Untitled - PiacenzaSera

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Untitled - PiacenzaSera
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Ci sono tre cose che mi sono imposto di fare
entro i primi due giorni. Le ho scritte per ordine di importanza su uno dei foglietti di carta
che porto sempre con me: accompagnare
Morgana a conoscere il nuovo dottore, pulire e
ordinare tutta la cucina e trovare un nuovo
nome per il ristorante. Come da mia abitudine,
inizio dalla fine.
Questa mattina quando ho parlato a mia moglie
del punto tre ne è rimasta stranamente colpita.
Era in pigiama, scalza e con un tazza di latte tra
le mani più per scaldarsele che per fare colazione.
“Mi sembra irrispettoso”, sono state le parole
di commento che mi hanno alquanto stupito.
La mia intenzione era quella di coinvolgerla
nella scelta del nuovo nome, e non mi aspettavo di certo una risposta del genere. Non che ne
sia infastidito, solo non mi aspettavo che con
tutti i problemi che la tengono perennemente in
bilico sull’orlo del baratro, potesse fare una
considerazione così profonda su di una questio65
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ne così banale. Ma forse sono io ad esagerare.
“Ho letto bene tutto il testamento e non c’è
niente che ci proibisca di farlo” ho detto per
difendermi, come se ce ne fosse stato bisogno.
La discussione si è protratta per qualche minuto per poi sentire la sua voce dalla stanza
accanto che mi liquidava con un “Fai pure
come vuoi, vado a farmi una doccia.”
Così, mentre lei trascorreva la sua canonica ora
mattutina nella nuova stanza da bagno, ho chiamato Cristina e insieme siamo scesi in cucina,
dove ancora adesso ci troviamo, per fare il
punto della situazione.
Se mi avessero bendato e portato qui senza
dirmi chi era il precedente utilizzatore di questo
posto, non avrei impiegato più di tre secondi a
fare il nome di Omar.
Ogni cosa è esattamente disposta come era nel
suo stile di vita e di lavoro. La meticolosità che
ha sempre contraddistinto il grande chef che è
stato, è quanto di più palpabile ci sia in questa
stanza.
«Hai intenzione di lasciare tutto com’è?
Guarda, c’è ancora della roba qui dentro» mi fa
notare la mia assistente con il suo forte accento
romano che lontano da casa pare ancora più
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marcato.
«Dobbiamo organizzare un piano di lavoro ben
preciso se vogliamo aprire tra una settimana.»
«Lo credo bene, qui è tutto così differente dal
Marilyn. Da dove vuoi che cominci?»
«Prima di tutto vorrei che ti occupassi del personale. Abbiamo bisogno di almeno due persone. Prova a rivolgerti a una di quelle agenzie di
collocamento, credo sia il modo più veloce. Fai
pur tu i colloqui e assumi chi preferisci.»
L’idea di coinvolgere Cristina nelle decisioni
più importanti, insieme a un generoso aumento
di stipendio, è una mossa calcolata per diminuire al massimo le possibilità che si stanchi di
rimanere e abbandoni la barca nel malaugurato
caso iniziasse ad affondare. Discorso professionale a parte, la sua presenza mi rassicura; mi fa
sentire meno solo.
«Quando avrai trovato qualcuno, svuotate tutto
e fatemi un inventario preciso di ogni cosa. Io
questa mattina devo accompagnare Morgana
dal nuovo medico, tu intanto cerca di capire
cosa c’è nelle dispense e vedi se in giro trovi le
fatture di acquisto.»
«Dal nuovo medico?» mi chiede immediatamente gettandomi nel panico. Ovviamente lei,
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come chiunque ci sia stato vicino negli ultimi
tre anni, è a conoscenza dello stato psichico di
mia moglie, ma per sua esplicita richiesta non
abbiamo mai detto a nessuno della terapia,
anche se è sempre stato il segreto di Pulcinella.
Ignoro la domanda, sperando che sensibilità e
intelligenza prevalgano e mi dirigo verso la
porta.
«Sarò di ritorno tra un paio d’ore, se hai bisogno ho il cellulare.»
La sua risposta aumenta ancor più il disagio
che mi sono creato da solo; non proferisce una
sola parola e schiaccia l’occhio come segno
d’intima intesa.
Decido di rompere il silenzio che da dieci
minuti regna sovrano in macchina, mentre ci
dirigiamo verso lo studio del dottor Solari.
«Allora, hai pensato al nome per il ristorante?
Dato che io ho scelto quello per il Marylin,
credo che la scelta di questo spetti a te.»
Mentre attendo timoroso una risposta, ubbidisco alla voce nel navigatore e giro in via Pietro
Cella.
«Quando ti metti in testa una cosa è sempre
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così difficile farti cambiare idea. Non credi sia
giunto anche per te il momento di entrare in
terapia?»
Era già accaduto che durante discussioni passate arrivasse questo gentile invito. Faccio come
le altre volte e fingo di non aver sentito.
«Volevo fare una cosa carina; mi spiace se ti
sono sembrato insistente.»
«Se vuoi fare una cosa carina sai bene quello
che dovresti fare al posto di queste cazzate.»
Questa invece non me l’aveva mai detta e fortunatamente dietro di noi non c’è nessuna macchina perché inconsciamente schiaccio a fondo
il freno e dopo due colpi di tosse la Volvo si
spegne. Mi giro verso mia moglie, le prendo
delicatamente il mento con la mano e cerco i
suoi occhi.
«Ne abbiamo già parlato un sacco di volte o
sbaglio? Non voglio tornare indietro Morgana,
ho bisogno di andare avanti, chiaro?»
La mia voce è salita di un paio di toni e percepisco un leggero tremore nelle mani.
Lei contrae i muscoli del collo e sposta la testa
per guardare fuori dal finestrino.
«Metti in moto» ordina con voce cattiva, quasi
bisbigliando.
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Non voglio che si agiti appena prima di incontrare il medico, così riavvio il motore e riparto.
Dopo una decina di minuti di angosciante anticamera, il dottor Solari ci riceve.
Ci mostra il fascio di fax con cui il nostro medico di Roma lo ha informato della situazione e
poi ci fa ripetere tutto con parole nostre; soprattutto circa la notte del 31 dicembre 1999.
Nonostante qualche sbavatura, di cui nessuno
sembra essersi mai accorto, fortunatamente la
versione fornita da mia moglie è sempre la stessa.
Spieghiamo entrambi dell’incidente, come
abbiamo imparato a definirlo, e con mia grande
sorpresa constato che per la prima volta
Morgana ne parla senza piangere.
Per un istante mi illudo che sia grazie all’impatto del trasloco, ma appena Solari le domanda se questa mattina ha preso i suoi farmaci, la
mia speranza si sgonfia.
«Cosa ne pensa della nuova casa?» indaga lui
cambiando completamente discorso.
«Bella, molto bella, ma non so se sarà facile per
me adattarmi alla vita in una città così piccola
e così differente da Roma.»
«Certo che ce la faremo…» cerco di dire, ma
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lui mi blocca mostrandomi il palmo della
mano.
«Posso chiederle se negli ultimi tempi lei stessa ha notato dei cambiamenti nella sua persona
o in quello che la circonda?»
«Lo specchio» risponde Morgana.
«Lo specchio?» faccio subito eco io, meritandomi un nuovo stop a cinque dita, questo volta
molto più risoluto.
«Se la sente di raccontare?» invita Solari con
voce tranquilla, ma ferma.
Morgana intreccia le mani e se le porta sul
petto. Poi le stacca e comincia a girare la vera
nuziale che porta al dito. Il formicolio alla testa
si fa subito sentire.
«Da qualche giorno ho la necessità di fissarmi
allo specchio» tira un profondo respiro per
ricacciare le lacrime, poi continua: «Mi devo
guardare continuamente allo specchio. Sono
perfettamente consapevole che si tratta di una
cosa assurda, ma non posso farne a meno. La
mia voce muta e vedo la mia immagine riflessa
completamente cambiata, come se fosse sfregiata, deformata.»
Sento la mia bocca spalancarsi e il respiro bloccarsi. Che cosa sta dicendo? Non starà vera71
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mente per crollare? Reprimo l’impulso di afferrarla e trascinarla fuori.
«La sera prima della nostra partenza mi sono
dovuta attaccare al lavandino perché avevo
paura di dissolvermi, di diventare sempre più
astratta fino a scomparire. I miei polmoni non
avevano più aria e il mio sangue si era completamente fermato, non circolava più.»
Sento che sto per perdere la testa. Al contrario,
Morgana sembra essersi leggermente calmata e
il dottor Solari approfitta della pausa per intervenire.
«Quanto tempo è durato questo suo stato?»
«Non so di preciso, pochi minuti credo.»
«Va bene. Senta signora, il mio metodo di lavoro consiste nel creare un rapporto di piena fiducia con il paziente. Lei è una donna adulta e
intelligente, pertanto sono certo di fare il suo
bene dicendole come stanno le cose. Quello che
mi ha appena descritto viene definito come
attacco di ansia panica. Rispetto alle altre
forme di ansia, quella panica immerge chi ne
viene colpito in uno stato d’animo di morte
apparente. Da oggi lei prenderà un farmaco
specifico per combattere questo, ma l’avverto
che se certi episodi dovessero tornare a ripeter72
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si sarà necessario un ricovero.»
Mentre l’attacco di panico in questo momento
sta venendo a me, Morgana annuisce in uno
stato di apparente calma. Visto che nessuno
dice più niente, mi sento autorizzato a intervenire.
«Torniamo subito a Roma, se le cose stanno
così non voglio correre il rischio di…»
«Questo sarebbe un errore, signor Patà. La
vostra idea di trasferirvi è stata giusta. Per il
momento vi consiglio di rimanere per verificare se ci saranno dei miglioramenti grazie al
nuovo farmaco associato al prosieguo della
terapia. Restare lontani dai luoghi del trauma
mi sembra la cosa migliore. E mi raccomando,
cercate di portare avanti la vita normale di tutti
i giorni, evitando però il più possibile le situazioni di eccessivo stress per la signora.»
Anche se queste parole mi rinfrancano lo spirito, il formicolio al cuoio capelluto è più presente che mai. Una forte scossa mi attraversa la
schiena quando mi giro e vedo Morgana che
con un sorriso tagliente e un leggero rivolo di
saliva in un angolo della bocca esclama:
«Chiamiamolo Monroe.»
Mentre dice questo il telefono mi vibra nella
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tasca, lo prendo e leggo il messaggio di
Cristina: “Emergenza, torna subito.”
Sono riuscito a tenere nascosto l’arrivo dell’sms dicendo a Morgana che si trattava del
solito messaggio pubblicitario. Così lei, appena
entrati in casa, spossata, è andata a gettarsi sul
letto.
Durante il tragitto per rincasare nessuno dei
due ha proferito una sola parola. Un paio di
volte l’ho osservata mentre si lasciava cullare
dal dondolio della macchina, ma non ho osato
dirle nulla, dato che teneva gli occhi chiusi.
Al nostro ritorno mi aspettavo di trovare
Cristina in lacrime per il crollo della casa o
qualcosa del genere, invece dopo essere corso
in cucina e aver fatto passare tutte le altre stanze senza trovarla, afferro il cellulare dalla tasca
e compongo il suo numero.
Il telefono suona libero, ma lei non risponde.
Nonostante sia mezzogiorno, il sottile strato
uggioso del cielo e la nebbia sembrano essere
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entrati nel ristorante. Mi trovo nel lungo corridoio che divide la cucina dagli altri ambienti e,
per la prima volta dal nostro arrivo, mi sento un
po’ spaesato a causa del buio giunto rapido e
senza preavviso. Cerco con lo sguardo l’interruttore per accendere la luce, ma non lo trovo.
Allora ripercorro i miei passi verso la sala dove
sono certo di aver lasciato accesa una piccola
lampada sul bancone del bar, ma quando arrivo
noto che è spenta.
«Cristina» chiamo facendo attenzione a non
alzare troppo la voce per non spaventarla.
«Cristina, hai spento tu la luce?» tento ancora,
questa volta alzando il tono.
Ricevo ancora il silenzio come unica risposta.
Schiaccio l’interruttore sulla parete, ma tutto
resta buio. La prima ipotesi che mi passa per la
mente è che sia saltato il contatore generale e
che Cristina lo stia cercando.
Mi ricordo di aver visto delle torce in un cassetto vicino al registratore di cassa e mi dirigo da
quella parte ritentando con il cellulare, ma
senza successo.
Stanco di questo rimpiattino, chiamo ancora a
gran voce, ma oltre a dimostrarsi nuovamente
inefficace ha sicuramente contribuito a mettere
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in agitazione mia moglie al piano superiore.
Maledicendo la nebbia e il grigiore Padano
finalmente raggiungo la torcia e riesco a fare un
po’ di luce. Decido di andare da Morgana per
tranquillizzarla nel caso mi abbia sentito urlare,
ma mentre mi volto il fascio di luce colpisce la
porta della cantina spalancata. E’ da ieri che
voglio scendere a dare un’occhiata, ma dopo la
chiacchierata con l’avvocato mi sono lasciato
distrarre dalla chiave di Omar e non ci ho più
pensato. Sono certo che questa mattina la porta
fosse chiusa, quindi probabilmente Cristina
non mi sente perché si trova laggiù. Se così
fosse, che cosa sta facendo nel buio più completo? Perché non risponde al telefono?
Mi tolgo il giaccone lanciandolo su uno dei
tavoli, come se il semplice gesto potesse esorcizzare l’ansia del momento, e imbocco le scale
per scendere.
L’aria si fa subito viziata e i vecchi gradini di
legno scricchiolano sotto il mio peso.
Devo ammettere che senza torcia non sarei mai
sceso.
«Cristina» chiamo ancora, già certo dell’esito
del mio ennesimo tentativo.
Invece questa volta qualcosa rompe il silenzio,
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ma non si tratta della seducente voce della mia
collaboratrice, bensì di un tonfo sordo che sembra provenire proprio dalla fine della scala.
«Sei qui? Che cosa stai facendo?», il tonfo si
ripete e la mia ansia si trasforma nell’irritazione di chi non capisce. Il fascio di luce è molto
piccolo pertanto la visuale si limita a poche
decine di centimetri. E proprio mentre mi sto
domandando quanto manchi, non mi accorgo
che il gradino su cui sto appoggiando il piede
destro è talmente consumato da essere piegato
verso il basso, così venendomi a mancare l’appoggio perdo l’equilibrio e mi ritrovo con la
schiena e terra. Nonostante l’intontimento,
capisco subito che la luce che mi sta colpendo
in faccia non proviene dalla torcia che stoicamente stringo ancora in mano, ma da quella di
qualcun altro che se ne sta in piedi sopra di me.
«Santo cielo, mi vuoi far venire un infarto?» mi
rimprovera Cristina infilandomi una mano
sotto il braccio per aiutarmi.
«Non hai sentito che ti chiamavo?»
Controllo immediatamente le mie dita per verificare se nella caduta mi sono tagliato, ma non
riesco a vedere nulla. Con il lavoro che faccio,
ferirmi le mani è sempre stato uno dei miei
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timori più grandi.
«Devi vedere subito una cosa» non perde
tempo lei.
«Ma insomma, si può sapere cosa cazzo stai
facendo qui? Perché non c’è la luce?»
Ma Cristina si è già allontanata e l’ovattato ticchettio dei suoi tacchi sul pavimento impolverato è l’unico indizio che ho per ritrovarla.
Poco alla volta, i miei occhi si abituano
all’oscurità e muovendomi velocemente riesco
a raggiungerla.
«Porca puttana, mi vuoi aspettare? Questo
posto è un labirinto, per poco non mi spacco il
culo con quella caduta e…» le parole mi muoiono in bocca quando vedo quell’inestimabile
tesoro. Un vecchio scaffale in legno della larghezza di circa dieci metri e alto poco più di
tre, pieno di bottiglie troneggia lungo la parete
sud della cantina. Ne afferro una e anche senza
leggere l’etichetta capisco subito che si tratta di
uno Cheval Blanc 1982. Ne prendo un’altra e
constato trattarsi di Chateau Petrus del 1928.
Sono senza parole. Ci saranno almeno trecento bottiglie tutte introvabili se non addirittura le
ultime della loro specie; un valore incalcolabile. Comincio a ragionare in fretta, ma senza
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riferimenti precisi; Omar deve aver impegnato
la vita e molto di più del suo patrimonio personale per raccogliere tutto questo vino. Non
sono certo uno dei più grandi intenditori, ma a
una prima occhiata posso tranquillamente dire
che si tratta di una delle collezioni più rare e
preziose del mondo. Controllo qualche altra
bottiglia e i nomi che leggo sono, Latour,
Sassicaia e Margaux.
Lo chef degli enigmi non smette di stupirmi
anche da morto.
«Non è quello che volevo mostrarti» mi riporta
sulla terra Cristina.
Le illumino il viso e quello che vedo non mi
piace assolutamente. I suoi occhi neri sono spalancati e la sua espressione tirata è resa ancor
più inquietante dalla vena pulsante che le attraversa la fronte.
«Che cosa c’è?»
«Quando mi hai detto di fare un inventario, ho
cominciato dai frigoriferi della cucina. Poi ho
recuperato quella che sembrava essere una lista
di prodotti surgelati. Non trovando i congelatori di sopra, sono venuta a cercarli in cantina.»
«Sono qui?»
«Sì, sono qui» mi dice mentre si asciuga il naso
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con un fazzoletto impolverato.
«Strano, solitamente Omar era piuttosto attento
alle leggi sanitarie e non è certo permesso
tenerli qui giù. Dovremo provvedere a spostarli.»
Detto questo mi porto la mano sulla schiena e
comincio a preoccuparmi che la caduta possa
essere stata più rovinosa di quanto immaginassi; piccole fitte mi attraversano la spina dorsale.
«Virginio, il problema non è dove sono i congelatori, ma cosa c’è al loro interno» puntualizza
con una preoccupante inflessione della voce.
Mi avvicino a un grosso freezer e, dopo aver
afferrato la lunga maniglia, alzo il coperchio
per dare una sbirciata. Con la sola luce della
mia torcia, non riesco a vedere bene, soprattutto perché il contenuto è coperto da una plastica
trasparente che, con il freddo, si è congelata e
opacizzata.
«Non vedo un cavolo, passami anche la tua
pila.»
Invece di fare come le dico, Cristina si avvicina a me e mettendosi al mio fianco unisce la
sua luce alla mia. Per un istante la osservo e mi
godo la sensazione dei piccoli brividi che per80
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cepisco sentendo il suo fianco contro il mio.
Poi torno con gli occhi nel freezer, con la mano
tolgo un po’ di brina dalla plastica e quando
scopro il contenuto faccio un balzo all’indietro.
Devo fare uno sforzo sovrumano per non farmi
prendere dal panico e mantenere il controllo.
Improvvisamente sento un calore nell’intestino
e una stretta allo stomaco. Il sudore gelato inizia a bagnarmi schiena e fronte; faccio appena
in tempo a fare due passi verso il muro dove
vomito tutto quello che ho dentro, anima compresa, tra spasmi e colpi di tosse.
«E non è l’unico problema» dice Cristina,
appena mi sono un po’ calmato ed è certa che
possa sentire le sue parole.
«Problema? Tu questo lo chiami problema?»
rispondo spaventandomi io stesso della mia
voce.
«Chiamalo come vuoi, ma sento il dovere di
avvisarti che ho già controllato il contatore
della luce ed è completamente fuso.»
Comunica la nuova buona notizia, illuminando
un quadro elettrico che sembra appena uscito
da un forno a microonde.
«Qualsiasi cosa tu voglia fare, la devi fare in
fretta perché o chiami qualcuno che venga
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quaggiù a riparare il danno, o tra un po’ quello
che c’è lì dentro comincerà a scongelarsi e allora sì che saranno cazzi.»
Faccio appena in tempo a tornare nel mio angolo, prima di vomitare un’altra volta, adesso a
causa dell’odore pungente che si è velocemente sparso per l’ambiente.
Mi domando il perché di tutto. Prima la morte
di mio figlio, poi la caduta del Marilyn e il trasferimento con i nuovi attacchi di panico di
Morgana. E adesso anche questo.
Vorrei potermi infilare una mano nel petto,
estrarre il cuore e ricoprirlo con una pelle speciale che lo protegga da tutto. Sì, ecco di cosa
ho bisogno, di una nuova pelle del cuore.
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