la nazione under god alla gue

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la nazione under god alla gue
ANNO IX NUMERO 97 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 7 APRILE 2004
LA NAZIONE UNDER GOD ALLA GUE
La “christian pop revolution” americana
S
embrerebbe quasi che la goccia che ha
fatto traboccare il vaso sia stata la tetta
di Janet Jackson. O meglio, come ha preferito definirla il senatore Zell Miller in un appassionato discorso al Congresso, “la ghiandola mammaria con anellino incorporato”,
esposta dalla sorella minore del più famoso
Michael durante lo show di metà tempo del
SuperBowl 2004. “Verranno giorni”, ammoniva Miller nel discorso intitolato, non a caso, “Deficit of decency”, “in cui arriverà la
fame sulla terra. Non fame di pane o di acqua ma d’ascoltare la parola del Signore”.
Una citazione ripresa dal capitolo 8 del Libro di Amos della Bibbia. Nel duro dibattito che è seguito all’episodio del Super Bowl,
Miller non è stato certo l’unico a fare appello ai valori cristiani e all’insegnamento di
Dio per stigmatizzare il comportamento della megacorporation Viacom, la società madre della rete Cbs che ha trasmesso l’evento
tradizionalmente più seguito dagli americani. Al di là delle prese di posizione di commentatori e politici, basta farsi una navigata
sulla Rete fra i forum, le chat e i weblog che
ruotano attorno alle varie comunità cristiane statunitensi per percepire stupore, rabbia e sdegno: “I terroristi hanno ora un motivo in più per volere la nostra distruzione”,
tuona un intervento su ChristianForum.com.
“Già vedevano gli Stati Uniti come il Grande
Satana che esporta l’immoralità in giro per
il mondo; figuriamoci adesso…”.
Ma quella scoppiata attorno al capezzolo
di Janet è solo una delle tante battaglie (l’ultima, e più dura, è quella scatenatasi attorno al film “The Passion of the Christ” di Mel
Gibson), di una vera e propria guerra ormai
esplosa apertamente fra due contendenti,
entrambi ben radicati nella società e nella
vita del popolo americano. Una guerra con
tanto di retorica ed escalation, che vede
schierati da un lato la parte – consistente del popolo e del sentimento americano che
si sente stabilmente ancorata ai valori cristiani, in particolare i cristiani evangelici
(per i quali la società deve conformarsi agli
insegnamenti biblici e che alcuni dati danno come il gruppo cristiano in maggiore crescita di adesioni), e dall’altro il grande conglomerato dell’industria dell’infotainment e,
più in generale, l’attitudine generalmente
dominante nell’industria culturale.
Uno scontro in atto non da oggi, ma che fino a qualche tempo fa è stato per certi aspetti impari. Uno degli antagonisti – il corpo sociale dei cristiani radicali – si era finora per
lo più rassegnato a tenere un basso profilo,
con i membri della comunità a lamentarsi di
quelle che definiscono le angherie culturali
cui sono sottoposti e della vessazione intellettuale di cui si sentono vittime. La controparte – il cosiddetto mainstream culturale
americano, in cui convergono l’infobusiness,
l’Hollywood System e l’intellighenzia liberal, quella con il maggior ascendente sulla
società americana – ha potuto invece spesso
spingersi a maramaldeggiare nel campo avversario, imponendo senza condizioni il proprio punto di vista, e persino infierire sull’opponente, spesso deriso e irriso per l’armamentario valoriale portato nello scontro.
Un atteggiamento, questo, in alcuni casi
agevolato anche dalle prese di posizione
estreme e oggettivamente discutibili da parte di figure riconducibili al campo evangelico; si pensi alla crociata tempo fa lanciata
dal predicatore Jerry Falwell contro i Teletubbies, quattro innocui e asessuati pupazzi
che per la loro irritante semplicità sono la
gioia dei bimbetti di mezzo mondo ma che il
reverendo integralista considera avanguardie striscianti dell’omosessualità: uno dei
fantocci infatti è porpora e ha sulla testa
un’antenna a forma di triangolo, rispettivamente “colore e simbolo del gay pride”.
All’interno del conflitto l’animosità maggiore è certamente quella che gli evangelici
riversano sull’Hollywood System, inequivocabilmente considerato il megafono di valori decadenti e postcristiani. Nei confronti
della Mecca del cinema il risentimento è
tradizionalmente profondissimo, totale, soprattutto per l’uso di scene violente o linguaggi disinibiti in quasi tutte le produzioni,
anche quelle che – per il titolo, l’argomento
o i protagonisti – non lo lascerebbero presumere. Raccontando di un correligionario
uscito scioccato dal cinema a metà di “Good
Will Hunting” per il linguaggio troppo realistico (il film ruota attorno a un gruppo di giovani scapestrati della Boston proletaria degli anni 90), Denis Haack, ex hippy cristiano
e ora una delle figure più influenti della cultura cristiana integralista, scrive su Ransom
fellowship, il sito da lui fondato: “L’offesa
che si riceve in queste occasioni è intima, la
violazione così viscerale da assumere il senso di un vero e proprio dolore fisico. Non è
per nulla piacevole sentirsi ‘sporcati’ dall’inciviltà e dall’immoralità di filistei che sarebbe meglio facessero altro che immortalare ciò che un tempo sarebbe stato censurato. E’ già abbastanza difficile vivere in una
società in cui sia le maniere che la morale
sono decadute; essere obbligati anche a
sbattervi la faccia è indegno”.
Già, perché un cristiano nel mondo pagano d’oggi, è la tesi di Haack, si trova a vivere
sensazioni non diverse da quella – di cui dà
conto Luca nel suo Vangelo – provata da San
Paolo al suo arrivo in un’Atene “piena di
idoli e popolata da persone che non condividevano, o ancor più, erano contrarie alle
sue convinzioni più profonde”. Un’Atene in
cui campeggiavano insieme alle statue, più
o meno ‘nature’, di Apollo, Bacco e Venere,
“sculture con evidenti attributi fallici, poste
soprattutto all’entrata della città, a guisa di
talismani protettivi”.
Eppure – ammonisce Haack – c’è una differenza fondamentale fra le due condizioni
e riguarda la reazione dinanzi all’offesa ricevuta. San Paolo in qualche modo accettò
la sfida, “andò a parlare in sinagoga con gli
ebrei; parlò con i greci timorati di Dio nell’Agorà, con coloro che passavano di lì”. Ma
soprattutto guardò negli occhi e si confrontò
con gli idolatri: “Accettò di andare all’Aeropago per esporre la dottrina di Dio ai pagani”. In altri termini dall’offesa trasse lo
spunto per riaffermare la sua fede. “I moderni credenti invece”, continua Haack, “di-
Il contrattacco degli evangelici
avviene sul terreno della pop
culture e dell’entertainment,
dell’editoria, dei siti web
nanzi all’attacco alla sensibilità cristiana
preferiscono indietreggiare; escono dal cinema, spengono la radio, buttano via il libro”. E si ritirano nel ‘recinto’ cristiano.
O almeno così hanno fatto fino a qualche
tempo fa: perché ora sembra giunto il momento della riscossa, per rovesciare le sorti
di quella che viene definita senza giri di parole una vera e propria “cultural warfare”.
Le cose però stanno cambiando non tanto
perché l’onda lunga neocon, giunta ai piani
alti del potere con l’attuale assetto politico
dell’Amministrazione Bush, abbia effettivamente comportato per le confessioni evangeliche osservanti maggiore considerazione
e uno sdoganamento dalla condizione di oppressione culturale. Tutt’altro. Il potere politico rimane sempre, agli occhi di questa
fetta consistente della società americana,
per molti aspetti un “sell out”: troppo influenzato e influenzabile dai colossi che dominano l’industria dell’informazione e dell’entertainment.
Il contrattacco – la controrivoluzione culturale dei “christian”, termine che comunemente distingue le confessioni protestanti
dai “roman catholic”, i cristiani cattolici –
avviene motu proprio, sulla stessa direttrice
lungo la quale si è dispiegato l’assalto finora subito: quella della pop culture, ossia dell’entertainment e dell’informazione, della
musica e dei film, dei libri e dei siti web.
Agevolati dalle inedite opportunità aperte
dalle nuove tecnologie (televisioni via cavo,
videocassette, radio, Internet) un numero
crescente di “christian” ha infatti cominciato a produrre da sé - per autoconsumo e per
proselitismo – i propri prodotti di cultura
popolare. Decretando così la fine del circolo vizioso: abbozzare, indietreggiare e rinchiudersi nel proprio ghetto. Perché – dicono i guru del revanscismo culturale cristiano – ci sono ottime ragioni per non chiamarsi fuori dalla pop culture e, anzi, per impegnarsi a proporne una che ottemperi ai valori cristiani. Innanzitutto, anche volendo,
non si riesce a vivere fuori dal mondo, perlomeno da questo mondo ostile. “Anche se
non hai una tv, non vai mai al cinema e
ascolti soltanto musica di Bach”, avverte ancora Haack, “avrai comunque qualche amico che ti parlerà di come un certo film, un
dato programma televisivo o una canzone ha
umiliato la sua sensibilità di cristiano”.
Ma ci sono ben altri motivi perché non si
possa, né si debba fare a meno della pop culture: “La creatività è un dono di Dio. Il fatto
che qualcuno ne faccia un cattivo uso non è
ragione sufficiente per smettere di goderne.
Ci sono culti che fanno un uso improprio del
battesimo ma nessun buon cristiano arriverebbe al punto di dire che per questo il sacramento andrebbe cancellato. Playboy abusa della fotografia, ma solo una persona di
vedute davvero ristrette arriverebbe alla
conclusione che chi vuole rispettare le donne deve aborrire l’uso della macchina foto-
“L’offesa che si riceve al
cinema è intima, la violazione
così viscerale da assumere il
senso di un vero dolore fisico”
grafica”. Il buon cristiano cioè non può rifiutare di misurarsi con “un dono di Dio”
per il cattivo uso che altri ne fanno. Vi è poi
il fatto che in qualche modo tutti sono – o
quantomeno rischiano di essere – figli della
cultura che li circonda. Esserne coscienti e
conoscere l’ambito culturale in cui si è immersi (e i valori e le credenze di cui si nutre)
diventa allora “un passo fondamentale per
evitare di essere plasmati in maniera contraria alla fede cristiana”, sottolinea Haack.
In altre parole, film, programmi tv e brani
musicali – anche quando estranei o addirittura ostili alla morale cristiana – aiutano a
sviluppare una sorta di “coscienza di classe
cristiana”: “Ci consentono di identificare i
confini entro cui ci muoviamo e ci forniscono informazioni sul modo in cui il mondo sta
cercando di modellarci”. Ma la pop culture
non è solo arma difensiva: “Come cristiani
abbiamo bisogno di punti di contatto con coloro che vogliamo raggiungere con la parola
di Dio. Questo è vero soprattutto quando abbiamo a che fare con chi sa poco della cristianità. E una fonte potenzialmente inesauribile di questo tipo di punti di contatto è
proprio la cultura popolare”. Da qui la controffensiva attraverso la creazione sistematica di prodotti mediatici che rispecchiano
le convenzioni di genere della cultura popolare ma esprimono un set alternativo di valori, capace quindi di intercettare un pubblico in crescita, finora trascurato.
Si stanno così diffondendo sitcom cristiane distribuite in video o mandate in onda da
circuiti televisivi altrettanto cristiani come
il Trinity Broadcasting Network. O programmi audio, come quelli realizzati dalla OnePlace LCC (“offriamo contenuti di vera ispirazione biblica ai cristiani che vogliono
prendere sul serio la loro relazione con Cristo”), da mandare in onda per radio e via Internet; o libri come quelli dell’editore multimediale Left Behind: “Vogliamo migliorare la vita della gente e il modo migliore per
farlo è promuovere i valori della Bibbia”. Il
cui successo peraltro li ha portati a essere
venduti su Amazon. Un boom che stanno conoscendo a loro volta anche i video dei Veggie Tales (filmetti per bambini a sfondo moraleggiante prodotti per promuovere i “sunday morning values”), ormai in vendita anche sugli scaffali del gigante della distribuzione Wal-Mart. All’ondata di pop culture alternativa non sfugge nemmeno un tipo di entertainment da sempre percepito come poco
contiguo ai valori e all’insegnamento di Cristo: i videogiochi e i giochi di ruolo online
multiutente, i cosiddetti MUD (Multi User
Dungeon), spesso ambientati in scenari fantastici, in cui i protagonisti virtuali sono elfi
e folletti, stregoni e cavalieri in cerca di un
mostro o un cattivo da abbattere. “Questo
non è solo un MUD” si legge su Project X, un
“Vogliamo migliorare la vita
della gente, e il modo migliore
per farlo è promuovere i valori
della Bibbia”
sito di Christian gaming, “è la creazione di
un ambiente di gioco virtuale in cui i cristiani vedono rispettato il loro punto di vista
e nutrita la loro fede in Gesù”. Nel campo in
questione non mancano esperienze peraltro
davvero al limite, come quella dei Men of
God, “una comunità impegnata a diffondere
la parola di Cristo nel mondo del gaming online”, che sotto il pay-off “nessuna arma
puntata contro di te potrà mai sopravvivere”, ingaggia i giocatori in sparatorie e assalti in campi di battaglia, seppur virtuali.
Poi c’è ovviamente il contraltare – per
quanto possibile – all’odiata Hollywood, ovvero la nascita e lo sviluppo di case di produzione come la Signal Hill Pictures, il cui
ultimo film, “Lay it down”, distribuito dalla
ChristianCinema.com Inc, è la risposta al
“popcorn movie” “Fast and furious” (uno
spaccato nella subcultura delle corse clandestine) e che viene descritto dagli autori come “la risposta evangelica a chi è interessato a macchine e vita veloci”.
Perché la montante ondata di pop culture
cristiana qualcosa concede anche ai tempi:
“I film cristiani non devono essere prediche,
devono soprattutto fare intrattenimento”, afferma Bobby Downes, ex Warner Bros e fondatore della Signal Hill, “la nostra filosofia
è stimolare lo spettatore e aprirgli il cuore a
Dio. Il resto – la chiamata della fede – lo farà
il Signore”. E la comunità cristiana, almeno
parte di essa, sembra gradire: “Finalmente
un film cristiano ‘hip’ e intelligente”, commenta su Christian Answers riguardo al
thriller evangelico “Mercy Street” (“Strade
della Grazia”), una fan di 42 anni di nome
Brenda, che spiega: “Mi ha riportato alla
mente i migliori Cohen e Tarantino”.
Come si intuisce, la direzione intrapresa
dall’emergente controcultura cristiana non
è soltanto quella di gratificarsi con prodotti
in sintonia con la propria visione del mondo;
è anche e soprattutto quella di sviluppare
contesti che consentano di avere contatti
con chi all’interno di quel mondo non c’è, o
non c’è ancora. Per fare un po’ come Paolo
nell’Aeropago dell’Atene idolatra. Così una
parte consistente della produzione cristiana
si orienta verso un pubblico non strettamente osservante per incuriosirlo, attrarlo,
fornirgli uno spaccato inaspettato sul mondo evangelico. E poter quindi “rivelare la
parola di Cristo ai non cristiani”, si legge nel
manifesto di “Christian Counterculture”, un
progetto ombrello di una serie di iniziative
che parte dal presupposto che “i seguaci di
Gesù – quanto a sistema di valori, standard
etici, atteggiamento nei confronti del dena-
ro e stile di vita – sono in totale contrapposizione ai non cristiani”.
E’ anche per questo – che oltre a produrre in proprio – la controrivoluzione non vuole dimenticare chi è già sulla retta via e gli
fornisce gli strumenti per filtrare i contenuti dei media e delle opere culturali con cui
si ritrova giocoforza a venire in contatto; ecco quindi le liste di proscrizione in cui finiscono opere e film dai contenuti profani; ed
ecco i meccanismi di rating dei lavori che,
pur prodotti dal mondo ostile, possono essere comunque di qualche interesse e valore
per il buon cristiano. Stando per esempio ai
paletti messi da Christian spotlight on entertainment (l’Osservatorio cristiano sull’entertainment), il “Mystic River” di Clint Eastwood, acclamato dalla critica e vincitore
di Oscar, se la passa davvero male: “Very offensive” è il lapidario morale , anche se comunque gli vengono riconosciute cinque
stelle (il massimo) per la qualità filmica.
Ugualmente bocciato “L’ultimo samurai” di
Tom Cruise, anch’esso bollato come inaccettabile. Decisamente meglio va all’ultima fatica di Russell Crowe, “Master and commander”, definito “migliore della media”.
Le recensioni ovviamente non riguardano
solo i film; la Dove Foundation per esempio
provvede a scrutinare costantemente opere
teatrali, serial tv e videogiochi in base a contenuto morale e compatibilità con i valori familiari e cristiani per arrivare poi ad attribuire il Dove Award, un premio collezionato 17 volte dalla pop singer cristiana Amy
Grant, non a caso recentemente entrata nella top 40 delle radio statunitensi.
Ma comprensibilmente l’opera cinematografica regna sovrana nelle preoccupazioni
dei controrivoluzionari cristiani. Perché oggi, nella cultura occidentale – ammonisce
David Bruce dalle pagine di HollywoodJesus.com, un “sito di cultura pop con un punto di vista spirituale” – i film hanno la funzione di parabole. E’ attraverso i racconti di
immagini che si riesce a parlare allo spettatore delle “realtà più grandi”, della ‘big picture of life’. Seppure in modo subliminale,
“oggi sono i film che raccontano le storie che
finiscono per dare una risposta alla nostra
domanda interiore di verità e scopo nella vita” e che ci possono quindi “condurre dal
mondano al sacro”. Non è un caso dunque
se il Christian spotlight on entertainment si
preoccupi anche di classificare la filmografia promossa (opere sia cristiane che secolari) in 48 categorie, ciascuna rappresentante
un’area della vita delle persone (la paura,
l’etica, la purezza, l’abuso sessuale, la ricerca di un’identità) che può trarre giovamento
dalla visione del film “giusto”.
E non è un caso che “The Passion of the
Christ”, che peraltro è opera cattolicissima
di un regista cattolico e per di più tradizionalista, a suo modo lontano da molte istanze
degli evangelici, sia stato immediatamente
brandito anche dalle schiere controrivoluzionarie degli evangelici come la punta di
diamante di una comune controffensiva culturale. Nell’ambito della quale un sito, Faith
Highway (Autostrada della fede), ha tratto
dal trailer del film una serie di spot pubblicitari, raccogliendo anche i fondi per acquistare spazi sulle televisioni locali e “costruire un ponte ideale fra le chiese e le sale di proiezione”. Mentre numerose sono
state le comunità che hanno organizzato vere e proprie spedizioni, con pullman carichi
di fedeli, a riempire i cinema. Con il risultato di ammutolire Hollywood e la spocchiosa
casta degli intellettuali: “Noto un assordante silenzio da parte dei media e di quei critici che non si erano fatti scrupolo di distruggere Mel Gibson prima ancora che
uscisse il film”, gongola David Bruce, che
poi non perde l’occasione di affondare il colpo: “Christopher Hitchens di Vanity Fair, ha
definito Gibson un ‘wacko’ (gergale per ‘malato di mente’), ha giudicato il film ‘fascista’
e si è detto sicuro che la gente non sarebbe
andata a vederlo. E comunque quelli che fra
i credenti fossero andati a vederlo li ha liquidati come ‘sickos’ (gergale per ‘pervertiti’). Si sarebbe permesso il signor Hitchens”,
domanda Bruce dalle colonne di HollywoodJesus, “di chiamare ‘wackos’ una
qualche comunità religiosa ebraica? E
‘sickos’ gli spettatori ebrei? Perché con i cristiani questo può essere fatto?”.
Ma c’è stato il botto – 320 milioni di dollari nel primo mese – e ora le cose sembrano
cambiare. Questo episodio e i mille rivoli
della controrivoluzione stanno facendo capire che offendere il mercato cristiano evangelico forse non è una buona idea, almeno
dal punto di vista del business. Ha scritto
Todd McCarthy dalle pagine del Daily Variety: “Mai il bacino del mercato cristiano è
stato sollecitato in questo modo… l’opera di
Gibson ha evidenziato la vastità di un pubblico finora trascurato, tanto che è difficile
immaginare che d’ora in poi potrà essere
ignorato”. E’ possibile che il mondo cristiano evangelico e le sue sensibilità ricevano
nel prossimo futuro attenzione e considerazione maggiori di quella che il mainstream
culturale ha finora dedicato loro. Se non per
simpatia, quantomeno per denaro.
Stefano Gulmanelli