15 luglio 2011 / LUISS Business School / Giornata MBA Convegno
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15 luglio 2011 / LUISS Business School / Giornata MBA Convegno
15 luglio 2011 / LUISS Business School / Giornata MBA Convegno “Stress lavoro-correlato: tra obblighi normativi di tutela della salute e clima organizzativo” Intervento di Matteo Smolizza in sostituzione di Tiziano Treu Buon giorno Innanzitutto vorrei ringraziare il Prof. Tiziano Treu per avermi affidato il difficile compito di fare le sue veci in questo convegno, e la LUISS e i Proff. Egidi e Fontana per avermi accolto. Il Professore è divenuto ieri per la prima volta nonno, ed i doveri famigliari lo hanno giustamente strappato dagli impegni istituzionali ed accademici. Treu mi ha incaricato di sostituirlo confidando nel fatto che lavoriamo da alcuni anni spalla a spalla su questo problema e abbiamo assieme valutato la condizione di stress, i rischi e le ricadute economiche e legali in alcune delle più grandi aziende italiane, pubbliche e private. Come sapete, il concetto di stress lavoro correlato, o per meglio dire stress da lavoro, nasce nel mondo anglossassone ed è analogo alle norme per sostenere i comportamenti etici e salutistici, come per esempio quelle per limitare il fumo passivo. La norma infatti sollecita quella speciale comunità che si chiama luogo di lavoro, o, più propriamente, organizzazione del lavoro, poiché una organizzazione del lavoro più sana produce dati positivi sia rispetto alla salute del singolo individuo, sia rispetto ai bilanci della sanità e della sicurezza a livello nazionale. Oltre che nei conti dell’impresa. Infatti, il corrispondente americano dell’INAIL, il NIOSH apre le proprie linee guida sottolineando il parallelo tra performance economiche dell’azienda e performance nel contrasto allo stress lavoro-correlato, sentito come una sabbia che inceppa il meccanismo aziendale, una tensione – propriamente stress vuol dire tensione – che rema contro il successo. In Italia, abituati come siamo ad una cultura della sicurezza legata ai rischi più propriamente materiali – i rischi del cantiere, dello stabilimento metalmeccanico e chimico – la normativa non è stata accolta bene. Da una parte è stata considerata come il tentativo dello Stato di portare a carico dell’impresa il crescente disagio sociale dall’altra c’è lo stress è visto come qualcosa di fumoso, vago, la cui misurazione è legata a strumenti propriamente psicologici, nei quali c’è scarsa fiducia. Eppure la novità introdotta dal decreto 81 del 2008 non è affatto una novità per il nostro contesto giuridico. Vale solo la pena di ricordare che l’articolo 2087 del codice civile, un testo del 1942, impone all’imprenditore di “tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, un principio man mano evoluto nelle sentenze di cassazione fino all’obbligo della “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”, una sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale. L’INAIL ha emanato nel 2003 una circolare, la numero 71, sui “disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro” confluita nel DM 27 aprile 2004, recante nell’elenco delle malattie per cui è obbligatoria la denuncia le «Malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro». Entrambi i provvedimenti sono stati annullati dal TAR e dal consiglio di Stato su ricorso delle associazioni dei datori di lavoro, e reiterati dall’INAIL con altro nome. Nonostante la 626, il mostro sacro della sicurezza sul luogo di lavoro, non menzionasse i rischi psicosociali (motivo per il quale, a seguito di procedura di infrazione europea, è stata sostituita dal D.Lgv. 81), la Cassazione ha costantemente ribadito i danni da stress lavoro correlato, pure senza usare questa terminologia. La sentenza 9353 del 2005, per esempio, conferma la responsabilità civile e penale di una azienda di vigilanza verso un lavoratore in cui turnazioni particolarmente pesanti avevano generato un continuo stato d’ansia. L’obbligo di valutazione del rischio stress (la valutazione preventiva costituisce la vera novità, poiché la correzione era già nel credo) deriva da un accordo quadro stipulato nel 2004 a Bruxelles tra organizzazioni dei datori di lavoro e dei sindacati a livello europeo, testualmente recepito all’articolo 28 comma 1 dell’81/2008 ed ha portato una con sé una serie di iniziative di indirizzo di vario livello, dalle ASL alle regioni, alle associazioni di categoria, fino alle linee guida emanate dalla commissione consultiva permanente il 17 novembre 2010, e di procedimenti giudiziari, in sede penale e civile, come quelli del Procuratore Guariniello a Torino, nonché 500 denunce INAIL nel solo 2010, secondo il rapporto presentato dall’Ente previdenziale alla camera il 5 luglio. Vediamo però ora, un po’ meglio, cosa è che la legge si preoccupa di tutelare. Il lavoratore dallo stress in sé? No di certo. Immaginatevi un grande quadrato: l’area di questo quadrato corrisponde a tutte le manifestazioni dello stress, e la metà superiore, in particolare allo stress legato alla vita extra-lavorativa. La legge naturalmente non si occupa di questa parte. Possiamo dividere la parte sottostante, relativa alla vita lavorativa, in due metà: quello stress connesso al lavoro, ma di cui l’azienda non è dominus (per esempio la preoccupazione che un certo prodotto esca di mercato, a causa della concorrenza cinese, e che gli addetti a quella produzione siano licenziati) ed una parte di cui l’azienda è dominus (per esempio, le modalità di decisione, attuazione e comunicazione della cassa integrazione e del licenziamento). Naturalmente l’azienda è richiamabile solo per ciò che può dominare. Anche questa parte, che è già un quarto del nostro quadrato originale, va però divisa a metà: infatti esiste una condizione positiva di stress – per esempio, quando siamo protesi verso un obiettivo – ed un condizione negativa di stress, quando cioè subiamo un danno alla salute fisica o mentale. Ciò di cui l’azienda si deve occupare è dunque solo lo stress connesso al lavoro, prodotto da condizioni che l’azienda domina e che ha ricadute negative e perduranti sulla salute. Possiamo però essere ancora più espliciti: tutti sappiamo che, in condizioni di tensione tendiamo a mangiare di più (qualcuno di meno, beato lui), ad addormentarci con più difficoltà, ad essere distratti su ciò che non è al centro dell’interesse e talvolta irritabili. Se queste dura pochi giorni è normale. Il problema c’è quando il sovrappeso, l’insonnia, la distrazione e gli errori collegati, le difficoltà relazionali diventano costanti nella nostra vita, con i correlati medici ben noti, dai problemi cardiaci a quelli pancreatici, alla depressione. Insomma, quando il nostro medico curante ci raccomanda di cambiare vita se vogliamo recuperare la salute, sta facendo esattamente quello che la legge oggi chiede alle aziende: registrare se esistono nei lavoratori manifestazioni stress tali da poter ledere la salute fisica e mentale e annullarne le cause. Naturalmente, tutto questo presuppone che sia effettuata una analisi dello stress lavoro correlato non solo formale (un pezzo di carta firmato da consulenti di comodo, corredato di un piccolo test in cui l’azienda si è autovalutata) ma sostanziale. Nella nostra esperienza, una buona valutazione dello stress si basa su tre pilastri: il più ampio coinvolgimento dell’azienda (manager convinti di perdere tempo trasformeranno l’analisi in una perdita di tempo), un serio esame dei dati oggettivi dell’azienda ed un serio esame della percezione dei lavoratori. Le imprese, in genere, sono indotte a pensare che l’analisi dello rischio stress sia fatta a passi autosufficienti: per cui il passo uno è riempire un breve questionario sull’andamento aziendale e, se l’azienda presenta per esempio, un trend in miglioramento sul triennio, di fatto tutto va bene. Ora, se una azienda analizzasse così i propri risultati commerciali certamente fallirebbe: infatti, il problema non è se da tre anni a questa parte vado migliorando, ma se i miei valori in attivo o meno, e di quanto. Allora una buona analisi oggettiva, come prima cosa, parametra i dati aziendali (infortuni, straordinari, assenteismo etc) ai dati istituzionali di riferimento INAIL, Banca d’Italia, INPS, SVIMEZ, CONFINDUSTRIA etc. E questi paragoni sono efficienti solo se condotti sullo specifico settore di mercato e territorio, e tenendo conto della dimensione dell’impresa. Una azienda che ha i conti in ordine non semplicemente rispetto a se stessa, ma rispetto agli standard di riferimento, ha messo il primo pilastro. Il secondo pilastro è dato dall’analisi della percezione dei lavoratori. Infatti, come chiarisce molto bene l’accordo quadro europeo lo stress si manifesta in modo soggettivo. In questo senso, per esempio, un alto dato sugli straordinari – comunemente ritenuto un evento allarmante – se ben distribuito e soprattutto pagato potrebbe risultare (e per lo più risulta) ai lavoratori di una azienda come una possibilità di aumentare la mensilità e quindi la propria serenità economica in un momento difficile. In generale, le aziende più grosse con cui abbiamo lavorato ci hanno richiesto di indagare particolarmente questo lato della medaglia, aiutandole a identificare i reparti meno efficienti ed i possibili motivi e soluzioni. Per questo, servono strumenti che non siano generici (i classici test uguali per l’azienda trasporti di capri e l’Ospedale San Camillo) ma tagliati sull’azienda ed in grado di segmentare moltissimo il campione, sia in termini di localizzazione geografica, sia in termini di mansione, tipologia contrattuale, anzianità di servizio, trattamento salariale, aspirazione e così via. L’analisi del rischio stress, insomma, si configura come un tipico strumento per aumentare la produttività aziendale attraverso interventi di check-up e miglioria della propria struttura. Come dice sempre il Prof. Treu, chi guida una macchina da competizione, e le imprese sono macchine da competizione, è abituato ad accorgersi di ogni piccolo rumore e di qualsiasi ritardo di performance. Lo stress va colto in piccole inefficienze e differenze di performance, senza accontentarsi di considerarle casualità: tra l’URSS e gli USA c’era una piccola differenza di crescita annua, credo lo 0,6 % medio a favore della seconda. Però, questa piccola differenza moltiplicata nei decenni ha fatto una grande differenza. Treu usualmente termina i suoi interventi, ritornando al piano legale e in particolare al rischio class action. C’è infatti la possibilità, molto concreta, che lo stress lavoro correlato dia luogo ad azioni collettive da parte di gruppi di lavoratori che possano legittimamente sostenere subito una condizione abnorme e usurante. Infatti, la legge prevede che l’analisi dello stress sia compiuta non su singoli lavoratori ma su gruppi omogenei, e precostituisce così il diritto al risarcimento all’intero gruppo dei danneggiati. Si tenga conto, a questo proposito, che mentre nel caso del mobbing il giudice condanna solo se è dimostrata la volontarietà della condotta aziendale, nel caso dello stress lavoro correlato l’azienda è sanzionabile – civilmente e penalmente – anche se non aveva intenzione di provocare stress, ma di fatto lo ha provocato. Provate a pensare a due scenari: da una parte una azienda che ha deciso di conoscere meglio se stessa e crescere sapendo che per migliorare bisogna scoprire ciò che non va; dall’altra una azienda che sa che qualcosa non va, ma non precisamente cosa o comunque non ha intenzione di spolverare sotto il tappeto. E’ facile capire quale è destinata a crescere.