4 b. Don Armando Matteo - Relazione completa

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4 b. Don Armando Matteo - Relazione completa
Incontrare i genitori, trattarli da educatori
Tre-giorni per catechisti – Asiago (VI), 18-21 giugno 2015
Educare oggi uno sguardo agli appelli del nostro tempo
Don Armando Matteo, docente di teologia fondamentale
«Quello dei genitori è un mestiere impossibile»
(Sigmund Freud)
Introduzione
Con queste parole assai incoraggianti (!) del padre della psicoanalisi, vi saluto calorosamente, ringraziando
davvero di cuore l'amico carissimo don Giorgio per questo invito.
Il tema di questo incontro è centralissimo a mio avviso e vi confido subito di essere particolarmente
dispiaciuto del fatto che esso sia rimasto un po' in ombra nelle discussioni attorno ai due Sinodi sulla
famiglia. Anche nel documento che ha concluso il Sinodo del 2014 e che prepara a quello del 2015, il tema
dell'educazione riceve esplicitamente solo un numero, il 60, dove leggiamo: «Una delle sfide fondamentali
di fronte a cui si trovano le famiglie oggi è sicuramente quella educativa, resa più impegnativa e complessa
dalla realtà culturale attuale e della grande influenza dei media. Vanno tenute in debito conto le esigenze e
le attese di famiglie capaci di essere nella vita quotidiana, luoghi di crescita, di concreta ed essenziale
trasmissione delle virtù che danno forma all'esistenza. Ciò indica che i genitori possano scegliere
liberalmente il tipo dell’educazione da dare ai figli secondo le loro convinzioni».
Un po' pochino... che dite? E voi siete davvero bravi a dedicarci una mattinata e poi con uno dei più bravi
teologi dell'intera Calabria centrale...
Allora io vi dico immediatamente quale è a mio avviso il punto delicato della questione: l'educazione è oggi
resa più difficile dalla realtà cultura attuale. È proprio così. Di per sé, l'educazione dei figli non è per nulla
facile. Già Freud, che ho citato in apertura, affermava che essere genitori è un mestiere impossibile.
Perché? Perché il genitore deve, all'interno di un rapporto di dipendenza, favorire un processo di
autonomia. Io, genitore, lavoro su di te e con te, perché tu, figlio, non abbia più bisogno di me. Che impresa!
Il genitore è quasi simile a Dio: è capace di generare vita autonoma! Eppure quanti risvolti sottili in questa
impresa, tra slanci e paure. Il figlio che deve e vuole aprirsi al tempo in cui non avrà più bisogno del
genitore (finalmente? purtroppo?) e il genitore che deve prepararsi al tempo in cui nessuno, proprio
nessuno, avrà più bisogno di lui! Siamo pronti, noi adulti del 2015, a vivere in un mondo in cui nessuno, ma
proprio nessuno ha bisogno di noi? Per niente facile dunque l'affaire.
Ma a tale difficoltà strutturale, oggi, rileva giustamente il Sinodo del 2014, si accompagna un clima culturale
diffuso per il quale educare non è più di moda, nel quale insomma si è imposto un profilo di genitore a
basso regime di responsabilità. O meglio si pensa che non sia più necessario educare e sia sufficiente
preoccuparsi per i figli. Basta insomma procurar loro delle cose e risparmiar loro fatica. Basta letteralmente
pre-occuparsi, ovvero occupare e predisporre prima i posti che loro dovranno occupare. Questa è la
strategia dei cosiddetti genitori "spazzaneve", che tolgono la neve prima che i figli escano di casa e questi
ultimi non sapranno mai cavarsela con la neve, e arriveranno addirittura a pensare che essa non esista. E
poi, alla fine, basta trovare una bella raccomandazione! Siamo in tempi di "lupi", non è vero? Basta volergli
bene! Insomma, questi ragazzi non hanno tutto 'sto bisogno di educazione!
Scusate la franchezza, ma proprio questo ci invita a fare la cultura nella quale viviamo il nostro delicato
mestiere di genitore e più in generale di educatori: di educazione non c'è più bisogno!
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Incontrare i genitori, trattarli da educatori
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E qual è la ragione di tutto questo? La ragione è che i genitori ed in genere gli educatori non fanno i genitori
e gli educatori perché non vogliono assumere il mestiere dell'adulto. Ora non tutti gli adulti sono genitori,
ma tutti i genitori debbono essere adulti! Non tutti gli adulti sono educatori, ma tutti gli educatori debbono
essere adulti. Ebbene nella nostra società nessun adulto - una persona cioè con più di 35 anni - vuole più
fare l'adulto! E quindi nessun genitore vuole fare l'adulto. Nessun educatore (professionale o volontario che
sia) vuole fare più l'adulto. Questa è la nostra cultura.
Da qui le tante fatiche presenti nelle nostre famiglie a educare. Ma non solo: la fatica della scuola, la fatica
della comunità cristiana a trasmettere la fede alle nuove generazioni, e più in generale la fatica dell'intera
società a creare un rapporto vero con i giovani e a non continuare ad abbandonarli ad un destino di
marginalità.
E qui siamo davanti a una sfida grandissima: i genitori/educatori fanno infatti una fatica matta a incarnare
la funzione educativa all'altezza e alla verità della cosa stessa, perché non vogliono essere adulti, non
vogliono crescere più! E se è difficile far crescere i figli lo è ancora di più far crescere i loro
genitori/educatori, far crescere noi adulti... Vedete, è difficilissimo dire a queste "ragazze" di 50 anni che
devono crescere e che non possono più mettere i jeans gas... diesel... benzina e che so io... lo stesso vale
per questi "ragazzi" di 50 anni: è difficile dire loro che non possono più indossare le Adidas...
Ma, purtroppo, i genitori/educatori non vogliono crescere... e non vogliono crescere perché da diversi anni
gli adulti non sono più quelli di una volta e ciò vale in particolare per la generazione nata tra il 1946 e il
1964, ed in parte consistente anche per la generazioni nata tra il 1964 e il 1979. Proprio una tale
metamorfosi degli adulti li/ci rende ora sempre meno all’altezza della loro/nostra essenziale vocazione
generativa ed educativa. E questo non è un discorso da preti! Magari lo fosse, noi in genere siamo così
autoreferenziali... (Preti del Triveneto esclusi, ovviamente!).
In verità, non c’è studioso della nostra epoca che non sottolinei una tale situazione. Partirei da Umberto
Galimberti, che parla del nichilismo quale ospite dell’anima dei nostri giovani, il quale nichilismo li porta a
non percepire più alcuna potenzialità per il loro cammino di vita, in quanto la generazione degli adulti sta
consumando tutto, pure il futuro. Francesco Cataluccio ha diagnosticato l’immaturità quale malattia del
nostro tempo, a causa della quale, come le mezze stagioni e le lucciole, sono scomparsi pure gli adulti, ed in
giro si vedono solo bambini e vecchi, che non di rado si scambiano i ruoli, con bambini precocemente
adultizzati e vecchi sempre più rimbambiniti. Massimo Recalcati ha riportato in auge l’analisi di Jacques
Lacan circa l’evaporazione del padre, che egli intende sostanzialmente come rifiuto degli adulti della loro
differenza generazionale che li costituisce essenzialmente "educatori" del desiderio dei figli e promotori
della loro entrata nel mondo, mentre al presente assistiamo ad un continuo surriscaldamento globale delle
nostre famiglia (i bisogni sono soddisfatti prima che vengano espressi) ed ad una continua glaciazione dei
rapporti sociali (per questo i figli in casa hanno tutto, in società mancano di tutto, a casa l'esistenza sembra
senza domande, in società senza risposte); sulla stessa scia si muovono pensatori come Luigi Zoja e Claudio
Risé; Gustavo Pietropolli Charmet denuncia il continuo inquinamento della nostra mente da parte della
pubblicità e della comunicazione massmediale (ovviamente in mano a noi adulti) con valori falsi e pericolosi
– la bellezza, la giovinezza, la sensualità, ecc... – che producono non poche ferite nella psiche degli
adolescenti; Mauro Magatti ha parlato di una contemporanea duplice crisi dei matrimoni e dei patrimoni,
legata ad un esercizio della libertà eccessivamente individualistico che non sa più vivere la logica veramente
e propriamente "adulta" del dono e della generatività; Francesco Stoppa parla di un’incapacità degli adulti
di smettere il loro gioco di eterni giovani, venendo così a creare pericolose derive di concorrenza
generazionale al posto delle salutari conflittualità generazionali. Vittorino Andreoli non teme di dichiarare
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im-possibile l’educazione. Michele Serra nel suo ultimo romanzo, Gli sdraiati, ricorda con tanta forza
quanto oggi si sia dimenticata l’arte di invecchiare, senza la quale però il dialogo tra le generazioni è assai
difficile. Padre Giovanni Cucci, infine, non teme di parlare di "una scomparsa degli adulti"; lo cito
direttamente (fa sempre bene citare i gesuiti di questi tempi): «Si resta sempre più colpiti
dall’appiattimento generazionale che vede ragazzi, giovani e adulti accomunati da una medesima dinamica:
nel modo di vestire, parlare, comportarsi, ma soprattutto nelle relazioni e negli affetti essi rivelano spesso
le medesime difficoltà, al punto che risulta difficile comprendere chi di essi sia veramente l’adulto».
Come procediamo ora? In tre passaggi scanditi da tre domande:
- che cosa significa che gli adulti non sono più quelli di una volta?
- perché non educhiamo più?
- come far crescere i genitori/educatori?
Gli adulti non sono più quelli di una volta
Allora, che cosa significa precisamente che noi adulti non siamo più quelli di una volta? Significa prendere
coscienza che la stragrande maggioranza di coloro che hanno compiuto e oltrepassato i 35 anni (una parte
enorme della società italiana attuale, a causa del fenomeno del degiovanimento), del grande e nobile
"mestiere dell’adulto" – della vocazione, del compito, del "ministero", del servizio connesso all’essere
adulto e del ruolo educativo specifico e irrinunciabile connesso a quest’età della vita – non vuole proprio a
che sapere! Siamo diventati – come dice il titolo di un simpaticissimo film – degli Immaturi.
Più precisamente è la generazione nata tra il 1946 e il 1964 che ha compiuto una rivoluzione copernicana
circa il sentimento di vita. Oggi al centro delle sue attese non c’è la volontà di diventare adulto, e quindi
responsabile della società e del suo futuro, ma quella di "restare giovane" ad ogni costo. Come scrive
Francesco Stoppa, «La specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur divenuti adulti o già
anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati
loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla, al tempo, al corpo che
invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane».
Il contenuto di questo ideale di giovinezza nulla ha a che fare con ciò che normalmente si intende con
"spirito della giovinezza" o "giovinezza dello spirito". La giovinezza come ideale è qui intesa piuttosto come
grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l’affermazione della propria
sessualità, del proprio successo, del proprio fascino, disponibilità ininterrotta a "fare esperienze", a
completarsi e a rinnovarsi. Giovinezza è viagra! Va da sé che qui non esiste più alcuno spazio per il lato
etico-morale, educativo, specificante l’età adulta: definitività delle scelte lavorative ed affettive, anche
quando non sono più all’altezza delle promesse che avevano lasciato intravedere all’inizio; responsabilità
generativa ed educativa, che comporta quel costante oblio di sé a favore di altri; impegno appassionato per
un’accurata e costante manutenzione dello spazio politico, condizione essenziale per la realizzazione del
bene dei figli; e da ultimo consumazione del lutto con la presa di coscienza del proprio inevitabile destino
mortale, con tutto il carico di lavoro su di sé che questa crisi comporta e che apre lo spazio per il passaggio
del testimone (gli Dei greci immortali normalmente mangiano i figli...). Per questo l’orizzonte di riferimento
degli adulti attuali – annota Marcel Gauchet – è quello di «essere il meno adulti possibile, nel senso
peggiorativo acquisito dal termine, sfruttarne i vantaggi aggirandone gli inconvenienti, mantenere una
distanza rispetto agli impegni e ai ruoli imposti, conservare il più possibile delle riserve per altre possibili
direzioni».
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Quella degli adulti è perciò una generazione che ha fatto della giovinezza il suo bene supremo: si può dire
per paradosso che è una generazione che ama la giovinezza più dei giovani. Più dei figli. Ed è a causa di
questo amore al contrario che sta procedendo ad un inquinamento senza precedenti del nostro
immaginario valoriale di base, dalla lingua che parliamo alla grammatica fondamentale dell’esistenza
umana: la vecchiaia, la malattia, la fragilità umana, la morte e infine la stessa giovinezza. Con gravi ricadute
nell’educativo e nel contributo alla catechesi, alla trasmissione della fede. Vediamo.
A livello linguistico: se uno muore a 70 anni si dice che è morto giovane, se uno ha quarantacinque anni è
ancora un ragazzo, un giovane: può aspettare perciò... In Chiesa abbiamo i giovani, i giovanissimi, i giovani
adulti, gli adulti giovani, i diversamente giovani e gli adultissimi...
Per questo la vecchiaia è diventata oggi il nemico "numero uno" della nostra società: è parola eliminata da
Wikipedia (chiedetevi semplicemente: quando diventerò vecchio? Cioè a quale età dichiarerò di essere
vecchio? Pensate agli scenari tremendi che apre una domanda semplice semplice come: quanti anni hai?"),
nulla si vende che non sia "anti-age", è l’ultima e imperdonabile offesa che si possa rivolgere ad un essere
umano, è il tallone d’Achille su cui mortalmente ci ferisce la pubblicità e il sistema economico capitalistico
("a tutto possiamo resistere, tranne a ciò che ci aiuta a lottare contro la vecchiaia"). A questo proposito è
importante tenere conto della straordinaria capacità del mercato di inserirsi brillantemente in questi
processi di riscrittura della qualità adulta dell’umano: adulti che non vogliono smettere di fare i giovani
sono perfettamente adesivi al sistema economico imperante, che ha sempre bisogno di elargire
soddisfazioni "a termine" e quindi di alimentare l’insoddisfazione dei consumatori. Un consumatore
soddisfatto è l’incubo del mercato. Il mito della giovinezza va a braccetto con questo sistema: esiste
qualcosa di più irraggiungibile della giovinezza? No, ma se tu pensi che sia possibile (ed è questo che induce
a credere il mercato) allora inizi a spendere e paradossalmente più la insegui, più ti sfugge, la giovinezza.
Ma non importa. L’importante è spendere e così ogni anno sborsiamo 9 miliardi di euro per la cosmesi
(anche per lozioni contro la caduta dei capelli, quando a tutti è noto che l’unica cosa capace di fermare la
caduta dei capelli è il pavimento!).
Oltre che con la vecchiaia, cambia il nostro rapporto con la medicina (e quindi con la fragilità umana): non è
più un sintomo, un messaggio da parte del corpo (stai facendo troppo, corri di meno, mangia meglio, dormi
di più, smetti di fumare), ma è intesa come un’interruzione, un blocco di motore, che basta rimuovere per
ripartire. E abbiamo medicine sempre più potenti. E la pubblicità ci raccomanda di non leggere le
avvertenze (negli spot pubblicitari questo passaggio è sempre velocissimo).
Un discorso simile vale per la morte: essa ha subìto un incredibile esorcismo linguistico che l’ha fatta sparire
anche dai manifesti funebri: in Italia, la gente scompare, viene a mancare, compie un transito, si spegne, si
ricongiunge, si addormenta, va qui, va là... Nessuno che semplicemente muoia!
Cambia il rapporto con la giovinezza e con i giovani "anagrafici", con i figli: la giovinezza non è più un
periodo preciso della vita, è il senso della vita. Per questo essa non indica semplicemente una stagione
particolare dell’esistenza, irripetibile e specificatamente destinata ad apportare un importante contributo
al rinnovamento e ringiovanimento della società. La giovinezza è il senso della vita. Essa non può finire, non
deve finire. Chi la possiede, nulla gli manca. Tutti abbiamo diritto alla giovinezza. Ma in un mondo in cui
tutti hanno diritto alla giovinezza, nessuno può essere più giovane degli altri! E il risultato, qual è? Che la
nostra società pensa di non aver bisogno dei giovani, che può farcela anche senza di loro, che non siano
necessari. Ma soprattutto questo comporta il venir meno del ruolo educativo connesso all’essere adulto.
Perché non educhiamo più? [Il celebre ottimismo calabrese]
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Dalla trasformazione degli adulti derivano le attuali difficoltà relative all'educazione e alla trasmissione
della fede. Vediamo come.
Con impareggiabile chiarezza e precisione, Romano Guardini ha espresso la legge fondamentale di ogni
relazione educativa: «L'educatore deve aver ben chiaro al riguardo che a incidere maggiormente non è ciò
che dice, bensì ciò che egli stesso è e fa. Questo crea l'atmosfera; e il fanciullo, che non riflette o riflette
poco, è soprattutto ricettivo dell'atmosfera. Si può dire che il primo fattore è ciò che l'educatore è; il
secondo è ciò che l'educatore fa; il terzo ciò che egli dice». Ed è per questo che è così essenziale, per chi
cresce, puntare lo sguardo a ciò che gli adulti (i genitori, gli educatori professionali e gli altri adulti
significativi con cui colui che cresce viene a contatto) sono, cioè al modo con cui interpretano il loro essere
uomini e donne adulte. Al loro sentimento di vita. Allo loro umanità. Il giovane, che secondo Guardini è
strutturalmente un "essere in divenire", quindi aperto, alla ricerca di una meta, di un punto d'arrivo, è di
per sé attratto dal modo di essere degli adulti, a quel modo di essere che è suo destino e che deve pur
diventare sua vocazione.
Ebbene cosa sta succedendo intorno a noi? Cosa comporta una cultura, un sentimento di vita
potentemente attratti nella logica del giovanilismo? Cosa produce la ripulsa sempre più esplicita della
vecchiaia? Quale effetto ottiene il silenzio cui abbiamo costretto l'esperienza della morte? Cosa impone,
insomma, questa nostra umanità adulta in caduta libera?
Ciò che sta succedendo è l'affermarsi dell'imperativo della educazione inutile, della cultura della noncrescita quale paradigma condiviso della felicità umana. L'ho detto prima: l'educazione non è più di moda.
Non si avverte la sua esigenza.
La relazione educativa adulto-giovane, genitore-figlio, si basa su una semplice struttura, che può essere
restituita così all’intelligenza: nell’essere dell’adulto il giovane dovrebbe trovare iscritta questa legge: "Lì
dove sono io, là sarai tu", quindi cammina, datti da fare. Nella lingua tedesca esiste una straordinaria
complicità tra il termine che dice formazione – Bildung – e il termine che dice immagine – Bild. Questo ci
ricorda che noi cresciamo guardando gli altri davanti a noi, guardando gli adulti. D’altro canto la parola
"adolescente" nulla altro significa che tempo per diventare adulti. Come? Guardando appunto gli adulti.
Cosa comporta ora la rivoluzione, compiuta dagli adulti attuali, del sentimento di vita che tutto fa
scommettere sulla giovinezza? Comporta che, nella carne vivente di ogni adulto, il giovane trovi quest’altra
disperata legge: "Lì dove tu sei, io sarò". Insomma: non ti muovere. Tu sei nel paradiso. Tu sei paradiso.
L’unico a dover uscire (e-ducere) dal suo possibile cammino sull’orlo della vecchiaia, della morte, del non
senso, sono io adulto.
Se per gli adulti, allora, il massimo della vita è la giovinezza e tutto il resto è noia, che cosa dovrebbero essi
insegnare, segnalare, indicare, mostrare ai giovani? Se per gli adulti crescere è la cosa peggiore che esista e
l’età adulta «è diventata il luogo del non ritorno, lo spazio-segno che prelude al non essere» della vecchiaia
e della morte, perché dovrebbe risultare una cosa bella per i giovani? Se per gli adulti il vero paradiso è
nella giovinezza, perché i giovani dovrebbero allontanarsi da esso? «Quale significato può avere il futuro e
che senso ha progettarlo se nessun progetto concreto è auspicabile dal momento che, gli adulti lo
insegnano, crescere vuol dire "allontanarsi da" e non "andare verso"?».
Il mito del giovanilismo comporta pertanto l’abdicazione da parte degli adulti ad essere meta possibile di
quella crescita nel divenire che è l’essere del giovane, ad essere cioè segnali, indicatori del destino di
ciascuno: dover scegliere se stessi. Vediamo pure come è cambiato il nostro sguardo sull'infanzia: non
vediamo più dei minori, ma degli esseri speciali che debbono semplicemente "svilupparsi". Questo è uno
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sguardo pericoloso, perché racchiude i bambini e i ragazzi in una prigione d'oro: sono tanto belli e bravi che
non hanno bisogno di nulla, neppure di noi genitori.
Adulti-così-non-adulti nulla hanno da insegnare ai giovani: l’educazione finisce, lì dove l’adulto interpreta la
propria esistenza non più come un cammino nella potenza dell’umano che pure si dirige verso la morte, ma
come un continuo vivere "contromano", per ritornare indietro, per bloccare l’orologio biologico, per
recuperare il paradiso perduto. Se alla vecchiaia, alla malattia e alla morte viene tolta la loro parola
educativa, tutto il complesso dei rapporti intergenerazionali ne risente.
Da qui le pratiche educative diffuse, che gli studiosi indicano quali antitraumatiche, affettive e paritetiche.
L’ideale educativo praticato nelle nostre famiglie si concentra sostanzialmente nella costante manutenzione
dei bisogni dei piccoli, nel risparmiare a questi ultimi fatica e traumi, nell’impostare il dialogo
intergenerazionale sull’affetto reciproco e nel trattare i figli come alleati ed amici, spifferandogli tutti i
segreti della vita, propria e altrui. Con risultati totalmente disastrosi per la crescita e salute psichica dei
ragazzi. Pensate al clima a volte asfissiante, troppo caldo di certe famiglie che produce, negli adolescenti
soprattutto, una ricerca costante tramite i new media di "scappare" da tutto questo eccesso di affetto.
Il problema vero è che si rinuncia alla responsabilità educativa che è sempre di natura verticale. In una
parola viene dichiarata non più essenziale l’asimmetria di rapporto che è la legge base di ogni rapporto
educativo. Ed allora i genitori perdono la capacità di abitare il "no" e i loro "no" diventano come i semafori
di Napoli, dove non ci sono tre distinti colori, semmai tre sfumature del verde! No, ni, sì.
A quanto sin qui evidenziato, c'è da aggiungere che il mito della giovinezza non è solo una questione
pedagogica o psicologica. È una questione anche religiosa: questo mito è una fede, la fede della giovinezza,
la religione della giovinezza.
All'immaturità degli adulti, al loro giovanilismo, è perciò pure legata l'attuale inefficacia della trasmissione
della fede. Perché con la cresima i ragazzi si allontanano dagli ambienti ecclesiali? Perché c'è tanta
ignoranza biblica tra di loro? Perché diversi sociologi ritengono che il rapporto tra i ragazzi e la fede sia nel
segno dell'estraneità (Segatti-Brunelli) e che per molti di loro la religione sia solo un rumore di fondo che
nulla incida sull'identità profonda?
A mio avviso, i ragazzi e i giovani di cui i sociologi evidenziano l'estraneità alla fede sono in verità figli di
adulti che non hanno dato più spazio alla cura della propria fede cristiana: hanno continuato imposto una
divergenza netta tra le istruzioni per vivere e quelle per credere, una divergenza che, pur non negando
direttamente Dio, ha avallato l’idea che la frequentazione della vita in parrocchia e all’oratorio e pure l'ora
di religione fosse un semplice passo obbligato per l’ingresso nella società degli adulti e tra gli adulti della
società.
Più semplicemente: se Dio non è importante per mio padre e per mia madre, non lo può essere per me. Se
mio padre e mia madre non pregano, la fede non c’entra con la vita. Se non c’è posto per Dio negli occhi di
mio padre e di mia madre, non esiste proprio il problema del posto di Dio nella mia esistenza.
Anche la fede è una questione degli occhi. Ebbene che cosa vedono i nostri giovani e i nostri ragazzi davanti
a loro? Adulti che pregano? (Nemmeno il don Matteo della tv prega, impegnato com'è a dare una mano alle
forze dell'ordine!). Adulti che leggono il Vangelo? Adulti che orientano la loro esistenza secondo Gesù?
Adulti felici di essere cristiani? Vedono solo adulti disperati di non essere più giovani...adulti malati di
immaturità... Adulti sempre meno radicati nella fede, in quanto per loro non c'è altro Dio che la giovinezza.
Si è così interrotta l'alleanza tra parrocchia e famiglia: da una parte vangelo, preghiera, solidarietà, dall'altra
bilancia, yogurt, diete, palestra, bisturi e creme anti-age... Da tanto tempo gli adulti chiedono solo a queste
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cose la felicità... La teoria del catechismo non trova pertanto più riscontro nella pratica degli adulti e questo
fatto riduce l'esperienza della fede a una cosa "da bambini" e finché si è bambini.
Come far crescere i genitori?
Dinanzi a questo felicissimo (!) paesaggio e passaggio, che cosa si tratta di fare? Dobbiamo invitare i
genitori e gli educatori a crescere alla statura dell'adulto. Dobbiamo convertire noi adulti. L'affetto, la
preoccupazione dei genitori e degli educatori non è la stessa cosa che educare e promuovere l'assunzione
di responsabilità nei figli e nei ragazzi. Voler bene, preoccuparsi non è educare. Per educare ci vuole un
adulto, "un diversamente giovane" non educa. E per trasmettere la fede non basta avere catechisti
bravissimi e attrezzatissimi. Anche questo, è ovvio. Ma soprattutto ci vogliono gli adulti, gioiosi di essere
adulti e di essere credenti.
Il problema dell'educazione è tutto qui: se i genitori, gli educatori, i docenti, i preti, i catechisti si impegnino
o meno ad essere innanzitutto adulti e - lo ripeto - non dei "diversamente giovani".
E come si fa a essere adulti? Genitori-adulti? Vi consegno tre immagini per dire come un genitore possa
essere adulto: il ponte, l'allenatore, il poeta.
Ponte
Essere un genitore adulto implica l’essere come un ponte tra i figli e il mondo. Noi portiamo i figli al mondo,
questo è il gesto elementare della generazione biologica, ma vi è l'altro passaggio: la generazione culturale.
Dobbiamo portare il mondo ai figli. Questo è il nostro essere pontefici: fare da ponte, come il papa!
E il mondo non è la location ideale delle nostre vacanze; cattolicamente, questo mondo non è il paradiso.
Questo mondo ha leggi e limiti e così pure la presenza dell’uomo in esso. La vita non procede come la
descrivono certe pubblicità. A volte è più bella, normalmente di meno. È dunque decisiva la capacità
dell'adulto di «amare la vita per quello che è e non come location ideale dei propri sogni o bisogni; la vita
nel suo connotato più reale, nella sua irriducibilità a qualsivoglia aspettativa narcisistica» (F. Stoppa). Qui si
decide l'eredità dell'umano!
L’adulto è perciò uno che sa la limitatezza, la debolezza, la vecchiaia, la malattia, la morte, che toccano in
dote ad ogni essere umano: sa tutto ciò, non lo maledice né scioccamente lo rifiuta. Riconosce ed accetta
che la legge della crescita è la capacità della rinuncia e nello stesso tempo la capacità di uno sguardo
accogliente sulla vita in tutte le sue manifestazioni. Solo da una tale generosa ospitalità nei confronti del
mondo e delle sue leggi prende forma il suo servizio/mestiere educativo, la sua effettività responsabilità
verso le nuove generazioni. Questo è l’unico mondo che abbiamo (al momento pure mondo unico
nell'universo conosciuto): fare da ponte tra i figli e il mondo significa ogni volta trasmettere la
fondamentale certezza che quella umana è una vita vivibile e amabile non nonostante il fatto che abbia
leggi e fondamenta, ma proprio perché ha leggi e fondamenta, alleandosi con le quali ciascuno può
diventare autore e attore della propria esistenza.
Solo allora possiamo realizzare la nostra vera missione: dare al mondo figli che non hanno più bisogno di
noi. E non è facile: «Saper perdere i propri figli è il dono più grande dei genitori» (Recalcati). Ma un ponte è
un ponte, non è un luogo dove stare sempre. Lo dice pure la biologia: «Dopo aver prodotto la generazione
successiva, o aver superato l’età in cui avremmo potuto farlo, la natura non sembra impegnarsi più di tanto
per tenerci in vita» (G. Meilander).
Insomma: i tuoi figli non sono figli tuoi...
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Allenatore
L'allenatore è uno che non semplicemente vuole bene ai suoi ragazzi, ma che vuole il bene dei suoi ragazzi
e che perciò non tiene troppo conto della loro permalosità, ma li sprona a lavorare sodo, a preparasi alla
sfida, alla gara.
Ecco amare come un allenatore significa volere il bene di chi ci è affidato. E, contro ogni retorica
pubblicitaria, quello dell’amore non è impegno facile. Comporta la preparazione dei ragazzi al confronto
con gli altri, con l'altro del mondo e con il mondo dell'altro. Tu noi sei il re dell'universo, tu non sei già un
grande campione, il migliore, il più bello... Sei uno tra tanti e devi crescere, allenarti appunto, fare esercizi,
cadere e rialzarti, farti male e riprenderti, nessuno ti aspetta, ma tu puoi trovare in te le forze per andare
avanti, per credere in te, per credere nella vita... Basta paranoie e scendi in campo!
Poeta
L'ultimo tratto è quello più difficile, specialmente oggi. La nostra società vuole gente che crede solo in ciò
che si vede e in ciò che si vende. E per questo è una società dei bisogni, al massimo dei sogni. La società che
siamo diventati ha paura dei desideri, ha paura di gente che ragiona con il cuore... e non secondo la
pubblicità... Ecco allora il genitore e l'educatore che devono attivare nel bambino, nel ragazzo, nel giovane
la capacità di vedere ciò che non si vede, di vedere ciò che non si vende. Devono attivare nel figlio le
antenne del desiderio. Quello del desiderio è un tema delicato, che ha a che fare con la struttura umana.
Noi non siamo mai tutti dove siamo. Siamo tutti qui in questa sala, ma non siamo "il tutto di noi" in questo
nostro essere in questa sala... Siamo sempre oltre, c'è sempre uno spazio insaturo dentro di noi, che
dobbiamo conoscere, amare e coltivare. È lo spazio del nostro "io", del nostro uscire fuori da noi e guardare
le stelle e dalle stelle. Solo così possiamo vedere cose non ancora viste, sentire cose non ancora udite,
percepire cose non ancora percepite e dare loro vita nel mondo degli umani.
L'educatore-poeta deve e può aiutare il giovane ad entrare in una relazione feconda con la dinamica
autentica del desiderio umano: in quanto umani siamo impastati con la mancanza, con la finitezza, con la
trascendenza. La dinamica del desiderio non è da temere e soprattutto non è da svalutare al sporco gioco
del mercato che la vorrebbe tradurre e tradire nel segno dei bisogni. Il nostro desiderio vola molto più alto
del bisogno. Della logica mortifera della compulsività.
Sentite che bella è questa frase di Pierangelo Sequeri: «La convinzione di Gesù è che nessun uomo, anche
quando ha fame, desidera semplicemente del pane; che nessun uomo, anche quando ha bisogno di
riempire la sua solitudine, desidera semplicemente un corpo caldo sul quale dormire; che nessun uomo,
anche quando sperimenta la desolazione della malattia, desidera semplicemente sopravvivere. Gesù è
profondamente convinto di questo. L’uomo desidera assai più di ciò di cui ha bisogno».
Qui si possono aprire, per i giovani, le porte all’esperienza dell’arte, della religione, del volontariato, del
dono, della gratuità e della grazia. La nostra incompletezza strutturale è premessa e promessa di novità, di
bellezza, di altruismo, di invenzione, di trasfigurazione.
Per finire
Gli antichi dicevano che educare non è riempire i figli come un sacco con idee, pensieri, norme morali e
precetti di buona educazione. Ovvero di cose. Educare è accendere delle torce: è far esplodere il fuoco della
vita, quel fuoco che illumina, riscalda e purifica....
Insomma, Freud non aveva tanto torto quando sosteneva che essere genitore è un mestiere impossibile...
Buon lavoro, allora! Pardon, buon incendio a tutti!
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Incontrare i genitori, trattarli da educatori
Tre-giorni per catechisti – Asiago (VI), 18-21 giugno 2015
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