinistra e Enrico Berlinguer con “il
rischio cileno” i governi di solidarietà nazionale nel ’76-’79. Per il bene del
Paese deve vivere il governo Letta che,
nonostante le minacce del Pdl, non ha,
per il Pd, le ore contate. Semmai sono
i “professionisti del conflitto”, come li
ha chiamati Letta, quelli iscritti a “culture ostili ad ogni responsabilità di governo” che giocherebbero allo sfascio.
Ma si è in buona compagnia, di Gramsci cui piaceva il conflitto.
Sbagliato
avvinghiarsi
alla prassi
togliattiana
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idee
left.it
di Daniela Palma e Guido Iodice
keynes blog
Scivolati sulla “banana blu”
I
Il Nord non
fa più parte
delle cento
regioni più
competitive
d’Europa
n un’Europa che con fatica cerca la via
d’uscita dalla crisi, ogni piccolo passo in
avanti si riempie di attese. Il periodo estivo ha
in effetti portato alla ribalta segnali importanti relativi al miglioramento del Pil, confermati da quelli dell’attività industriale. Ma le verifiche necessarie perché si possa parlare di ripresa e gridare allo scampato pericolo sono ancora molte. Questo perché non è chiaro in che
misura la ripresa sia ancora sostenuta da una
robusta messa in moto della domanda interna dei diversi Paesi, e non è chiaro in che misura gli squilibri che alimentano le tensioni interne all’area euro siano destinati a peggiorare. L’incertezza del quadro è, come noto, appesantita dalle performance delle “economie periferiche” (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo),
talvolta con segnali non del tutto incoraggianti provenienti dalla Francia. Nel complesso però il quadro è assai più variegato. Per parlare
di potenzialità di uscita dalla crisi, è necessario
dunque valutare i “pilastri” strutturali di ciascun singolo Paese, tra i quali vanno annoverati non solo gli “equilibri macroeconomici”, ma
anche lo stato delle infrastrutture, il sistema
dell’educazione-formazione e il grado di inno-
vazione del sistema produttivo (questi due ultimi particolarmente rilevanti per le economie
più progredite). E sono proprio questi i fattori
che recentemente - per la seconda volta dopo il
2010 - la Commissione europea ha rilevato, fornendo un “indice di competitività” delle regioni dell’area al fine di testarne l’effettivo stato di
salute. Lo scenario è netto: l’analisi ci dice infatti che dalla fascia della cosiddetta “banana
blu”, che va dal Nord Europa fino al Nord Italia,
passando per Francia e Germania, e che comprende le cento regioni più competitive, scompaiono i territori del nostro Paese. Il messaggio che questo dato ci consegna sembra dunque essere privo di qualsiasi ambiguità: l’Italia,
diversamente dagli altri Paesi periferici, aveva
un cuore pulsante industriale capace di creare
sviluppo, che ora ha cessato di battere. E questo spiega perché gli attuali segnali di ripresa
sono tutti decisamente inferiori a quelli dei paesi rimasti nel tracciato della “banana”, e decisamente insufficienti per prefigurare un rilancio dell’economia ai livelli pre crisi. Un monito
severo, che non lascia dubbi sull’urgenza di politiche industriali per l’innovazione e la riqualificazione del nostro sistema produttivo.
in fondo a sinistra
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left
idee
left.it
in punta di penna
di Alberto Cisterna
Amnistia per tutti o grazia per uno?
N
el 1999 la riforma Bassanini soppresse
la parola “grazia” dal nome del ministero della Giustizia. In fondo, si pensò, era solo un
retaggio monarchico Nel 2005, si aprì un durissimo scontro tra il Presidente Ciampi e il ministro
Castelli per la concessione della grazia a Ovidio
Bompressi, condannato per l’omicidio del commissario Calabresi. Si scoprì così che la questione, lungi dall’essere finita nella soffitta della Repubblica, era ancora causa di un delicato “regolamento di conti” tra poteri dello Stato, tanto aspro
da costringere la Corte costituzionale a separare
i contendenti. Nel 1990 e nel 2006, invece, vennero alla luce gli ultimi due provvedimenti “di grazia” del Parlamento. Tecnicamente si tratta di
una imprecisione, ma nella sostanza le Camere,
approvando l’ultima amnistia (1990) e l’ultimo indulto (2006), distribuirono un bel po’ di benefici a
decine di migliaia di cittadini.
Oggi si ridiscute, insieme, di grazia e di amnistia
in relazione alla condanna che ha raggiunto Silvio Berlusconi. Per toglierlo definitivamente dagli impicci servirebbe o l’una o l’altra. Ma, per gli
equilibri politici e costituzionali, non è cosa da
poco che il salvagente al cavaliere sia dato dal
Parlamento o dal Presidente della Repubblica. Se
davvero la questione in gioco è quella dell’agibilità politica dell’ex premier, nessuno può dubitare che competa alle Camere discutere del problema. Assegnare al Quirinale questo compito farebbe tornare pericolosamente indietro le lancette della democrazia rappresentativa, concependo la legittimazione politica come un atto proveniente dall’alto (il Presidente), anziché dal basso
(le assemblee elettive). Aver posto in questi termini la questione è stato, probabilmente, un errore e una sgrammaticatura dal punto di vista costituzionale. Altro sarebbe stato se si fosse invocata la clemenza di Napolitano per l’anziano leader.
Molte ragioni politiche ostavano a questo percorso. Ma il fatto che il Quirinale abbia adoperato, in
altri frangenti, il potere di grazia per ragioni di più
generale opportunità politica (il caso Sallusti o
il caso del colonnello americano J.Romano condannato per l’affaire Abu Omar), ha forse consegnato alla grazia presidenziale un volto che prima
non aveva, dotandola di un’inedita valenza politica. La grazia sarebbe l’ennesimo provvedimento
ad personam che il Paese, forse, non comprenderebbe. Meglio un generale atto di clemenza che
svuoti gli armadi polverosi e stracolmi degli uffici
giudiziari e dia fiato alle carceri esauste di dolore.
Il Quirinale
ha già
usato la
clemenza
per ragioni
politiche.
Meglio
dare la
parola alle
Camere
di Fabio Magnasciutti
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copertina
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LE BOMBE
DEMOCRATICHE
di Ennio Remondino
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copertina
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© KASTER/AP/LAPRESSE
I
In Siria come in Kosovo.
Gli americani hanno studiato
la guerra del 1999 per
l’operazione in Medio Oriente.
Come allora, usano pretesti
umanitari per attaccare.
Senza il via libera dell’Onu
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n Kosovo la legalità internazionale arrivò “a
babbo morto”, eredità Onu del dopo bombardamenti Nato. Prima ti bombardo poi te
lo motivo. “Unoduequattroquattro” fu la litania
recitata da universali bugiardi che cantavano la
legalità del giorno dopo: Risoluzione numero tal
dei tali per una guerra da nobilitare il giorno dopo. Fu semplicemente l’atto formale delle impotenti Nazioni unite che certificava l’antica ragione barbara “chi vince ha ragione”. Mostri giuridici nati da un caricaturale Consiglio di sicurezza che sopravvive alla storia dai tempi della seconda guerra mondiale. A sancire la convenienza dei grandi rispetto alle ragioni degli altri. Ora
ci dicono che «Gli Stati Uniti vedono nella guerra aerea della Nato in Kosovo del 1999 il modello per l’intervento militare in Siria per rispondere
agli attacchi con armi chimiche». A riferirlo è stato il New York Times, secondo il quale l’amministrazione Obama sta studiando la missione voluta da Clinton 14 anni fa contro la Serbia come precedente su cui fondare un’azione senza il mandato delle Nazioni unite. Oggi, se la Siria è una tragedia ancora incompiuta, il Kosovo da imitare è l’inganno storico che ci raccontano. Promemoria.
In Kosovo c’ero, e fu la strage di Racak a far decollare i caccia bombardieri Nato. Ma anche a essere testimoni sul campo, davvero la verità è più vicina? Mi appello alle prudenti cronache del Corriere della sera del dopo “bombe umanitarie”.
Scriveva allora Massimo Nava: «Non è la morte,
ma la modalità del morire a smuovere politica, diplomazia e giudizi su una guerra. Non è un massacro in sé, ma le responsabilità che i media gli
Ci vollero 45 morti albanesi per giustificare
l’intervento Usa nei Balcani
attribuiscono a modificare il corso degli avvenimenti». Valutazione in grado di spiegare qualsiasi
guerra, se leggiamo bene. Anche quegli spaventosi morti da forse-armi-chimiche che incombono
sulla tragedia siriana. Ed ecco perché torniamo
in Kosovo 13 anni dopo. Racak è il villaggio del
Kosovo in cui, il 16 gennaio 1999, vennero trovati
i cadaveri di 45 albanesi, in parte ammassati lungo un sentiero, molti di loro apparentemente mutilati. «Un crimine contro l’ umanità», tuonò William Walker, il diplomatico Usa a capo della mis-
Il presidente
statunitense Barack
Obama assieme all’ex
inquilino della Casa
Bianca Bill Clinton.
Clinton, democratico
come Obama, è stato
protagonista della
guerra in Kosovo,
così come Obama
si appresta a esserlo
di quella in Siria
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copertina
© KRYEZIU/AP/LAPRESSE
left.it
I dubbi sul massacro
non fermarono Washington
Giugno 1999: soldati
della 82esima
divisione aerea
americana arrivano
all’aeroporto
di Skopje, situato
nella vicina città
di Petrovac
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sione Osce che ci condusse per mano a mostrare
l’orrore al mondo.
Sempre per ridurre la ancora presente rabbia
del testimone ingannato, vado oltre i miei ricordi e cito fonti terze. Ancora il Corriere su Racak.
«A nulla servirono i dubbi emersi già all’indomani del massacro, testimonianze di diversi giornalisti arrivati sul posto, i rapporti mai definitivi e
mai resi pubblici dei funzionari dell’Osce», scrive Nava il 16 aprile 2000. In realtà, la grande bugia
che dava sostegno alla “Ideal politik” antiserba,
già nei mesi successivi alle “bombe umanitarie”
era di fatto svelata. Per chi avesse voluto leggerla. Sintetizzo anche parte della testimonianza sul
campo della collega e allora funzionario Onu a
Pristina Tiziana Boari. Quei 45 morti esibiti allora
in Kosovo all’indignazione del mondo erano morti veri, prodotti dalla mostruosità degli scontri,
ma proposti alle telecamere in formato inganno.
Il frutto impietoso di due giorni di combattimenti, dove gli oppositori albanesi non in divisa furono proposti come poveri civili, uccisi con modalità naziste dalle forze di sicurezza di Miloševic che
qualcuno aveva deciso di colpire.
E il dubbio è oggi l’obbligo morale. Partendo dai
Balcani per ragionare di Siria. La somma delle
complessità concentrate nella sintesi dell’inganno. Cosa «ho visto» che - secondo la storia oggi
ufficiale - non c’era? Un elenco di incubi a caso.
Ho visto un regime dispotico e traballante, quello di Miloševic, trarre forza e sostegno interno
dall’accerchiamento internazionale e dalle bombe Nato. Le catene umane sui ponti su Sava e Danubio formate dagli ex oppositori che non capivano quella guerra. Ho visto i giovanotti di Otpor
- Resistenza - smuovere le piazze dopo corsi organizzati da Usaid e Soros. Per poi dedicarsi a «rivoluzioni arancioni» altrove. Ho visto un Kosovo
sofferente e la sua maggioranza albanese amalgamata sino ad allora dalla pratica dell’opposizione non violenta di Rugova. Poi ho visto la sua
gente più giovane e sospettata di attività criminali, venire armata e organizzata per la guerra dietro la sigla Uck. Ho memoria della definizione di
“terroristi” data dall’allora ambasciatore Usa Hill
e la successiva, repentina trasformazione degli
stessi in «patrioti» e guerriglieri. Nessuno coglie
qualche eco siriana?
Ho visto i carichi di armi gestiti dal governo albanese di Berisha passare la frontiera con la Serbia. Ho visto e fatto finta di contrattare sul prezzo delle armi nelle mani della criminalità a Tirana. Ho ritrovato le stesse armi e gli stessi armati
a Tetovo, in Macedonia. Ho visto gli ultras nazionalisti kosovari battersi in piazza e ho ritrovato
i loro feriti oltre confine. Ho visto, con la missio-
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copertina
© AP/LAPRESSE
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ne Kdom, spie e istruttori militari (124 giovanotti americani tra loro) diventare diplomatici e la
diplomazia col pennacchio fare da palo. Ho visto e ho riso con i sei «diplomatici» italiani spediti in Kosovo dalla Bosnia su di uno “Scarafone” semiblindato, ridipinto male di bianco. Ricordi comuni di guerre passare tra parà, carabinieri e note “barbe finte” del vecchio Sismi. Diplomatic service. Ho visto l’Osce dell’ex-ambasciatore Usa Walker ottenere il miracolo di Lazzaro a Racak, dove i morti di due giorni di combattimenti, nella notte camminano e si espongono all’indignazione televisiva nel massacro modello Fosse Ardeatine. Ho visto a fine bombardamenti le perizie necroscopiche finlandesi che
ci dicevano che quei morti non erano stati uccisi
lì, poveri strumenti di una messinscena per dare
l’ordine d’attacco.
Il problema sembra essere quello di capire di quale comunità internazionale e di quali regole parliamo, se ci sono delle regole condivise e se valgono in maniera eguale per tutti. Nei Balcani ho
visto di tutto e di più. Ho visto il naufragio della
credibilità dei caschi blu dell’Onu a Srebrenica,
e ho visto l’indignazione internazionale a intensità variabile fra quello che sembra essere un «sonno» quadriennale nei confronti della Bosnia, e la
frenesia umanitaria per il Kosovo. L’impressione - allora come oggi - è di assistere alla accurata composizione di un puzzle le cui singole tesse-
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In Serbia il regime di Milosevic trasse
sostegno dall’accerchiamento
re erano state predisposte da tempo a realizzare
il disegno della guerra. E ho visto in Serbia un regime dispotico e traballante, quello di Miloševic,
trarre forza e sostegno interno da quello che era
percepito come un accerchiamento internazionale. I dubbi sulla Siria del despota Assad a questo punto si moltiplicano. Torna a colpirmi l’uso
disinvolto dei media nel creare consenso o riprovazione, a comando. Con la Siria vista oggi attraverso i teleschermi tornano plateali le sofferenze
«buone», quelle da esaltare nei telegiornali, e le
sofferenze da nascondere. Questione da sempre
irrisolta: ciò che vedi o ciò che ti lasciano vedere?
Il dubbio come regola e la ricerca di fatti e testimoni sul campo come tentativo nobile a non fare sempre coro. Esattamente lo stesso quesito siriano che tormenta oggi il mondo più consapevole. Ed ecco che anche sulla tragedia siriana, l’etica giornalistica manipolata dai grandi network ci
confonde nella eterna lotta tra trombettieri che
suonano la carica e cronisti onesti che raccontano ciò che vedono. Perché la realtà sul campo, anche in Siria, vista dall’altezza di un cacciabombardiere, viene certamente deformata. E la
democrazia sganciata dall’alto può provocare
terribili e incontrollabili effetti collaterali.
Kafr Nabil, Siria
del nord. A maggio
manifestanti anti
Assad protestano
contro l’indifferenza
del presidente
americano
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LA VERITÀ
SULLA GUERRA
di Cecilia Tosi
Due milioni di profughi e quotidiani massacri non sono serviti agli occidentali
per mobilitarsi. Le armi chimiche sì. «Obama ha subìto le pressioni
dei repubblicani Usa e del governo inglese», spiega il generale Mini
L
a Siria come terreno di scontro delle ambizioni internazionali. È un’altra
delle disgrazie capitate a un popolo che
non voleva né guerra, né jihadisti, né stranieri
e invece se li è beccati tutti. E ora l’Occidente
si mobilita grazie alle armi chimiche e non alle reciproche pulizie etniche che gli alawiti pro
Assad e i sunniti ribelli stanno realizzando gli
uni contro gli altri. I siriani costretti a scappare dalla morte e dalla vendetta sono 2 milioni.
Ammassata nei Paesi confinanti che da tempo
non la vogliono più, c’è un’intera umanità in fu-
ga che rischia di fomentare altri conflitti in tutto il Medio Oriente. Eppure gli americani hanno preferito appellarsi all’uso di armi chimiche
da parte del regime per dire basta. «All’inizio
la comunità internazionale ha favorito l’esodo dei profughi, perché erano soprattutto alawiti», spiega il generale Fabio Mini, già comandante delle forze Nato in Kosovo. «Facevano
spazio ai ribelli sunniti e potevano essere usati
in un secondo momento come pretesto per un
eventuale operazione militare. Poi sono arrivate le armi chimiche».
© NGAN/AP/LAPRESSE
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copertina
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Generale, perché gli Usa hanno deciso di
intervenire adesso in Siria?
Soprattutto per questioni di carattere interno: Obama è stato accusato dai repubblicani di non avere un atteggiamento abbastanza
fermo contro Bashar al Assad e deve dimostrare che sa essere un vero condottiero. La
sua speranza è di evitare stragi di popolazione e colpire direttamente il presidente, come
è successo con Saddam Hussein. Gli Usa hanno bisogno di esporre un trofeo, più che di
vincere una guerra.
E le ragioni di carattere internazionale?
Ci sono anche quelle, ma sono meno importanti. Gli Usa subiscono le pressioni del Regno Unito, che da tempo si è impegnato in una
battaglia personale contro Bashar al Assad.
Londra è molto presente nell’area da quando Obama, nel 2012, ha inaugurato la sua politica di disimpegno in Medo Oriente per concentrarsi sul Pacifico orientale e la Cina. Gli
inglesi sostengono i ribelli e le Forze speciali
britanniche, insieme a quelle del Qatar, addestrano le reclute dell’Esercito libero. Il tempo però è passato e adesso vogliono chiudere la faccenda.
Qual è il ruolo della Russia?
Negli ultimi anni Mosca ha ripreso un ruolo attivo sullo scacchiere internazionale e difende a
spada tratta Iran e Siria. Con l’intervento occidentale, i russi potrebbero decidere di mettere
in sicurezza i porti e di convincere Assad a passare il potere a qualcuno del suo entourage. Ma
la Russia potrebbe fare anche molto di più. Insieme all’Iran potrebbe mettere in discussione i
confini di tutto il Medio Oriente: dall’Iraq al Kurdistan e perfino a Israele.
E la Cina?
Pechino tiene un basso profilo, perché ha meno
interessi in Siria, ma conduce comunque una
campagna mediatica contro l’opposizione siriana. In questi giorni ha mostrato in televisione
che le vittime delle armi chimiche sono i soldati regolari e non i ribelli e che le sostanze chimiche sono state utilizzate tramite ordigni fatti in
casa, non con armi dell’esercito.
Se davvero le prove fossero fabbricate, chi
sarebbe stato? Le frange più moderate o
quelle più radicali tra i ribelli?
Non c’è una distinzione così netta all’interno
left 31 agosto 2013
della galassia ribelle. Sicuramente i jihadisti
stranieri hanno interesse ad attirare gli americani nell’area perché, come in Afghanistan, al
Qeda si nutre delle missioni occidentali per legittimare la propria presenza e per drenare le
risorse che si portano dietro le operazioni armate. E attualmente i radicali sono anche i più
forti, perché sono loro ad aver conseguito le
principali vittorie militari. È difficile pensare
che in futuro, destituito Assad, loro rinuncino
ad avere un ruolo.
Gli americani hanno una strategia?
Gli americani ancora non ci hanno capito niente. È dimostrato dal loro enorme fallimento diplomatico e dal bisogno di creare
una “bomba umanitaria” per giustificare l’intervento. Da tempo, ormai, l’aggressione da
sola non giustifica un intervento internazionale. Adesso si cerca un elemento scatenante. Si può trattare della disparità di trattamento umanitario tra le due parti in conflitto, della
mole dei profughi, oppure, come in questo caso, dell’uso di armi chimiche.
«I russi potrebbero mettere in discussione
i confini di tutto il Medio Oriente»
Gli Usa impiegheranno anche forze di terra?
No. Cercheranno di intervenire con il minimo
impegno e il minimo rischio. Potrebbero non
voler usare i missili fin dall’inizio, utili per colpire edifici o obiettivi strutturali. Lo scopo è quello di eliminare gli uomini chiave del regime e
per quello servono i droni, che permettono di
colpire obbiettivi molto mirati. Solo se questi
non funzioneranno useranno i missili. E sul terreno si affideranno ai ribelli e alle forze speciali,
soprattutto inglesi e francesi, che sono già presenti nell’area. E magari anche agli israeliani.
Ci sono altri Paesi interessati a intervenirein Siria?
I turchi da tempo stanno conducendo un gioco
al massacro, facendo di tutto per eliminare Assad per poi estendere il loro controllo sul Kurdistan siriano, che diventando autonomo rischia di fomentare l’indipendentismo dei curdi in Turchia. Ma nonostante tutti questi alleati, senza una strategia politica gli Usa non vanno da nessuna parte.
In apertura, un campo
profughi siriano
in Giordania. Sopra,
il generale Fabio Mini
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copertina
left.it
MEZZORIENTE
DI FUOCO
di Paola Mirenda
Due anni di bombardamenti e di massacri hanno decimato i non violenti
e rafforzato i jihadisti. Storia di un Paese che si è autodistrutto
P
otrebbe essere un bombardamento breve e mirato, una guerra infinita o la fine
a uno stillicidio di cadaveri che dura da
31 mesi, esattamente dal febbraio 2011, quando
un gruppo di ragazzi creava una pagina su facebook per invitare la gioventù siriana alla ribellione, sull’esempio di quella tunisina ed egiziana. In
31 mesi sono cambiate molte cose: i giovani blogger sono stati sostituiti da combattenti armati e
l’opposizione laica e di sinistra è diventata minoritaria. A sostituire al Assad, se cadrà, ci saranno i
rappresentanti di decine di milizie alcuni dei quali
strettamente legati alla galassia alqaedista.
2011
Al primo appello alla rivolta del 4 e 5 febbraio rispondono poche decine di siriani, scoraggiati
dall’imponente apparato di sicurezza messo in
piedi dal regime. La cacciata del presidente egiziano, unita alle proteste scoppiate in Yemen,
Bahrain e Libia, rompe gli indugi anche in Siria.
Le manifestazioni iniziano a Dera’a, ma la forte
repressione (100 morti in un giorno, secondo gli
attivisti) porta agli imponenti cortei del 25 marzo.
Assad ribatte con le manifestazioni ddei suoi sostenitori, scioglie il governo e promette maggiori libertà. Ma intanto spara sui siriani. Arrivano le
denunce di Amnesty international e Onu per violazione dei diritti umani e con le denunce iniziano le sanzioni Ue e Usa. A maggio l’Europa avvia
il congelamento dei beni della famiglia al Assad.
La Russia di Putin, invece, resta a fianco di Damasco. A luglio, mentre perdurano gli scontri nel
sud della Siria, si costituisce l’Esercito libero siriano, fondato da un ex comandante delle forze
lealiste. È il segnale del passaggio dalla rivolta al-
© BUCCIARELLI/AP/LAPRESSE
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31 agosto 2013
left
copertina
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la guerra interna, ben accolto da alcuni Stati arabi che in Siria vogliono giocare quello che Ban Kimoon definirà «un conflitto per interposta persona». Gli scontri intanto si estendono lungo il confine con il Libano e al centro della Siria. Le città di
Hama e Homs vengono poste sotto assedio. A novembre la Lega araba sospende la Siria dall’organizzazione. Il 29 novembre l’Esercito libero riconosce l’autorità del Consiglio nazionale siriano
(Cns), organo di rappresentanza dei ribelli creato in Turchia, riconosciuto a dicembre anche da
Francia e Usa. Secondo l’Onu, il 2011 si chiude
con un bilancio di oltre 5mila morti.
2012
Il 6 gennaio il presidente siriano annuncia un
referendum sulla nuova Costituzione, che viene approvata il 26 febbraio con una maggioranza, secondo fonti governative, dell’89,4 per
cento. Intanto al Assad attacca Homs, al confine con il Libano, che all’inizio del 2012 diventa la città martire per eccellenza, con centinaia
di morti. L’afflusso di miliziani stranieri, iniziato l’anno precedente, diventa consistente. Fanno la loro comparsa le brigate islamiche, circola la voce che al Qaeda abbia stabilito delle basi in Siria con l’aiuto del Qatar. Attentati contro
i quartieri cristiani colpiscono Aleppo e Damasco. Il 12 febbraio la Lega araba chiede all’Onu
l’invio di Caschi blu, ma la proposta viene respinta. Qatar, Arabia Saudita e Turchia forniscono armi, per via ufficiale e informale, ai ribelli. Le Nazioni unite designano l’ex segretario
generale Kofi Annan come mediatore nel conflitto, ma ad agosto Annan rinuncia al suo mandato «a causa di divisioni in seno alla comunità internazionale». La guerra civile, evocata da
Ban Ki-moon, arriva a Damasco. Il 18 luglio un
attentato colpisce la sede della Sicurezza nazionale: nell’esplosione muoiono il ministro e il vice ministro della Difesa, quest’ultimo cognato
del presidente siriano. Durante l’estate, mentre
infuria la battaglia a Damasco e Aleppo, diventa
alta la tensione al confine con la Turchia.
2013
A gennaio i ribelli conquistano la base aerea di
Taftanaz, con l’apporto decisivo delle Brigate
al Nusra, formazione legata ad al Qaeda. Al Nusra è considerata responsabile di massacri nel
left 31 agosto 2013
nord della Siria, soprattutto contro i civili curdi. Si calcola che siano circa un centinaio le brigate di fondamentalisti che sfuggono al controllo dell’Esercito libero siriano, saccheggiando le
aree “liberate” e imponendo la legge islamica
nei territorio sotto il loro controllo. Per preservare l’immagine di una ribellione moderata e democratica, anche l’Onu a maggio 2013 inserirà al
Nusra nella lista delle organizzazioni terroristiche, al pari di quanto già avevano fatto gli Usa.
Nel dicembre del 2012 si costituisce il Fronte islamico siriano, composto da 11 formazioni islamiste, capeggiate dai salafiti di Ahrar alSham. Il fronte islamico siriano non si riconosce
nel Cns, pur collaborando con l’Els. La presenza di formazioni estremiste ha consigliato agli
Stati occidentali prudenza nell’armare i ribelli:
fino a maggio 2013 le nazioni che partecipano al
Club degli amici della Siria escludono la possibilità di fornire attrezzature militari all’Els. A partire da aprile, quando la controffensiva di al Assad si fa più insistente e i ribelli perdono terre-
Nel 2012 Annan rinuncia al negoziato
e la guerra arriva a Damasco
no, la richiesta viene più volte reiterata. L’esercito lealista a poco a poco riconquista buona parte delle città in mano all’opposizione. Anche se
il 13 maggio la Ue toglie l’embargo sulle armi destinate alla Siria, tra aprile e luglio Assad può
vantare i successi conseguiti nella provincia di
Homs, da più di un anno governata dai ribelli. Ad
aiutare il presidente siriano ci pensano i libanesi
di Hezbollah. In diverse località si intensificano
scontri tra al Nusra e l’Esercito libero siriano.
A maggio gli ispettori dell’Onu segnalano l’uso
di armi chimiche da parte dei ribelli: la denuncia è di Carla dal Ponte, ma viene presto archiviata. L’utilizzo di queste armi diventa la linea
rossa che secondo gli Usa non deve essere superata e ad agosto i ribelli accusano il governo di averle sganciate. Le parole del portavoce
della Casa Bianca non lasciano spazio a dubbi:
un intervento ci sarà, ci deve essere. E l’Arabia
Saudita, che a luglio ha scavalcato il Qatar imponendo il suo candidato, Ahmad Djarba, alla
presidenza del Consiglio nazionale siriano, ha
vinto la guerra senza giocarla.
Aleppo, distretto
di Sulemain Halabi,
10 ottobre 2012.
Un soldato
dell’Esercito libero
siriano si apposta
durante gli scontri
con le forze lealiste.
La foto di Fabio
Bucciarelli ha vinto il
secondo premio del
World press photo,
spot news stories
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copertina
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FRONTE ORIENTALE
di Cecilia Tosi
La versione russa del conflitto in Siria è
opposta a quella che domina in Occidente.
Ce la spiega l’analista Fyodor Lyukanov
B
Una manifestazione
a Damasco nel 2012
a favore
del presidente
Bashar al Assad
e dell’alleato Putin
24
asta qualche ora di volo o una parabola satellitare per scoprire che in Siria
c’è un’altra guerra. Una guerra dove il
regime al potere è una vittima e i ribelli dei sanguinosi assassini, dove gli americani complottano con gli islamisti e i libanesi di Hezbollah
sono eroi buoni. Basta sentire la versione dei
russi. Che al contrario degli italiani, degli inglesi e degli americani non ascoltano i giornalisti
entrati in Siria a fianco dei ribelli, perché i loro
reporter vanno insieme all’esercito regolare. E
i loro servizi sono speculari ai nostri. Le dirette da Aleppo o da Damasco mostrano reporter
nerboruti che schivano una pioggia di granate e
missili lanciati dai ribelli. Una prospettiva che
ci spiega Fyodor Lyukanov, direttore del Consiglio russo per la politica estera e di difesa.
Cosa pensano oggi i russi della crisi siriana?
È semplice. Pensano che quest’attacco chimico
addebitato ad Assad sia una provocazione, costruita ad arte per scatenare l’intervento americano. Perché il regime stava avendo la meglio
sui ribelli e non avrebbe avuto alcuna ragione di
usare queste armi, e rischiare che l’Occidente
si mobilitasse. Mentre l’opposizione aveva tutto l’interesse a impiegarle per attirare gli Usa.
I russi hanno prove della contraffazione?
Non ce n’è bisogno. Per dimostrare la cattiva fede degli occidentali basta vedere come si sono
comportati: hanno deciso l’intervento imme-
«L’incubo del Cremlino
è il modello Libia»
diatamente, senza nemmeno aspettare che gli
ispettori Onu si pronunciassero.
Come reagirà il Cremlino all’intervento Usa?
Di sicuro negativamente. Non interverrà con le
armi, perché formalmente non c’è nessuna alleanza militare con la Siria, ma politicamente tenterà di orchestrare una forte resistenza internazionale alle operazioni occidentali. Il Cremlino
avrà presto occasione di perorare la sua causa di
fronte alle potenze mondiali: all’inizio di settembre ci sarà il G20 a San Pietroburgo e anche un incontro informale dei Paesi Brics. Inoltre il 13, in
Kirghizistan, si riunirà l’organizzazione di Shangai, che riunisce buona parte dei Paesi asiatici. I
russi potranno incontrare lì sia i cinesi che gli iraniani e creare un fronte anti occidentale.
Stiamo parlando di posizioni ufficiali, ma
dietro le quinte cosa si muove?
La Russia potrebbe intensificare la sua cooperazione con l’Iran, anche militare.
La popolazione russa condivide le posizioni del Cremlino?
La maggioranza della popolazione è contraria
all’intervento occidentale in Siria. I russi sono
culturalmente contrari all’uso della forza al di
fuori dei propri confini. Ritengono che gli Usa
bombardino chiunque non stia al loro fianco.
Quali interessi difende la Russia in Siria?
Tanti sottolineano l’importanza del porto siriano
di Tartus, l’unico delle forze armate russe al di
fuori dell’ex Urss, ma in realtà la sua importanza
è solo simbolica, perché non è una base navale
ma solo una stazione di rifornimento. I russi non
lottano per avere un posto in Medio Oriente, ma
per impedire che il modello Libia si imponga come regola nella comunità internazionale. E cioè
che gli Usa e i suoi alleati europei decidano di intervenire in Paesi strategicamente importanti
senza l’approvazione dell’Onu. E siccome in Medio Oriente la Russia non ha buoni rapporti con i
sunniti, gli unici alleati che possono coltivare sono i Paesi sciiti: Siria e Iran.
31 agosto 2013
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copertina
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I DUBBI DEL
CONGRESSO
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di Emanuele Bompan
Repubblicani e base
democratica non vogliono
che Obama decida
da solo l’attacco alla Siria
N
on sarà un’altra Libia. A Capitol Hill un
numero crescente di parlamentari sta
agitando le acque per avere una verifica sull’intervento americano in Siria. Questa volta a fare pressione sul presidente non sono solo le
frange più liberali e pacifiste dei democratici, ma
anche molti repubblicani. left ha contattato Devin Nunes, deputato californiano conservatore.
«Non dobbiamo prendere in considerazione alcuna azione militare in Siria finché non avremo
informazioni più dettagliate sulle armi chimiche
impiegate da Assad», spiega. Le prove in mano
al Pentagono non sono ancora sufficienti. «Dobbiamo essere certi su chi abbia lanciato l’attacco, quali armi chimiche siano state impiegate, e
se anche l’opposizione siriana abbia accesso ad
arsenali chimici». I repubblicani odiano Assad,
temono le forze di al Qaeda nelle file della resistenza anti-governativa, ma più di tutto detestano l’ingerenza del presidente Obama nei confron-
ti del Congresso, che almeno fino a fine 2014 sarà
in mano repubblicana. «Il presidente Obama deve consultarsi con il Parlamento per ogni azione
militare e assicurare, in caso di attacco, obiettivi
chiari e una strategia efficace», aggiunge Nunes.
Secondo la legge sui poteri presidenziali in stato
di guerra (War powers resolution), «senza un attacco nei confronti degli Stati Uniti, il Congresso
deve approvare ogni azione militare».
I piani di Obama dunque potrebbero essere ostacolati da una coalizione bipartisan? Al momento,
oltre 33 parlamentari, in maggioranza repubblicani, hanno firmato una lettera al presidente per
riconsiderare l’attacco alla Siria. «Sebbene molti
democratici siano favorevoli, la loro base è contraria», spiega un membro dello staff di Capitol
Hill che chiede l’anonimato. «Se la pressione sui
politici aumenta, potrebbe allungarsi la lista dei
firmatari della lettera». Il dilemma democratico
è: «Appoggiare Obama o perdere consensi?».
Washington,
la sede del
Congresso
americano.
Sotto, Devin
Nunes, deputato
repubblicano
SE VUOI LA PACE, PREPARA LA PACE. APPELLO AL GOVERNO ITALIANO
Il popolo siriano è vittima quotidiana
delle peggiori atrocità in una guerra
civile che - secondo le Nazioni unite
- ha già fatto 100mila morti e milioni di
sfollati. La situazione in Siria è drammatica, ma un intervento militare non
servirà a pacificare il Paese. L’ultimo
decennio ha mostrato che le guerre
alimentano ed esasperano violenza e
fondamentalismi di ogni tipo. È sufficiente guardare la Libia, l’Afghanistan
o l’Iraq “pacificato”, dove attentati
e vittime civili continuano a essere
all’ordine del giorno nell’indifferenza
generale. La guerra causa sempre
vittime innocenti: più del 90 per cento
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civili inermi. Per questi motivi l’Italia ripudia la guerra. E la Costituzione non
dice che l’Italia può cedere sovranità
per fare guerre ma, anzi, afferma che
il nostro Paese pur di assicurare pace
e giustizia tra le nazioni è disposta a
«cedere parte della sua sovranità».
Nessuno lavora sulla prevenzione dei
conflitti e sul rispetto dei diritti umani.
Sarà il popolo siriano a fare le spese
del prossimo intervento militare. Quel
popolo ha bisogno della comunità
internazionale, ma non dall’alto di un
bombardiere: ha bisogno che sia la
diplomazia, in tutte le sue facce, a farsi avanti. Ha bisogno che la comunità
internazionale smetta di considerare
la guerra come opzione possibile.
Un intervento armato non porterà
soluzioni, ma un crescendo di lutti e
disastri. L’Italia si metta a lavorare per
costruire nel mondo pace e diritti e si
chiami fuori da questa guerra.
Firma su: www.change.org/it/petizioni/siria-se-vuoi-la-pace-preparala-pace
Primi firmatari: Maso Notarianni,
Stefano Rodotà, Maurizio Landini, Cecilia Strada, Fiorella Mannoia, Guido Viale, Marco Revelli,
Frankie Hi-Nrg Mc
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L’ALTRASINISTRA
di Manuele Bonaccorsi
Stefano Rodotà, Maurizio Landini, Gustavo Zagrebelsky, Luigi Ciotti
e centinaia di associazioni. Scendono in campo per cambiare la politica.
Agitando le acque stantie dei partiti. Parole d’ordine: Costituzione,
lavoro, diritti. Appuntamento a Roma l’8 settembre
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M
anca ancora un nome. E anche un
orario e un indirizzo. C’è, per adesso, solo una data: l’8 settembre.
Ma non è un armistizio. È piuttosto l’inizio della resistenza. Stefano Rodotà, Maurizio Landini, Gustavo Zagrebelsky, e ancora Luigi Ciotti, Gino Strada, e dietro loro centinaia di associazioni, che in questi anni non si sono adeguate alla crisi della politica. E che, nonostante la
sordità dei partiti, hanno continuato a proporre un’Italia diversa. left, lo scorso 6 aprile, nel
bel mezzo dello stallo post elettorale, li aveva
messi in copertina, chiamandoli “i nostri saggi”,
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in contrapposizione con altri saggi, quelli nominati da Napolitano per aprire le porte al governo di larghe intese. Adesso scendono in campo.
Per riannodare quel filo ideale che dalla primavera dei sindaci del 2011, passando per la vittoria dei sì al referendum sull’acqua pubblica,
arriva all’entusiasmo suscitato dalla candidatura di Rodotà come Presidente della Repubblica, passando per il corteo della Fiom di maggio
e la piazza del 2 giugno di Libertà e giustizia in
difesa della Costituzione. Per «porre una diversa agenda politica», per creare nel «vuoto della
politica», «uno spazio agibile da tutti i cittadi-
Da sinistra
in senso orario:
Maurizio Landini,
Stefano Rodotà e
Gustavo Zagrebelsky
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Civati (Pd) scrive a Rodotà: «Stefano,
c’è davvero bisogno di un nuovo partito?»
ni», come ha detto Stefano Rodotà in una conferenza stampa convocata il 6 agosto.
In alto, festeggiamenti
per la vittoria
del Sì al referendum
sull’acqua pubblica
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Calendario: l’8 settembre un’assemblea aperta, a Roma. Poi, il 5 ottobre, una manifestazione nazionale, con tre parole d’ordine - lavoro,
Costituzione, diritti - e una precisa collocazione politica, contraria al governo di larghe intese. Poi, la costruzione di coordinamenti territoriali, in tutto il Paese. E dopo? Dopo si vedrà.
Per ora i diretti interessati smentiscono di voler presentare liste elettorali, alle europee o alle
probabili politiche anticipate. Di un nuovo partito non si parla nemmeno. Non è questo il tema
all’ordine del giorno. Ma nessuno può escludere che ci si arrivi, prima o poi. Specie se i partiti, il Pd in particolare, non sapranno aprire una
interlocuzione col nuovo soggetto politico. Politico, esatto. Lo dice chiaro e tondo Maurizio
Landini: «Il problema non è fare un nuovo partito, ma dare voce e spazio a chi vuole costruire una politica diversa. E facendo così noi certo che facciamo politica». Il tabù è rotto. Resta
una domanda: saranno capaci i partiti di ascoltare quella voce, di dialogare in autonomia con
lo spazio politico aperto dai “partigiani dell’8
settembre 2013”? L’intenzione dei promotori è
di togliere la sordina: «Vogliamo imporre una
nuova agenda politica», ha affermato Rodotà.
La nuova agenda non ha solo pagine bianche. Al
numero uno c’è il lavoro, come spiegano i sindacalisti della Fiom, in queste settimane alle
prese con la fuga estiva di molte aziende e con
la testardaggine di Marchionne, che non vuole
dare seguito alle sentenze che hanno dato torto alla Fiat. Spiega Michele De Palma, giovane componente della segreteria nazionale della Fiom: «Noi possiamo confinarci nel perimetro della contrattazione sindacale. Ma se la Fiat
continua a fare ciò che vuole, rifiutandosi persino di applicare le sentenze della magistratura, nel silenzio della politica, allora a noi non resta che mettere in campo una iniziativa politica». È una causa di forza maggiore: «Noi saremmo contenti di fare ognuno il proprio mestiere, ma se chi ha la responsabilità politica non fa
nulla, allora tocca a noi colmare questo vuoto».
Senza costruire, però, castelli di sabbia: «Non si
può partire dall’idea di un soggetto, non si possono anteporre gli strumenti agli obiettivi. Oggi
la crisi mette le persone una contro l’altra. Noi
dobbiamo ricostruire una coalizione sociale».
Dello stesso avviso è anche Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e giustizia: «Non è detto che ogni movimento di idee sfoci necessariamente in un partito politico. Oggi non mancano i
partiti, ma la rappresentanza», spiega. Non è da
escludere, insomma, che singoli esponenti delle forze politiche possano dialogare con “quelli dell’8 settembre”, o che possano firmare documenti o preparare mozioni e progetti di legge ispirati dall’elaborazione del gruppo parto-
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rito da Rodotà, Landini e Zagrebelsky. «L’obiettivo è di mettere al centro dello spazio politico
l’applicazione della Costituzione. Le forze politiche saranno giudicate anche su questo», spiega la giornalista, tra le organizzatrici della manifestazione bolognese del 2 giugno, quando oltre 100 associazioni scesero in piazza per un’assemblea convocata in difesa della Carta fondamentale. Ed è proprio su questo tema che i “partigiani dell’8 settembre” tengono a caratterizzarsi: questo Parlamento non può modificare la Costituzione, perché eletto con una legge elettorale incostituzionale.«La priorità oggi è cancellare il porcellum», ha affermato Stefano Rodotà.
E i partiti? Per ora restano a guardare. Per l’eccessiva distanza, come nel caso di Letta e Renzi.
O con trepidazione, come fa Pippo Civati, candidato alla segreteria del Pd, tra i pochi democratici da sempre contrari alle larghe intese. «Ho
seguito la conferenza stampa tua, di Maurizio
Landini e Gustavo Zagrebelsky», scrive il deputato lombardo sul suo blog, rivolgendosi direttamente a Stefano Rodotà. «Ne ho apprezzato
toni e contenuti e mi è sembrato uno dei pochi
momenti nei quali si sia fatta politica, nelle ultime stravolte settimane». Continua Civati: «Come sai, penso che l’unico luogo di dibattito sia
il Congresso del Pd. L’unica speranza - che certo
appare paradossale - di cambiare le cose in profondità». Un tentativo di seduzione, per nulla
velato: «Te lo dico spudoratamente, vorrei contare su di te. Sarebbe un peccato disperdere e disperderci, proprio ora, senza trovare una chiave
comune per cambiare. E riscattare il presente, il
passato e anche il futuro». Emblematico il titolo
del post: «Caro Stefano, c’è davvero bisogno di
un nuovo partito?». Sulla rete non si trova traccia di una risposta del Costituzionalista.
Alla domanda ha risposto su twitter Nicola Fratoianni, deputato di Sel, tra i più ascoltati consiglieri di Nichi Vendola. Chiaro e netto, come
impone il social network dei 140 caratteri: «Caro Pippo, sì. Di certo c’è n’è bisogno, perché un
dibattito nelle larghe intese non è un granché in
tema di speranze». E qui le divergenze politiche
tornano in campo, troppo nette per non farci i
conti. «Il Pd è intento in una discussione tutta
interna, clamorosamente interna: non so se tra
i democratici ci siano le condizioni per ascolta-
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re i contenuti di questo progetto», spiega Fratoianni. Il problema è scottante. Perché se da un
lato Sel è molto sensibile ai richiami di personalità come Rodotà e Landini, dall’altro nel dibattito del Pd fa spesso capolino l’ipotesi di rimettere in campo l’allenza “Italia bene comune”,
quella della gloriosa macchina da guerra bersaniana. Non solo nell’elaborazione di Pippo Civati, da sempre contrario alle larghe intese. Ma
anche nei documenti di esponenti della vecchia
guardia democratica, come Cuperlo e Bettini. Il
braccio destro di Veltroni, ad esempio, il 6 settembre sarà la guest star della festa di Tilt, organizzazione giovanile vendoliana, insieme al vicepresidente della Regione Lazio Massimiliano
Smeriglio, di Sel. Il rapporto tra Sel e Pd, insomma, non si è mai del tutto chiuso, come tra due
Fratoianni (Sel): «Serve un nuovo soggetto
politico della sinistra»
ex fidanzati che continuino a frequentarsi. E in
questo difficile rapporto di coppia, l’iniziativa
di Rodotà e Landini precipita come un fulmine.
Dentro Sel Fratoianni è tra i più duri. Per lui il tema del rapporto tra Sel e il Pd è attualmente «indicibile». «È impossibile immaginare che Sel, anche con la propria autonomia, possa stare dentro un soggetto che si colloca all’interno le larghe intese». Porte aperte, invece, a “quelli dell’8
settembre”: «Parteciperemo a questo percorso,
per noi è un appuntamento importante. La sinistra di questo Paese ha bisogno di un nuovo soggetto capace di ricostruire l’efficacia della politica. Questo non vuol dire che domani si apra l’ennesimo rassemblement della sinistra italiana.
Ma certamente serve un campo più largo per una
prospettiva che non affondi nelle sabbie mobili
delle larghe intese». La nascita dello “spazio politico” di Landini, Rodotà e Zagrebelsky avverrà
in contemporanea al percorso congressuale di
Sel, che si aprirà questo settembre. Spiega Fratoianni: «Vogliamo realizzare un congresso aperto,
fino in fondo, trovando meccanismi che consentano la partecipazione anche di chi non è iscritto,
a partire dai promotori dell’8 settembre».
Il cantiere è aperto. E i promotori lo giurano:
non finirà come la sinistra Arcobaleno, né come Rivoluzione civile. Questa volta si scende
in campo per restarci.
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IL PORCELLUM
NON VUOLE MORIRE
di Sofia Basso e Rocco Vazzana
Cambiarlo era nei programmi di tutti gli schieramenti. Ma ancora una volta
si rischia di andare a votare con la vecchia legge elettorale. Tra i mal di pancia
dei parlamentari M5s per la giravolta di Grillo e le occasioni perse del Pd
C
hi ammazzerà il Porcellum? Forse nessuno. Cambiare la legge elettorale era
nei programmi di tutti gli schieramenti, ma dopo 4 mesi di governo la “porcata” è ancora lì. E per l’ennesima volta si rischia di tornare alle urne con l’odiata Calderoli.
Persino Beppe Grillo - da sempre aspirante macellaio dell’attuale sistema elettorale - si è detto
pronto a tornare al voto senza neanche l’introduzione delle preferenze, creando diversi mal di
pancia all’interno del Movimento 5 stelle. «Solo
qualche “anima bella” pensa di poter correggere
30
ora il Porcellum», ha scritto l’ex comico nel suo
blog il 26 agosto. Ma le “anime belle”, a quanto pare, tra i 5 stelle ci sono e sono pure convinte che
non cambiare la legge elettorale equivarrebbe a
tradire la volontà dei cittadini. «Non so perché
Grillo abbia scritto quel post, non parlo con lui da
tempo», dice il senatore M5s Francesco Molinari. «Ho paura che anche noi stiamo diventando tattici alla D’Alema. Il paradosso è che chi sta
fuori dal Parlamento è più tattico di chi sta dentro». In altre parole, la faccia davanti agli elettori la mettono gli eletti e Grillo farebbe bene a mi-
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surare i suoi interventi. «Abbiamo sempre detto
che eravamo contro il Porcellum, per questo sono nati i V-day», continua Molinari. «Se adesso facessimo un passo indietro sarebbe come tradire
noi stessi. Grillo fa il suo lavoro come ha sempre
fatto, noi non gli diciamo cosa deve scrivere e lui
non dice a noi quello che dobbiamo fare». Prova
a gettare acqua sul fuoco, invece, Vito Crimi, ex
capogruppo al Senato del partito stellato e membro della commissione Affari costituzionali. «I
malumori interni non nascono per i contenuti dei
post di Beppe ma dalle modalità con cui vengono espressi», spiega Crimi. «Noi siamo contro il
Porcellum e l’abbiamo sempre detto. Però dopo
la condanna di Silvio Berlusconi è scattato l’allarme perché Pd e Pdl hanno attivato una procedura
d’urgenza per cambiare la legge elettorale. Il loro
obiettivo in realtà è di portare a casa presidenzialismo e doppio turno. Se queste sono le condizioni, allora andiamo a votare subito». A costo di rimanere impantanati al Senato anche nella prossima legislatura. «A maggio abbiamo presentato
una mozione che è stata bocciata», ribatte Crimi,
«prevedeva quattro semplici cose che sarebbero
servite a correggere il Porcellum: ripristino della preferenza, premi di maggioranza analoghi tra
Camera e Senato, limite dei due mandati e incandidabilità in più di una circoscrizione». E dopo le
aperture di Violante a Berlusconi, alcuni 5 stelle
temono di rimanere “fregati” da un eventuale accordo tra i due partiti di maggioranza che punterebbe a tagliar fuori il Movimento alle prossime
elezioni. «Il Pd sta già offrendo una stampella al
Pdl», dice il deputato Stefano Vignaroli, «gli inciuci non li fanno in Aula ma in altre stanze in cui
noi non ci sogniamo nemmeno di entrare. Perché
dovremmo provare a cambiare la legge elettorale
con chi già si è accordato con Berlusconi?».
I democratici, invece, rivendicano di essere
l’unico partito con una posizione «storicamente determinata negli atti parlamentari». Già nella
scorsa legislatura, infatti, il Pd aveva presentato
la sua proposta di sistema a doppio turno di collegio con una correzione proporzionale. Ma quale
riforma sia possibile con questo Parlamento, non
lo sa neppure Gianclaudio Bressa, presidente
del Forum Pd riforme dello Stato: «Il nostro impegno è per una legge che sciolga i nodi evidenziati dalla Corte costituzionale, cioè il premio di
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maggioranza senza soglia e la diversità di premi
tra Camera e Senato. Per Bressa, membro della
commissione Affari istituzionali di Montecitorio,
bisognerebbe lavorare anche sui meccanismi di
scelta dei candidati: «Si devono introdurre collegi uninominali o preferenze». Tra le varie ipotesi,
il deputato Pd cita anche quella ventilata da Luciano Violante, con un secondo turno di coalizione. «Se c’è la volontà politica si può cambiare la
legge elettorale in 30 giorni, altrimenti non si farà nulla», riassume, «il Pd è l’unico partito che ha
una posizione chiara e che vuole cambiare il Porcellum. Negli altri vedo grande ipocrisia e grande
tattica». Bressa si dice disponibile anche a un ritorno al Mattarellum nel caso ci fosse una maggioranza, ma ci tiene a precisare che non ci sarebbe una legge pronta, visto che si dovrebbero «ri-
Molinari (M5s): «Siamo nati con i V-day,
ora rischiamo di diventare tattici, alla D’Alema»
definire tutti i collegi, fermi al censimento 2001, e
correggere le storture che permettevano le liste
civetta». Rimane però il fatto che a fine maggio,
quando M5s e Sel erano pronti a votare la mozione del renziano Giacchetti, il Pd costrinse i suoi a
fare marcia indietro. Un’occasione persa? «Non
era il momento per fare la riforma», spiega Bressa, «perché si stava discutendo se avviare un percorso costituzionale. Prima si delineano le regole del cambiamento, poi si varano i provvedimenti puntuali». Una lettura che non convince Pippo
Civati, che chiede la cancellazione del Porcellum sin dai primi giorni del governo Letta. Il candidato alla segreteria Pd incalza i suoi: «Se continuiamo così, la cosa migliore è fare una legge
elettorale e andare al voto. Dobbiamo proporre
ai Cinque stelle di tornare al Mattarellum. L’hanno già sostenuto con la mozione Giacchetti, non
so come potrebbero votare contro. Se lo facessero, lo dovrebbero spiegare agli elettori». Anche
Felice Casson, senatore democratico che già
nel 2006 presentò un disegno di legge per tornare all’uninominale, ribadisce l’intenzione del suo
partito di cambiare la legge elettorale: «Se dovesse cadere il governo, dovremmo trovare lo spiraglio per fare la riforma con qualsiasi maggioranza. Credo che sia possibile, ma bisogna ragionare
passo passo». Per non morire di Porcellum.
Dall’alto in basso:
Pippo Civati,
candidato segretario
Pd; Vito Crimi,
senatore M5s;
Gianclaudio Bressa,
deputato Pd;
Francesco Molinari,
senatore M5s
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Università
al capolinea
di Pietro Greco
Non è vero, come diceva l’ex ministro Fornero, che «in Italia
ci sono troppi laureati». Al contrario, sono pochi. Gli iscritti
continuano a calare e la forbice col resto del mondo aumenta
L
Università di Roma
La Sapienza,
statua della Minerva
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a disoccupazione giovanile in Italia ha
superato il 40 per cento. Che vuole, signora mia - diceva il ministro del Welfare di un recente governo - ci sono troppi laureati.
Anche i figli degli operai vogliono fare i dottori.
Così non trovano lavoro. E poi, aggiungeva un
noto economista, in Italia si spende troppo per
l’università. Ogni studente ci costa il doppio che
in Francia o in Germania. Bisogna tagliare le
spese, alzare le rette, cacciare i fannulloni. I dati
recenti ci dicono, ahinoi, che questo programma
è stato realizzato. Peccato che le premesse fossero del tutto sbagliate. E che per questo l’Italia
sta uccidendo nella culla il proprio futuro. Che il
programma sia stato realizzato è un fatto. Come
denuncia la Conferenza nazionale dei rettori in
un suo recente rapporto, le spese per l’università sono state tagliate del 14 per cento rispetto al
2008 (all’incirca 1,5 miliardi). Intanto i presunti
fannulloni sono stati mandati a casa: il corpo docente è infatti diminuito del 22 per cento negli
ultimi dieci anni. I corsi della medesima percentuale. E gli studenti iscritti al primo anno sono
diminuiti del 17 per cento: erano 338.482 nell’anno accademico 2003/04 si sono ridotti a 280.144
nel 2012/13. Nel medesimo periodo le tasse di
iscrizione sono aumentate in media del 50 per
cento, passando, in media, da 632 a 948 euro per
anno. Per la felicità del ministro, i figli degli operai non si iscrivono più all’università. Vero è che
il numero di laureati è rimasto sostanzialmente
costante in questo decennio. Ma è probabile che
gli effetti del crollo degli iscritti si farà sentire
sulle lauree nei prossimi anni. Insomma, la campagna contro l’università in Italia ha prodotto i
suoi frutti. Il guaio è - per i giovani italiani e per
il Paese - che il mondo va in assoluta controtendenza. E che le premesse dell’idea «in Italia ci
sono troppi laureati» siano tutte sbagliate lo dimostra Education at a Glance 2013, il rapporto
sui sistemi formativi nel mondo pubblicato nelle
scorse settimane dall’Ocse.
Primo dato: i giovani laureati aumentano di
numero in tutto il mondo. Costituiscono, ormai, il 40 per cento della popolazione nella
fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni nei
Paesi che aderiscono all’Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico. In Corea del Sud hanno raggiunto il 64 per cento nel
2011: record planetario. Erano appena (si fa
per dire) il 37 per cento nell’anno 2000 e meno
del 10 nel 1980. Seul non è un’anomalia, ma la
punta di un iceberg. In Giappone i giovani laureati sono il 59 per cento, in Canada e in Russia
sono il 57, in Gran Bretagna il 47, in Francia il
43. In Italia sono appena il 21. Una buona crescita rispetto al 2000, quando i giovani italiani
con la laurea non superavano l’11 per cento.
Ma in termini assoluti, siamo alla metà della
media Ocse. A un terzo rispetto dalle punte
dell’iceberg. Non è dunque vero che in Italia ci
sono troppi laureati. La verità è specularmente opposta: ce ne sono troppo pochi. E se gli
iscritti calano, la forbice col resto del mondo
tende ad aumentare, non a diminuire.
Secondo dato: non è vero che l’università italiana costa troppo. È vero il contrario. Costa
troppo poco. Dice l’Ocse che la spesa procapite per studente in Italia ogni anno è di 9.580
dollari. Confrontatela con queste altre: Stati
Uniti, 25.576 dollari; Canada, 22.475; Svizzera,
21.893; Svezia, 19.562; Giappone, 16.015; Gran
Bretagna, 15.860; Francia, 15.067; Corea del
Sud, 9580. La media, nei Paesi Ocse è di 17.665
dollari. La media nell’Unione europea è di
12.865. La verità, dunque, è che per ogni nostro
studente noi spendiamo il 26 per cento in meno
della media europea e il 46 in meno della media
Ocse. Anche in termini relativi il confronto è
impietoso. Lasciamo stare il confronto con Stati Uniti, dove la spesa per l’università è pari al
2,8 per cento del Prodotto interno lordo (Pil),
o il Canada (2,7) e la Corea del Sud (2,6). Ma il
fatto è che noi spendiamo meno della metà del-
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Siamo l’unico Paese ad aver considerato
l’istruzione un bene di lusso
la media Ocse (2,1) e il 33 in meno rispetto alla
media dell’Unione europea. Di più, tra il 2008 e
il 2012 l’Italia è, tra i grandi Paesi Ocse, uno dei
pochi ad aver tagliato la spesa per l’università
e l’unico in cui i tagli sono stati, in percentuale, superiori alla diminuzione del Pil. Gli altri
Paesi hanno, per la gran parte, aumentato gli
investimenti, sebbene il Pil scendesse. E quei
pochi che hanno tagliato le spese, lo hanno
fatto comunque in misura minore del tasso di
recessione. Siamo gli unici ad aver considerato
l’università un lusso da eliminare.
Terzo dato: non è vero che le università italiane
sono troppe. In Italia abbiamo 61 università statali, 6 scuole superiori e 26 università non statali.
Totale: 93 istituti di educazione terziaria. In Gran
Bretagna ne hanno 141, in Germania quasi 400, in
Francia oltre 500, negli Stati Uniti 4.314. Giusep-
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pe De Nicolao, dell’università di Pavia, ha fatto
i conti: in Italia ci sono 1,6 centri di educazione
terziaria ogni milioni di abitanti; in Spagna 1,7;
nel Regno Unito 2,3; in Germania 3,9; in Francia
8,4 e negli Stati Uniti, addirittura, 14,5 milioni.
Allora sono troppi i corsi? Nel 2008, prima della
crisi, l’intensità era di 101 corsi per milione di
abitanti, contro i 154 della Germania e i 610 del
Regno Unito. Ma in questi ultimi anni, secondo il
sito Università.it Istruzioni per l’uso c’è stato
un taglio feroce: i corsi sono passati dai 5.519 del
2007 ai 4.324 del 2013, con un taglio del 21 per
cento. Allora sono troppi i professori? Niente affatto, dice l’Ocse, in Italia c’è un docente quasi
ogni 20 studenti. Negli altri paesi Ocse la media
è di un docente ogni 10 studenti o poco più.
Insomma, l’offerta formativa in Italia è largamente sottodimensionata rispetto a quella degli
altri Paesi. Allora è scarsa la qualità? Niente affatto: in tutti i (discutibili) ranking internazionali
il numero di università italiane che rientrano tra
le prime 500 del mondo è superiore, in termini
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società
left.it
© CORNER/LAPRESSE
Per l’Ocse la laurea è il primo antidoto
contro la disoccupazione giovanile
assoluti e relativi, a quelle della Spagna, sostanzialmente pari a quelle della Francia; non molto
inferiori a quelle di regno Unito e Germania.
Quarto dato: non è vero che la laurea è un
lusso che non possiamo più permetterci. È vero
che la disoccupazione giovanile cresce un po’ in
tutto il mondo, anche se in modo variegato. Nei
paesi Ocse il 20 per cento dei giovani è, ormai,
un Neet: non lavora e non studia. Ed è vero che
la disoccupazione cresce anche tra i giovani laureati (fascia d’età compresa tra 25 e 34 anni). Nel
2008 i giovani con laurea e senza lavoro nei paesi
Ocse erano il 4,6 per cento dei laureati, nel 2011
erano passati al 6,8. Ma, ciò nonostante, la laurea
è il primo antidoto, sostiene l’Ocse, contro la disoccupazione giovanile. Nel 2008, infatti, il tasso
di disoccupazione tra i giovani senza laurea era
del 13,6 per cento (9,0 punti percentuali in più
rispetto ai laureati), nel 2011 la disoccupazione
era salita al 18,1 (ben 11,3 punti in più rispetto ai
laureati). In media, nei Paesi Ocse, hanno un’occupazione il 60 per cento dei giovani con titolo
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non superiore a quello della media inferiore, il
70 per cento dei diplomati e l’80 dei laureati.
Non molto diversamente vanno le cose in Italia. È vero che tra i giovani con la laurea lavorano solo 68 su cento, ma tra quelli con un
titolo non superiore alla licenza media è occupato solo il 58 per cento. Dunque, ovunque nel
mondo, Italia compresa, chi ha una laurea ha
una chance in più di trovare lavoro.
Cosa ci dice, l’insieme di questi numeri? Che
in termini di politica dell’università stiamo sbagliando tutto. Se continuiamo così fra trent’anni
un plotone di Paesi avrà una popolazione in età
da lavoro composta per i due terzi da persone
con alle spalle circa venti anni di studio. La gran
parte dei Paesi avrà una popolazione adulta
composta quasi per la metà da persone laureate.
E solo in Italia i laureati saranno un’eccezione
(non più del 20 per cento della popolazione). Ci
saranno, dunque, due universi cognitivi. E noi
stazioneremo in quello marginale.
In un sua recente indagine sulla trasformazione dell’industria manifatturiera negli Stati
Uniti, la rivista Time paragonava l’operaio del
1960 a quello di oggi. Mezzo secolo fa l’operaio
non aveva bisogno di un titolo di studio, assemblava a mano i prodotti in fabbrica, lavorava nel settore delle auto, dei macchinari e del
tessile, aveva una paga oraria di 2,57 dollari.
Indossava una tuta blu.
Oggi anche un semplice operaio in una fabbrica americana ha per il 53 per cento un diploma e per il 10 per cento un laurea, lavora
col computer in linee automatizzate, lavoro
nel settore dell’alimentazione, della chimica
e delle macchine hi-tech, guadagna 24,11 dollari l’ora. Indossa il camice bianco.
In definitiva, viviamo nella società della conoscenza. E la formazione, insieme alla ricerca
scientifica e all’industria creativa, è uno dei tre
vertici del triangolo entro cui si muove, a velocità crescente, l’economia della conoscenza. Il
rapporto Ocse dimostra che tutto il mondo sta
puntando sulla formazione. Solo l’Italia sta tagliando sistematicamente il vertice dell’educazione superiore. E, con esso, il proprio futuro.
Una studentessa
alle prese con l’esame
di ammissione alla
facoltà di Medicina
all’università statale
di Milano
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società
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L’ineluttabile
decadenza
di Luigi Ferrajoli*
Ecco perché non c’è alcuno spazio per salvare lo scranno parlamentare
di Berlusconi. Nonostante i ricatti alle istituzioni del centrodestra
e gli stranissimi dubbi di alcuni giuristi di sinistra
I
l dibattito sulla decadenza da parlamentare di Silvio Berlusconi sta diventando sempre più penoso. All’analfabetismo istituzionale della destra si sono infatti aggiunte le opinioni di giuristi e commentatori anche di sinistra i quali, di fronte al ricatto di far cadere il
governo, hanno sollevato dubbi stranissimi sulle ragioni della decadenza. Queste ragioni sono
ben due, tra loro distinte e assolutamente chiare: l’inidoneità a ricoprire la carica di parlamentare per almeno sei anni, stabilita dalla legge
Severino, e la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici comminata con la condanna per frode fiscale, divenuta definitiva dopo la
pronuncia della Cassazione.
La prima ragione di decadenza, cioè l’inidoneità prevista dalla legge alla carica di senatore, è
del tutto indipendente dalla seconda: come dice l’art. 15 comma 2, essa «produce i suoi effetti indipendentemente» dalla concomitante «pena accessoria dell’interdizione». La legge Severino, infatti, non è una legge penale, ma elettorale. La decadenza da essa disposta non è perciò una sanzione, ma semplicemente l’effetto di
un’incompatibilità: «Non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore - dice l’art. 1 lett.
c - coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati,
per i quali sia prevista la pena della reclusione
non inferiore nel massimo a quattro anni». L’assenza di simili condanne è insomma un requisito dell’ufficio di parlamentare.
Quali sono, allora, i poteri del Parlamento in merito alla decadenza da senatore di Silvio Berlusconi? Nessuno, se per potere s’intende una potestà dotata di una qualche discrezionalità. Ciò
che il Senato può e deve fare, in base all’art. 3
della legge e all’art. 66 della Costituzione, è solo
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prendere atto «delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità» previste dal già
ricordato art. 1. Né d’altro canto ha alcun senso
e fondamento l’idea, ipotizzata da più parti, che
il Parlamento possa eccepire l’incostituzionalità della legge di fronte alla Corte costituzionale.
Infondata nel merito, una simile eccezione non
può essere sollevata dal Parlamento per assoluta mancanza di competenza.
Nel merito la Corte costituzionale si è già pronunciata, dichiarando legittima, con la sentenza
n. 118 del 1994, una norma analoga (l’art. 1 della legge n. 16 del 1992) in materia di elezioni amministrative. In quella sentenza la Corte dichiarò infondato l’argomento, anche allora sollevato, dell’irretroattività delle pene, non essendo
una pena l’inidoneità alle cariche elettive conseguente a gravi condanne penali. Ma soprattutto
la questione non può essere sollevata dal Parlamento. Le questioni di legittimità costituzionale delle leggi, come dovrebbe esser noto, possono essere sollevate solo nel corso di un giudizio
da un organo giurisdizionale. Ed è un non senso che il Parlamento, che non è un organo giurisdizionale ma un organo politico, possa eccepire l’illegittimità di una legge da esso stesso emanata. Altro che Parlamento divenuto «occasionalmente giudice terzo», come è stato detto da
Piero Alberto Capotosti! La decisione di sollevare l’eccezione sarebbe tutta politica, presa unicamente dall’attuale maggioranza che sostiene
il governo sotto il ricatto che il condannato ad
essa interessato ne provochi la caduta.
Né si dimentichi che la legge Severino fu votata pochi mesi fa da tutto il Pdl, che oggi ne scopre l’incostituzionalità solo perché danneggia
Berlusconi: il quale, a questo punto, dovrebbe
prendersela soprattutto con i suoi avvocati, che
pure siedono in Parlamento, e con tutta la sua
schiera di cortigiani parlamentari che oggi gri-
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società
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© SAMBUCETTI/AP/LAPRESSE
Tutt’altra questione, del tutto indipendente
dalla prima, è l’interdizione dai pubblici uffici disposta dalla sentenza di condanna confermata in Cassazione. Per questa pena la destra
chiede al Presidente della Repubblica la grazia
oppure la sua commutazione in una pena pecuniaria. Ammesso e non concesso che la grazia
possa travolgere la pena accessoria dell’interdizione, un simile provvedimento è del tutto inconcepibile. Sul piano politico - proprio perché
sarebbe motivato da ragioni puramente politiche, e non certo dalle “ragioni umanitarie” che
per giurisprudenza costante giustificano la grazia - esso equivarrebbe a una vistosa violazione della separazione dei poteri e del principio
di uguaglianza. Ma soprattutto la grazia è inammissibile per più motivi: 1) perché l’interessato
si rifiuta di farne domanda; 2) perché dei 4 anni
di reclusione inflitti già tre sono stati condonati per indulto; 3) perché Berlusconi ha in corso
altri procedimenti penali e la grazia è in tali casi esclusa dalla prassi; 4) perché non risulta che
Berlusconi si sia ravveduto e neppure - ammes-
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Una sentenza della Consulta
del 1994 dimostra che un ricorso
sulla legge Severino non avrebbe senso
so, come ha sostenuto, che non era a conoscenza della frode - che abbia restituito i 270 milioni
di euro da lui frodati allo Stato.
Aggiungo che il governo non può sottrarsi alla
responsabilità della decisione sulla grazia. È pur
vero che una sentenza del 2006 della Corte costituzionale ha affermato il carattere presidenziale
di tale decisione. Ma resta pur sempre il principio, stabilito dall’articolo 89 della Costituzione,
che «nessun atto del Presidente è valido se non
è controfirmato dai ministri proponenti, che ne
assumono la responsabilità». La grazia è perciò
un atto complesso, cui concorrono il Presidente
della Repubblica i ministri «che ne assumono la
responsabilità», in questo caso totalmente politica. E sarebbe francamente la fine del Partito Democratico se un governo presieduto da un suo
esponente si assumesse la responsabilità di un
atto così palesemente lesivo dello stato di diritto, come la grazia a un condannato per frode fiscale, solo per cedere al suo esplicito ricatto.
* docente di Filosofia del diritto
all’università Roma tre
© MOSCIALAPRESSE
dano all’attentato alla democrazia e che evidentemente non si accorsero di votare una legge
che avrebbe sanzionato la decadenza del loro
capo a seguito di un processo già allora giunto
alla fase conclusiva.
In alto, un interno
della Corte
Costituzionale.
In basso, l’ex ministro
della Giustizia
Paola Severino
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la scuola che non c’è
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Diminuiscono le iscrizioni alle università ma anche al Liceo umanistico. Soprattutto a Nord
Il Classico divario
di Giuseppe Benedetti
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© SPADA/LAPRESSE
N
el corso degli ultimi sei anni le ragazze e i ragazzi che
hanno scelto di iscriversi al liceo classico sono diminuiti di
oltre la metà. Contemporaneamente
le immatricolazioni universitarie sono calate del 20 per cento. Lo scorso
anno, dopo un lungo periodo di crescita, la spesa impegnata dagli italiani nella cultura è diminuita di tre miliardi di euro. Sono dati che fotografano impietosamente il declino del
nostro Paese. Relativamente al primo
dato, il dimezzamento degli iscritti al
classico, da diversi anni si potevano
riconoscere due tendenze: la femminilizzazione e la meridionalizzazione di questo percorso di studi. Le ragazze, in genere, sono più disponibili dei maschi a impegnarsi nello studio, come schiacciate in un ruolo sociale definito. Anche perché continuano a trovare un’organizzazione
del lavoro più esigente nei loro confronti, e pensano di poterla soddisfare con una solida formazione. La seconda tendenza si spiega con il cronico divario nord-sud. In un contesto
socio-economico dinamico, è molto più facile che proprio nelle scuole
del nord del Paese i giovani motivati allo studio intraprendano percorsi di formazione tecnica e professionale di qualità e con reali sbocchi occupazionali. Al sud, invece, lo stato di
abbandono in cui è lasciata la scuola
tecnica e professionale - dall’assenza o dall’obsolescenza dei laboratori
al disinteresse delle imprese - non lascia alternative a chi intende investire tanto nell’impegno scolastico. Se
in altri Paesi, per esempio negli Usa
e in Francia, l’abbandono degli studi
umanistici nelle università è una questione presa in carico dai rispettivi
governi, in Italia tutto tace.
Qui non si tratta di stabilire un primato tra le due culture, umanisti-
Sono soprattutto
le ragazze meridionali
a iscriversi al ginnasio
ca e scientifica, sia perché la cultura umanistica non è contro la cultura scientifica sia perché oggi si tende
spesso a confondere scienza e tecnologia. Il netto calo delle iscrizioni
al liceo classico preoccupa perché,
per ragioni dipendenti dalle scelte
politiche degli ultimi vent’anni, questo percorso di studi raccoglie i giovani più disponibili a farsi trascinare nello studio e nella ricerca. È gravissimo che questo patrimonio non
venga tutelato e, anzi, sia stato e continui a essere il bersaglio prediletto
di un fronte politicamente trasversale che riduce gli studi umanistici
a un vano culto del passato. Probabilmente il modo migliore per difendere questo patrimonio non è quello
di lasciare tutto così com’è, ma di sicuro si è rivelata sbagliata la strategia egualitaria del livellamento degli
studi verso il basso. In questo ha avuto buon gioco il “donmilanismo degli
stenterelli” che, da destra e da sinistra, ha lavorato per demolire quel-
la che dagli anni Settanta non era
più scuola d’élite e per raggiungere
l’obiettivo di una formazione azzoppata che fa diventare tutti ugualmente ignoranti. Inseguendo l’eliminazione dell’elitarismo nella formazione, i nuovi conservatori, travestiti da
riformisti, hanno consolidato nuove e durature ingiustizie e calpestato un diritto fondamentale: il diritto all’istruzione di qualità. Ora sono
pronti a sferrare l’ultimo assalto alla
scuola pubblica di qualità, presentata come un lusso che uno Stato virtuoso, divenuto buon amministratore di se stesso, non può permettersi.
Perciò hanno tirato fuori la formula
demagogica della vicinanza ai cittadini, la sussidiarietà, che nasconde
la volontà di privatizzare. La fuga dai
classici perciò va letta non solo come un tentativo di difesa da un destino di disoccupazione in un Paese privo di progettualità e incapace
di valorizzare il proprio patrimonio
culturale, ma anche come un’impennata dell’indice di sfiducia dei cittadini nei confronti di un istruzione di
qualità capace di determinare il proprio futuro, al riparo da raccomandazioni e altre ingiustizie.
[email protected]
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Un campo di softball sotto il ponte di Manhattan
Sabato pomeriggio a Central park
Ginnastica a Central park
BORN TO RUN
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foto di
Tim Clayton
Lapresse
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mondo
Campi di basket all’angolo della West 4th street
Una jogger fa stretching contro un muro del Greenwich Village di prima mattina
Joggers lungo la 11th Avenue West Side
A New York è boom di sport da strada. Dalla corsa allo skateboard, dal golf
al basket. Nei parchi o sui marciapiedi. L’importante è muoversi a costo zero
left 31 agosto 2013
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mondo
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Ciclisti al Greenwich Village
Una donna fa ginnastica in una palestra dell’Upper East Side
Driving range (un tipo di golf) al molo di Chelsea
N
ella città degli opposti, popolata
da salutisti ossessivi e divoratori di
junk food, vive un popolo di sportivi. Soprattutto corridori e pattinatori. Mentre
il traffico congestiona le vie della Grande Me-
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la, i newyorkesi (più di otto milioni di abitanti)
si dedicano con sempre maggiore convinzione
agli sport di strada. Ovviamente il luogo eletto
è Central park, l’enorme parco pubblico al centro di Manhattan (840 acri), completamente
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Giocatori di pallamano nei campi del West 4th street durante una partita pomeridiana
Pattinatori a rotelle a Central park
Uno skateboard lungo Chelsea street fotografato da un taxi di New York
chiuso al traffico nei weekend, con i suoi prati sconfinati, le piste da pattinaggio, le rocce da
scalare, la sua piscina all’aperto e i bunker per
golfisti. Il suo Park drive (9,7 km di perimetro)
è ideale per joggers e ciclisti. A correre si va an-
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che a Prospect park a Brooklyn o sui Chelsea
Piers, i moli del fiume Hudson, attrezzati con
strutture sia coperte che all’aperto, che permettono di spaziare dall’hockey sul ghiaccio
al beach volley. Non manca chi preferisce in-
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Un pattinatore sfreccia nel Midtown Manhattan
Boccie nel parco di Washington Square
I riflessi della pista di ghiaccio nel molo di Chelsea
forcare la bicicletta per sfrecciare col suo caschetto sulle tante piste ciclabili o chi sfida i vicini di casa nei campetti di basket del quartiere. In realtà, ogni angolo è buono per l’attività
fisica: dall’alba al tramonto, newyorkesi d’ogni
44
età e di ogni colore infilano scarpe e vestiti
sportivi e si allenano all’ombra dei grattacieli o
degli alberi cittadini. Che sia jogging, skateboard, bicicletta, pattini a rotelle, stretching o baseball. L’importante è muoversi. A costo zero.
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cultura
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Quando il cervello
invecchia
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Letteratura.
Onda neogreca
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Munch
da urlo
Il 70esimo Festival del cinema di Venezia il 31 agosto festeggia il talento di
un divo “contro corrente” come James Franco.
L’attore, regista e scrittore (Minimun Fax ha pubblicato il suo In stato di
ebbrezza) è presente alla Mostra con ben due film
Child of God, tratto dal duro romanzo di Cormac Mc
Carthy di cui firma la regia
e con Palo Alto dell’esordiente Gia Coppola.
scienza
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Invecchiamento
cerebrale
di Silvio Garattini
Alzheimer e altre malattie neurodegenerative sono tra le emergenze del
III millennio. Il direttore dell’Istituto Mario Negri ne parlerà in una lectio
magistralis al Festival della mente di Sarzana. Eccone un’anticipazione
L
a durata di vita dell’uomo, maschi e femmine, è aumentata in tutto il globo, sia
nei Paesi industrializzati, sia nei Paesi
emergenti, anche se in senso assoluto la differenza fra i due gruppi di Paesi è largamente
a vantaggio dei primi. Sono molti i fattori che
hanno contribuito a questo aumento ed è molto difficile assegnare priorità anche se indubbiamente la quantità e la qualità dell’alimentazione, l’adozione di migliori norme igieniche,
la diminuzione della povertà hanno avuto un
ruolo importante insieme ai progressi della
medicina che ha praticamente annullato la
mortalità indotta da malattie infettive e ha permesso di convivere, grazie ad alcuni farmaci,
con le malattie croniche. Un neonato maschio
che all’inizio del 1900 aveva una speranza di
vita di 42,6 anni è passato ad averne 63,7 nel
1950, a 74,6 nel 1995 e oggi è intorno ai 78 anni.
La speranza di vita che è attualmente ancora in
aumento è più generosa con le donne, perché
attraverso una continua crescita è passata dai
43 anni del 1900 ai circa 84 del periodo attuale.
Tutto ciò comporta un aumento delle persone
anziane. Questo fenomeno, peraltro, è accompagnato da un altro importante cambiamento,
cioè dalla diminuzione della natalità, ridottasi
praticamente in tutto il mondo da una media di
5 figli per donna del 1950 a 2,5 figli nel 2010. La
situazione in Italia è ancora più significativa,
perché a partire dal 1980 i nati vivi riescono a
mala pena a rimpiazzare i morti. Per questa ragione l’aumento della popolazione anziana non
dipende solo dall’aumento della durata di vita,
ma riceve un forte impulso dalla diminuzione
delle nascite. Così la rappresentazione classica della demografia della popolazione italiana
costituita da una piramide con una larga base
di neonati che si restringe sempre più con l’aumento dell’età si è trasformata in un parallelepipedo che, secondo le previsioni, nel futuro
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pare destinata a trasformarsi in una piramide
rovesciata. In altre parole assistiamo a un costante aumento nella popolazione dell’indice
di vecchiaia, inteso come il rapporto fra chi ha
65 o più anni e chi ha meno di 14 anni: nel 1950
era intorno a 20, nel 2000 era intorno a 125. Le
previsioni per il futuro sono preoccupanti perché si ritiene che nel 2050 l’indice di vecchiaia
possa avvicinarsi a 300.
Se tutti accettano ovviamente con soddisfazione l’aumento della durata di vita e sperano di
superare i 100 anni, un privilegio oggi limitato
a pochi, più difficile accettare che l’aumento
della durata di vita si accompagni necessariamente a un “indebolimento” dell’organismo e
inevitabilmente alla morte. Prima o poi tutti
gli organi vengono compromessi e purtroppo
il cervello che rappresenta la parte più nobi-
Si stima che in Italia gli anziani con demenza
siano più di un milione e 300mila
le dell’uomo non fa eccezioni. Infatti, molte
sono le variazioni a cui va incontro il cervello
a partire dalla nascita con la crescita del volume e del contenuto cerebrale, cui segue inevitabilmente, dal punto di vista statistico, una
riduzione a partire dall’età adulta: dall’età di
20 anni all’età di 90 anni il volume cerebrale
si riduce di circa il 30 per cento, una riduzione molto importante che riguarda soprattutto
l’ippocampo e la corteccia prefrontale, cioè le
parti del cervello che hanno a che fare con la
memoria e le funzioni cognitive. Per fortuna
c’è un’ampia variabilità individuale per cui persone di 90 anni possono avere un volume cerebrale non diverso da soggetti che ne hanno 60.
A questo importante cambiamento corrispondono significative modifiche morfologiche e
biochimiche. Per dare un’idea della comples-
Uno scanner ai raggi
X del cervello
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scienza
left.it
Con l’avanzare dell’età diminuisce il numero
dei neuroni, delle connessioni e delle “spine”
sità del cervello umano occorre ricordare che
contiene circa 100 miliardi di neuroni che sono
catalogabili in oltre 1.000 tipologie differenti.
Ogni neurone ha circa 1.000 connessioni con
altri neuroni cosicché si hanno circa 10 trilioni
di connessioni che rappresentano il cosiddetto
“connectoma”, cioè l’insieme della straordinaria rete da cui dipendono il pensiero, le emozioni, gli affetti nonché, attraverso il sistema
nervoso periferico, il controllo della circolazione e praticamente di tutti gli organi.
Per quanto se ne sa oggi, l’invecchiamento cerebrale si riflette a molti livelli diversi. Diminuisce
il numero di neuroni. Ma non solo: per i neuroni
che rimangono, diminuisce il numero di connessioni e sulle diramazioni neuronali (dendriti) si riduce notevolmente il numero delle spine
che rappresentano i punti di contatto fra le varie terminazioni nervose con conseguente impoverimento della concentrazione e dell’attività
dei neurotrasmettitori chimici. Contemporaneamente anche le cellule di supporto ai neuroni,
come gli astrociti, invecchiano e quindi si deteriora la rete che trasmette i segnali.
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Se passa certi limiti, l’invecchiamento cerebrale può diventare patologico. I sottili cambiamenti già descritti si accompagnano ad una
maggiore vulnerabilità dei neuroni. Lo stress,
i traumi, l’eccessivo carico metabolico possono determinare un deficit cognitivo e una vasta
degenerazione neuronale. Non va trascurato
l’apporto circolatorio che pure subisce il peso
dell’invecchiamento sia per l’arteriosclerosi sia
per l’occlusione capillare dovuta alla formazione di piccoli trombi. L’insieme di tutte queste situazioni viene normalmente semplificato anche
nel linguaggio popolare con il nome di malattia
di Alzheimer il cui esordio è spesso caratterizzato da deficit di memoria e il punto d’arrivo
è rappresentato dalla demenza. Va comunque
sottolineato che ciò che chiamiamo con lo stesso nome - demenza - è costituito da molti fattori
di tipo genetico ed ambientale. Un passo avanti
nelle conoscenze è stato determinato dalle moderne tecnologie che permettono di seguire in
vivo i test di memoria, l’aumento delle placche
neuritiche, costituite principalmente dall’aggregazione della proteina amiloide-beta nello
spazio extraneuronale (la proteina tau è presente nei grovigli neurofibrillari, l’altra lesione
“alzheimeriana” all’interno del neurone) e infine anche dalla diminuzione dell’utilizzo del glu-
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scienza
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cosio cerebrale che è un indice molto importante della funzionalità dei neuroni. Queste informazioni hanno importanza perché possono
dare indicazioni circa la possibilità di mettere a
punto farmaci capaci di prevenire, rallentare o
curare la demenza.
Da questo punto di vista, grazie anche alla
sperimentazione animale, l’attenzione è molto concentrata sulla amiloide-beta, perché si
ritiene che la deposizione di questa proteina
possa essere alla base della degenerazione
neuronale.
Tuttavia, si è osservato che non tutti i soggetti
in cui si è verificato un forte aumento dell’amiloide-beta nel cervello sono necessariamente
portatori della malattia d’Alzheimer. Così si è
potuto osservare in varie linee di topi “Alzheimer”, che cioè hanno deficit cognitivi, che la
neurotossicità non dipende solo dalle placche di amiloide, ma da alcuni composti detti
oligomeri, che sono i precursori della placca
amiloide. In studi di tipo comportamentale si
è osservato che gli oligomeri riducono la memoria nel topo e quindi possono rappresentare
un test per studiare farmaci che contrastano il
deficit di memoria. Che il cervello tema l’azione degli oligomeri è probabilmente dimostrato
dalla presenza nel cervello di sostanze dette
“chaperonine” che inattivano gli oligomeri
dell’amiloide. Una di queste proteine, la clusterina è in grado in piccolissime concentrazioni
di bloccare la tossicità degli oligomeri. Queste osservazioni condotte da vari ricercatori
all’Istituto Mario Negri aprono la possibilità di
nuove prospettive terapeutiche.
Riprendendo le considerazioni iniziali, l’aumento della popolazione anziana non può che
determinare un aumento della demenza nella
popolazione. Infatti, in uno studio condotto su
circa 2.500 anziani con più di 80 anni - la fascia di popolazione che in proporzione tende a
crescere più rapidamente - si è potuto stabilire
che circa il 18,6 per cento dei maschi e il 28,5
delle femmine soffre di demenza, una percentuale che sale rispettivamente al 33,9 e al 49,2
per cento nella popolazione di 90 anni o più.
Attualmente si stima che in Italia vi sia oltre
un milione e trecentomila persone con demenza fra la popolazione anziana (65 o più anni di
età), cifra destinata ad aumentare nei prossimi
anni. Si tratta di un’emergenza di cui nessuno
si rende conto. Politici-amministratori ma l’insieme della classe dirigente dovrebbe mettere
fra le priorità l’attenzione a questo grave problema promuovendo competenze, strutture,
servizi e ricerca in grado di farvi fronte.
© SPADA/LAPRESSE
APPUNTAMENTO A SARZANA
left 31 agosto 2013
L’eminente farmacologo Silvio Garattini è
tra i protagonisti della X edizione del Festival
della mente, a Sarzana, dal 30 agosto al 1
settembre. Proprio il primo settembre, alle
ore 10:30, nel Chiostro di S. Francesco, il
direttore dell’Istituto Negri parlerà di invecchiamento cerebrale e di nuove ricerche per
la cura della demenza. Quest’anno il Festival
conta ben 90 eventi tra incontri, spettacoli
e workshop. Fra gli ospiti, lo scrittore Jonathan Coe che interverrà sull’importanza dello humour e presenterà il suo nuovo romanzo Expo 58 (Feltrinelli). E poi, tra molti altri,
Alessandro Barbero, Stefano Bartezzaghi,
Ulrich Beck, Edoardo Boncinelli, Umberto
Curi (autore di Passione edito da Raffaello
Cortina), Nicola Gardini e Nicla Vassallo.
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cultura
© DOMTURNER/FLICKR
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Il dolce suono
degli scrittori neogreci
di Filippo La Porta
Nonostante la crisi e la chiusura di molti enti culturali la letteratura
continua a fiorire ad Atene e dintorni . E nell’anno del centenario di Kavafis
è soprattutto la poesia a conoscere uno straordinario e imprevisto successo
E
siste oggi una più ampia cultura mediterranea che abbraccia anche il nostro
Sud? Il risveglio letterario e artistico della Puglia, che può essere datato dalla caduta del
Muro e dalla grande migrazione degli anni 90,
tende a proiettarsi verso il Mediterraneo, alla ricerca di una possibile identità comune con Paesi vicini. A Grottaglie, in provincia di Taranto, il
Presidio del libro ha organizzato alcuni incontri
per verificare analogie e punti di contatto con
la letteratura neogreca. Se i pugliesi si sentono europei e al tempo stesso levantini («dolce
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ansietà d’Oriente», diceva Giovanni Macchia,
nato a Trani), i greci si sentono europei e balcanici, in bilico tra Est e Ovest. Di quel Paese
tendiamo ad avere un’immagine distorta, fatta
di stereotipi vacanzieri. Ne ignoriamo la storia e
la letteratura a parte Zorba il greco e Kavafis. E
ne studiamo solo la lingua antica. Ci piace pensare che è il fanalino di coda della Ue, molto più
arretrato di noi, ma in realtà un libro di poesie
può vendere in Grecia, che ha un quinto della
nostra popolazione, fino a 15mila copie, mentre
da noi non arriva a 150! Per approfondire questi
31 agosto 2013
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cultura
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VIAGGI DI CARTA NELLA TERRA DI OMERO
temi abbiamo incontrato Caterina Carpinato,
che insegna letteratura neogreca all’università
veneziana di Ca’ Foscari.
Facendo una veloce ricerca in Rete scopro
che la collana Aristea di Crocetti ha pubblicato ben 84 romanzi greci, però nessuno ne parla. Come mai?
Negli ultimi vent’anni i titoli di narrativa neogreca pubblicata in Italia hanno raggiunto una
quantità considerevole: però sono rimasti ai
margini, conosciuti da pochi a causa di una
“politica editoriale” che non condivido. Non
rende un buon servizio alla letteratura neogreca essere pubblicata da editori minori, perché
questo significa non essere distribuiti. Diverso
è il caso di un editore come Bompiani che ha
pubblicato Apostolos Doxiadis e Petros Markaris riuscendo a far arrivare su tutti i banchi
dei librai due importanti scrittori greci.
Davvero i greci amano la poesia?
In Grecia la parola “poesia”, non solo è nata
in stretta connessione con la radice del verbo
“poeio” che significa “fare, ma è ancora oggi un
fenomeno di massa, diffuso, multimendiale e di
consumo. La poesia è strettissima connessione con l’espressione musicale: non solo autori
come Theodorakis hanno messo in musica i
grandi poeti del ’900, ma anche un poema tardocinquecentesco cretese, come l’Erotokritos,
è ben noto grazie al fatto che alcuni suoi versi sono tuttora cantati e conosciuti oralmente
dalla maggior parte della popolazione. Cantanti
famose, come Elefteria Arvanitakis, cantano
in greco moderno i versi di Saffo; le poesie di
Michalis Ganàs sono cantate da molti cantanti
greci, così come ancor oggi i versi di Seferis ed
Elitis (premi Nobel per la poesia) sono nel repertorio più diffuso fra i greci da almeno 40 anni
(come Battisti o De Gregori, per intenderci).
Noi traduciamo molto, ma cosa traduciamo della letteratura neogreca? In Grecia
ci traducono? Conoscono la nostra narrativa recente?
In Grecia fino a qualche anno fa tutti i titoli di
narrativa italiana venivano immediatamente
tradotti: Isabella Santacroce, Niccolò Ammaniti, Silvana La Spina, Sandro Veronesi ma anche
molti altri nostri autori nati poco gli anni 50 del
’900 hanno avuto un loro pubblico in Grecia.
Adesso, con la chiusura del Centro nazionale
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Con il suo Le catene del mare
pubblicato dalle Edizioni e/o
la scrittrice Ioanna Kiaristiani
si è segnalata anche in Italia
come una delle più voci più importanti della letteratura greca
contemporanea. Nata a Chià,
sull’isola di Creta, Kiaristiani è
un’autrice schiva e dalla prosa
fortemente evocativa, che sa
ricreare in chiave moderna il
fascino dell’epos antico. E per
merito della casa editrice diretta da Sandro Ferri - che per prima in Italia ha proposto letteratura neogreca d’autore - più di
recente si sono fatti conoscere
anche da noi libri affascinanti,
fra noir e storia, come “Il sacrificio di Polissena” di Marta
Guzowka, ricercatrice presso
l’Istituto di archeologia dell’università di Varsavia e che ha
partecipato a importanti scavi
a Troia. Proprio in questa gloriosa città dell’attuale Anatolia
è ambientata l’intrigante vicenda di questo romanzo edito da
e/o che parte dall’immaginario
ritrovamento delle spoglie della figlia di Priamo, Polissena,
cosparse di foglie d’oro. Racconta invece la Grecia di oggi,
in lotta contro la crisi e alla tenace ricerca di una via d’uscita, l’appassionato reportage
di Giuseppe Ciulla Un’estate
in Grecia (Chiarelettere). Fra
inchiesta e racconto di viaggio
un ritratto dei mille volti della
Grecia dei nostri giorni in cui
- da Atene alla Tracia orientale a Edirne - la cultura turca e
quella bulgara s’intrecciano a
quella “autoctona”.
s.m.
L’amore per la propria lingua traspare anche
dai gialli del popolare Petros Markaris
per la Traduzione letteraria e del Centro nazionale del Libro Greco, con le saracinesche
abbassate della più antica libreria ateniese
Estia, che il 30 marzo 2013 ha chiuso dopo 128
anni di attività, temo che solo i mattoni da best
seller hanno forse la speranza di continuare a
essere tradotti.
Non amo il neonoir italiano, e dunque
mi immalinconisce pensare che anche in
Grecia il noir ha successo e viene considerato il genere più attrezzato a raccontare il presente.
Il noir in Grecia ha un successo relativo. Ma ha
un grande successo all’estero, grazie soprattutto a un autore straordinario come Petros
Markaris, che è riuscito con il suo commissario Charitos, a far conoscere più da vicino la
realtà socio-culturale della Grecia attuale al
grande pubblico. Ma vorrei far notare anche
che il commissario Charitos è un gran lettore
del Dimitrakos, il più grande vocabolario greco. Questo particolare non è rilevante: Markaris non ha sottolineato un vezzo del suo eroe,
ma ha voluto farci sapere quanto importante,
anche in senso patriottico, sia il rispetto e
l’amore nei confronti della loro lingua.
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trasformazione
Massimo Fagioli, psichiatra
La “morte dell’anima” sarebbe la scomparsa
dell’immaginazione e del pensiero non cosciente
OLTRE
l’immagine, nel silenzio del corpo
S
i avvicinava il cielo sereno del tempo che nominarono Ferragosto ed io bevevo con tutti i pori
della pelle i raggi del sole. Era già diventata nocciola ed ora volgeva verso l’essere nera, come se una donna avesse disteso il velo di retìna con cui si copriva la metà inferiore del volto, sul mio corpo nudo.
Gli occhi, che erano aperti, avevano una luminosità che
mi confondeva perché credevo che fosse la luce del sole.
Il velo scendeva, ondulato come le onde del mare, a nascondere la bocca silenziosa.
Come se fosse tornata la memoria del connubio tra Tifone ed Echidna che generò la Sfinge, dietro le palpebre,
chiuse per proteggere la rètina, emergono le parole: energia che giunge alla materia genera il pensiero. E la penna
scrive il termine verbale: reazione. Ed io penso la verità
imparata che dice: la pelle secerne melanina.
E le parole, uscite dal corpo, vanno nell’aria e si perdono. Ma vengono i ricordi di quando udii le parole: nel
feto, prima della nascita, non c’è reazione perché non ci
sono stimoli. Il feto, immerso nel liquido amniotico, è in
una realtà di omeostasi. Ed i ricordi chiamano altre parole che sono pensieri nuovi. Reazione, nascita, movimento. E subito la memoria mi dice che, alla nascita, il movimento del corpo non c’è.
Ma sono certo che c’è un movimento che non è spostamento di una realtà materiale nello spazio perché, cinquanta anni fa, vennero i termini verbali, fantasia di sparizione. Non c’era nessuna uguaglianza con altri due termini che davano un nome a realtà mentali diverse, cui diedi i
nomi di vitalità e pulsione di annullamento.
Poi dissi: movimento, suono, tempo, pulsione. Tutto
in un attimo senza tempo. Ed avevo detto, inconscio mare calmo che è memoria fantasia dell’esperienza avuta.
Poi aggiunsi che aveva un tempo che prima, con la fantasia di sparizione, non c’era. Il tempo dell’essere umano
inizia con la fantasia di sparizione, poi, si ha la memoria.
Nella mente si realizza l’esistenza della realtà biologica
del proprio essere.
Agosto è ormai svanito ed io ho la memoria del 13,
quando lessi il solito articolo culturale de la Repubblica.
Tante volte l’avevo gettato, infastidito dalle stupidissime
ricerche sulla realtà mentale umana che dicevano dei sogni dei feti di pecora o di Cadillac bianche che risolvevano l’incubo del sogno di Cadillac nere o che Omero aveva
scoperto l’inconscio.
Il 13 agosto sentii alcune righe come stimolo che mi fece allontanare dai raggi del sole. “Alla mistica medievale si deve la riscoperta di quel «fondo dell’anima» che costruisce la scintilla divina di ogni essere umano”.
“Il fondo dell’anima non sopporta, infatti, immagine alcuna, neppure un dio comunque pensato… la mistica medievale insegna a cercare l’universale dell’umano.”
Tolgo, come fossero insetti nocivi che hanno sempre
tentato di distruggere la pianta di un pensiero che può conoscere anche la realtà non materiale della mente umana,
i termini verbali: dio e anima.
Così lo «stridor di denti» di menti che amano dio e non
l’essere umano, si trasforma in una sinfonia pastorale che
fa ricordare Beethoven e Debussy, e mi fa tornare ai raggi del sole che, similmente alle foglie che diventano verdi,
mi fanno vivere perché la vitalità reagisce e secerne melanina come fosse clorofilla.
Ma la memoria delle parole scritte durante tanti anni dice che sono diverse. Il “fondo dell’anima” è l’origine della
realtà mentale umana che sorge dalla realtà biologica. E
dissi: fantasia di sparizione ed inconscio mare calmo. Ancora forse nascosta ed incomprensibile perché non ha immagine, c’era la parola: trasformazione.
Vennero due termini di uso quotidiano che dicevano
di una misura del tempo. Alcuni anni fa, non so come, si
trasformarono rivelando una ricerca che non si era mai
limitata alla percezione cosciente che era la misura del
tempo condotto nello spazio. Venti secondi.
Fu un pensiero che, forse, mise paura a se stesso perché lo dissi prima di elaborare il senso profondo che aveva sempre nascosto. Era l’osservazione del fatto percepi-
perché le immagini sarebbero il male della carne
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bile, ovvero che il neonato, uscito dal liquido amniotico e
venuto all’aria, non respira subito ma dopo un certo tempo che chiamai: venti secondi.
Ed il pensiero verbale muore di fronte all’inconoscibile
chiamato dall’articolazione delle parole che domandano:
come è possibile che la mente umana non abbia mai portato al pensiero verbale un’osservazione ovvia, ovvero che
non può essere l’aria, con la sua pressione, a determinare
l’espansione dei polmoni. Anche perché la pressione violenta è stata esercitata, sul feto, nel canale del parto. È necessaria la contrazione dei muscoli del torace e del diaframma.
È necessaria l’attivazione della sostanza cerebrale che si ha
soltanto con lo stimolo della luce che giunge sulla rètina.
Non si forma un’immagine di questa assenza ed il pensiero verbale non è in grado, unendo le lettere e separando le parole, di “concettualizzare”. E viene il ricordo della
formazione del logos occidentale quando fu abbandonata
la mente che pensava per immagini per stabilire che il pensiero umano era soltanto quello del linguaggio articolato.
Hanno pensato che “la menzogna che facciamo a noi
stessi per esorcizzare il nulla che ogni intelligenza onesta intravede e che fa orrore… l’immaginazione ha il fine
preciso di esorcizzare il vuoto, evitare la dolorosa «morte
dell’anima» da cui invece bisogna passare per rinascere
nello spirito.” E lo “spirito” è senza immagine e nella “creatura” ci sarebbe l’anaffettività.
“Se l’uomo perde l’anima nella Bibbia”: non comprendo. Io ho pensato: l’essere umano, ricreando i «venti
secondi», lascia l’immagine e pensa con la capacità di fare la linea che fa la scrittura. Ed essa è fantasia di sparizione che è rifiuto del mondo non umano che gli animali non
hanno, come non hanno la scrittura.
E l’articolo, oltre a costringermi a ripetere le realtà invisibili della nascita umana, ha stimolato un movimento del pensiero che ha guardato di nuovo la comparsa del concetto, rispetto a pensare la natura con le immagini di enti non materiali, gli dei, che erano ricordi coscienti degli esseri umani.
Con il cristianesimo compaiono di nuovo le favole rispetto al monoteismo mosaico che “comandò il massacro degli adoratori del vitello d’oro”. E, con esse compare «la creatura». Ed io pensai alla memoria-fantasia
dell’esperienza avuta.
Ed è tutto diverso perché il creato non ha immagine interiore che fa il rapporto interumano. È soltanto realtà
biologica che, siccome è biologicamente viva, ha in sé soltanto l’anaffettività e la pulsione di annullamento.
«Il mondo non esiste» è una realtà mentale senza fantasia,
come se la “creatura” non fosse mai nata, o è nata con il peccato originale, ovvero con il male dentro di sé: l’anaffettività.
Pensare il silenzio
del neonato
è vedere il movimento
e la pulsione.
Prima dell’immagine
non c’è il vuoto
ma la biologia
che esiste senza
essere vita umana.
Poi il rapporto con la luce
che è trasformazione
La retìna nera non rendeva inesistente la bocca perché l’odore del corpo passava attraverso i fori minuti
che erano come i pori della pelle e gli occhi parlavano.
Ho rubato la figura, vista dalla coscienza, dal bambino che si riconosce allo specchio. Ed è venuta la memoria che inventò l’immagine, che non era ricordo di
quando mi vidi la prima volta allo specchio.
Era l’immagine della mia nascita che aveva aperto
gli occhi sulla realtà della natura non umana che era
diversa da me stesso.
Poi giunsi al linguaggio articolato e dimenticai quello che non avevo mai pensato. Dopo i trent’anni pensai
le parole fantasia di sparizione ed ora so che fu perché
avevo ricreato il tempo prima dell’immagine interiore
che mi faceva riconoscere me stesso.
Poi scrissi e dissi altre ed altre parole che, alla percezione, erano sempre le stesse. Ma, con me dicevano
la realtà da sempre sconosciuta. Forse fu, certamente, il silenzio di Ferragosto che erano pagine bianche
su cui caddero alcuni semi secchi portati dal vento.
Furono i suoni inarticolati che mossero la ricreazione
dell’altro silenzio del corpo inerte.
La capacità di immaginare è, e non “ha il fine di calmare il vuoto, evitare la dolorosa «morte dell’anima» necessaria per rinascere nello spirito”.
...guardare soltanto la realtà materiale non fa “vedere” oltre la percezione...
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cultura
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«C
amminavo lungo la strada con due
amici, il sole tramontava, il cielo si
tinse d’improvviso di rosso sangue.
Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un parapetto. Sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano
sangue e lingue di fuoco quando sentii un grande urlo infinito che attraversava la natura». Così Edvard Munch descrive sul suo diario l’episodio che avrebbe poi cercato di rappresentare con
L’urlo (1893) condensandolo in un volto deformato dall’angoscia. Un primo piano straniante
senza tratti riconoscibili, avvolto in striature ondeggianti di colore dalle tonalità violente, quasi
espressionistiche. In pochi tratti, una scena che
sembra racchiudere tutta la disperazione del pittore, che a trent’anni scriveva di sé: «Ho ricevuto in eredità due dei più terribili nemici dell’umanità: la tubercolosi e la malattia mentale. La malattia, la follia e la morte erano gli angeli neri che
si affacciavano sulla mia culla». Cultore del filosofo esistenzialista Kierkegaard e di Nietzsche,
e soprattutto sodale di Strindberg, Munch in
una pagina del diario dice di aver sentito parlare di Freud, ma di fatto il pittore non si interessò mai di psicoanalisi. Piuttosto preferiva cercare nell’arte un modo per riuscire a rappresentare quel dolore psichico che altrimenti, scrive in
un passaggio del diario, «non sapevo esprimere
a parole». A partire da questo stretto rapporto fra
arte e vita e intorno al celeberrimo L’urlo, Oslo ricorda i 150 anni dalla nascita di Munch con la più
vasta retrospettiva che gli sia mai stata dedicata.
Gli spettri
di Munch
di Simona Maggiorelli da Oslo
La Norvegia festeggia i 150 anni dalla
nascita dell’autore de L’urlo con una vasta
retrospettiva: un percorso di 300 opere
e articolato in più sedi museali. Mentre si
annuncia una monografica anche a Genova
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cultura
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Intitolata semplicemente Edvard Munch 18631944 e accompagnata da un denso catalogo Skira, la mostra al Nasjonalgalleriet e al Munch-museet di Oslo fino al 13 ottobre presenta 220 dipinti e 50 opere su carta che permettono di ripercorrere tutti i 60 anni di carriera di Munch attraverso una straordinaria scelta di ritratti e autoritratti (alcuni poco noti) di paesaggi visionari, di claustrofobiche scene familiari ma anche di feste di
società in cui, come fossero marionette, gli esponenti della borghesia norvegese, consumano vacui riti sociali. Nel Fregio della vita, in particolare, Munch rappresentava quella borghesia, di
cui lui stesso faceva parte, come puritana e chiusa nell’asfittico e provinciale mondo di Kristiania (oggi Oslo). Ed è uno spietato teatrino di ibseniani spettri quello che Munch tratteggia in feste notturne al mare e passeggiate in città in cui le
atmosfere glaciali non sono solo dovute alla neve. Proprio in occasione di questa importante antologica è stato ricostruito filologicamente l’allestimento del Fregio della vita così come Munch
lo aveva pensato per la Secessione di Berlino nel
1902. Così sulle pareti colorate della Nasjonalgalleriet, dove sono esposti i lavori eseguiti tra il
1882 e il 1903, scorre un nastro di potenti visioni incorniciate di bianco, sono immagini che tratteggiano un’infanzia malata e soffocante, che rievocano i primi turbamenti adolescenziali e soprattutto che parlano del suo sanguinoso rapporto con la donna. Al Munch-museet (dove sono esposti i quadri datati dal 1904 al 1944) spicca-
no intere sequenze di quadri che raccontano una
mortale guerra dei sessi, dove la donna appare
come femme fatale, una sorta di vampiro che lascia l’uomo cadaverico ed esangue, imprigionandolo nella sua rete tentatrice. Qui e alla Nasjonalgalleriet ritornano anche rappresentazioni di baci che Munch immagina come angoscianti incontri fusionali in cui entrambi i partner finiscono
per perdere la propria identità. Il rapporto con
il femminile è visto dall’artista come lotta e sofferenza, passione e gelosia, tensione e violenza.
Solo nei quadri dell’ultimo periodo in cui Munch
rilegge il topos del pittore e la modella le giovani figure femminili appaiono belle e idealizzate,
anche se rappresentate sempre in contrapposizione al pittore anziano che, nel quadro, le osserva con sguardo rapace. La sua pittura intanto si è fatta più sintetica, più essenziale. La figurazione appare più sfrangiata ed evocativa, ed
esplode il colore. Nonostante questo però i quadri di Munch in questa ultima fase finiscono per
assomigliare ad un’ossessiva ripetizione di varianti sugli stessi temi. Ma il percorso esplorativo della sua opera non si ferma qui (il programma completo è sul sito www.munch150.no) e si
annunciano interessanti occasioni di approfondimento anche in Italia: dal 6 novembre in Palazzo Ducale a Genova Marc Restellini, direttore della Pinacotheque de Parigi e già ideatore di
una importante retrospettiva su Munch presenta una nuova monografica realizzata con Arthemisia group e 24 Ore Cultura.
Edvard Munch,
“Madonna” (1894), al
centro “L’Urlo” (1893),
“Amore e Psiche”
(1907), Nella pagina
a sinistra in apertura
“Autoritratto” (1886)
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puntocritico
cultura
ARTE di Simona Maggiorelli
Lo sguardo
liberato
R
aramente capita di leggere pagine di critica che abbiano la “leggerezza” e la capacità di “far vedere”
che caratterizza quelle di David Arasse (1944 - 2003), fine conoscitore d’arte e studioso eclettico che, per quanto facesse parte dell’establishment
intellettuale francese ai più alti livelli (avendo diretto l’École des hautes
études en sciences sociales di Parigi e l’Istituto francese di Firenze) aveva saputo mantenere la curiosità, l’immediatezza e la passione contagiosa
di un giovane ricercatore. Memorabili le sue conferenze, vivaci, imprevedibili, mai paludate. Ma anche certi suoi saggi scritti in forma dialogica e
talora proprio come lettera indirizzata
ad amici oppure a colleghi con i quali
amava polemizzare con piglio giocoso
ma senza rinunciare ad argomentazioni serrate. Alcuni di questi scritti sono ora raccolti nel volume Non si vede
niente pubblicato da Einaudi. Un libro
sorprendente per come Arasse riesce,
con freschezza, a mettere in crisi e addirittura a ribaltare interpretazioni sedimentate, date ormai per scontate. È
questo il caso di un’insolita opera di
tema mitologico come Marte e Venere sorpresi da Vulcano che Tintoretto dipinse nel 1550 e che è sempre stata letta come una condanna dell’adulterio. Attraverso una ficcante indagi-
Tintoretto, Marte e Venere sorpresi da Vulcano (1550)
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left.it
ne indiziaria sui dettagli (alla Morelli), senza lasciarsi irretire dai fiumi di inchiostro che sono stati spesi
su questo quadro, Arasse ce ne offre una lettura inedita, mettendone in luce la vena ironica e corrosiva che avrebbe come bersaglio proprio il matrimonio: tomba dell’eros
secondo Tintoretto che qui ci mostra un Eros dalle frecce spuntate
che addirittura dorme alla grossa.
Un particolare su cui nessuno prima aveva posto l’accento. Così come era fin qui sfuggito ai più il dettaglio del cane che ringhiando verso il malcapitato Marte ne svela il
maldestro tentativo di nascondersi sotto una panca (per quanto sia
un dio e indossi elmo e armatura!).
Una scena da vaudeville, insomma.
Tanto più che Vulcano, il marito tradito, neanche se ne accorge mentre
si getta su Venere con la brama di
un vecchio e ridicolo fauno. L’acutezza e l’intelligenza dello sguardo
di Arasse qui sopravanza d’un balzo il polveroso apparato di citazioni squadernato dalla critica accademica. Una messe di testi e riferimenti esterni al quadro che, nota
Arasse, «diventa una sorta di filtro
solare per proteggersi dal bagliore dell’opera e preservare le abitudini acquisite». Segnalando come
a volte la tradizione critica rischi
così di diventare schermo protettivo che raffredda il rapporto emotivo e diretto con l’opera. Diventando un paravento dietro cui nascondersi. Come quei giudizi moralistici di Mark Twain che hanno a lungo
impedito di cogliere il gesto esplicito della Venere di Urbino che, nel
quadro di Tiziano destinato alla camera privata di Guidobaldo della Rovere, allunga la mano verso il
proprio sesso. Senza questo precedente non si capirebbe la scandalosa Olympia di Manet sottolinea
Aresse. Come ognuno può vedere da sé in Palazzo Ducale a Venezia dove, fino al primo settembre,
nell’ambito della bella retrospettiva dedicata al pittore francese, si
può approfondire dal vivo il confronto fra i due capolavori.
John Ford sul set
CINEMA di Morando Morandini
Western
che passione
S
ul Venerdì di Repubblica è apparsa una pagina pubblicitaria
della Fondazione Ant con la scritta:
«Molti lasciano un vuoto. Qualcuno
sceglie di lasciare un esempio». Non
voglio lasciare nemmeno un esempio e per l’ultima volta mi impegno,
prima di entrare nel 2014 e scrivere
di me stesso in forma autobiografica. Sul Sole 24 ore, invece, ho letto un
articolo di Emanuela Martini su Sean Aloysius O’ Fearna, nato nel Maine
nel 1894 da genitori irlandesi, morto
in California nel 1973, 40 anni fa. Per
dirla con le sue parole: «Mi chiamo John Ford e faccio western», frase entrata nella leggenda. Era il 22 ottobre
del 1950 ed a Hollywood infuriava la
“caccia alle streghe”, maccartiste e
moltissimi cineasti erano stati accusati di simpatie comuniste e invitati
a comparire davanti alla Commissione per le attività antiamericane. Nella
Screen directors guild si distinse il potente Cecil B. De Mille, fautore della
delazione, che cercava di far cacciare
il presidente in carica, il democratico
Joseph Leo Mankiewicz. Lui e i suoi
parlavano da ore. A quel punto John
Ford, noto conservatore e “animale
politicamente imprevedibile” alzò la
mano e disse: «Mi chiamo John Ford
e faccio western. Credo che non ci sia
nessuno in questa stanza che sappia
meglio di Cecil B. De Mille quello che
il pubblico americano vuole e sappia accontentarlo meglio. Ma...tu non
mi piaci, C.B., e non mi piace nulla di
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cultura
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LIBRI di Filippo La Porta
Variazioni mitteleuropee
I
Un fotogramma di Ombre rosse
quello che hai detto stasera. Perciò
propongo che rinnoviamo il nostro
voto di fiducia a Joe e ce ne andiamo
finalmente tutti a dormire». L’assemblea votò con John Ford e se ne andarono tutti a dormire. Conosco da molti anni la mia collega Martini e la stimo molto. Fin da ragazzo sono un professionista del cinema western, deliziato dalla notizia che nella prossima
stagione 2013-14 ne saranno distribuiti parecchi di nuovi. Nonostante tutto, in un passato più o meno recente, il
western “all’italiana” ha fatto in modo
che il genere non fosse più veleno per
il botteghino.
A margine. Negli ultimi dieci anni sono diventato il cine critico italiano più
filmato dell’area mediterranea, mi hanno dedicato quattro ritratti, documentari. Dopo il luglio 2003 in cui morì mia
moglie Laura venne a trovarmi la regista Piovano che conosceva bene anche lei. Voleva fare un breve documentario sulla casa in cui allora si abitava,
in piazzale Biancamano, la casa di Laura. Nel 2009 seguì Morando Morandini - non sono che un critico, diretto
da una coppia di documentaristi milanesi, Tonino Curagi e sua moglie Anna
Brosio. Il terzo Je m’appelle Morando Alfabeto Morandini (2010) di Daniele
Segre. Il titolo francese rimanda a una
frase di Arletty (Je m’appelle Garance) in Les enfants du Paradis (1945)
da me molto amato. Segre mi aveva
chiesto di indicargli, decennio per decennio, i miei film preferiti. Il quarto e
ultimo Morando’s music (2012), firmato da Marina Pioerno e Luigi M. (M sta
per Monardo) Faccini. È il più personale dei 4, frutto di un’amicizia nata nel
1969 segnata da un centinaio di lettere
scambiate in 43 anni.
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quattro racconti dell’87 di Ginevra Bompiani, rivisitati oggi (L’incantato, Et al edizioni), sono movimenti di una sinfonia, attraversati da uno stesso tema variamente modulato:
l’educazione. Ma soprattutto potrebbero disegnare una fenomenologia del perturbante, di ciò che è angoscioso nel quotidiano. Hanno tutti un aroma mitteleuropeo: atmosfere straniate, i grandi interrogativi sull’esistenza, una prosa spesso
meticolosa, apparentemente sobria, ma venata di risonanze e suggestioni (quasi un’infiltrazione naturalistica nel racconto allegorico),
una musica di fondo autunnale, da “apréslude” di Benn, che dà al lettore un
senso di apprensione. Echi di Walser, o Kafka, ma anche della narrativa yiddish di Singer e Malamud. Mi soffermo su: «La ricerca della forma e la spazzatura», anche perché il tema torna in altre storie. Qui è rappresentata da un immondezzaio del quartiere, che «ci pone il vero volto del destino», dietro e non
davanti a noi, come ogni vero destino. Un aspirante poeta va a trovare un vecchio poeta in un ospizio tenuto da suore dispotiche, sopra una collina con vista sulla città (e sull’immondezzaio). Dialogano tra loro sulla vocazione poetica, che sempre implica uno strappo con quanto ci è più caro. C’è un brano che
vorrei commentare. Lì dove il vecchio poeta, rievocando un episodio doloroso, dice che « le parole non ingannano mai, l’immaginazione sempre». Ora, bisogna distinguere. Un conto è l’immaginazione che sottende le grandi creazioni letterarie e che ci serve a “rivelare” la realtà, a mostrarne il groviglio nascosto, al di là dei nostri schemi convenzionali (in questo senso tutta la poesia è
“realistica”, quasi oggettiva, impersonale). Un conto l’immaginazione che si
riempie in modo parassitario delle nostre nevrosi. Prendiamo la Commedia.
Mi scuso per la velocità con cui espongo una tesi che richiederebbe ben altra
argomentazione. Anche per Dante il male viene dall’immaginazione, o se volete da una cattiva immaginazione: l’invidioso immagina che il prossimo sia più
felice di lui, il superbo immagina di essere superiore, l’avaro immagina che i
soldi si possano possedere una volta per tutte. Tutti abitano una nebbiosa irrealtà. Solo la realtà invece, se sappiamo accostarvisi, non inganna mai.
SCAFFALE
COME DIVENTARE
RICCHI SFONDATI
NELL’ASIA
di Moshin Hamid,
Einaudi,160 pagine,
17,50 euro
Dopo Il fondamentalista riluttante,(Einaudi) il folgorante
romanzo su un immigrato della City che, a causa dell’11
settembre, si unisce ai fondamentalisti, l’anglo pakistamo Hamid torna con un nuovo, atteso, romanzo Come
diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente. L’autore sarà
al Festivaletteratura il 6 settembre per presentarlo
CARTA CARBONE
di Julio Cortàzar,
edizioni Sur,
a cura di Giulia
Zavagna, 279 pagine,
16 euro
Vargas Llosa, García Márquez, Paz ,Borges e Soriano
sono alcuni degli scrittori con cui Julio Cortázar (19141984) tenne un rapporto epistolario appassionato, ricco
di riflessioni letterarie ma anche di accenti personali, di
profonda e vibrante sensibilità. Imperdibile dunque questo primo volume edito da Sur a cui seguiranno altri due.
SAK
di Joakim Garff,
Castelvecchi,
790 pagine,
49 euro
Una monumentale opera sul filosofo danese. Scritta come
un “atto d’amore”. E che si legge come un romanzo
benché sia costruita su un’imponente documentazione. Nel
bicentenario della nascita del padre dell’esistenzialismo un
libro da cui emergono le sue ansie e discrasie ma anche la
sua rivendicazione dell’ interiorità negata dall’idealismo.
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bazar
cultura
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TENDENZE di Sara Fanelli
Sguardi oltre la cronaca
Disney in
passerella
N
S
DOCUFILM di Camilla Bernacchioni
on esiste potere che non abbia
effetti collaterali, talora davvero devastanti. Abusi, violazioni dei
diritti umani, eccidi. Come abbiamo
visto in Somalia, in Indonesia e nella Palestina occupata dagli israeliani, solo per citare tre casi fra i tanti
che saranno al centro del prossimo
Milano film festival. Una rassegna
da sempre impegnata a raccontare
quelle versioni dei fatti, che non appaiono nelle cronache ufficiali. Proprio per “guardare’”oltre e più a fondo dal 5 al 15 settembre l’appuntamento è a Milano con la nona edizione della rassegna intitolata “Colpe di
Stato” che in nove documentari e altrettanti registi racconta il presente
attraverso la realtà complessa del sistema di potere nel mondo. Tra questi The act of killing (2012) di Joshua
Oppenheimer, a ottobre nelle sale in
Italia, coprodotto da Werner Herzog
che lo ha definito «il più spaventoso
e surreale del decennio». Oppenheimer ci riporta agli anni 60, all’eccidio di oltre mezzo milione di oppositori da parte degli squadroni della
morte indonesiani, con una pellicola
sconcertante, fra realtà e finzione, in
cui gli assassini rimettono in scena i
loro crimini per le telecamere, in una
sorta di incubo tra storia, vanità e
senso di colpa. In programma anche
Camp 14 di Marc Wiese, un viaggio
attraverso la Korea alla scoperta di
un mondo sconosciuto, già vincitore
di numerosi premi internazionali, e
Dirty Wars di Rick Rowley, scomoda inchiesta giornalistica per immagini sull’uso dei droni che inchioda
la politica estera dell’amministrazione Obama. Dare voce agli invisibili,
poi, è il titolo dell’imperdibile omaggio a Sylvain George premiato autore di cinema politico e sperimentale di cui il Milano film festival numero 18, presenta tutti i cortometraggi
e, tra i lunghi, Les Eclats -ma gueule, ma révolte, mon nom (2011) per
una cartografia della violenza inflitta alle persone migranti, e Vers Madrid - The Burning Bright! (2013)
cinegiornale sperimentale che mostra alcune vedute, scene e momenti della lotta di classe e rivolta di Madrid nel 2011 e 2012. Non solo abusi e contro politica al festival che
va in scena al Teatro Strehler: con
il concorso “Lungometraggi” rivolto a opere prime e seconde di registi
provenienti da ogni parte del mondo
e un concorso “Cortometraggi”, per
gli under 40.
ono 10, gli abiti esclusivi ispirati alle principesse Disney
disegnati dai più grandi stilisti. Lo
scorso dicembre sono stati esposti
nelle vetrine di Harrods a Londra.
Bozzetti e foto andranno all’asta il
prossimo 13 novembre per raccogliere fondi da devolvere all’ospedale pediatrico Great Ormond street hospital children’s charity. La sirenetta Ariel è stata disegnata da Marchesa, la Bella addormentata da Elie
Saab, Belle di La bella e la bestia da
Valentino, Cenerentola da Versace,
Jasmin di Aladdin da Escada, Mulan da Missoni, Pocahontas da Roberto Cavalli, Rapunzel da Jenny
Packham, Biancaneve da Oscar De
La Renta, Tiana de La principessa e
il ranocchio da Ralph & Russo.
[email protected]
VIAREGGIO
Il festival della salute
Un’immagine di The act of killing
58
Al Caffè de la Versiliana il 31 agosto una
importante anteprima del Festival della
Salute: con il titolo “La conquista della felicità in tempo di crisi” una serata dedicata al viceministro dell’Economia e delle Finanze Stefano Fassina, a cui partecipano
anche Francesco Tagliente, prefetto di Pisa e Pietro Pietrini dell’ Azienda ospedaliero universitaria pisana. Il festival della Salute entrerà nel vivo, con un fitto programma, dal 26 al 29 settembre a Pietrasanta.
PADOVA
Talenti ebraici e femminili
Intorno a una protagonista come Antonietta Raphaël, altre 7 importanti artiste ebree del
’900 :Eva Fischer, Alis Levi, Adriana Pincherle
(autrice di questo quadro), Gabriella Oreffice,
Lotte Frumi, Paola Consolo e Silvana Weiller.
Al Centro culturale Altinate San Gaetano dal
31 agosto un percorso d’arte al femminile.
31 agosto 2013
left
cultura
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JUNIOR di Martina Fotia
di Bebo Storti
Riciclo a gonfie vele
L’
8 settembre torna a
Roma la Re Boat Race, la prima regata in Italia di imbarcazioni costruite con materiali riciclati. Lo
splendido specchio d’acqua del parco centrale del
Lago dell’Eur sarà lo scenario per la manifestazione che giunge alla sua quarta edizione: un evento sportivo, educativo ed ecologico che la scorsa stagione si
è trasformato in una vera e
propria Eco Festa.
Sono già tante le imbarcazioni iscritte che si sfideranno nella “regata sportiva” più pazza e colorata di
fine estate: una gara in cui
si sfideranno per il miglior
design, per la più originale
e colorata personalizzazione e per l’idea più geniale
sulla trazione a impatto zero. Le più veloci, le più belle, le più innovative imbarcazioni costruite con “componenti” di recupero e riciclo riceveranno gli ambiti
trofei. Fino al 18 settembre
sarà possibile iscriversi online (www.reboatrace.it) e
partecipare alla gara, dove
giovani e meno giovani potranno riciclare e modellare bottiglie vuote, cartoni
del latte, lattine, legno e altri materiali di scarto, per
realizzare una barca alternativa e sostenibile, colorata, innovativa, e in grado di
galleggiare in acqua. Un’iniziativa particolarmente innovativa e dall’intento didattico, per dimostrare che
attraverso il riciclo di vec-
chi materiali si può perseguire la rotta dell’energia
pulita e dell’impatto zero.
La manifestazione è aperta a tutti, esperti e principianti, sul sito si possono
scaricare utili tutorials e
chi lo volesse potrà cimentarsi nella costruzione della propria imbarcazione anche presentandosi presso
lo spazio “Paddock Re Boat Race” che sarà allestito
dal 31 agosto al 6 settembre
nel contesto della manifestazione “La città in tasca”,
ventennale e storico evento
dell’estate romana dedicato alle famiglie, che si svolgerà a Roma presso il parco
degli Scipioni. Qui si potrà
usufruire dei materiali messi a disposizione dall’organizzazione della regata.
L’evento si concluderà il 23
settembre, alle ore 11:00,
con la premiazione della
squadra che avrà realizzato
la migliore imbarcazione.
Buon vento!
MARSIGLIA
MAREMMA
CHIANCIANO
Danza corale
Grande Vukotich
Tre Agorà Marseille è il primo esito del progetto quadriennale Arte
del gesto nel Mediterraneo di Virgilio Sieni. Che il 31 agosto porta 3-400 danzatori, in gran parte
non professionisti, in un grande
spettacolo corale nella città capitale europea della cultura.
A una straordinaria attrice di teatro e di cinema come Milena Vukotich (in foto) va il Premio Terre di Siena, che le sarà assegnato
all’interno di Attorstudio, a Chianciano Terme nella tradizionale
manifestazione che si svolgerà il
31 agosto e primo settembre.
left 31 agosto 2013
I luoghi del tempo
Talamone, Manciano, Magliano si
fanno teatro di spettacoli e incontri
dal 6 al 9 settembre, con il festival
luoghi del tempo,Suoni, Storie e
Sapori in Maremma. Tanti gli ospiti, a cominciare da Daniela Morozzi (in foto) ad Albertazzi, a Staino.
In fondo.
...è lampante
come servano nuove regole
per favorire un clima di collaborazione fra forze politiche,
per quanto avverse e distinte nei programmi, un terreno comune di distensione e
di dialogo che, superando le
barriere linguistiche della politica più spiccia e tutelando il
futuro del Paese, crei, ristrutturando l’assetto interno del
sistema giudiziario e limitando, per il bene della giustizia
stessa, il potere della magistrature, crei un vero e proprio campo di coltura democratica, con grande sollievo per l’economia e vibrante soddisfazione per i settori
più importanti dell’industria
e del commercio. Fermo restando che un atteggiamento non persecutorio e fine a
se stesso, ricattatorio nella sua, in ultima analisi, prassi giustizialista fine a se stessa anch’essa non può essere giustificata nei confronti
di chi, con vibrante impegno
da tanti anni cerca di risolvere i problemi del Paese. E
fermo restando un atteggiamento da parte nostra condiscendente anche di fronte a
una decisione presa in troppa
fretta dalla magistratura. Da
parte nostra il saper leggere i tempi e le modalità politiche più consone al momento, ma che i ministri ci assicurano durerà ancora poco,
sta attraversando, e proprio
per questo urge, o se urge,
una soluzione non belligerante, non che divida, ma che
ci unisca in un atto che sia di
clemenza sì ma di responsabilità democratica anche.
(a questo punto il relatore
viene interrotto)
«Senti un po’, non ho capito
un belino!».
«Liberate il nano e non ci
scassate o cazz!».
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ti riconosco
di Francesca Merloni
Parole per dire
R
ipartirei da “gioia”. Nel vortice di parole dette, scambiate, immaginate
in questi giorni di mancanze e ritorni. Di profondissime sere. Di tempo
lento e soste nei pensieri. In questi giorni, pensando al linguaggio, se qualcuno mi chiedesse, sceglierei gioia. Perché nessuno la pronuncia più. È la parola che direi oggi. La prima che arriva di poche e nude, in una promessa di linguaggio che non ci trovi mai più di schiena. Rispetto a noi, all’altro, alle cose.
Mai più. Ho fatto notte ad aspettare parole. A lavarle per bene. Liberarle dal
troppo, dal troppo poco. Ci sono andata dentro, sotto. Ne ho fatto a meno del
tutto. Per poi ritrovarle, salvando quelle che riconosco. Promettendomi fedeltà rispetto ad esse. Pensandole per la prima volta come le impronte digitali del mio pensiero, del mio desiderio, sul reale. Come parti di me che incidono e prendono strada in questo gran progetto di restituzione all’essere che oggi mi pare la vita. Sì, mi appare
da nominare quest’onda che non promette che a se stessa e non prende che da sé. Mi sembra di farne parte in un
movimento di dedizione piuttosto che di richiesta, di offerta più che di aspettativa, di attesa più che di impazienza. Allora scelgo parole. Senza giudizio le vedo arrivare. Parole per dire. Per
guardare più lontano. Prive di polvere, prive di peso. Alcune ne scarto. Getto
via “enfasi”. C’è un volo freddo lì dentro che non riesce a prendere quota e ripiega. Ma gioia, invece. È così vera. Senza pretesa. Apre all’improvviso lì dove avevamo messo tutto a posto. Spalanca di bellezza la stanza, fra le cose di
sempre. Il giorno, o la notte, pare girino in andamenti più luminosi, più sostenuti, più morbidi. Con ampiezza, con più colore. E il movimento è ad includere, a non dimenticare. A non rimandare. E qualcosa sale agli occhi, come una
stretta che si fa vibratile tra le ciglia. Tutto comincia dalla gioia. Cartina di tornasole, reagente alla verità delle cose. Proviamo a chiuderla a chiave. Proviamo a non pronunciarla, ma ci invita. Non siamo noi, pensiamo, non è noi che
chiama. Non per noi quella cosa lì, spericolata. Ma ci pretende. Il suono in essa si posa, regge e si incava nelle vocali. Il suono resta, finalmente.
Ripartirei da “gioia”.
Nel vortice di cose dette
[email protected]
Una mano che s’arrischia, anelante,
nei vortici di un’acqua sia chiara sia cupa,
la sua immagine si sbriciola, si potrebbe credere
che non abbia più la forza di trattenere.
E quest’altra, nello specchio? Si avvicina
alla tua, che le va incontro, le loro dita si toccano
quasi, ma nel nulla di questa distanza
s’apre l’abisso tra essere e apparenza.
Queste dita, almeno, che scuotono corde
un’altra mano salirà, dal fondo dei suoni,
a prenderli nei suoi, per guidarli?
Ma verso cosa? Io non so se è amore
o miraggio e nient’altro che sogno, le parole
che non hanno che acqua o specchio o suono per
tentare d’essere.
Yves Bonnefoy, “Il pianista (II)”
da L’ora presente, 2013
60
31 agosto 2013
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Libertà Eguaglianza Fraternità Trasformazione
12-13-14 SETTEMBRE 2013
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