Il sesto capitolo

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Il sesto capitolo
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VIRGINIO
Il pinot nero è un’uva ardua da coltivare,
bucce sottili, è sensibile, matura presto.
Insomma, non è una forza come il cabernet
che riesce a crescere ovunque anche quando è
trascurato. Al pinot nero servono cure e attenzioni, cresce soltanto in certi piccolissimi
angoli nascosti del mondo e solo il più paziente e amorevole dei coltivatori può farcela.
Solo chi prende realmente il tempo di comprendere il potenziale del pinot, sa farlo rendere al massimo della sua espressione. Inoltre
i suoi aromi sono i più ammalianti, brillanti,
eccitanti e antichi del nostro pianeta.
Miles Faymond
Sideways
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VII
«Le medicine. Devono per forza essere le
nuove medicine. Non c’è altra spiegazione»
sono le sole parole che riesco a ripetere, da
quando mia moglie ha detto quel che ha detto.
Ho lasciato Cristina a sistemare la cucina e ho
trascinato di peso Morgana in camera da letto.
Non sembra essere scossa, né tanto meno agitata. Sono solo io a essere profondamente turbato. Tutto mi sarei aspettato da mia moglie, ma
mai una cosa del genere.
«Si può sapere che cosa ti è saltato in mente?
Cosa speravi di ottenere lanciando una bomba
del genere?»
Lei continua a guardarmi, stringendo la chiave
tra le mani, più serena che mai.
So bene che non dovrei parlarle in questo
modo, anche da nuove e ulteriori istruzioni, ma
questa è troppo grossa e ogni tanto anche io ho
bisogno di aprire la valvola per lasciare uscire
il vapore.
«A pochi giorni dall’apertura poi! Non hai pensato alle possibili ripercussioni, o alle conse115
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guenze di questa dannata boutade?»
«Non credo di aver detto nulla di così grave.»
Adesso la manetta è completamente aperta e
non riesco più a tenere dentro nulla.
Mi rivolgo al muro e allargo le braccia, in cerca
di un aiuto che tanto non verrà.
«Lei non crede di aver detto nulla di grave»
urlo.
«Lei non crede di aver detto nulla di grave,
cazzo» grido.
Poi mi giro velocemente e le punto il dito
addosso.
«Ho fatto tutto il possibile. Mi sono sobbarcato
il peso di quello che è successo per anni, ma
adesso non ce la faccio più. Ho sbagliato
Morgana, ho sbagliato tutto e ora ci ritroviamo
nella merda fino al collo. Non so fino a che
punto tu lo possa capire, ma credimi, è così.»
«Avevi ragione, invece. Venire qui è stata una
tua idea. Provare a cominciare una nuova vita è
stata una tua idea. Allora perché non tentare il
tutto per tutto fino in fondo? Io non posso più
avere figli, ma tu sì.»
Passando davanti allo specchio distolgo velocemente lo sguardo per non spaventarmi vedendo
la mia immagine furiosa.
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«Non posso credere che tu voglia sostituire
Filippo così, come se fosse un pezzo di ricambio della nostra vita del cazzo.»
Il suo sforzo per trattenersi finisce. Si alza in
piedi di scatto e dopo essersi avvicinata mi dà
uno schiaffo talmente forte da farmi barcollare.
«Non dire fesserie. Non voglio sostituire
Filippo in nessun modo, chiaro?»
Ora è lei a urlare, e molto più forte di me.
«Mi hai fatto un sacco di domande e adesso te
ne voglio fare una io. Perché privarci della possibilità di poter amare ancora una volta?»
La guardo senza capire. Come può pensare che
questa sia una soluzione?
Mi fissa come faceva in passato, con quegli
occhi che spesso credevo capaci di leggermi
nella mente. Sembra riacquistare un po’ di
calma e si risiede sul letto.
«Ti ricordi cosa mi hai sempre ripetuto su
Omar e sua moglie? Che per te è stato come un
padre. Che ci sono persone che, anche senza
legami di parentela, possono dare molto più dei
familiari stessi. Perché credi che questo non
possa valere anche per me?»
«Ma qui si tratta di una cosa completamente
diversa perdio. E poi, perdona la curiosità, ma
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non hai pensato a Cristina? Credi che lei sia
disponibile a una cosa del genere? Anche
ammesso che possa accettare la prima parte di
questa follia, pensi che poi sarebbe disposta a
lasciarti fare la madre di suo figlio così, solo
perché glielo hai chiesto?»
Non so bene il motivo, ma udendo le mie parole provo una sensazione di profonda vergogna.
«Non ho mai pensato di sostituirmi a lei, ti
prego di credermi. Però sono convinta che
potremmo diventare una famiglia. Certo un po’
anomala, ma sicuramente unita. Io so di poter
amare tuo figlio, non ne ho alcun dubbio.»
«Tu sai di poter…» farfuglio appena.
«Certo. E poi potremmo fare Cristina nostra
socia sia del Marilyn, sia del Monroe.»
Nonostante il difficile momento, sentendo i
nomi dei due ristoranti per la prima volta insieme, mi rendo conto di che stronzata sia stata
chiamarli a quel modo. Il mio nervosismo è alle
stelle e mantenere la calma è sempre più difficile. Sono sconvolto, stravolto, svuotato e più
confuso che mai.
La guardo cercando di giustificarla ancora una
volta, ripetendomi quanto tutto questo sia solo
un grave sintomo della malattia mentale che
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l’ha colpita. Mentre mi muovo incautamente,
incrocio la mia immagine nello specchio e
quello che vedo non mi piace. Sembro improvvisamente invecchiato di dieci anni e provo
pena per quel poveraccio che con i jeans e la
camicia mezza sbottonata mi sta guardando
senza più un minimo di speranza. Anche l’ultima spiaggia, sulla quale confidavo di poter
naufragare e invecchiare, si dimostra inadatta a
noi. L’ultimo filo non può più sopportare il
peso della speranza. Attraverso la superficie
riflettente vedo le mani di Morgana che si uniscono attorno alla mia pancia e sento la sua
guancia calda e umida appoggiarsi sulla mia
schiena. Un abbraccio forte, ma tenero.
«Ti prego, pensaci e poi parlane con Cristina.
Ti prometto che accetterò ogni vostra decisione, senza protestare, e continuerò seriamente la
terapia dal dottor Solari. Ti ringrazio per tutto
quello che ogni giorno fai per me e voglio ripagarti facendo la brava. Mi piace stare qui e
desidero che questa sia la nostra nuova casa.»
Tutte queste cose sembrano per lo più snocciolate per parare il colpo. Ma da oltre venti anni
sono vittima del fascino irresistibile di questa
donna, e tutte le volte cado impotente. Proprio
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come accadde durante l’ultima notte del millennio.
Ho lasciato Morgana in camera da letto e sono
sceso al ristorante.
Non c’è traccia di Cristina. Probabilmente è
uscita a fare quattro passi e ne sono sollevato
perché per il momento non saprei proprio trovare le parole giuste per dire alcunché. Mi
guardo attorno e per un istante non posso davvero fare a meno di chiedermi che cosa diavolo ci faccio qui. Ho voglia di qualcosa di forte
e mi servo una vodka ghiacciata.
Ne bevo subito un’altra e poi ancora una. Sulla
tavola ci sono i resti di una cena parzialmente
consumata e alcuni fogli sparsi su cui stavamo
scrivendo gli appunti per il nostro primo menu.
Li afferro e leggendoli provo un profondo
senso di vuoto e di frustrazione; sono bastati
pochi minuti perché svanisse l’entusiasmo così
faticosamente accumulato nelle ultime settimane.
Non me la sento di rimanere in questo luogo
improvvisamente tanto claustrofobico; afferro
la giacca e decido di uscire. Dal fondo della
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scala avviso Morgana gridando, ma tanto per
cambiare non ricevo nessuna riposta. Non me
ne preoccupo, inforco la porta e mi lascio
avvolgere dal buio e dal freddo.
Mi ritrovo in pieno centro storico e non sembra
esserci anima viva. Qualche sporadica macchina passa a tutta birra e mi chiedo quale meta
possa avere in questa piccola città. Non ho la
minima intenzione di permettere alla mia testa
di cominciare il solito vaglio delle sfortune e
delle possibili soluzioni per uscire da una tragica e contorta situazione che tanto so bene non
cambierà mai. Arrivo in piazza Cavalli e mi
sento stupido a ripensare alla mattina del nostro
arrivo quando, percorrendo questa stessa strada, mi complimentavo con me stesso per le mie
scelte. Povero imbecille che sono.
Attraverso i portici di Palazzo Gotico e decido
di prendere una notte tutta per me, senza pensieri, preoccupazioni o altro. Tanto cambierebbe qualcosa?
Bere. Ho bisogno di bere ancora. Con la sola
forza di volontà, non sono in grado spegnere il
cervello anche solo per poche ore. Continuo la
passeggiata costeggiando un enorme palazzo
illuminato. Non credevo di imbattermi in una
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costruzione così imponente. Arrivo davanti a
un gigantesco monumento dove dei soldati,
immersi nell’acqua, spingono delle barche e
giro a destra in direzione della stazione. Dopo
pochi metri, fortunatamente, trovo quello che
cerco. Sembra che un pub abbia deciso di non
chiudere quando le galline vanno a letto e rimanere in attività per ospitare nottambuli, sbandati e mariti innamorati la cui moglie è irrimediabilmente uscita di senno. Mi avvicino e guardo
attraverso la vetrina. Mi passo la mano sugli
occhi stanchi per essere sicuro di quello che ho
visto e con la fronte praticamente appoggiata al
vetro controllo ancora. Ho sempre creduto alle
coincidenze.
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Cristina
La speranza di volare in paradiso produce
stoicismo, la fede unita alla coglioneria è
capace di ogni eroismo.
Oriana Fallaci
Un cappello pieno di ciliege
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Non riesco a non pensare alle parole che continuava a ripetermi mio padre: “Cristina santiddio, tu non sei fatta per quegli ambienti. Siamo
una famiglia di agricoltori noi, non metterti in
testa idee strane. Io ho sempre lavorato la terra
con le mie mani, mai con la fantasia e guarda
che famiglia ho messo su. Ti è mai mancato
niente?”
Povero papà. Considerava il mio lavoro, in uno
dei locali più alla moda di Roma, come una
punizione divina inflitta all’intera famiglia.
“Dove ho sbagliato Signore mio? Dimmi dove.
Come puoi aver permesso a una delle mie figlie
di finire in un luogo tanto dissoluto?”
Conosceva il termine “dissoluto” solo perché lo
sentiva sempre ripetere da quel fanatico del suo
amico prete che andava ad ascoltare in chiesa
due volte al giorno. A volte mi domando come
sia stato possibile per me e mia sorella venire al
mondo.
Se oggi fosse ancora vivo, povero papà, lo
avrei di certo ucciso io con il mio trasferimen125
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to per seguire i Patà in questa loro stupida
avventura. Ma se non fosse stato sufficiente, il
colpo di grazia lo avrebbe ricevuto dall’opportunità di peccare offertami su di un piatto d’argento da Morgana. Aprire un ristorante qui; ma
come si può essere così avventati? Quel che più
mi addolora è che probabilmente Virginio crede
che io abbia accettato solo per i soldi. Se così
fosse non ha davvero capito un cavolo.
Non crederà che sia venuta fin qui e lo abbia
anche aiutato con quella faccenda dei freezer
solo per lo stipendio che mi passa? A Roma
avrei potuto ottenere quello che volevo in quattro e quattro otto. Al Marilyn lui è quasi sempre
rimasto rintanato in quella favolosa cucina, ma
non sa quante proposte ho avuto, mentre servivo i suoi clienti da un milione di euro.
Anche di matrimonio, se è per questo. Sì, da
quel signore sempre così distinto con gli
occhiali in osso e le cravatte sgargianti. “Lei mi
domandi e io esaudirò”, sono state le sue parole. Più chiaro di così. Ma io no, sempre a rifiutare ogni cosa mi venisse proposta, con la stessa frequenza con cui servivo i suoi soufflé. A
Roma ho tutto, la mia famiglia, le mie opportunità; allora perché ho così paura che dopo quel126
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lo che ha detto Morgana questa sera il giocattolo si sia rotto? Dovrei essere sollevata che la
cosa non sia partita da me, così ho la scusa per
andarmene, senza fare troppo casino. Non ci
capisco più niente. Per loro non deve essere
facile con quello che hanno passato. Morgana
poi. Quella donna mi fa venire i brividi.
Quando l’ho vista la prima volta, però, ne sono
rimasta affascinata. Certo, il povero Filippo
non era ancora morto. In tutta la mia vita non
ho mai pensato che una donna mi potesse piacere come mi piacciono gli uomini, e qualche
voletto con la fantasia me lo sono concesso,
questo è vero. Ma poi, stare a contatto con
Virginio ha cancellato tutto e il resto è come
nella canzone di Califano… noia.
Oh, avanti Cristina porca miseria, hai trentacinque anni e il mondo in mano. Hai provato a
inseguire quello che volevi e non ci sei riuscita, pazienza. Anche qui ci starebbe bene una
delle frasi di papà: “Meglio vivere di rimpianti
piuttosto che di rimorsi” o era viceversa? Chi
se lo ricorda, sembra passato un secolo. E’ passato un secolo.
Nei libri e nei film è sempre tutto talmente facile. C’è il personaggio e ci sono le sfighe contro
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cui deve combattere. A un certo punto arriva
l’opportunità e se l’eroe non è un imbecille
patentato l’afferra al volo. Ovvio, qualche
merda la deve calpestare per non cadere nel
patetico, ma poi alla fine ce la fa sempre. E se
non ce la fa tanto uguale perché allora vuol dire
che è morto e quindi i giochi sono chiusi lo
stesso.
Ma perché prendere decisioni è un lavoro tanto
difficile? Quando ero più giovane non ero così
incerta come oggi, agivo d’impulso e zac facevo quel cacchio che volevo. Adesso sono sempre trattenuta da mille scrupoli e dal pensiero
che forse avevano ragione i miei genitori.
L’altra notte, la prima trascorsa qui in hotel a
Piacenza, ho pianto come non facevo da anni.
Ho pianto perché pensavo alla mia sorellina
Marta che ha sposato un commercialista e
hanno già due meravigliosi bambini. Ho pianto
perché so che mia mamma sta invecchiando e
si sente sempre più sola, ma non ha il coraggio
di ammetterlo alle figlie e tiene duro. Ho pianto perché mi sono guardata le mani e ho visto
che sono rovinate dal lavoro e non torneranno
mai più come prima. E poi perché mi sono
vista, mentre pensavo a tutte queste cose, e mi
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sono stata sulle palle da sola. Sono stanca quanto so che lo sono Virginio, Morgana, mia
mamma e mia sorella. Anche adesso vorrei
piangere perché sono seduta al bancone di un
pub del cazzo con davanti un bicchiere di vino
bianco e lo sguardo fisso fuori dalla vetrata.
Improvvisamente mi sento ancora più stupida
e posso percepire le mie pupille che si dilatano
per la sorpresa. Dall’altra parte della vetrata
vedo Virginio con la faccia appiccicata al cristallo. Mi sta fissando. Alza un braccio e mi
indica di non muovermi.
Cretina, cretina che sono. Ma cretina per che
cosa poi? Per desiderarlo? Faccio un vaglio
velocissimo per trovare una frase giusta da dire,
ma sono certa che qualsiasi cosa sarà sbagliata.
Lo guardo mentre cammina verso di me, con
passo incerto, un po’ traballante, e finalmente
l’attesa è finita. Quando ho i suoi occhi fissi nei
miei gli afferro la mano già appoggiata sulla
mia gamba e l’unica cosa che riesco a dire è:
«Va bene. Facciamolo.»
Dopo venti minuti siamo nell’hotel che ci ha
ospitati la prima notte. Nella medesima camera
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e sullo stesso letto dove ho pianto per tutte
quelle cose.
Dopo il mio “facciamolo” lui mi ha preso per la
mano e mi ha trascinato fuori dal pub per venire direttamente qui. Nessuno dei due ha detto
una sola parola e appena il portiere ci ha consegnato la chiave, io mi sono sentita scuotere da
brividi di eccitazione.
Non pensavo che un gesto così banale potesse
farmi fremere di desiderio fino a questo punto.
Salivamo le scale e cercavo di convincermi di
essere ubriaca anche se non era vero.
Il giorno dopo perlomeno avrei avuto una
buona scusa. Purtroppo ho sempre retto bene
l’alcool, alla stregua di uno scaricatore di porto.
Mentre ci baciavamo ci siamo strappati i vestiti di dosso e adesso lui è sopra di me intento a
far roteare la sua lingua dentro la mia bocca. Mi
bacia il collo e scende sui miei seni.
Non riesco più ad aprire gli occhi; ho il corpo
in fiamme. Vorrei che le sue mani mi stringessero forte la carne, invece è molto delicato,
troppo delicato.
Cerco di togliergli i pantaloni, ma fatico per via
delle mani tremanti e dei bottoni dei jeans che
sembrano incollati. All’improvviso si ferma, mi
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guarda e accarezzandomi i seni con il dorso
delle mani mi dice che sono bellissima. Sono
colta dal terrore che si stia pentendo e che
voglia fermarsi, ma fortunatamente dopo due
secondi capisco che non è così. Si leva da solo
i calzoni e li lancia lontano. Voglio godermi
ogni singolo istante anche se so bene il motivo
per cui sta succedendo tutto questo. Virginio è
un uomo disperato e tenuto psicologicamente
in ostaggio da una donna che certamente ama e
alla quale non è in grado di dire di no. Tanto
disperato da eseguire ogni volta gli ordini come
un automa. E’ arrivato al punto di non ritorno
ed è consapevole che questa potrebbe essere la
sua unica e ultima possibilità. Voglio rendergli
le cose più semplici. Se lo merita.
«Ti amo» gli dico piano nell’orecchio.
Mi guarda e mi sorride. Lo conosco bene e
capisco quando non sa cosa dire. Oltretutto non
è certo una delle situazioni più facili, o meglio,
delle posizioni.
«Dopo un giorno che ti ho conosciuto ero già
pazza di te.»
Entra dentro di me e io mi stringo forte a lui
come fosse l’unica cosa che mi tiene in sospeso tra la vita e la morte. Sento di amarlo di un
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amore vero, sincero. Mentre penso di poter fare
questo per tutto il resto della mia vita, un calore mi esplode nel ventre ed entrambi lanciamo
un profondo grido di piacere e liberazione.
Virginio si alza subito e va in bagno. Sento
l’acqua della doccia aprirsi e lui che ci si infila
sotto. La Cristina positiva pensa stia per tornare e ricominciare; quella disfattista teme sia per
sciacquarsi di dosso i resti di un amplesso veloce e inteso quanto probabilmente sbagliato.
Resto a fissare il soffitto e cerco di raccogliere
le idee. Passo la punta della lingua sulle labbra
per cercare di percepire ancora il suo sapore.
Mi alzo e vado fino al frigobar per prendere
dell’acqua e combattere la disidratazione che
mi sta completamente prosciugando.
Un ronzio richiama la mia attenzione e mi
chino a raccogliere i suoi calzoni. Prendo il cellulare che c’è nella tasca e sul display vedo la
bustina che indica un nuovo messaggio in
segreteria.
Ho sempre controllato senza nessuna remora i
cellulari dei miei ex, ma dato che qui non è
certo la stessa cosa, mi giustifico pensando che
sia un istinto al quale non so resistere.
Schiaccio un tasto e ascolto.
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«Virginio sono io. Scusa per questa sera; mi
sono resa conto che quello che ho detto a te e
Cristina è stato un imperdonabile errore da
parte mia. Ti prego, perdonami, non parliamone più e andiamo avanti. Adesso vado a dormire. Ciao.»
Cancello il messaggio, rimetto il cellulare nelle
tasca e lascio che il giramento di testa mi faccia
cadere sul letto.
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