MATTEO PERRINI A DIOGNETO, IL PARADOSSO DELLA
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MATTEO PERRINI A DIOGNETO, IL PARADOSSO DELLA
MATTEO PERRINI A DIOGNETO, IL PARADOSSO DELLA PRESENZA CRISTIANA1 Uno studente italiano studia greco a Costantinopoli. Siamo nel 1436. Il giovane umanista, Tommaso d'Arezzo, si reca ogni mattina al mercato del pesce; ed ecco che un giorno si accorge che, insieme ad altro materiale di imballaggio, il rivenditore usa un manoscritto. Acquista il manoscritto per quattro soldi e in esso, tra ventidue opere apologetiche di epoche diverse, scopre la perla preziosa, uno scritto assolutamente sconosciuto fino a quel momento: la risposta di un cristiano colto a un pagano colto, un certo Diogneto, che gli chiedeva di spiegargli i motivi della sua opzione per la nuova fede. Quel documento costituisce uno dei testi essenziali con i quali bisogna misurarsi per rispondere anche oggi, dopo diciotto secoli, al duplice quesito: in quale Dio i cristiani ripongono la loro fede? e in che cosa consiste il paradosso della loro presenza nel mondo? A questo scritto, che s'intitola appunto A Diogneto, pubblicato dall'Editrice La Scuola di Brescia, sono stato felice di dedicare un'attenzione particolare, perché convinto che esso è una testimonianza insigne della fede e della mentalità dei cristiani delle origini e che ben pochi messaggi possono parlare come quella lettera di un laico a un altro laico. La risposta dell'ignoto autore cristiano al corrispondente pagano non indugia nel tracciare una specie di identikit sociologico dei cristiani, non ci dà un'analisi dettagliata dei riti del culto cristiano, come fa Giustino nella Prima Apologia (61-63 d. C.). L'A Diogneto preferisce andare al nocciolo della questione e mettere in luce la imago vitae dei cristiani, la realtà spirituale che le forme culturali tentano di esprimere. È di lì che bisogna partire, dal valore propriamente religioso del mistero cristiano, se si vuol capire la situazione originalissima dei cristiani nel mondo, il valore eminente della loro presenza nella società, il “meraviglioso paradosso, riconosciuto da tutti, della loro società spirituale” (V, 4). L'ouverture, solenne e senza artificio, poggia interamente su proposizioni negative, mettendo in evidenza ciò che i cristiani non sono. È la via negativa, il dire ciò che non si è, infatti, che prepara meglio l'intuizione del che cosa significa essere cristiani. “I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per il modo di vestire. Non abitano mai città loro proprie, non si servono di un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è dovuta a una intuizione geniale o alle elucubrazioni di spiriti che si perdono dietro a vane questioni. Essi non professano, come tanti altri, dottrine umane insegnate dall'uno o dall'altro caposcuola” (V,1-3). Dopo aver ribadito il rifiuto dei cristiani a far ghetto e a lasciarsi ghettizzare (“sono sparpagliati nelle città greche e barbare, secondo che a ciascuno è toccato in sorte”, V, 4), le affermazioni successive sono caratterizzate da un ritmo antitetico che accentua mirabilmente la singolarità dell'esistenza cristiana. I cristiani non costituiscono una razza, un popolo, un gruppo etnico particolare. La loro specificità non li vuole affatto separati dagli altri. Tutt'altro. “Si conformano alle usanze locali nel vestire, nel cibo, nel modo di comportarsi; e tuttavia, nella loro maniera di vivere, manifestano il meraviglioso paradosso, riconosciuto da tutti, della loro società spirituale. Abitano ciascuno nella propria patria, ma come immigrati che hanno il permesso di soggiorno. Adempiono a tutti i loro doveri di cittadini, eppure sopportano i pesi della vita sociale con interiore distacco. Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è terra straniera. Si sposano e hanno figli come tutti, ma non abbandonano i neonati. Mettono vicendevolmente a disposizione la mensa, ma non le donne. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma col loro modo di vivere vanno ben al di là delle leggi” (V, 4-10). Il ruolo dei cristiani nel mondo è espresso con una formula ardita, vigorosa, che abbraccia da sola i più diversi aspetti del problema: “In una parola, ciò che l'anima è nel corpo, i cristiani 1 Giornale di Brescia, 28.7.1991. 1 lo sono nel mondo” (VI,1). Non pochi pensatori precristiani fanno di Dio l'anima del mondo. Nella visione panteistica Dio, pur identicandosi con la totalità delle sue produzioni, assolve, nell'unità sostanziale divina dell'universo, il ruolo di principio formatore mentre la materia ne é il contenuto. Virgilio nell'Eneide (VI, 726-727) ha mirabilmente sintetizzato tutto ciò in due soli versi: “Spiritus intus alit totamque infusa per artus / Mens agitat molem et magno se corpore miscet”. Uno Spirito avviva dal di dentro e una Mente infusa per le membra tutto agita il mondo e al grande corpo s'unisce”. La concezione di Dio anima del mondo è tipica dello stoicismo e la si trova anche in un filosofo come Seneca, che ha più viva la sensibilità morale e religiosa e tende a ripensare in modo personale i postulati della scuola. L'Autore dell'A Diogneto toglie ogni implicazione panteistica all'espressione che usa, precisando rigorosamente i termini della comparazione: i cristiani svolgono nel mondo la stessa funzione di presenza e animazione che l'anima personale - e non certo l'anima cosmica - adempie in rapporto al suo corpo e per suo mezzo. L'anima unifica, governa, ispira la vita e l'azione del corpo che le appartiene. I cristiani animano il mondo perchè rappresentano una più degna forma e prospettiva di vita, costituiscono un principio di unità e di amore tra gli uomini, attuano e propongono agli altri un tipo altissimo di moralità personale e sociale. L'autenticità del messaggio di Cristo e lo sforzo sincero di incarnazione di esso da parte di chi lo accoglie stanno lì a provare che il Vangelo risponde all'interrogazione dell'uomo su se stesso e su Dio. Il cristiano sa che il mondo non è soltanto il luogo dei falsi valori, ma significa anche la grande, insostituibile occasione per testimoniare quelli veri. Egli non è nemmeno nel mondo per costruire in esso esclusivamente la sua individuale salvezza, secondo l'errata visuale di certa pietà moderna, ignara delle idee direttrici del cristianesimo autentico. Nel mondo il cristiano assolve a un compito, a cui non può venir meno: “È tanto nobile il posto che Dio ha assegnato ai cristiani, che a nessuno è permesso disertare” (VI, 10). Minoranza da un punto di vista statistico, i cristiani sono annunciatori di un messaggio universale e di una realtà, il regno di Dio, che “è in mezzo a noi” (Lc 17, 21) - come fermento, imperativo, aspirazione e speranza - e, nel contempo, nella sua pienezza e totalità, “non è ancora”, perché nel suo perfetto compimento“non è di questo mondo, non è qui” (Gv 18, 36). La trascendenza del mistero cristiano è tale che non esclude, ma esige il dono e il metodo dell'incarnazione, il farsi carne nel pensiero, il tradursi della fede nella vita. La fede a cui ci chiama il Vangelo è qualcosa di totalmente altro da una fuga nirvanica dal reale e non ha nulla da spartire con la mentalità alienata di chi scarica in Dio ciò che compete alla responsabilità degli uomini. I cristiani non nutrono pregiudizi contro la società: anzi, in virtù di ciò che sono, debbono giocare in essa un ruolo positivo, a vantaggio di tutti. Sono dentro la società civile e politica e fanno lealmente la loro parte. Essi debbono respingere come una tentazione la tendenza a contrapporsi al mondo in cui sono inseriti, proprio perché sanno che tocca a loro conferirgli un supplemento d'anima. Chiamati a portare là dove vivono l'ampiezza dell'orizzonte evangelico, contro ogni clausura egoistica, e la certezza dei valori che l'amore riscatta da ogni deformazione filistea e farisaica, i cristiani immettono nel mondo un'ispirazione superiore che li rende interiormente distaccati dal potere, una visione della vita che tutto assume e trasfigura. Per i cristiani delle origini le cose stavano così e questo è il modo in cui concepivano il loro posto nella società civile e politica. Mi chiedo: ce n'è forse uno più alto, malgrado le successive elaborazioni? Non ignoro le sfide tremende che il corso della storia ha posto e pone alla coscienza cristiana e alla Chiesa; e le sfide hanno comportato e comportano, ovviamente, sia la assunzione, talora eroica, di responsabilità al servizio della famiglia umana, sia il rischio di mescolarvi ciò che depaupera e tradisce ogni autentica animazione cristiana del mondo, cioé la propensione al dominio in veste sacrale. Rispetto ad altre proposte riguardanti il grande interrogativo sul ruolo dei cristiani nel mondo, la testimonianza dell'A Diogneto e la sua prospettiva mi sembrano di gran lunga le più coerenti allo spirito e alla lettera dei Vangeli. Di qui la straordinaria e niente affatto provvisoria attualità di quel piccolo scritto anche per i cristiani del Terzo Millennio. 2