Il Signore degli Anelli di Peter Jackson (2001-2003)
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Il Signore degli Anelli di Peter Jackson (2001-2003)
R I P R E S E & D E T T A G L I Il Signore degli Anelli di Peter Jackson (2001-2003) di Andrea Monda Uno dei film che la maggior parte degli studenti delle classi superiori ha visto è senz’altro Il Signore degli Anelli, trasposizione cinematografica, in tre episodi, realizzata dal regista neozelandese Peter Jackson, del capolavoro letterario dello scrittore cattolico J.R.R.Tolkien. Apparso cinquant’anni fa in Inghilterra questo libro singolarissimo (come definire questa favola di oltre 1200 pagine? un romanzo epico? un poema fantasy?) ha venduto milioni di copie diventando, probabilmente, il libro più letto al mondo dopo la Bibbia. Era quindi inevitabile che il cinema si occupasse di questa storia che, ai fini dell’insegnamento della religione cattolica, si rivela quanto mai preziosa e feconda. Sul messaggio cristiano racchiuso nel romanzo di Tolkien ormai si sono occupati diversi critici e saggisti e sarebbe lungo elencare le opere critiche sotto questo aspetto più interessanti. Far leggere tutto il romanzo agli studenti è ovviamente improponibile; anche sotto questo aspetto il film (su supporto VHS o, ancora meglio, DVD) permette un uso snello ed efficace di questa storia profonda quanto avvincente. Anche la visione dell’intera trilogia cinematografica non è praticabile: oltre 10 ore di spettacolo sono troppe. Proprio per questo nel presente articolo verranno presentate solo due sequenze dei tre film, tra loro strettamente collegate, che rappresentano, a parere di chi scrive, due momenti “centrali” della storia, ricchi di significato e di spunti interessanti ai fini dell’IRC. Gli Hobbit, più santi che eroi: umiltà e pietà La prima sequenza è tratta dal primo film della trilogia, intitolato La Compagnia dell’Anello. Innanzitutto è necessaria una brevissima riflessione preliminare sul senso profondo della storia inventata da Tolkien che già ad un primo esame superficiale denota la sua “originalità cristiana”. Al contrario di tutti i grandi poemi epici del passato, Il Signore degli Anelli non racconta di una conquista (o ri-conquista) di un tesoro rubato o di una patria perduta, non c’è Ilio, Itaca o un Sacro Graal da cercare, trovare e riprendere: qui il tesoro (l’Anello, malefico talismano del Potere) è già a disposizione dei protagonisti che dovranno fare un lungo viaggio (classico topos letterario) non per prendere, quanto per perdere. La ricerca non è per affermare e conquistare, ma per rinunciare. Ecco perché dove i “grandi” falliscono, sono i piccoli hobbit a riuscire nell’impresa, sarà Frodo infatti a portare l’Anello fino al Monte Fato, l’unico luogo dove può essere distrutto, un’impresa molto ardua, perché perdere è più difficile che conquistare. Per un’impresa del genere non servono grandi virtù fisiche o mentali; gli eroi di Tolkien non sono poi così tanto “eroici”, ciò che serve è un cuore semplice e la disponibilità a mettersi a servizio di un disegno più grande, cioè che serve è la fede in una Provvidenza che guida la storia umana. 39 R I P R E S E La prima morale del romanzo può essere quindi facilmente rintracciata nell’Inno di Giubilo di Matteo 11,25: «Ti benedico o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» o, se vogliamo, nelle parole del Magnificat exaltavit humiles. Al centro del romanzo di Tolkien ci sono questi hobbit, gli umili del Vangelo, e in particolare l’attenzione dello scrittore si concentra su tre personaggi: Frodo, Gollum e Sam. Nella prima sequenza che vorrei esaminare, che vede protagonisti i primi due, si possono riscontrare delle tracce dei temi appena enunciati. Ci troviamo a metà circa del film 1 e la Compagnia (dal latino cum-panis, coloro che spezzano il pane insieme: la solidarietà, concreta e fraterna, della Compagnia si contrappone alla solitudine dei “cattivi”, Sauron e Saruman chiusi nelle loro torri superbe e irraggiungibili) si trova all’interno delle Miniere di Moria, un antico regno sotterraneo dei Nani. A questo punto il regista introduce un breve dialogo tra il protagonista, Frodo, e il saggio mago Gandalf, trasferendo qui una discussione che nel libro è posta all’inizio (si tratta infatti di un dialogo ricco di profondi significati che danno luce all’intero romanzo). Leggiamo quindi questa discussione direttamente dalla pagina del romanzo, anche perché, pur se sintetizzata, la trasposizione cinematografica è rimasta fedele al testo originale: «O Gandalf, il più caro e sincero tra i miei amici, che devo fare? Che peccato che Bilbo non abbia trafitto con la sua spada quella vile e ignobile creatura quando ne ebbe l’occasione!». «Peccato? & D E T T A G L I Ma fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà e Misericordia: egli non volle colpire senza necessità. E fu ben ricompensato di questo suo gesto, Frodo. Stai pur certo che se è stato grandemente risparmiato dal male, riuscendo infine a scappare ed a trarsi in salvo, è proprio perché all’inizio del suo possesso dell’Anello vi è stato un atto di Pietà». «Mi dispiace disse Frodo - ma sono terrorizzato e non ho alcuna pietà per Gollum». «Non l’hai visto», interloquì Gandalf. «No, e non ne ho alcuna intenzione», disse Frodo. «Non riesco a capirti; vuoi dire che tu e gli Elfi l’avete lasciato continuare a vivere impunito, dopo tutti i suoi atroci crimini? Al punto in cui è arrivato è certo malvagio e maligno come un Orchetto, e bisogna considerarlo un nemico. Merita la morte». «Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti meritano la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze. Ho poca speranza che Gollum riesca ad essere curato ed a guarire prima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando giungerà, la pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo».2 È in effetti una pagina ricca di tanti temi e suggestioni che, per brevità, non potremo affrontare interamente. Innanzitutto è da Nella “extended version” pubblicata nel cofanetto da 4 DVD, la sequenza in questione si trova nel DVD n. 2 alla scena n. 34 intitolata Un viaggio nell’oscurità (durata: 6 minuti circa, dal 17’ al 21’) 2 J.R.R. TOLKIEN, Il signore degli anelli, Milano, Rusconi, 1970, p. 94 1 40 R I P R E S E sottolineare la centralità del tema della pietà. Bilbo, zio di Frodo, a suo tempo ebbe pietà di Gollum e pur potendolo uccidere (un omicidio “giustificato” dalla legittima difesa) lo ha risparmiato: l’antico atto di pietà di Bilbo lo preserverà a lungo dal male, su di lui l’Anello non potrà esercitare tutti i suoi effetti e non solo proteggerà Bilbo ma si estenderà anche sulle sue generazioni successive. Anche Frodo, peraltro, quando si troverà davanti Gollum, ne proverà pietà e lo perdonerà risparmiandolo e, anche qui, è proprio la pietà a salvare Frodo e la sua missione. Lo afferma esplicitamente Tolkien, fuori e dentro il romanzo. Nella lettera ad Amy Ronald scrive: «È possibile che i buoni, persino i santi, si trovino di fronte ad un potere malvagio troppo grande da subire con le loro sole forze. In questo caso la causa (non l’“eroe”) vince, perché grazie al fatto che loro hanno praticato la pietà, la compassione e il perdono delle offese si è creata una situazione tale che capovolge tutto ed evita il disastro. Gandalf l’aveva sicuramente previsto»3. Abbiamo appena letto infatti che Gandalf aveva intuito l’esito finale della vicenda, un esito che vede Gollum protagonista (come ormai è mondialmente noto, Frodo, non riuscirà a gettare l’Anello nella voragine del vulcano ma alla fine crollerà di fronte alla tentazione e rivendicherà la proprietà del talismano; solo l’intervento di Gollum e la lotta che si scatena tra i due provocherà la caduta e la distruzione dell’Anello). È interessante osservare la finezza letteraria di Tolkien che in questa prima scena mostra un Frodo insolitamente duro, animato da una spietatezza prodotta dalla paura: «…sono terrorizzato e non ho alcuna pietà 3 & D E T T A G L I per Gollum». Ed è molto bella la risposta di Gandalf: «Non l’hai visto». Non è facile vedere Gollum. Non solo perché, in quanto hobbit, egli è dotato di piccolezza e di notevole capacità di nascondersi silenziosamente, ma perché quando qualcuno non vede qualcosa, spesso il problema sta negli occhi del soggetto, non nella natura dell’oggetto. Molti s’imbattono in Gollum ma ben pochi lo vedono. Lo stesso Sauron, l’Oscuro Signore degli Anelli ad un certo momento trova Gollum e, attraverso i Cavalieri Neri, lo imprigiona e lo tortura per fargli rivelare il nome dell’attuale possessore dell’Anello, ma, appunto, Sauron non “vede” Gollum, non ne vede la pena infinita, non prova per lui alcuna compassione ma lo usa soltanto per i suoi fini, scartandolo e gettandolo via appena non gli serve più. Altri invece, come Gandalf e Bilbo, quando incontrano Gollum, lo “vedono”. Da questa “visione” nasce quella pietà che gli impedisce di fare del male a questo vecchio hobbit di cui conoscono per altro tutti i crimini. Così sarà anche per Frodo. Ad un certo punto Frodo incontrerà anche lui Gollum, e lo vedrà. Questo mi sembra un tema già molto importante, soprattutto per gli studenti delle scuole superiori che, come è noto, dedicano molto tempo del giorno e della notte davanti alla televisione. Il più delle volte essi, però, “guardano” la televisione, senza “vederla”. Infatti lo sguardo che la TV induce ad assumere nei confronti della realtà è lo sguardo dello spettatore o, peggio, del voyeur, non di chi vede dentro la realtà, con occhi carichi di intelligenza e di pietà. Quando invece Pier Paolo Pasolini incontrò Madre Teresa di Calcutta scrisse: «Madre Ivi, p. 286 41 R I P R E S E Teresa ha uno sguardo che quando guarda, vede». Anche Frodo, al contrario del suo amico Sam, guardando Gollum, lo vede e, aspetto ancora più interessante, in Gollum egli vede se stesso. Questo fatto viene suggerito dal rapporto tra Frodo e Gollum, quel rapporto che Sam non riesce a capire, tutto preso dall’affetto possessivo e protettivo nei confronti del suo padrone. Frodo invece vede in Gollum quello che lui potrebbe diventare, quello che sta diventando, come in una sua proiezione futura e quindi ne prova compassione ed è questa sim-patia che gli impedisce anche in seguito di ucciderlo e di farlo uccidere (da Faramir, da Sam) e che conduce Frodo a quella immedesimazione con Gollum che Sam non può comprendere; del resto è fin troppo evidente, agli occhi di Sam ma anche del lettore, che continuare a seguire Gollum lungo il cammino non solo non è “conveniente” ma è anche pericoloso. Il ragionamento di Sam, da un punto di vista pratico, non fa una piega, ma è, appunto, solo un “ragionamento”, senza la minima apertura di cuore che, sembra dirci Tolkien, è possibile solo in virtù di una speciale “grazia”, una grazia misteriosa che passa attraverso la croce e la sofferenza. E infatti lo stesso Sam comprenderà quella pietà e la praticherà solo dopo essere stato anche lui portatore dell’Anello, quando, sulle pendici di quel “Golgota” che è il Monte Fato, avrebbe l’ultima occasione per compiere un atto «giusto e più volte meritato; e sembrava l’unica cosa sicura da farsi», ma che evita di compiere: Ma in fondo al cuore qualcosa lo tratteneva. Non poteva colpire quella cosa distesa nella sabbia, disperata, distrutta, miserevole. Lui stesso aveva portato l’A4 Ivi, p. 1127 42 & D E T T A G L I nello, solo per poco tempo, ma poteva vagamente immaginare l’agonia della mente e del corpo di Gollum, incatenato all’Anello, dominato, incapace di ritrovare nella vita mai più pace o sollievo.4 Viceversa (e ciò è altrettanto commovente), Gollum vede Frodo e in Frodo ri-vede se stesso: se Frodo vede in Gollum una sua proiezione futura, Gollum vede in Frodo una sua proiezione passata. Frodo pre-vede ciò che sta diventando, Gollum ri-vede ciò che era. In Frodo Gollum vede un’immagine antica, quella di Smeagol, un giovane hobbit innocente prima ancora dell’irruzione nella sua vita del malefico Anello. Purtroppo per lui l’incontro con Frodo arriva troppo tardi: si è incamminato sulla via del tradimento e della violenza e la conversione (che pur ad un certo punto sembra affacciarsi) è al di là della sua portata. Questa “dannazione” però risulterà funzionale, perché è proprio la mancata conversione di Gollum che permette la scena finale, quella della sua aggressione ai danni di Frodo incapace di gettare l’Anello. Il “male” di Gollum è necessario per l’affermazione del bene. Al buon esito della vicenda contribuiscono sia le buone che le cattive azioni dei personaggi. In altre parole, non esiste una giustizia “matematica”, un’arida meritocrazia nella visione morale del cattolico Tolkien. Frodo e Sam riescono a portare a termine la missione non per i loro meriti (che pur ci sono) ma perché offrono tutta la loro persona, ricca di virtù come di difetti, a quella missione. E oltre a questi due hobbit c’è il terzo hobbit, Gollum che, in modo del tutto misterioso, è cooperatore del bene; è proprio mediante questo essere abbietto che si realizza la salvezza del mon- R I P R E S E do: emerge prepotente tutta la paradossalità del cattolico inglese Tolkien. Nella figura di Gollum che nel cuore di Mordor precipita fino a immergersi nel fiume di lava che distrugge l’Anello, si può intravedere una chiara immagine cristologica: come Cristo, Gollum porta su di sé il peccato del mondo da cui libera il mondo; come Cristo Gollum compie la discesa ad inferos; egli si immerge nella lava come Cristo si immerge nelle acque del Giordano e compie quel battesimo che riscatta tutti ribaltando la situazione creatasi con il peccato di Adamo. Egli si fa «peccato per noi, affinché noi potessimo diventare giustizia di Dio in lui» (2Cor 5,21). Quando spiego queste cose ai ragazzi, anche dell’ultimo anno di liceo, noto che l’inesauribile paradossalità della Scrittura colpisce sempre nel segno, disorientando gli studenti, spesso ancorati a fragili certezze e vecchi luoghi comuni. La Via Crucis di Frodo e la Provvidenza La sorprendente fine della vicenda permette di collegarci alla seconda sequenza5, tratta dal finale del terzo film, Il ritorno del Re. Frodo e Sam si trovano sulle pendici del Monte Fato, quasi ad un passo dalla meta del loro lungo e penoso viaggio. Frodo si inerpica sulle rocce del vulcano e continuamente è gettato a terra dal peso dell’Anello divenuto un fardello sempre più pesante. La similitudine con la Via Crucis è fin troppo facile: Frodo, il portatore dell’Anello, è un alter Christus: come Cristo, Frodo rinnega se stesso e prende la croce, si umilia e quindi alla fine verrà esaltato con i massimi onori. Con il suo sacrificio della vita egli acquisterà in pienezza la vita per sé e per il mondo. Qui si può inserire una brevissima & D E T T A G L I riflessione che, ho constatato, colpisce sempre gli studenti. Il titolo del capolavoro di Tolkien fa ovvio riferimento a Sauron, l’Oscuro Signore del reame di Mordor che anticamente forgiò gli Anelli del Potere: è lui “il signore degli anelli”. Però, a ben vedere, è invece proprio Frodo che può essere chiamato legittimamente “signore” dell’Anello per la libertà con cui, per quasi tutto il romanzo, dispone di questo oggetto, senza soccombere alla sua potenza malefica. “Signore” è solo colui che è disposto a donarlo, non chi se ne impossessa. Chi non è in grado di donare un suo oggetto, rinunciandoci, non è il padrone ma il servo di quell’oggetto (questa dinamica non vale ovviamente solo per gli oggetti). Ho notato che questa semplice riflessione sulla generosità e la forza interiore dell’uomo che è “signore” e “re” proprio perché libero, colpisce sempre il cuore dei ragazzi che mi ascoltano, forse perché essi vivono in una società dove la dimensione dell’avere ha preso il sopravvento sull’essere. Rispetto agli schemi angusti della logica del potere-possesso, la figura di Frodo che compie un viaggio pericoloso solo per perdere e rinunciare al potere, risulta rivoluzionaria, devastante, dotata di quella forza propria della paradossalità evangelica delle Beatitudini. Questa seconda sequenza che voglio segnalare comincia con la scena in cui Frodo decide di togliersi l’armatura da orchetto che aveva indossato per camuffarsi e introdursi nel territorio del nemico. Frodo vuole compiere la sua missione “disarmato”, un gesto fortemente simbolico come qualche critico ha sottolineato: «Egli si disfa di quanto resta della sua corazza esterna. In pratica vie- Nella “extended version” la sequenza in questione si trova nel DVD n. 2 alla scena n. 63 intitolata La terra d’ombra e vale la pena far vedere anche le scene successive, fino alla n. 66 intitolata Non posso portare io l’Anello… ma posso portarvi (durata: 15 minuti circa). 5 43 R I P R E S E ne sottratta ogni parvenza di forza alla sua missione: Egli sperimenta quanto si potrebbe definire “l’oscura notte dell’animo”».6 Un altro critico ha osservato: «Come Gesù Frodo entra nel cuore del regno del nemico per sconfiggerlo. E come Gesù egli è innocente, disarmato in termini materiali, ma in fondo forte e invincibile proprio perché rifiuta di utilizzare le armi del nemico».7 Disarmato ma non da solo. Innanzitutto accanto a sé c’è il fido Sam. Se Frodo è figura di Cristo, Sam è il discepolo fedele, è il Cireneo che, fisicamente, sostiene Frodo nel cammino e, in questa scena davvero toccante, si carica sulle spalle dell’intero peso del suo amico e lo aiuta a compiere la missione. Non è solo e la presenza di una stella ostinatamente brilla anche nel cielo cupo del regno di Mordor è il segno di una Provvidenza che vigila sul suo cammino. Non è solo, d’altro canto, anche perché, oltre a Sam e all’occhio vigile di una Provvidenza superiore, c’è pure l’occhio scrutatore di Sauron che, chiuso nella ferrea e disumana logica del potere, cerca incessantemente il suo Anello. Eppure il potentissimo Sauron non riesce a scorgere Frodo, non ci riesce perché, ancora una volta, il suo occhio guarda ma non vede. Qui la sequenza del film si può interrompere, anche se la storia continua con la celebre scena 8 del “crollo” di Frodo. Giunto nel cuore del regno del nemico Frodo, infatti, soccombe e di fatto fallisce rispetto alla sua missione, quella di distruggere l’Anello nel cratere del Monte Fato. Sul “più bello” di quella missione egli crolla: un crollo fisico, & D E T T A G L I psicologico e morale. È interessante osservare le parole che Tolkien mette in bocca a Frodo nel momento del crollo: «Sono venuto», disse. «Ma ora non scelgo di fare ciò che per cui sono venuto. Non compirò quest’atto. L’Anello è mio!». E improvvisamente, infilandoselo al dito, scomparve alla vista di Sam.9 È l’ora delle tenebre, un momento del tutto “negativo”: la scelta di Frodo è di fatto una non-scelta («Ma ora non scelgo di fare ciò per cui sono venuto»). Lo scrittore sottolinea con questa strana costruzione grammaticale l’assurdità del Male, il non-senso del Peccato che contraddice in sé l’esistenza dell’uomo, il suo fine. Tutta l’esistenza di Frodo aveva un senso, una direzione che ora, proprio alla fine, egli stesso rinnega, vanifica. Tutta l’esistenza di Frodo, dalla prima pagina del romanzo all’ultima è segnata dal carisma dell’obbedienza (da ob-audire, ascoltare): egli è “chiamato” da Gandalf a compiere una missione e, fino all’ultimo, ha corrisposto a questa vocazione, facendo la volontà della sua guida. Come per Cristo, l’Obbediente per eccellenza, anche per Frodo la sua ragione di vita, il suo “cibo”, è fare la volontà di colui che l’ha inviato. Ed ecco che invece, sul più bello, egli sembra non avere più alcuna forza di volontà. Irène Fernandez, filosofa e teologa, nel suo saggio sulla spiritualità nel Signore degli anelli ha osservato che Frodo, semplicemente, dopo l’enorme logorio a cui è stato sottoposto, «non ne può più, non può più volere, nel senso di compiere un atto di vera volontà. La sua “scelta di non fare” è più una paralisi che una decisione, un esaurimento della volontà in senso proprio: non rimane più 6 C. GARBOWSKI, La Terra di Mezzo di Tolkien e la spiritualità per il mondo reale, in Mitopoiesi. Fantasia e Storia in Tolkien (a cura di F. MANNI), Grafo Edizioni, Brescia 2005, p. 70. 7 C. GUNTON, «A Far-off Gleam of the Gospel: Salvation in Tolkien’s Lord of the Rings», in: J. PEARCE (ed.) Tolkien: a celebration. Collected writings on a literary legacy, HarperCollins, London-Glascow 1999, p. 133. 8 Nella “extended version” la sequenza in questione si trova nel DVD n. 2 alla scene n. 67 e n. 68 intitolate L’ultimo atto e Monte Fato. 9 J.R.R. TOLKIEN, Il Signore…, p. 1128. 44 R I P R E S E nulla, e questa assenza può solo assumere la forma di un blocco o di un rifiuto»10. Questo blocco può essere superato, precisa la Fernandez, solo con un intervento improvviso e violento: a Frodo verrà tagliato il dito per potergli estrarre l’Anello. Esattamente come aveva fatto anticamente Isildur a Sauron. Frodo come Sauron: eccoli qui, entrambi monchi, feriti, segnati, incompleti, i due “signori degli anelli”. Abbiamo qui il più ampio e totale rovesciamento di ogni paradigma, di ogni prospettiva edificante o consolatoria; la grande narrazione fantastica di Tolkien assume una coloritura a dir poco inquietante. Il “gran rifiuto” di Frodo all’interno della Sammath Naur, che conduce Sauron ad un passo dalla vittoria totale (con tutto ciò che ne sarebbe conseguito) ha tutta l’aria del più classico dei colpi di scena, ma in realtà era stato preparato saggiamente dallo scrittore che, infatti, nelle sue lettere, osserva come: «seguendo la logica della trama, era un avvenimento chiaramente inevitabile», e aggiunge: «di sicuro è un episodio molto più significativo e reale del finale di una fiaba in cui l’eroe vince sempre»11. Aspetto fondamentale però è che, anche se Frodo all’ultimo fallisce, la sua missione si compie a causa della sua Pietà e dell’intervento di un’altra protagonista, nascosta, del romanzo: la Provvidenza. Frodo ha dunque fallito ma a questo punto, osserva Tolkien, «la salvezza del mondo e la salvezza dello stesso Frodo vengono raggiunte grazie alla sua precedente pietà e capacità di perdonare le offese […]. Gollum lo derubò alla fine e lo ferì - ma per una “grazia”, l’ultimo tradimento avvenne in un momento particolare quando quell’azione malvagia era la più benefica che qualcuno avrebbe potuto fare per il bene di & D E T T A G L I Frodo! Grazie ad una situazione creata dalla sua capacità di perdonare, Frodo si salva, e vie12 ne sollevato del suo fardello» . Frodo quindi non è solo, ma accompagnato da una Grazia. Non importa che essa abbia il volto inquietante di Gollum (anzi, semmai questo ne dimostra la sua natura divina che è sempre oltre la comprensione umana), sta di fatto che la missione si compie perché Frodo realizza tutto quello che umanamente gli era possibile, e si mette nelle condizioni di poter ricevere quel “di più” che la Provvidenza gli assicura nel momento opportuno. In una lettera del 1963 Tolkien, ripercorrendo la via crucis di Frodo, afferma che il fallimento del suo eroe non è stato un fallimento morale: «Frodo aveva fatto tutto quello che aveva potuto, non si era certo risparmiato (come strumento della Provvidenza) e aveva creato una situazione in cui l’obiettivo della sua ricerca avrebbe potuto essere raggiunto. La sua umiltà (con cui aveva iniziato il compito) e le sue sofferenze vennero giustamente ricompensate dall’onore più alto; e l’aver esercitato la pazienza e la compassione nei confronti di Gollum gli fecero meritare la Pietà: il suo fallimento si trasformò in vittoria»13. E in un’altra lettera confida che: «... A quel punto prese il sopravvento l’altro potere: lo Scrittore della Storia (e non alludo a me stesso) “l’unica persona sempre presente che non è mai assente e mai viene nomi14 nata” (come ha detto un critico)». È ovvio che Tolkien sta parlando di Dio e della sua Provvidenza. Grazia e Provvidenza si intrecciano di continuo nel romanzo dalla prima all’ultima pagina anche se il loro apparire è discreto, non è mai sottolineato, è sempre silenzioso e quasi impercettibile. I. FERNANDEZ, La spiritualità del Signore degli Anelli, Elledici, Torino, 2003, p. 72. J.R.R. TOLKIEN, La realtà in trasparenza, Milano, Rusconi, 1990, lett.192, p. 286. 12 J.R.R. TOLKIEN, La realtà..., lett. 181, p. 264. 13 J.R.R. TOLKIEN, La realtà…, lett. 246, pp. 367-368. 14 Ivi, lett. 192, p. 286 10 11 45