L`ottavo capitolo

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L`ottavo capitolo
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Virginio
….poi prendete l’intero preparato e lo versate
in una grande zuppiera.
Non abbiate paura di rovinarlo. Girate e rigirate con le mani fino a quando non vi sembra
condito in maniera omogenea. A questo punto
assaggiate e nel caso in cui vi accorgiate
manchi qualche cosa, non esitate
ad abbondare con i sapori…
Il piatto potrà dirsi perfetto solo se piacerà a
voi che l’avete preparato.
Jamie Oliver
Jamie’s kitchen
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Non avevo dubbi sul fatto che, nelle ore immediatamente precedenti all’inaugurazione di
questa sera, la mia agitazione si sarebbe presa
la libertà di compiere un sali e scendi sui gradini della scala emotiva. Nessuna paura e nessuna ansia, solo questa insensata percezione che
tutti gli sforzi non siano stati altro che un perseverare nell’errore. Ma questo lo si saprà solo
con il tempo.
Non si tratta di una vera e propria inaugurazione, anche perché essendo a Piacenza da poco
non avrei saputo chi invitare: semplicemente
alzeremo la saracinesca e aspetteremo che
qualcuno entri. Per ripagare la fiducia dei nostri
primi e coraggiosi clienti offriremo dolci e
alcolici. Ho pubblicizzato l’evento limitandomi
a un trafiletto pubblicitario su uno dei giornali
locali.
Questa mattina, mentre aspettavo gli ultimi fornitori ripulendo la cucina per l’ennesima volta,
non sono riuscito a fermare il cervello che,
autonomamente, ha deciso di fare una ripassa167
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tina sulla folle ridda degli eventi.
La cosa che più mi preoccupa è come si sarebbe tramutato il mio rapporto con Cristina, dopo
l’altra notte. Fortunatamente ieri, appena ci
siamo rivisti dopo la mia fuga dall’hotel, sul
suo viso era stampato un sorriso che, se pure di
circostanza, mi ha rassicurato. Il mio timore era
di essere travolto da una serie di insulti e
imprecazioni tipiche delle donne che si sentono
usate e poi rifiutate. Non è stato così. Dopo
avermi chiesto se avevo dormito bene, mi ha
addirittura preparato il caffè e domandato da
dove desideravo che cominciasse a sbrigare le
mille faccende ancora in sospeso.
Mostrandomi il più naturale possibile, come
sempre, le ho detto di gestirsi come meglio riteneva opportuno.
Tranquillizzato dalla calma apparente però, non
ho potuto fare a meno di desiderarla ancora.
La guardavo muoversi e chinarsi tra i banconi e
riprovavo la sensazione delle sue dita conficcate nei miei fianchi. Finito il caffè d’un fiato,
sono sceso in cantina a terminare un inventario,
in verità già concluso, solo per allontanare certi
pensieri.
«Dove la metto questa?»
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Una voce squillante e sconosciuta mi spaventa
e mi strappa da torbidi desideri.
Un omino piccolo, grasso e con il cavallo dei
pantaloni alle ginocchia, mi osserva stringendo
una cassetta di funghi freschi tra le mani sulla
soglia della cucina. Un’espressione piuttosto
inquietante non contribuisce certo a rendere il
suo aspetto più amichevole.
«Allora, capo… non ho tutta la mattina, io.»
«Sì, mi scusi, la metta pure lì, a terra. C’è qualcosa da firmare?»
«Mi faccia uno scarabocchio qui, capo» dice
porgendomi un foglio spiegazzato.
Mentre sta per uscire dalla piccola porta di servizio, lasciata erroneamente aperta e attraverso
cui è entrato, si blocca per osservare alcuni
budini di cioccolato che ho messo su un tavolo
a raffreddare.
«Qualcosa che non va…», guardo l’intestazione del documento appena firmato, «…signor
Giuliano?»
«Quelli, li faceva anche il signor Omar.»
In effetti i budini di cioccolato con le bucce di
arancia e limone caramellate sono una ricetta
del mio maestro.
«Lei conosceva Omar Castagna? Riforniva
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anche lui? Eravate amici?»
Dovrei sentirmi fiero di me stesso per essere
stato in grado di fare tre domande idiote laddove molti sarebbero riusciti a formularne una
sola.
Il piccoletto mette in mostra i suoi brutti denti,
con un ghigno.
«Oh, no, no. Sono venuto a mangiare qui solo
un paio di volte, con la moglie.»
«Capisco. Ne prenda uno se vuole, ma aspetti
che si raffreddi un po’ prima di mangiarlo.»
Non se lo lascia dire due volte e afferra quello
che, probabilmente, ha deciso essere il più
grosso.
«Grazie, la prossima volta le riporto la scodella.»
Lo saluto con un cenno della mano, ma lui resta
immobile a fissarmi.
«Non deve essere facile, per lei.»
«Che cosa?» mi sento autorizzato a domandare
sentendomi stupidamente imbarazzato di non
aver capito subito a cosa si riferisca.
«Prendere il posto di un’altra persona. Lei lo
conosceva bene?»
Sembra strano parlare di Omar con un tizio che
ho visto per la prima volta solo due minuti fa,
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ma decido di rispondere anche perché sono
curioso di sentire che risposta uscirà dalla mia
bocca. Potrebbe essere una situazione in cui mi
capiterà di ritrovarmi parecchie volte, nei prossimi giorni.
«C’è stato un tempo in cui lo consideravo quasi
un padre. Ma è stato secoli fa.»
«Certe cose il tempo non se le porta mai via. A
me succede con il ricordo dei morti. Il mio papà
per esempio, non c’è più da quasi venti anni ed
è come se fosse ancora qui, in mezzo a noi,
anche in questo momento.»
Un profondo senso di disagio mi assale e non
posso fare a meno di guardare la fotografia di
Filippo che ho messo sul ripiano più grande
della dispensa. Giuliano segue immediatamente il mio sguardo e si avvicina alla foto. Adesso
vorrei che se ne andasse subito.
«Questo è il suo figliolo, vero?»
Riesco a farfugliare un sì.
«La cosa più terribile al mondo deve essere
sopravvivere ai propri figli» sussurra con un
filo di voce appena percettibile.
«Ma lei sa…»
Si volta di scatto e mi regala un ulteriore sorriso amaro.
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«Questa è una piccola città signor Patà. Si deve
abituare al fatto che qui tutti…»
«Me lo hanno già detto, me lo hanno già detto»
lo interrompo io.
«Hai visto Morgana questa mattina?»
«No» ribatte seccamente Cristina. Sono certo
che l’insofferenza percepibile nel tono della
sua voce non sia per la domanda, quanto piuttosto per l’ennesima comunicazione di poco fa
da parte dell’agenzia interinale alla quale ci
siamo appoggiati. Pare che non si trovino
ragazzi giovani e volenterosi disposti a venire a
lavorare al Monroe.
La scelta di effettuare una cernita solo tra i giovanissimi è stata l’unica decisione che ho
imposto.
Sui molteplici motivi di questa mia scelta si
potrebbe scrivere un intero trattato, ma la ragione principale è che preferisco “allevare” personalmente i miei adepti e soprattutto perché coltivo silenziosamente, e in gran segreto, il desiderio di formare qualcuno insegnandogli tutto
quello che posso. Proprio come Omar Castagna
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fece con me. Progetto ambizioso, che si potrebbe dimostrare ancora più difficile con persone
già plasmate da mani poco esperte.
«Ieri pomeriggio dopo la mia telefonata è rientrata, si è infilata a letto e non si è più alzata. Tu
le hai parlato?»
«Virginio, parlare con tua moglie è una cosa
che voglio fare il più tardi possibile.»
Rovescia la cassa di funghi sul piano di lavoro
e comincia a pulirli.
Mi stropiccio la faccia con le mani e cerco un
po’ di relax in una profonda stiracchiata delle
braccia dietro la schiena. Quando ieri sera ho
raggiunto Morgana a letto mi ha detto che era
stravolta per via dei nuovi medicinali che sembrano gettarla, ogni giorno di più, in un profondo stato di spossatezza. Però, nel dormiveglia
del mio sonno agitato, mi sono accorto che ha
continuato a leggere uno dei suoi soliti libri,
fino a notte inoltrata.
«Mi sa che saremo solo noi due questa sera. Se
da quella porta entrano più di dieci persone
saremo belli che fottuti.»
Dico questo, sebbene veramente non ci creda,
perché mi diverte vedere Cristina agitarsi.
«Comincio a pentirmi di aver voluto aprire così
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presto. Se ci sputtaniamo subito non avremo
più speranze in questa città di malfidenti» rincaro.
«Ci conviene togliere qualche altra portata dal
menu. Se ti ritroverai a cucinare meno cose
potrai senza dubbio fare meglio e i clienti non
dovranno aspettare delle ore.»
«Speriamo non arrivino i fratelli Ferretti.»
Ridiamo insieme di gusto. La prima vera risata
in questa nuova cucina, subito interrotta dal
campanello che suona.
«Sono i Ferretti. Sono già qui con le loro donnine gommose.»
Ridiamo nuovamente e le faccio segno di andare avanti con i funghi, mentre vado ad aprire.
«Mi scusi, abita qui la signora Morgana?»
La ragazzina che mi si para davanti con quella
insolita domanda ha un’espressione furba e
tagliente, almeno da quello che posso intravedere dal disopra della grande sciarpa arrotolata
quasi fin sotto gli occhi.
Non rispondo e resto a osservarla.
Probabilmente percepisce il mio stupore e si
affretta a darmi ulteriori spiegazioni.
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«Un cliente del bar in cui lavoro mi ha detto
che, forse, potevo trovarla qui. Questa è una
piccola città e tutti sanno tutto di tutti.»
Mi domando se da queste parti lo insegnino a
scuola o è diventato un complesso per l’intera
popolazione.
«Sì, sì, scusami. Certo, entra pure.»
Apro del tutto la porta e la faccio accomodare
nella sala del ristorante. Lei comincia a liberarsi della sciarpa, osservando attorno incuriosita.
Allungo la mano e mi presento.
«Piacere, io sono Virginio, il marito di
Morgana. Tu ti chiami?»
«Federica. Mi spiace disturbare, volevo solo
parlare un minuto con sua moglie, se fosse possibile.»
«A dire il vero credo stia riposando e mi spiacerebbe svegliarla.»
Non si lascia assolutamente intimidire da questa risposta. Le osservo le lunghe e affusolate
mani smaltate di rosso che cominciano a frugare nella grossa borsa da cui estrae qualcosa
avvolto in un panno giallo.
«Volevo solo darle questo.»
«Di che cosa si tratta?»
I suoi occhietti piccoli e svegli sembrano ades175
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so ad un passo dal riempirsi di lacrime.
«Per cortesia, le dica solo che devo per forza
restituirle il libro che mi ha dato.»
«Che ti ha dato?»
Alla tristezza si unisce anche il timore di aver
fatto e detto qualcosa di ancora più sbagliato.
«Le spieghi che mio padre l’ha scoperto. Ha
iniziato a urlare e a insultarmi dicendo che non
posso accettare un regalo tanto prezioso e che
devo smetterla con queste cavolate sul diventare una scrittrice famosa.»
«Regalo?»
Ripeto ancora come un ebete. Non faccio in
tempo a trovare qualcosa di più intelligente da
dire che mi sbatte il libro contro il petto.
«La prego, lo prenda e basta.»
Comincia a riavvolgersi nella sciarpa, camminando verso la porta.
«Aspetta un secondo. Hai detto che lavori in un
bar?»
Si blocca con la mano sul pomolo, poi torna a
osservarmi. E’ certamente l’occasione che
stavo aspettando e che non posso permettermi
di perdere. Osservo le sue spalle, i suoi fianchi… è perfetta.
«Questa sera c’è il nostro debutto e ci serve
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disperatamente una mano. Abbiamo cercato
qualcuno da assumere, ma tutte le ricerche sono
state vane. Che ne dici?»
«Io non ho mai lavorato in un ristorante.»
«Non ho bisogno che tu faccia nulla di particolare. Dovrai portare i piatti ai tavoli e servire le
bottiglie. Conosci qualche vino?»
«In effetti, ho da poco finito un corso da sommelier. Ma lei crede che potrei davvero…»
«Tentar non nuoce. Ovviamente se sei così
legata al lavoro che hai già capirei il tuo rifiuto. Deve essere una tua scelta. Io non voglio
esserne responsabile.»
Si porta le lunghe dita davanti alla bocca per
trattenere una risatina sarcastica.
«Certo, amo talmente il posto dove lavoro che
ogni giorno spero salti in aria.»
«Ottimo, sei arruolata.»
Il suo viso si illumina di gioia.
«Anche Morgana lavora qui?»
«Certo. Lei è una colonna portante della nostra
attività. Senza di lei, nulla avrebbe senso nel
ristorante.»
Allungo ancora la mano nella sua direzione e,
dopo averla fissata per un secondo o due, la
stringe decisa.
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«Benvenuta nella nostra famiglia allargata.»
«Quando comincio?»
«Subito. Credo sia meglio mostrarti immediatamente la cosa più importante: la cantina.»
Ritorno in cucina e vengo travolto dall’ira di
Cristina.
«Si può sapere dove eri finito dio santo? Ha
telefonato un tale che ha letto la pubblicità sul
giornale e voleva prenotare un tavolo per otto
persone.»
«E tu che gli hai detto?»
Tira un profondo respiro e per la prima volta
percepisco un tangibile segno di cedimento e
stanchezza nel tremore delle sue mani rovinate:
credo siano, per lei, un vero e proprio complesso.
«Di richiamare tra dieci minuti.»
«Hai fatto benissimo.»
Mi avvicino e mettendomi dietro di lei comincio a massaggiarle le spalle. Anche se non
posso vederla in viso, capisco che ha chiuso gli
occhi. Desiderava quel contatto. La stoffa della
camicetta sotto le mie mani diventa subito
calda e il suo collo si piega sulla destra, come
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un invito per la mia bocca.
«Devi stare tranquilla, Cristina. Ce la siamo
sempre cavata. Vedrai che questa sera, quando
tutto sarà finito, rideremo delle nostre inutili
preoccupazioni. Siamo sempre stati in grado di
accontentare la clientela più difficile e gli abitanti di questa città non ci spaventano di certo.
Per me e Omar nessuna sfida è mai stata impossibile.»
All’improvviso mi stacco con risolutezza, per
farle capire che la ricreazione è terminata.
«Tu continua qui, io vado un minuto a vedere
come sta Morgana.»
Cristina si scosta dal tavolo a cui è appoggiata
e comincia a massaggiarsi il collo da sola.
«Virginio, solo una cosa. Hai spostato tu il coltello più grande dal set che hai portato da
Roma?»
«No. Credo sia ancora nella valigetta, assieme
agli altri.»
Mentre non la perdo d’occhio, spaventato e
spiazzato da quella domanda assolutamente
inaspettata, lei si avvicina alla credenza in massello, apre lo sportello, estrae la valigetta e la
apre.
«Guarda, qui non c’è.»
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