Chiesa-nella

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LA CHIESA NEL LIBRO DELL’APOCALISSE.
Nel Libro dell’Apocalisse, la Chiesa è rappresentata con tre immagini, nei capitoli 4-5, 12 e
21-22. Rispettivamente, essa è l’assemblea cosmica, la donna e madre, la città santa sposa
dell’Agnello.
1. UNA REALTA’ “CELESTE”..
Dobbiamo dire, preliminarmente, che queste tre immagini hanno in comune un’idea: la Chiesa
è una realtà terrestre ma insieme celeste; anzi, essa “discende dal cielo” (21,2), cioè è preesistente alla
forma che di volta in volta essa prende nella storia. Questo concetto non è nuovo. Lo troviamo già nel
giudaismo, per esempio nel libro di Daniele, ma anche in Paolo, che nella Lettera ai Galati parla della
“Gerusalemme di lassù (che) è libera ed è la madre di tutti noi” (Gal 4,26). La Lettera agli Ebrei, poi,
riprende una tradizione giudaica, secondo la quale ogni istituzione di Israele, e in particolare il
Tempio, è la riproduzione nella storia di un archetipo celeste: “(I sacerdoti leviti) offrono un culto che
è immagine e ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu dichiarato da Dio a Mosè, quando stava
per costruire la tenda: Guarda –disse- di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul
monte” (Ebr 8,5).
Come sappiamo, l’intento dell’Apocalisse è di consolare i fratelli e compagni “nella
tribolazione, nel regno e nella perseveranza di Gesù” (Apc 1,9): a questo obiettivo, il profeta Giovanni
intende pervenire anzitutto ampliando l’orizzonte, aiutando i fratelli a “vedere”, cioè “rivelando”,
letteralmente “togliendo il velo”(è il significato della parola greca Apokalypsis). Viene in mente un
episodio della vita del profeta Eliseo: cercato a morte dal re di Damasco, le truppe siriane lo
accerchiano nella città di Dotan, nell’alta Samaria. Al mattino, uscendo dalla porta della città, egli e il
suo servo vedono i nemici tutt’intorno. Il servo grida dalla paura: “Ohimè, mio signore. Come
faremo?”. Ma il profeta gli risponde: “Non temere, perché quelli che sono con noi sono più numerosi
di quelli che sono con loro”. Poi, prega: “Signore, apri i suoi occhi perché veda”. Il Signore aprì gli
occhi del servo, che vide: ecco, il monte era pieno di cavalli e di carri di fuoco intorno a Eliseo. (cfr 2
Re 6,8-23).
C’è dunque un primo motivo di consolazione: il frammento di storia nel quale viviamo è solo
una piccola e provvisoria parte di una vicenda che ha dimensioni cosmiche; la “terra”, cioè la
dimensione dell’uomo, il campo delle sue azioni e delle sue responsabilità, è sottoposta al “cielo”,
cioè alla dimensione dell’eternità. E’ dal punto di vista di Dio che il profeta vuole aiutarci a vedere la
storia. Ancora: l’uomo pensa alla storia come alla successione di eventi dei quali egli non riesce a
cogliere il senso; dal punto di vista di Dio, la storia ha invece una caratteristica sintetica, è un evento
unico, rappresentato dal rotolo, sigillato con sette sigilli (5,1), che nessuno può aprire, tranne
l’Agnello immolato e coloro che lo seguono.
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2. L’ASSEMBLEA COSMICA
Consideriamo dunque la prima di queste immagini, l’Assemblea cosmica. Il termine ekklesìa
vuol dire, letteralmente, convocazione, assemblea. Ma, mentre al Sinai, e successivamente nelle
grandi crisi della storia d’Israele, è questo popolo ad essere convocato, qui è convocato il cosmo,
attorno al trono di Dio. Le tre dimensioni dell’essere sono presenti: il cielo, la terra e l’abisso (il
“sottoterra”), in trepida attesa di ciò che deve accadere. Come in una grande assemblea liturgica, vi è
un ordine: attorno al trono sono presenti quattro “esseri viventi”, ventiquattro vegliardi che portano
simboli regali e schiere innumerevoli di angeli. Il simbolismo è discusso, ma intende dare l’idea della
pienezza: i quattro esseri viventi, che richiamano quelli della visione di Ezechiele, rappresentano le
quattro dimensioni del mondo; i ventiquattro vegliardi sono i rappresentanti di un’umanità santa,
organizzata secondo il numero simbolico delle tribù di Israele, moltiplicato per due. Vi è un’atmosfera
di sospensione e di attesa, in questa cattedrale dell’universo: il senso della storia è saldamente nelle
mani di Colui che siede sul trono, ma deve comparire colui che lo può disvelare, in un disvelamento
che è anche una realizzazione, un compimento.
Di fatto, qualcosa di decisivo avviene: “Ha vinto il leone della tribù di Giuda” (5,5). Notiamo
il verbo al passato: qualcosa è avvenuto, che dà alla storia terrena una svolta irreversibile. Questo
evento si rivela subito: compare un agnello, immolato, quindi con i segni della morte, ma vivente e
vittorioso. Il simbolo si riferisce con evidenza alla morte e risurrezione di Gesù, che si completano con
la sua ascensione fino al trono di Dio. Anche altrove, la vicenda umana di Gesù viene presentata come
un accostarsi al Trono divino: il vangelo di Giovanni la presenta come un passaggio pasquale (Gv
13,1), ma anche come un’intronizzazione, che comporta un’universale attrazione (12,31). Anche
Paolo descrive il corteo regale del Cristo risorto, che trascina con sé l’umanità redenta (Ef 4,8-10). La
Lettera agli Ebrei ci presenta l’ingresso solenne nel santuario celeste del vero Sommo Sacerdote, che
porta in mano il sangue prezioso di un sacrificio di espiazione e di comunione che ha un valore eterno
(Ebr 9,11-14).
Questo moto nello spazio, l’avvicinarsi al Trono, è il simbolo di una comunione, che è il
risultato di una vittoria. C’era dunque una distanza, una frattura, nel cosmo: non completa, peraltro: i
ventiquattro vegliardi sono il segno che vi è già un’umanità santa presso Dio (i giusti di Israele?). Ma
ora è giunto il momento che tutto il cosmo ritorni nella comunione dell’unica liturgia di lode, quindi
anche gli uomini che vivono ancora nel tempo; esso non è più il fluire di eventi che ricadono in una
circolarità senza scopo: il mondo sta ritornando a Dio, pur attraverso dolori, che sono le doglie del
parto di una nuova e definitiva libertà.
In questa prospettiva, la Chiesa è questa assemblea cosmica: è, nel senso più pieno, il qahal
Jahveh di cui parla l’Antico Testamento.
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I credenti che vivono ancora nella storia e partecipano alle sue tribolazioni sono però custoditi
potentemente: non debbono avere paura, anche se il loro desiderio è legittimamente orientato verso la
piena partecipazione alla vittoria dell’Agnello. Due immagini indicano lo status dei discepoli di Gesù:
alcuni sono stati uccisi, ma sono rivestiti di una veste candida, segno di vittoria, e sono “sotto l’altare”
(6,9), cioè sono già nella comunione con Dio: legittimamente, aspettano che sia resa loro giustizia, che
cioè venga rivelato a tutti, soprattutto a chi li ha uccisi, che non di sconfitta si è trattato, ma della
pienezza di partecipazione all’opera del loro Signore. Vi è poi una schiera immensa, composta dai
centoquarantaquattromila (12 x 12 x 1000) delle tribù di Israele e da una folla che nessuno può
contare, proveniente “da ogni tribù, nazione, popolo e lingua”(7,9): anch’essi portano segni di vittoria
e vivono una doppia appartenenza: sono già nell’eternità (“stanno davanti al trono di Dio e gli
prestano servizio giorno e notte nel suo tempio”, poiché “sono passati attraverso la grande tribolazione
e hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello”, 7,14-15), ma vivono ancora
nella storia, anche se in un luogo sicuro, il monte Sion, vicino all’Agnello pastore (14,1-5).
3. LA DONNA E IL DRAGO.
La seconda immagine è quella della Donna vestita di sole, che genera nella sofferenza un
bimbo regale e viene protetta dagli angeli contro le insidie mortali del drago; la Donna ha pure altri
figli, che debbono sostenere una dura guerra, mentre ella è custodita nel deserto, in un luogo di
rifugio.
Penso che questa Donna rappresenti la Chiesa; ma sono necessarie alcune precisazioni.
Nell’Antico Testamento, il popolo di Dio è rappresentato con l’allegoria nuziale come la sposa di
Jahveh, sposa infedele, ma alla fine purificata e amata. Questo popolo genera il Messia, quindi la
sposa è anche madre. Nel capitolo 12 dell’Apocalisse viene ripreso questo simbolo, ma viene
ampliato, in due direzioni. Anzitutto, questa Donna è certamente l’Israele eterno, che però ormai
include i discepoli dell’Agnello, “di ogni tribù, nazione, popolo e lingua”. Per l’autore
dell’Apocalisse, proprio perché la Chiesa è una realtà eterna, anche se vive nella storia, non c’è
alterità tra Israele e la Chiesa. La Chiesa è unica, e include i credenti da Abramo fino alla
consumazione dei secoli. Non si può parlare di successione (la Chiesa succede a Israele) o di
rifondazione (la Chiesa è il nuovo Israele): vi è una continuità, basata sulla comune adesione
all’Agnello. In secondo luogo, la Chiesa non è il popolo di Dio che abita questo frammento di storia e
non è neppure un’immagine collettiva. La Chiesa è la madre del Messia e la sposa dell’Agnello: ha
cioè una sua consistenza sovrastorica, un’unità organica, che non è la somma dei suoi membri, ma è la
misteriosa partecipazione di ogni membro a un unico “Tu”, al quale l’Agnello si rivolge con amore.
Per questo, è legittimo vedere nella Donna Maria. Non dimentichiamo che Maria è chiamata per due
volte “Donna” nel vangelo di Giovanni (2,4; 19,26):è la nuova Eva, che partecipa col nuovo Adamo
alla generazione dell’umanità nuova.
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Ma ella è anche questa nuova umanità, nella sua perfezione originaria e sintetica. Infatti,
quanto più il discepolo realizza in sé il mistero della comunione con l’Agnello, della partecipazione al
suo sacrificio e nella fede e nella carità, egli rende presente la totalità della Chiesa. Maria si pone nella
cerniera tra il tempo della gravidanza e il tempo del parto: riassume in sé la fede dell’Israele storico e
nello stesso tempo si pone come la prima perfetta discepola, sposa e madre del Cristo, così che ogni
nuova cellula dell’unico corpo di Cristo deve avere il suo medesimo codice genetico: nella carità, che
è l’anima e la vita della Chiesa, chi viene prima aiuta chi viene dopo a divenire compatibile con
questo corpo, a eliminare tutto ciò che può causare una reazione di rigetto, ad assumere sempre più
limpidamente le caratteristiche di un membro vivo e fecondo. Maria è la prima di questa catena,
perennemente operante, e quindi giustamente è considerata madre di ogni discepolo del suo Figlio.
Questa dimensione femminile della Chiesa, delineata profeticamente nell’Israele storico e
sinteticamente in Maria, è molto interessante. Non c’è dubbio che la Chiesa abbia dato di sé, nella
storia, un’immagine prevalentemente maschile: la prevalenza dell’intelletto sul sentimento, dell’etica
sull’adesione amorosa, del progetto nei confronti dell’affetto disinteressato e capace di gesti di
apparente scialo (come l’unguento di Maria di Betania), dell’istituzione sull’accoglienza materna, dei
criteri di appartenenza rispetto alla gioia della prossimità. E’ significativo che nell’Apocalisse non
troviamo accenni alla dimensione istituzionale delle chiese, ma questo certamente non perché non ci
fossero. La prospettiva dell’autore si innalza rispetto a ciò che appartiene alla storia “terrena” e
provvisoria: egli contempla la santità della Donna e concorda con Paolo, che nel capitolo 13 della
Prima Lettera ai Corinzi relativizza i carismi e la dimensione istituzionale, ricordando che ciò che
rimane sono la fede, la speranza e la carità, “ma di tutte più grande è la carità”(1 Cor 13,13). Le
“lettere” che il Risorto invia alle sette chiese nei capitoli 1-3 del nostro libro vertono proprio su questa
triade paolina. C’è da chiedersi se anche le nostre preoccupazioni pastorali non esprimano anch’esse
in parte una prospettiva “maschile”, che rischia di ridurre la Chiesa alla sua forma storica, senza
considerare adeguatamente il suo “mistero”, cioè la sua vitalità interna, che dipende dalla presenza in
lei del suo Signore e dello Spirito.
La Donna dell’Apocalisse scampa al Drago grazie alla custodia degli angeli. La battaglia
decisiva avviene in cielo. Non si tratta di un luogo, ma di una dimensione: ciò che avviene in cielo
decide ciò che avviene sulla terra, ciò che nella presenza di Dio è deciso una volta per tutte troverà
un’infallibile attuazione nella storia. Certo, la condizione della Donna è ancora di pericolo e
comunque è provvisoria. L’ambiente è ostile: un terzo delle stelle del cielo è stato oscurato dal drago,
cioè sono venuti meno punti di riferimento importanti e può quindi crescere il disorientamento, se non
si rivolge continuamente lo sguardo al grande e nuovo segno apparso in cielo, della Donna vestita di
sole. La Donna è trasportata nel deserto, che è sì un luogo di rifugio, ma non è ancora la patria, è una
realtà provvisoria, nella quale è necessaria una generosa e non sempre facile fedeltà.
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La Donna è inaccessibile al Drago, ma i suoi figli sono fatti oggetto di una guerra feroce e
quindi i dolori del parto continuano per la loro madre. Molto interessante è il particolare della terra,
che viene in soccorso della Donna e inghiotte il fiume col quale il Drago tentava di sommergerla. La
terra non è il cielo, con i suoi astri e i suoi angeli: essa è piuttosto una dimensione amorfa,
apparentemente passiva. Eppure, essa si sveglia, presta un aiuto sorprendente e efficace. Che cosa
spinge la terra ad aiutare la Donna? Forse nient’altro che la compassione. Potremmo pensare a una
Chiesa che incontra la compassione dell’uomo. Ancora una volta, la prospettiva “maschile” suggerisce
che è la Chiesa che deve aiutare l’uomo nelle sue necessità, dilatando le sue capacità organizzative;
difficilmente pensiamo che la Chiesa abbia bisogno di aiuto, di essere protetta e nascosta. Di fatto,
nelle situazioni di persecuzione, questo è avvenuto, da parte di uomini e donne mossi non da una fede
esplicita, ma da uno slancio di compassione. Dovremmo pensare con gratitudine a quanti ci hanno
aiutato, talvolta senza conoscerci, soltanto per un impulso generoso, suscitato forse proprio dal nome
che portiamo, dal nostro essere discepoli dell’Agnello.
4. LA NUOVA GERUSALEMME.
La terza immagine è quella della Città santa, la nuova Gerusalemme, che è anche chiamata “la
fidanzata, la sposa dell’Agnello” (20,9). Anche qui appare la dimensione sovrastorica della Chiesa:
essa scende dal cielo, quindi è una realtà antecedente alle vicende storiche dei discepoli. Per vederla,
bisogna salire su “un monte grande e alto” (20,10): essa è come librata tra cielo e terra, tra il tempo e
l’eternità. In ogni caso, il vederla è un dono: “Vieni, ti mostrerò …”, dice l’Angelo. Ma è compito di
chi l’ha contemplata narrarla ai fratelli. Gli aspetti di conflitto e di sofferenza sono ormai alle spalle:
lo sguardo del veggente, che ha seguito il grande dramma della tribolazione e della vittoria dei santi,
ora è rivolto verso la bellezza di ciò che è sempre stato, che è futuro soltanto nella sua manifestazione,
che è l’archetipo immutabile di ogni realizzazione storica del popolo di Dio. Ciò che noi chiamiamo la
Chiesa, cioè la comunità dei discepoli che vivono nel tempo, ha certamente una storia; ma il senso di
questa storia consiste nel riconoscere in ogni momento le tracce, le manifestazioni, le vie d’accesso a
questa realtà eterna, che ormai occupa il cielo, l’orizzonte dell’uomo e del mondo, anche se può essere
vista solo con gli occhi della fede.
La Sposa è presentata da una voce angelica: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini. Egli abiterà
con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio”(21,3). Va notato il
plurale: “saranno suoi popoli”. La formula dell’Antico Testamento è al singolare, riguarda l’Israele
storico. Qui si compie invece, in modo straordinariamente pieno, l’oracolo di Isaia: “Alla fine dei
giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti … ad esso affluiranno tutte le
genti. Verranno molti popoli e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore, al tempio del Dio di
Giacobbe” (Is 2,2-3). Qui però c’è qualcosa di più: tutti i popoli hanno il medesimo statuto nella
nuova Gerusalemme; vi è una diversità che arricchisce, che moltiplica la bellezza dell’unica luce.
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Tuttavia, quest’unità non è di tipo federativo: la città è cinta da un grande e alto muro: esso è il
simbolo dell’identità, c’è un dentro e un fuori e il criterio di appartenenza è l’essere scritti nel libro
della vita dell’Agnello (21,27), cioè l’adesione nella fede a Lui e al suo mistero, l’aver “lavato le vesti
nel suo sangue”. Nello stesso tempo, però, la città ha dodici porte, tre per ogni punto cardinale, ed
esercita un’universale forza attrattiva verso tutte le nazioni; per di più, le porte non si chiudono mai, la
città non ha paura, l’identità non diventa esclusione. E’ interessante che sulle porte siano scritti i nomi
delle dodici tribù dei figli d’Israele, mentre i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello sono scritti sui
dodici basamenti del muro. La Gerusalemme celeste, la Chiesa nella sua perfezione eterna, include il
passato e il futuro. Il passato è la santità dei padri, che hanno custodito l’alleanza; il futuro è l’arrivo
delle nazioni, ciascuna con la sue ricchezze spirituali. Ci si aspetterebbe che il passato fosse
rappresentato dal fondamento del muro e il futuro dalle porte: invece, ogni ingresso della città porta il
nome di una tribù d’Israele, quasi a indicare la continuità dell’alleanza tra Dio e l’umanità, e la
funzione perenne dell’Israele santo.
5. LA CHIESA E LE CHIESE.
Va notato però che l’Apocalisse non usa mai il termine ekklesìa per indicare questa realtà
misteriosa, celeste, divina, che vive nella storia, come la Donna, o include la storia, come la grande
Assemblea liturgica o la santa Città. Ekklesìa è invece la concreta assemblea che vive in una città
terrena, e ha bisogno di essere consolata ed esortata. Il libro si apre con le “lettere” che il Risorto invia
alle sette ekklesìai dell’Asia Minore. Quale rapporto esiste tra la Città santa e la piccola comunità di
Efeso o di Laodicea? Anzitutto, esse sono i “candelabri”, le lampade, in mezzo ai quali sta “il Figlio
dell’Uomo”(1,13). Sono cioè delle luci, piccole quanto si vuole, ma in esse si riflette la luce folgorante
del volto del Risorto (1,16). Esse, nella loro piccolezza, sono custodite potentemente: ognuna di esse
può e deve “vincere” (cfr la conclusione di ogni “lettera”). La vittoria è dell’Agnello, essa avviene
grazie alla sua potenza divina, non certo grazie alla forza delle piccole comunità. Esse però sono
chiamate a partecipare a questa vittoria, soprattutto esse debbono essere dei testimoni, dei segni che
servano alla conversione e alla speranza degli uomini. Per questo e per la custodia potente del loro
Signore, esse possono abitare persino “dove Satana ha il suo trono” (2,13).
Alle chiese necessitano anzitutto fedeltà, perseveranza, pazienza. Non debbono neppure
presumere, quando le cose vanno bene: la chiesa di Laodicea è severamente ammonita per il suo
autocompiacimento, che ha come esito la tiepidezza; meglio la piccola e povera chiesa di Filadelfia,
l’unica, assieme alla chiesa di Smirne, alla quale il Risorto non rivolge alcun rimprovero. Ma la
pazienza può essere triste, forse anche un po’ rancorosa verso un mondo ostile. Alla chiesa di Efeso
vien detto: “Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da
rimproverarti di aver abbandonato il tuo primo amore” (2,3-4). All’Agnello, che abita nella Città con
le porte sempre aperte, non piace un’ortodossia preoccupata solo di conservare e di difendere.
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La piccola chiesa di Filadelfia non ha forse neppure la forza di tirare il catenaccio; ma ad essa
il Signore dice: “Ti faccio dono di alcuni della sinagoga di Satana ..; li farò venire perché si prostrino
ai tuoi piedi e sappiano che io ti ho amato” (3,9). Ma il Risorto ammonisce per guarire. Proprio la
chiesa di Laodicea, quella trattata con maggior severità, si sente rivolgere le parole più consolanti:
“Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui,
cenerò con lui ed egli con me”(3,20).
Rimane però la domanda: quale rapporto tra le chiese, le comunità che vivono nella storia, e la
Chiesa, come realtà eterna? Dobbiamo dunque pensare che, dal momento che la vittoria è già
avvenuta, dobbiamo soltanto aspettare che si riveli, vivendo in un passivo spiritualismo? Il giudizio
severo sul “mondo” deve portare alla conservazione faticosa di un’identità, che abbandona gli altri
uomini alle conseguenze dei loro vizi? O, se vogliamo usare le immagini dell’Apocalisse, i figli della
Donna sono davvero così pochi? A quest’ultima domanda dobbiamo rispondere di no, poiché il
profeta vede “una moltitudine immensa, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” (7,9); inoltre, persino
la parte oscura, amorfa della storia, la “terra”, quella che sembrerebbe indifferente alla grande lotta col
Drago, indifferente non è, poiché, nell’estremo e apparentemente irrimediabile pericolo, si risveglia e
si schiera dalla parte della Donna (12,16).
6. LE DUE CITTA’.
Il primo elemento che ci orienta a pensare che il ruolo delle chiese, anche piccole e
perseguitate, è in realtà importante per la storia dell’umanità, è proprio il fatto della persecuzione.
Perché danno tanto fastidio? Perché il Drago si accanisce contro la Donna, evidentemente incapace di
contendere con lui con le sue stesse armi? La spiegazione è data nei grandi capitoli centrali, quelli che
parlano del regno della Bestia e della città sanguinaria, Babilonia. L’obiettivo della Bestia e del
Drago, che le dà il suo potere (13,2), non è il potere in sé, ma qualcosa di più: la Bestia richiede un
culto religioso, vuole essere riconosciuta e adorata come dio. Tutto serve a questo scopo, il potere, la
violenza brutale, la propaganda, la seduzione delle coscienze. C’è un momento nel quale questo
disegno empio sembra avere successo: “Le fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli; le fu
dato potere sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui
nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello” (13,7-8). Soltanto in qualche realtà marginale si
resiste e si continua ad adorare il vero Dio. Ma questo non è accettato dalla Bestia e dai suoi fautori:
bisogna spezzare anche quest’ultima resistenza. Il riferimento è chiaro: l’autore ha davanti a sé la
persecuzione di Domiziano, novello Nerone. Ma queste pagine sono davvero profetiche: quante volte,
nella storia, si è ripetuto questo assalto, quante volte la resistenza si è ridotta apparentemente a pochi
testimoni! Ecco: la parola che l’Apocalisse usa per indicare la vocazione delle “chiese” è proprio
questa, “testimoni”. Testimoni di quale verità? Del fatto che uno solo è Dio, che gli idoli non portano
se non alla morte.
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E’ la testimonianza di Israele che continua: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è
il Signore” (Deut 6,4). Ma è anche la testimonianza di Gesù, “il testimone fedele, il primogenito dei
morti e il sovrano dei re della terra”(1,5). Nessuna “opera” delle chiese è più importante di questa o,
meglio, in tutte le opere, in tutta la vita delle chiese deve risplendere questa testimonianza. Di più, il
Libro non dice. Certo, si mette l’accento sulla vigilanza, sull’attenzione a non scendere a compromessi
con la Bestia. Sono indicate anche le aree sensibili, nelle quali la Bestia ha più potere, e dalle quali è
bene stare alla larga: l’umanità empia, nonostante i flagelli, “non si convertì dagli omicidi, né dalle
stregonerie, né dalla prostituzione, né dalle ruberie” (9,21): la guerra, la propaganda e il potere
mediatico, il disordine sessuale e la seduzione del denaro sono pericolosi non tanto perché
moralmente censurabili, ma perché portano all’idolatria.
Se non vengono date indicazioni sulla vita concreta delle chiese e sulla loro attività nel mondo,
viene però indicato lo strumento della resistenza. La folla immensa, che porta i simboli della vittoria,
le vesti bianche e i rami di palma, è formata da coloro “che vengono dalla grande tribolazione e hanno
lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello” (7,14). La grande tribolazione, come
la tentazione dalla quale, nel Padre Nostro chiediamo di essere assistiti, è quella che deriva dalla forza
del grido degli idolatri: “Chi è simile alla Bestia e chi può combattere con essa?”(13,4),
un’affermazione che sembra trovare conferme nel suo successo storico e indurrebbe quanto meno al
compromesso. Ma al Drago il compromesso non basta: egli è l’Accusatore, il “Satana”, che continua
ossessivamente a ripetere: “Il vostro Dio non salva”, che rivolge ai seguaci di Gesù la stessa accusa
che ha rivolto al loro Maestro, per la bocca dei sacerdoti: “Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli
vuol bene; ha detto infatti: Sono Figlio di Dio” (Mt 27,43). “Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue
dell’Agnello e alla parola della loro testimonianza, e non hanno amato la loro vita fino a morire”
(12,11). Il sangue dei testimoni parla, come parla il sangue dell’Agnello: esso è la parola definitiva, il
“sì” dell’uomo in risposta al “sì” di Dio.
Il compito delle chiese è dunque anzitutto quello di accogliere la testimonianza di Gesù, cioè di
approfondire nella contemplazione, ma anche nell’esperienza personale, che nella croce di Gesù c’è
davvero il senso della storia, anzi, ancora di più, lo squarciarsi del velo, l’infrangersi dei sigilli, la
parola definitiva, creatrice e vittoriosa, di Colui che siede sul trono: “Non temere! Io sono il Primo e
l’Ultimo, il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”
(1,17-18). Non è detto esplicitamente, ma qualche indizio suggerisce che il luogo primario e generante
di questa esperienza è la liturgia: la rivelazione del Risorto a Giovanni avviene “nel giorno del
Signore”(1,10), il “Testimone degno di fede e veritiero” bussa alla porta della chiesa di Laodicea e
intende mettersi a cena con chi ascolta la sua voce (cfr 3,14-22). L’assemblea dei redenti ha luogo sul
monte Sion, il luogo del tempio terrestre, e la loro riunione e il loro canto hanno un’evidente
intonazione liturgica, di una liturgia che si unisce alla “voce che viene dal cielo, come un fragore di
grandi acque”, alla liturgia celeste (14,1-5).
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7. IL SENSO DELLA STORIA.
La storia, secondo l’Apocalisse, non ha certamente una caratteristica evolutiva, non si dà un
progresso; vi è un crescendo: ma è il crescere della crisi, della posto in gioco, del prezzo della
decisione, del conflitto. In questo, l’Apocalisse coincide con i discorsi escatologici dei Sinottici:
“Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti
nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: ma tutto
questo è solo l’inizio dei dolori. Allora vi abbandoneranno alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete
odiati da tutti i popoli a causa del mio nome … Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato.
Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i
popoli; e allora verrà la fine” (Mt 24,6-14). Nell’Apocalisse, nella serie delle trombe (cap. 8-9), viene
colpito dai flagelli un terzo della terra: ci sarebbe ancora spazio per la conversione, che però non
avviene (9,20-21). Successivamente, nella serie delle coppe (cap.16), è tutto il mondo che viene
colpito, ma il risultato è il medesimo (16,9). Questo però non vuol dire che la testimonianza dei
seguaci dell’Agnello sia inutile: fino all’ultimo essi tengono aperta la porta per la quale chiunque può
entrare nella santa Città. In questo senso interpreterei il difficilissimo simbolo del regno millenario del
Cristo e della prima risurrezione (cap.20). E’ inutile cercarne l’identificazione con un determinato
periodo storico; è meglio, seguendo alcune interpretazioni antiche, vedere in esso non un tempo, ma
una dimensione: già adesso “i decapitati a causa della testimonianza di Gesù e quanti non avevano
adorato la Bestia e la sua statua e non avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano” (20,4)
partecipano alla risurrezione, alla vita divina, all’assemblea celeste, e sono “sacerdoti di Dio e del
Cristo” (20,6), cioè hanno una funzione cultuale, di adorazione e di ringraziamento, ma anche di
intercessione. Questa dimensione è reale e inaccessibile alle forze demoniache, anche se è ancora
legata alla terra e alla storia: ma proprio la sua provvisorietà significa che c’è ancora tempo, la
possibilità di entrare nel Regno dell’Agnello, se si accetta la sua testimonianza. E’ la dialettica che
compare anche nei discorsi giovannei dell’ultima Cena e nella Prima Lettera: “Vedete quale grande
amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo
non ci conosce, perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che
saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo
simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Gv 3,1-3). Per i figli di Dio la risurrezione è già
avvenuta e ha creato un’irrimediabile frattura con il “mondo”: “Non meravigliatevi, fratelli, se il
mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita (cioè, siamo risorti), perché
amiamo i fratelli. Chi non ama, rimane nella morte” (1 Gv 3,13-14). L’amore fraterno è la
conseguenza e il sintomo della risurrezione già avvenuta: nel linguaggio apocalittico, potrebbe essere
proprio la carità fraterna la dimensione nella quale si fa l’esperienza del regno dell’Agnello già nella
storia presente.
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L’Apocalisse è un libro per i tempi di emergenza, una mappa che accompagna il cristiano in
terra straniera, un prontuario che suggerisce le modalità di resistenza nella crisi. Tuttavia, se riportato
nel complesso degli scritti del Nuovo Testamento, il suo messaggio non differisce di molto da quello
di testi molto più “sereni”, anche se la dimensione conflittuale è ineliminabile dalla visione cristiana
dell’uomo e della storia. E’ Gesù stesso che pone i suoi discepoli di fronte a una scelta decisiva e
paradossale: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Perché chi vuole salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia la
troverà” (Mt 16,24-25). Il grande contributo che l’Apocalisse può dare alla Chiesa di oggi sta proprio
in questo: esso è un antidoto a un’interpretazione moralistica del Vangelo, come se Gesù fosse venuto
in un mondo “neutrale”, a insegnare una vita virtuosa, dando l’esempio della massima abnegazione
con il dono della vita per i fratelli. L’esemplarità di Gesù è conseguenza di qualcosa d’altro: del fatto
che “siamo stati riscattati con il suo sangue”(5,9), che cioè vi è un evento, che è un’azione di Dio, che
pone la storia di fronte a un discrimine, che anzi scatena una reazione violenta e mortale, anche se
talvolta subdola. In questo grande dramma, che ha una dimensione “politica”, nel senso che coinvolge
tutto il mondo e tutte le realtà umane, la Chiesa terrena è una “lampada” (1,12), una luce, piccola
quanto si vuole, ma capace di orientare l’uomo, e ogni cristiano è chiamato a svolgere la funzione del
profeta, a “svelare” il senso della storia, a esprimere un giudizio sulla storia, contrastando l’opera di
Satana e orientando lo sguardo degli uomini fratelli verso la bellezza della santa Città, che, come il
suo Creatore, “è, era e viene” (1,8).
Don Giuseppe Dossetti, agosto 2010
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