5. GIULIANA ZEPPEGNO, Sergio Toppi illustra Friedrich

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5. GIULIANA ZEPPEGNO, Sergio Toppi illustra Friedrich
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione semestrale
Redazione
FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,
FRANCESCO LO MONACO, FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY,
LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA
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STEFANIA CONSONNI
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è dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione
Questo numero è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Lettere,
Arti e Multimedialità e del Dottorato di Ricerca in Teoria e Analisi del Testo
© Università degli Studi di Bergamo
ISBN – 978-88-95184-50-0
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Via dell’Agro 10, 24124 Bergamo
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Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo
Paragrafo
III (2007)
Sommario
QUESTIONI
§1. FRANCESCO GHELLI, Il potere del consumo fra storia e immaginario. Note in margine a L’impero irresistibile di Victoria de Grazia
7
§2. NUNZIA PALMIERI, L’epistolario di Umberto Saba. Storia di un’edizione mancata
29
§3. MARCO TOMASSINI, Il viaggio dell’eroe. Luther Blissett e le epifanie del molteplice
47
FORME
§4. FRANCESCA CAMURATI, Quando la tradizione è più forte della realtà.
Il modello ariostesco nella Araucana di Alonso de Ercilla
69
§5. GIULIANA ZEPPEGNO, Sergio Toppi illustra Friedrich Dürrenmatt
91
LETTURE
§6. ANTONELLA AMATO, Rilke, Nietzsche, e il Compimento dell’amore
di Musil
119
§7. SUYENNE FORLANI, Per un’analisi del messaggio pubblicitario russo
141
§8. SARA PANAZZA, Zoomorfismi dell’anima. Epifanie di decentramento
in Argo e il suo padrone di Svevo
157
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
175
NUMERI ARRETRATI
177
§
5
Giuliana Zeppegno
Sergio Toppi illustra Friedrich Dürrenmatt
Non sono i miei pensieri a determinare le mie immagini;
sono le mie immagini che determinano i miei pensieri
Friedrich Dürrenmatt, Stoffe I, 1981
Nel 2003 viene data alle stampe, presso la piccola casa editrice milanese
Studio Michelangelo, un’interessante riscrittura del racconto Abu Chanifa
und Anan ben David (1976):1 l’elegante collana “Letteratura illustrata per
l’Europa”, che negli anni precedenti aveva ospitato gli adattamenti a fumetto di Due amici di Guy de Maupassant, La piccola spia di Alphonse
Daudet e il gigante egoista di Oscar Wilde realizzati da Dino Battaglia, si
rivolge ora alla letteratura in lingua tedesca, e precisamente al racconto di
uno scrittore svizzero che una precoce attività di incisore e pittore lega
fortemente al mondo dell’immagine, Friedrich Dürrenmatt, cui accosta
le chine dell’illustratore e fumettista italiano Sergio Toppi.
Dopo un peritesto di carattere introduttivo, la raffinata edizione realizza, mediante una scansione testuale complessa, l’accostamento di tre
linguaggi diversi: pagine di solo testo ospitano, distribuite su due colonne
parallele, la versione in lingua originale del racconto e la traduzione italiana; alle porzioni di testo si alternano le undici illustrazioni di Toppi, che
didascalie bilingui mettono in rapporto con entrambe le versioni (se la
didascalia vera e propria, interna all’illustrazione, è tratta dal testo tradot1
Sergio Toppi illustra Friedrich Dürrenmatt. Abu Chanifa e Anan ben David, Milano:
Studio Michelangelo, 2003. Traduzione italiana di Umberto Gandini, testi introduttivi di
Franco Cardini e Roberto Roda. D’ora in avanti la sigla STfd farà riferimento a questo volume. Si ringraziano Sergio Toppi e l’editore per l’autorizzazione alla riproduzione delle
immagini.
PARAGRAFO III (2007), pp. 91-116
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to, la pagina precedente accoglie, bianca su campo nero, la corrispondente citazione in lingua originale). La dislocazione delle illustrazioni non segue alcuna spaziatura regolare: tra un’immagine e l’altra sono interposte
per lo più due pagine di testo, in un caso una soltanto, in altri nessuna;
in tre occasioni inoltre (illustrazioni 6, 9 e 11), l’illustrazione precede il
frammento di testo cui si riferisce. Il testo delle didascalie, infine, non è
quasi mai identico all’estratto originale (una ripresa esatta si ha solo nell’ultima didascalia): in generale si osserva una tendenza a sintetizzarlo,
sottraendo alcune particelle ed eliminando gli incisi, sia per adattarlo allo
spazio della didascalia che per concentrare, in un’unica frase, diverse possibilità figurative. Lo stesso procedimento è applicato alle didascalie in tedesco, con interventi tuttavia leggermente diversi, per ragioni specificamente sintattiche, da quelli operati sul testo italiano.
Interesse principale di quest’analisi è il rapporto che intercorre tra le
immagini e il testo narrativo: ponendo quindi tra parentesi i problemi di
ordine interlinguistico, l’attenzione maggiore andrà al legame intersemiotico esistente tra testo narrativo (bilingue) e testo iconico, e alle sue possibili implicazioni, nel tentativo di abbozzare una risposta ad alcuni interrogativi, quali: come sono costruite le immagini? Quali soggetti vi sono
illustrati e che criterio emerge da tale selezione? Che posizione assumono
le illustrazioni nei confronti del testo narrativo, ovvero come vi dialogano
sul piano dell’interpretazione? Cosa aggiungono alla percezione dell’opera, e come la riorientano?
Il racconto – apparso per la prima volta in forma di parabola nel 1976
all’interno del saggio Essay über Israel e pubblicato come racconto nel
1978 –2 conserva, a quasi trent’anni di distanza, la sua scottante attualità:
protagonisti sono il rabbino Anan ben David e il teologo musulmano
Abu Chanifa che, gettati in una segreta verso la metà dell’VIII secolo dal
califfo abbasside Al-Mansur e qui dimenticati per centinaia di anni, intavolano una discussione teologica che li porterà a comprendere con evidenza crescente e parole sempre più rarefatte la sostanziale coincidenza
del loro dio e la complementarietà delle loro fedi. Mentre la prima parte
del racconto si svolge esclusivamente nella cella, e manca di qualsiasi
azione che non sia di ordine spirituale, la seconda, inaugurata dalla scar2
Friedrich Dürrenmatt, “Essay über Israel” (1976), in Id., Zusammenhängen, Nachdenken, Zurich: Diogenes, 1980. D’ora in avanti, segnalato con la sigla EüI. Ove non altrimenti indicato, le traduzioni sono mie.
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cerazione di Anan ben David, vede, oltre a una certa accelerazione temporale,3 un brusco mutamento di scena: il narratore inizia a seguire, in
un’originale riscrittura della leggenda cristiana dell’ebreo errante, le peregrinazioni del rabbino nel mondo, lasciando la figura di Abu Chanifa per
così dire sullo sfondo.
Anan ben David, condannato a peregrinare per il mondo e per i secoli
per effetto del capriccioso ordine di un califfo, sopravvive al massacro dei
mongoli di Hülägu, all’Inquisizione, ai ghetti di mezza Europa, esce indenne da Auschwitz, e scampa infine, in tempi recenti, a un incidente automobilistico presso Baghdad. La Storia – che l’ebreo attraversa come
un’ombra, chiuso in un finto mutismo – gli scorre addosso come acqua,
sprofondato com’è nel pensiero di dio e nel ricordo dei lunghi anni trascorsi, come ormai crede, in sua compagnia. Il rabbino non sa che Abu
Chanifa, ormai quasi pietrificato, si trova ancora nella segreta, tenuto in
vita dal poco cibo che generazioni di topi gli portano da secoli. Quando a
Baghdad, seguito da un cane bianco, trova una caverna e vi penetra, agisce per istinto e non sa cosa cerca: solo più tardi, dopo aver lottato nel
buio contro un essere antichissimo, e avervi riconosciuto l’antico compagno, il rabbino capisce, e anche il musulmano capisce. Alla fine del viaggio, i due teologi non trovano dio, o non solo. La vera scoperta è un’altra.
E un po’ per volta dai loro occhi quasi ciechi, impietriti, svanisce l’odio,
si guardano come avevano guardato il loro dio, Jahwe e Allah, e per la
prima volta dopo millenni le loro labbra, che hanno così a lungo taciuto,
formulano una parola, non un detto del Corano, non un versetto del
Pentateuco, solo una parola: tu. Anan ben David riconosce Abu Chanifa,
e Abu Chanifa riconosce Anan ben David. Jahwe era Abu Chanifa e Allah era Anan ben David, la loro lotta per la libertà era insensata. […] Abu
Chanifa comprende, di fronte al vecchissimo piccolo ebreo che gli sta
rannicchiato davanti – e Anan ben David riconosce, dinnanzi all’arabo
accoccolato lì davanti a lui sul pavimento del carcere – che la proprietà di
entrambi, quella prigione di Abu Chanifa e quel carcere di Anan ben David, è la libertà di entrambi (STfd, p. 47).
Il progressivo avvicinamento tra i due teologi – che dalla scoperta dell’altro
procede verso una completa, altamente simbolica, identificazione con esso
3
Se la prima parte del racconto si svolge nell’arco di pochi secoli, la seconda abbraccia
almeno settecento anni, estendendosi all’incirca dall’invasione mongola di Baghdad del
1258 all’età contemporanea.
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– propone una versione originale del tema del doppio,4 ricorrente in tutta
la scrittura dürrenmattiana: questa tematica, altrove declinata nella (falsa)
opposizione carnefice/vittima e in stretto accordo con una visione pessimistica dell’universo, assume qui una valenza diversa. A dispetto degli indubbi echi borgesiani,5 Dürrenmatt valica, al termine di questo racconto-parabola, i confini della metafisica, entro i quali si era tenuto sino alle ultime
pagine, per risolvere il conflitto nell’etica: in ultima istanza, quindi, il doppio non è impiegato come figura della perenne divisione tra gli uomini e
della loro sudditanza a ingranaggi immodificabili, bensì ne mette in luce
l’intima universalità e la possibile fratellanza. Se una scelta simile può stupire in uno scrittore dal nichilismo quasi sempre desolato, privo di spiragli,
che pone il male al centro dell’universo e in dio non vede che un’istanza inconoscibile o crudele, va però tenuto conto del contesto in cui il racconto
fa la sua comparsa. L’Essay über Israel, idealmente rivolto al popolo israeliano, a metà tra il discorso e il resoconto di viaggio, si propone di lanciare un
messaggio di pace, o quantomeno di speranza, sulle sorti dei due popoli, e
per farlo sottomette la storia antica e recente di Israele e il conflitto ebraico-musulmano a un punto di vista filosofico, più che politico. In quest’ottica lo stato di Israele, come teatro di scontro tra civiltà, assurge a emblema
della condizione esistenziale: “Il caso di Israele è lo stesso di tutti noi. Con
ciò però il caso di Israele si sposta dal piano politico a quello esistenziale.
Diventa un caso ‘morale’, nella misura in cui il piano morale costituisce
una categoria esistenziale” (EüI, p. 146). Quando poi al discorso subentra,
4
Il tema è inteso qui nella sua accezione più generale. Per un’indagine tematologica più
specifica si veda Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze: La
Nuova Italia, 1998.
5
Il riferimento più diretto è il racconto di Borges, I teologi, in cui si narra l’invisibile
battaglia consumatasi, negli anni, tra i due teologi Aureliano e Giovanni di Pannonia, impegnati sullo stesso fronte nella guerra all’eresia: dopo anni di dissertazioni mosse dall’ansia di superare il rivale, più che da autentica vis teologica, Giovanni viene condannato al
rogo a causa di un cavillo denunciato, quasi involontariamente, da Aureliano. Quest’ultimo prova, alla morte del rivale, “quello che proverebbe un uomo guarito da una malattia
incurabile, che fosse ormai parte della sua vita”. Il racconto si conclude in cielo, dove “Aureliano seppe che per l’insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia (l’ortodosso e l’eretico, l’aborritore e l’aborrito, l’accusatore e la vittima) formavano una sola persona”. Jorge Luis Borges, “Los teólogos”, (1952), trad. it. di Francesco Tentori Montalto in L’aleph,
Milano: Feltrinelli, 2003, pp. 44-45. Particolarmente proficuo mi sembra il confronto
con il seguente passo tratto dal racconto di Dürrenmatt: “Anan ben David guarda la faccia di Abu Chanifa, e Abu Chanifa guarda la faccia di Anan ben David: ognuno di loro,
fattosi vecchissimo nel corso di secoli innumerevoli, guarda se stesso, le loro facce sono
uguali” (STfd, p. 47).
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senza soluzione di continuità, la prima parte del racconto, di cui solo dopo
molte pagine è dichiarata l’inattendibilità storica e l’origine fantastica, cominciano a delinearsi, da un lato, una sostanziale sfiducia nella leggibilità
della Storia, dall’altro il valore di apologo del racconto intercalato.
La ricerca della divinità – che i due teologi perseguono in un dialogo
sempre più indistinto, cui vengono meno, a poco a poco, le parole – è
inoltre emblematica della concezione dürrenmattiana del divino: la visione dell’autore, figlio di un pastore protestante, la cui ribellione contro il
padre si tradusse presto nella più totale sfiducia verso qualunque forma di
ideologia, è quella di un “teologo negativo, o almeno rientrato”,6 ovvero
di un ateo che paradossalmente non rinuncia all’interrogazione religiosa,
anzi continua a occuparsi, instancabilmente, del problema della fede.
“Perchè la scoperta di dio è la scoperta umana più gravida di conseguenze, indipendentemente dal fatto che dio esista o meno”, si legge nell’Essay
über Israel (p. 24). In un universo labirintico, dominato dal caso e in preda al caos, di cui le ideologie non possono fornire se non goffe semplificazioni, il pensiero di dio vale più della sua esistenza. E il discorso su dio,
indipendentemente dalla sua veridicità, è un viaggio più affascinante e rivelatore di qualunque scoperta definitiva.
Le undici illustrazioni realizzate da Sergio Toppi non costituiscono,
nel loro insieme, una traduzione intersemiotica del racconto:7 limitandosi
alla lettura delle immagini, si ricava una percezione molto lacunosa, se
non caotica, del testo narrativo. Ognuna di esse, tuttavia, può considerasi
traduzione visuale di un singolo frammento di testo.8 Prima di interrogarsi sulle modalità comunicative impiegate dalle illustrazioni, pertanto, occorrerà chiedersi cosa esse raffigurino, o meglio quali immagini, entro il
potenziale figurativo dischiuso dal racconto, siano state scelte da Toppi ed
effettivamente realizzate.
6
Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. III, t. 2, Dal realismo alla sperimentazione, 1820-1970, Torino: Einaudi, 1978, p. 1657.
7
Il termine – introdotto da Roman Jakobson in “On Linguistic Aspects of Translation”
(1959) – ha subito recentemente, soprattutto in ambito semiotico, diverse riformulazioni,
in direzione di una maggiore apertura definitoria e flessibilità. Tipica degli orientamenti più
recenti è la nuova attenzione tributata al rapporto relazionale, intertestuale, che l’opera d’arrivo intrattiene con quella di partenza, e all’apporto creativo realizzato dalla trasposizione.
Al concetto di fedeltà va pertanto sostituendosi quello, più flessibile, di equivalenza. Cfr.
Catia Nannoni, Traduzione intersemiotica e altri saggi, Torino: L’Harmattan Italia, 2002.
8
L’adattamento realizzato dalle singole illustrazioni rappresenterebbe, a rigore, un caso
di traduzione intersemiotica parziale, data l’esigenza delle immagini di appoggiarsi, ai fini
della loro leggibilità, al linguaggio verbale delle didascalie.
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L’illustrazione 3
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A ognuna delle due parti in cui è diviso il racconto è dedicato quasi lo
stesso numero di illustrazioni: cinque alla prima, sei alla seconda, con l’illustrazione 5 (raffigurante la scarcerazione di Anan ben David e l’allontanamento dall’amico) a fare da spartiacque. Quasi tutte le illustrazioni della prima parte raffigurano snodi narrativi rilevanti: la cattura di Abu Chanifa (ill. 1), il vecchio guardiano incaricato di portare ai due teologi il pasto giornaliero (ill. 2), la loro preghiera comune (ill. 3). L’illustrazione 4,
raffigurante oggetti apparentemente ai margini della vicenda narrata (una
delle donne dell’harem e un eunuco), ritrae, a ben guardare, la causa indiretta dell’oblio in cui cadono i due teologi: è soprattutto per i fastidi procuratigli dall’harem, che il vecchio califfo dimentica l’esistenza dei due
prigionieri. Le illustrazioni dedicate alla seconda parte del racconto segnano le principali tappe delle peregrinazioni dell’ebreo, dall’incontro col
cavaliere mongolo (ill. 6), a quello con il Grande Inquisitore (ill. 7), alla
prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz (ill. 8), al viaggio in
compagnia dello scultore svizzero (ill. 9), al rinvenimento, a Baghdad,
della bocca della caverna (ill. 10), fino al ricongiungimento, nel profondo
della segreta, con il decrepito Abu Chanifa (ill. 11). La selezione del disegnatore sembra dunque mantenersi, nel complesso, su posizioni tradizionali: l’apporto innovativo della sua riscrittura risiede soprattutto, come si
vedrà, nelle modalità con cui questi soggetti vengono rappresentati.
Sergio Toppi – disegnatore milanese di fama internazionale, entrato
nel mondo dell’illustrazione giovanissimo come illustratore dell’Enciclopedia dei Ragazzi (UTET), e dalla fine degli anni Cinquanta attivo in quello
del fumetto – occupa, tra le arti grafiche, una posizione particolare: a
lungo considerato “un grande illustratore prestato al fumetto” a causa dell’antico pregiudizio sul valore artistico dei comics, annoverato oggi tra i
maestri contemporanei di entrambi, Toppi è effettivamente un artista in
bilico tra fumetto e illustrazione. Modesto lettore di comics per sua stessa
ammissione, dimostra anche una certa difficoltà a tracciare distinzioni
nette tra le due arti.9
In realtà, nonostante il diretto rapporto di filiazione tra illustrazione e
fumetto e il durevole influsso esercitato dalla prima sul secondo almeno
9
“Illustrazione e fumetto”, ha dichiarato Toppi in un’intervista, “sono estremamente legati e non vedo grandi differenze tra questi due tipi di lavori, se non, com’è ovvio, la necessità nel fumetto di articolare la storia lungo trenta o più pagine anziché cercare di visualizzare un qualcosa in un’unica tavola”. Fabrizio Lo Bianco, Sergio Toppi: un top… del
fumetto, <www.farofunny.com/comics/exclusive/Toppi.html>.
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fino agli anni Trenta,10 tra i due linguaggi intercorrono alcune differenze
fondamentali: come sintetizza opportunamente Daniele Barbieri, mentre
“[l’]immagine del fumetto racconta, l’immagine dell’illustrazione commenta”.11 L’illustrazione,12 che è sempre illustrazione di qualcosa, non può
sostituirsi alla narrazione scritta, e al livello narrativo tende a privilegiare
quello descrittivo, esprimendo “non tanto la dinamica dell’azione rappresentata, quanto piuttosto le connotazioni emotive, ambientandola in un
certo modo, facendo uso di certi stili di figurazione piuttosto che di altri,
circondandola di particolari non essenziali ma caratterizzanti”.13
Questo non significa, tuttavia, che l’illustrazione svolga un ruolo puramente esornativo, esterno al testo; al contrario, essa intrattiene spesso
con quest’ultimo uno stretto rapporto di complementarietà, nella misura
in cui riesce a rendere informativa e comunicante “quella parte del pensiero che non può essere espressa con le parole, quel settore più o meno
ampio del contenuto (semantico) che la parola per la sua vocazione all’universale non riesce a puntualizzare e che deve cedere all’immagine e alla
sua capacità di descrivere il particolare (il contingente)”.14 Oltre a completare e arricchire la ricezione del testo narrativo con gli strumenti che le
sono propri, inoltre, l’illustrazione ha il potere di sviluppare un discorso
critico, anche di tipo contrastivo, sul testo con cui dialoga. Secondo Umberto Eco, “illustrare vuol dire […] stabilire un rapporto intertestuale che
non deve ridursi al servizio parassitico, ma può sfociare nella co-invenzio10
Sulle origini del fumetto e sui suoi rapporti con le arti figurative preesistenti sono state formulate varie ipotesi. Si vedano, in proposito, Pietro Favari, Le nuvole parlanti. Un secolo di fumetti tra arte e mass media, Bari: Dedalo, 1996, e il ‘metafumetto’ di Scott McCloud, Understanding Comics (1993), trad. it. di Leonardo Rizzi, Capire il fumetto. L’arte
invisibile, Torino: V. Pavesio, 1996.
11
Daniele Barbieri, I linguaggi del fumetto, Milano: Bompiani, 1995, p. 13.
12
Per illustrazione si intende “ogni multiplo ottenuto tramite la riproduzione a stampa
di un artefatto di natura grafico-pittorica, commissionato dall’industria editoriale, e pertanto reperibile nei relativi prodotti come libri e periodici” (Paola Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana, Bologna: Zanichelli, 1998, p. 9). L’illustrazione nasce quindi in concomitanza con i primi prodotti stampati e la sua storia coincide, almeno fino alla fine del
Settecento, con quella delle tecniche ‘nobili’ di incisione (xilografia – diffusa in Europa a
partire dal XIV sec. – calcografia e litografia). In grado di raggiungere – grazie alle tecniche di riproduzione fotomeccanica – strati sempre più vasti della popolazione, a partire
dall’Ottocento l’illustrazione invaderà nuovi canali, dando origine a giornali (satirici) e riviste illustrati, edizioni illustrate per bambini e per adulti, manifesti artistici, vignette.
13
Daniele Barbieri, op. cit., p. 14.
14
Ennio Chiggio, “Illustrazione in Italia”, cit. ivi, p. 11.
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ne. […] [U]na buona serie di illustrazioni a un romanzo può costituire
una critica parallela, una chiave di lettura, un’interpretazione dell’opera
letteraria”.15 Proprio perché non deve narrare, ma fornire al testo un commento visivo il più possibile icastico e ricco di dettagli, connotandolo e
arricchendolo in vari modi, l’illustrazione esige inoltre, a differenza della
vignetta del fumetto, una lettura lenta.
Questo in linea generale. Sergio Toppi costituisce, entro questo quadro, una vistosa eccezione. Oscillando continuamente tra illustrazione fumetto, egli trasferisce tecniche e stili da uno all’altro, contaminando incessantemente i due linguaggi. Se i fumetti di Toppi denunciano l’influsso dell’illustrazione – soprattutto nell’architettura innovativa delle tavole,
nei forti contrasti di luce e nell’uso abbondante del tratteggio, sviluppato
a tal punto e tanto fittamente intricato da compromettere a tratti la leggibilità delle immagini – le sue illustrazioni presentano, oltre a queste caratteristiche, elementi derivati dal fumetto. Significativa, a questo proposito,
la definizione di “illustrazione fumettata” applicata da Nencetti alle copertine delle storie a fumetti di Toppi.16 Nel caso specifico che si intende
analizzare, più vicina alla pratica del fumetto che a quella dell’illustrazione è la particolare collocazione delle didascalie interne, quasi sempre suddivise in frammenti di testo distinti e dislocate in punti diversi all’interno
dell’illustrazione, in un modo che può ricordare appunto l’impiego del
balloon nel fumetto.17 Ma osserviamo più da vicino le immagini.
Eseguite a china, con pennello o pennino, in bianco e nero, esse denunciano, come sempre in Toppi, un uso sistematico e complesso del
tratteggio, alternato a campiture piatte di bianchi e neri intensi. Il fitto
tratteggio, oltre e disegnare le ombre (proprie; quasi del tutto assenti le
ombre portate), serve a definire le rughe dei visi, i drappeggi degli abiti,
l’oscurità degli ‘sfondi’: insomma a conferire alle figure consistenza materica e tridimensionalità, e a stagliarle contro il buio con maggior realismo.
15
Umberto Eco, “Arcipelago Pericoli”, cit. ivi, p. 12.
Angelo Nencetti, “Sergio Toppi illustratore. Un grande narratore per immagini”, in
Pietro Alligo, Angelo Nencetti e Giuseppe Pollicelli (a cura di), Sergio Toppi narratore
d’immagini, Torino: Lo Scarabeo, 2001.
17
Se la dislocazione frammentata nello spazio di queste didascalie rievoca quella del
balloon, la loro funzione rimane però rigorosamente tradizionale: esse contengono il frammento di testo cui l’illustrazione si riferisce e non l’enunciazione dei personaggi rappresentati. La loro collocazione anomala va piuttosto ricondotta, come si vedrà, alla peculiare
struttura compositiva delle illustrazioni.
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Il tratteggio svolge, tuttavia, anche altre funzioni. “La tessitura”, ci dice
Barbieri, “è espressiva: una volta che abbiamo riconosciuto gli oggetti,
una volta cioè che sappiamo cosa sono, ci dice infatti anche come sono”.18 In Toppi, il come è spesso a tal punto privilegiato rispetto al cosa
che il lettore necessita talvolta di alcuni secondi per distinguere chiaramente i soggetti rappresentati: è il caso, nelle illustrazioni al testo di Dürrenmatt, delle fisionomie di alcuni personaggi e dell’architettura del carcere raffigurato nell’ultima illustrazione. In queste immagini l’uso del
tratteggio, come l’impiego di linee variamente modulate e i forti contrasti
di luce, è dunque soprattutto un uso emotivo, retorico: ne derivano effetti di tensione che, oltre a conferire alle figure un maggior dinamismo, le
connotano fortemente in senso espressivo.19
Legato alla funzione retorica delle immagini è, inoltre, l’impiego di
forti contrasti tra bianco e nero: quasi tutte le figure rappresentate emergono da fondali (come si vedrà, non si può parlare di veri e propri sfondi)
completamente neri o fittamente tratteggiati, con cui si creano, laddove
le figure sono lasciate bianche, forti effetti di contrasto: bianco è, ad
esempio, il grande copricapo di Al-Mansur (ill. 1), cui si contrappone,
poco sotto, una campitura di nero pieno; bianchissimo è il corpo della
donna dell’harem (ill. 4), stagliato contro un fondale quasi esclusivamente nero, e altrettanto bianco il turbante del califfo raffigurato nell’illustrazione 5, ridotto, nella parte superiore dell’immagine, a una nuda linea di
contorno; bianchi su fondo nero sono il copricapo e la veste del Grande
Inquisitore (ill. 7); abbagliante è, infine, la divisa del nazista dell’illustrazione 8, che non è neppure disegnata, ma ricavata in negativo nel nero
tratteggiato che la circonda.
18
Daniele Barbieri, op. cit., p. 30.
Si vedano ad esempio le illustrazioni 10 e 11: nella prima il fitto tratteggio con cui è
disegnato il cane bianco, insieme allo stiramento delle linee verso l’alto e alla conseguente
deformazione in verticale dell’animale, lo connota come essere onirico, forse divino, sicuramente simbolico (il cane – una delle forme in cui il diavolo tradizionalmente può manifestarsi – assume spesso, nella prosa di Dürrenmatt, una valenza metafisica, se non decisamente demoniaca. Si vedano, a questo proposito, i racconti Il cane [Der Hund, 1952] e Il
vecchio [Der Alte, 1945]. Cfr. Andreas Hapkemeyer, Diavolerie. Studio su Dürrenmatt, Milano: Guerini studio, 1991). Nell’ultima illustrazione l’architettura fantastica da cui sono
sovrastati i due teologi assume – grazie al fitto tratteggio che ne confonde sempre più i cunicoli, man mano che si procede verso il basso – connotazioni fortemente simboliche: il
carcere, di cui il lettore vede, per così dire, la sezione verticale, in una raffigurazione surreale, architettonicamente impossibile, è simbolo trasparente, tanto nel racconto quanto
nell’illustrazione, del labirinto.
19
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Data l’evidenza di questi contrasti – cui Toppi, che pur ama i contrasti
di luce, dovette certo attribuire una funzione specifica – pare lecito cercare
di attribuire loro un valore semantico. L’uso di campiture bianche non
sembra essere direttamente collegato alla presenza della luce, o non solo; in
alcune illustrazioni poi (è il caso soprattutto del nazista e del secondo califfo) gli spazi bianchi si distaccano per sottrazione da ciò che sta loro intorno – rappresentato in modo dettagliato e realistico – per ridursi a segni
grafici bidimensionali, abbozzati, stilizzati. Nell’unico caso in cui il colore
bianco è autorizzato e anzi sollecitato dal testo (la penultima didascalia recita: “Anan ben David si accorge di essere seguito da un cane bianco, nudo
e spelacchiato”, STfd, p. 43), Toppi non mostra di dare alla cosa troppa
importanza: il cane è così fittamente tratteggiato da sembrare scuro, se non
proprio nero. Un simile uso dei bianchi e dei neri, oltre ad assolvere a un
ruolo estetico – impreziosendo l’immagine e introducendovi un elemento
di varietà – sembra risolvere sul piano dell’espressione una dicotomia rilevante sul piano del contenuto. Osservando con attenzione le immagini ci
si accorge, però, che la classica coincidenza semantica della coppia chiaro/scuro con quella bene/male viene qui ribaltata. Scuro è l’interno della
cella (l’oscurità tratteggiata nelle illustrazioni 2 e 3 richiama quella della segreta, mai rappresentata in modo naturalistico), scuri i blocchi metallici
che, fuoriuscendo letteralmente dalla mente dello scultore svizzero, ne rappresentano la creatività (ill. 9), scuri sono il cane bianco e la bocca della caverna (ill. 10), scuro è, infine, l’intero carcere (ill. 11): si tratta, in tutti
questi casi, di personaggi e ambienti sentiti come positivi, perchè utili o
accoglienti. L’affermazione risulta più chiara se confrontata con l’elenco
degli elementi evidentemente connotati dal colore bianco: la donna lasciva
dell’harem, simbolo della decadenza del regno, e causa indiretta della dimenticanza in cui sprofondano i due teologi (la didascalia recita: “Con l’avanzare dell’età è l’harem a creargli più problemi […] e gli eunuchi si fanno sempre più insolenti…”, STfd, p. 21); il turbante del secondo califfo; il
Grande Inquisitore; il medico nazista.
Tale dicotomia invertita è comprensibile alla luce delle polarità semantiche già interne al racconto: la buia segreta in cui i due teologi hanno trascorso centinaia di anni, parlando di dio in modo tanto intenso da
credere, nel ricordo, di aver parlato con dio stesso, è il luogo sacro per eccellenza, che non ha bisogno di spazio né di luce, oltre che quello – come
risulta evidente nella chiusa – dell’umanità. Tutto ciò che ad Anan ben
David accade fuori da quei pochi metri quadri di prigionia, a causa di
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GIULIANA ZEPPEGNO
una libertà che non ha voluto, è spaventoso: incendi, beffe, interrogatori,
persecuzioni, incidenti. L’antro oscuro assume quindi connotazioni positive (Anan ben David cercherà, appena rilasciato, di farvi ritorno ed esservi trattenuto, ma invano), mentre il bianco è applicato a quanto di negativo o superfluo la Storia riserva ai due teologi. Emblematiche di questo contrasto e della luminosità di cui è investito, nel pensiero, il “carcere
buio” di Baghdad, sono le parole che seguono la descrizione degli esperimenti sul corpo dell’ebreo nel campo di concentramento di Auschwitz:
D’un tratto l’ebreo sparisce e il nazista lo dimentica. Con il trascorrere
dei secoli si sono fatti sempre più importanti per Anan ben David, più
straordinari, più radiosi, quei secoli che ha trascorso in prigione con Abu
Chanifa, in quella miserabile segreta di Bagdad. Ha da tempo dimenticato Abu Chanifa, è vero, s’immagina di essere stato solo nel carcere buio in
cui Al-Mansur […] l’aveva fatto gettare, ma gli sembra ora di avere parlato in tutti quegli anni senza fine con Jahwe; e non solo parlato, di aver
colto il suo respiro, di aver perfino visto il suo volto infinito, e quel buco
miserabile dove è stato segregato gli appare sempre più come la terra promessa; tutti i suoi pensieri, come la luce in un punto focale, si concentrano
su quel luogo e si trasformano in una incontenibile nostalgia di tornarci.
(STfd, p. 34, corsivo mio)
L’altro fattore responsabile, insieme all’intenso tratteggio e ai forti contrasti di luce, dell’intrinseca complessità delle illustrazioni è la loro struttura
architettonica. Il problema della composizione occupa, nella ricerca estetica di Sergio Toppi, un posto fondamentale, anzi si può dire che le soluzioni architettoniche elaborate dal disegnatore italiano costituiscano il
tratto più originale e innovativo del suo stile. L’innovazione architettonica
apportata da Toppi, a partire dagli anni Settanta, alle sue tavole a fumetti
deriva, almeno in parte, dalla tendenza tipica dell’illustrazione a concepire la tavola come un tutto unico, piuttosto che come una griglia inviolabile di vignette; allo stesso modo le illustrazioni denunciano una forte
sperimentazione compositiva che paradossalmente le avvicina al modo di
concepire lo spazio tipico del fumetto. Nelle sue illustrazioni, elementi
diversi – che in una tavola a fumetti occuperebbero vignette distinte –
confluiscono spesso in un unico quadro, secondo un elaborato processo
di sintesi sia figurativa che narrativa. Tali frammenti, che l’illustrazione
fonde nel vero senso della parola, attraverso un sapiente uso del tratteggio
e dell’alternanza chiaro/scuro (rappresentanti, a seconda dei casi, contenitori temporali diversi, accostati per analogia o per successione cronologica;
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porzioni spaziali diverse, a indicare avvenimenti simultanei in luoghi distinti; oggetti compresenti nello spazio, ma ritratti da angolazioni diverse;
attributi dei vari personaggi, orpelli, decorazioni, elementi di paesaggio
ecc.) vengono così a costituire veri e propri blocchi figurativi – non dissimili da quelli che Dürrenmatt attribuisce, nel racconto, al grottesco scultore svizzero – dall’effetto straniante, fantastico, ricchi di suggestioni e
passibili di letture diverse. L’accostamento di elementi distanti nel tempo
o nello spazio conferisce inoltre alle immagini un’inusuale densità emotiva e simbolica, oltre che narrativa e sensoriale: nonostante i vari frammenti non siano leggibili in simultanea, e presentino talvolta una complessa temporalizzazione interna, il loro accorpamento nello stesso blocco
suscita interessanti percorsi di lettura e sottrae agli oggetti rappresentati la
rigidità propria delle rappresentazioni naturalistiche.
Conseguenza di una simile concezione dell’immagine è l’assenza, pressoché totale, degli sfondi. I riquadri bianchi, ma più spesso neri che, variamente ritagliati, fanno da fondale alle figure analizzate, non riproducono, come si è già accennato, lo spazio reale: per lo più si limitano a connettere le figure rappresentate, bilanciandone la distribuzione, e solo in
alcuni casi forniscono, dello spazio, una ricostruzione fantastica. Quanto
alle possibili soluzioni compositive, le undici illustrazioni ne presentano
una vasta gamma: data l’impossibilità di dedicare a ciascuna di esse un’analisi dettagliata, tuttavia, ci si limiterà a esaminare due illustrazioni, particolarmente emblematiche della tecnica cui si è accennato.
L’illustrazione 5 presenta un’organizzazione interna piuttosto complessa. Vi si trovano assemblati almeno quattro piani diversi: al centro campeggia la figura del califfo, ritratto a mezzo busto e isolato anche graficamente dal contrasto della sua veste con il nero circostante. Egli è il soggetto della didascalia (“Un certo califfo, forse Al-Qadir ibn Ihaq ibn AlMuqtadir…”, STfd, p. 25) e indirettamente di ciò che avviene nella parte
inferiore della pagina: qui la liberazione del rabbino è risolta tramite un
espediente squisitamente grafico (l’enorme catena che divide simmetricamente i due prigionieri e dalla quale uno dei due si distacca è simbolo
dell’allontanamento, più che raffigurazione naturalistica) e la sappiamo
posteriore di duecento anni all’ordine del califfo20 (la domanda “quando
20
Dopo le parole riprese nella didascalia, il racconto prosegue: “Duecento anni dopo,
negli ultimi giorni del regno di Al-Mustansir ibn az-Zahir […] l’ordine giunge al vecchissimo sabeo che, brontolando e dopo qualche ovvia esitazione, mette in libertà Anan ben
David” (STfd, p. 23).
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L’illustrazione 5
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dura quest’immagine?” schiude in questo caso possibilità impreviste). La
raffigurazione della prigioniera veneziana alle sue spalle, in alto a sinistra
– ignara responsabile della sua decisione – può coincidere con un mero
riferimento testuale, rappresentare un ricordo, o ancora provenire da un
contenitore temporale distinto. Data l’incongruenza tra le dimensioni del
musulmano e quelle dell’ebreo, inoltre, si può ipotizzare per quest’ultimo
un quarto piano spaziale e temporale: verosimilmente il rabbino va immaginato mentre si trascina in direzione dell’uscita, o già in piena luce,
nel cortile del carcere. La sintesi temporale realizzata da quest’illustrazione è senz’altro notevole: se però ci limitiamo a mettere in rapporto l’immagine con la didascalia – come si prevede faccia il lettore, almeno a una
prima lettura – il salto temporale risulta appianato e la liberazione del
prigioniero ebreo, rappresentata in basso, leggibile come immediatamente successiva a quanto rappresentato nella parte superiore della pagina,
con conseguente semplificazione, per il lettore, di quel procedimento che
nel mondo del fumetto è chiamato closure.21
L’illustrazione 10 presenta un diverso tipo, forse ancora più raffinato,
di aggregato ottico: qui l’immagine dell’ebreo ritratto di spalle nell’atto di
entrare nella caverna non può essere che la soggettiva del cane bianco, il
quale contemporaneamente viene inquadrato di fronte, nella parte centrale e superiore della pagina. Nella stessa illustrazione sono dunque raffigurati la scena e l’occhio che la guarda – gli occhi allucinati, demoniaci,
del cane – secondo modalità non dissimili da quelle impiegate nei film
per segnalare il carattere soggettivo di un’inquadratura.22
I problemi compositivi illustrati finora intrattengono un legame forte,
oltre che con il trattamento cui sono sottoposti tempo e spazio, con quella
che potremmo chiamare la ‘gerarchizzazione’ dei soggetti rappresentati o,
se si preferisce, la distribuzione degli accenti sulle varie figure della storia.
Riconducendo queste ultime ai ruoli attanziali stabiliti dalla semiotica greimasiana, ci si accorge di come esse si distribuiscano intorno a dicotomie
molto semplici, pressoché invariate nel corso del racconto. Abu Chanifa e
21
Con il termine inglese closure si intende quel completamento per inferenza in base all’esperienza che permette al lettore di fumetti di ricostruire la sequenzialità frammentata
delle vignette in un continuum mentale, completando con l’immaginazione i segmenti
narrativi più o meno lunghi impliciti negli spazi tra una vignetta e l’altra (cfr. Scott McCloud, op. cit.).
22
Si fa qui riferimento all’espediente cinematografico che consiste nell’introdurre una
soggettiva mediante l’inquadratura degli occhi o del volto del personaggio che sta osservando la scena.
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L’illustrazione 10
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Anan ben David svolgono indubbiamente il ruolo di soggetti – bilanciati e
complementari nella prima parte del racconto, più sbilanciati nella seconda, in cui l’accento è posto sulle vicende del rabbino – mentre i vari califfi
che prima li incarcerano, poi li dimenticano, poi provocano la scarcerazione dell’ebreo, possono essere accomunati sotto la categoria di destinanti,
vero e proprio motore della storia e causa, con le loro azioni, dei suoi eventi principali, siano questi di ordine pratico o spirituale. Alle restanti figure
del racconto spettano i ruoli di aiutanti e di opponenti: se alla prima categoria appartengono il guardiano che caccia a forza dal carcere Anan ben
David,23 il vecchio talmudista che lo disconosce e maledice, il cavaliere
mongolo, l’Inquisitore, il medico nazista; alla seconda vanno ricondotti lo
scultore svizzero, che da Istanbul conduce il rabbino sino a Baghdad, il cane bianco che misteriosamente lo guida alla caverna e, per quanto attiene
alla vicenda di Abu Chanifa, i topi che per secoli lo tengono in vita e che
alla fine permetteranno il riconoscimento reciproco tra i due teologi.
Questi rapporti tuttavia non valgono, o valgono solo in parte, per le
illustrazioni: come risulta evidente anche solo scorrendole, le due figure
che nel racconto svolgono il ruolo di soggetti (Abu Chanifa e Anan ben
David) non compaiono nelle immagini se non marginalmente, a causa sia
delle loro dimensioni che della loro collocazione topologica. Nella prima
illustrazione il musulmano è ritratto di spalle; nella seconda e nella quarta
i due soggetti sono assenti; la quinta li vede raffigurati in basso, molto
piccoli rispetto al resto della composizione; nelle illustrazioni 6, 7, 8, 9 e
10 la figura del rabbino è per lo più minuscola, posta a lato della figura
principale, in due casi di spalle (ill. 8 e 10); nell’ultima illustrazione, che
ci si aspetterebbe interamente dedicata ai due teologi, non è concesso loro
che un angolo dell’immagine, per il resto dominata dalla raffigurazione
del carcere. Di fatto, solo nella terza illustrazione si ha un vero e proprio
ritratto dei due protagonisti, costretti tuttavia a spartire l’immagine con i
torturatori ritratti in primo piano.
A ciò si aggiunge il fatto che la raffigurazione dei due teologi è sempre, a eccezione dell’illustrazione 3, notevolmente più stilizzata di quella
23
La funzione dell’anziano guardiano sabeo, cui Toppi dedica un’intera illustrazione, è a
rigore quella di un aiutante, ma è del tutto priva di intenzionalità: egli porta sì per secoli ai
due prigionieri, con i quali condivide l’incredibile longevità, la loro razione di cibo, ma lo fa
“meccanicamente […], spinto dal senso del dovere che è più forte del disprezzo per quei
due” (STfd, p. 23), ed è responsabile della scarcerazione di Anan ben David in modo alquanto mediato (non fa che eseguire, per pura pedanteria, un ordine impartito due secoli prima).
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delle altre figure. Tale fattore, soprattutto se posto in relazione con le modalità di raffigurazione predominanti in Toppi, assume una rilevanza centrale per la comprensione della riscrittura: “La stilizzazione delle forme”
osserva Nencetti in riferimento allo stile del disegnatore, “è effettuata laddove serve ma vi è soprattutto nei ritratti una forte connotazione degli
stilemi della pittura realistica ottocentesca”. E ancora: “Tutto ciò altro
non è che quell’esercizio alchemico che spostandosi sul piano stilistico-figurativo, fa sì che l’autore continui anche nell’esperimento puramente
grafico quel virtuoso miscuglio di elementi stilistici, […] tanto da riuscire
a creare ritratti di volti umani che non sono semplicemente riproduzione
di una data fisionomia, sebbene estremamente fedeli, ma vogliono mostrare i lineamenti di una certa personalità, le qualità e i difetti di quel
particolare soggetto”.24 Ebbene: quale personalità, che qualità e difetti ci
mostrano le fisionomie di Abu Chanifa e Anan ben David? Nessuna. Sono troppo poco dettagliate, troppo stilizzate, perché si possa parlare di vera e propria connotazione. Per converso, le figure cui Toppi dedica quasi
interamente le sue illustrazioni (cioè i vari destinanti, opponenti, aiutanti,
oltre ad alcune addirittura prive di un corrispettivo nella storia)25 sono
raffigurate in modo estremamente dettagliato e, come si è osservato all’inizio, fortemente connotante. Al confronto, la raffigurazione dei due teologi, affidata a poche linee essenziali anche a causa delle dimensioni ridotte e avara di tessiture, fa pensare a delle funzioni simboliche, più che a
due individui ben definiti. Nel mondo delle immagini vale la regola per
cui, quanto più una figura è iconica, tanto più diventa universale agli occhi del lettore: il processo di astrazione iconica che è alla base dei cartoon,
per esempio, semplificando e selezionando i dettagli specifici di una figura umana permette un’identificazione con essa sempre più ampia da parte
del pubblico.26 I due teologi, la cui astrazione non è tale da trasformarli in
macchiette, sono tuttavia figure più pallide e ‘vuote’ delle altre, e in quanto tali più disponibili nei confronti dell’identificazione del lettore e dei
processi di significazione.
24
Angelo Nencetti, op. cit., rispettivamente pp. 68 e 67.
Nella fattispecie: la donna dell’harem e l’eunuco. Se è l’harem a provocare indirettamente la scarcerazione del rabbino, le due figure rappresentate nell’illustrazione 4 sono
però assenti dalla storia, che parla genericamente di harem ed eunuchi. I due personaggi
raffigurati qui, cui Toppi concede un sì ampio spazio, vanno quindi ricondotti esclusivamente all’inventiva del disegnatore.
26
Cfr. Scott McCloud, op. cit.
25
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L’assimilazione di Anan ben David e Abu Chanifa a due cifre simboliche, d’altronde, è operata in prima istanza dal racconto: Dürrenmatt non
descrive mai, se non indirettamente, l’aspetto fisico dei suoi personaggi;
essi non compiono scelte attive, se non di tipo metafisico, e per lo più si
limitano a subire con indifferenza ciò che accade loro; l’introspezione psicologica è assente, sostituita dall’analisi del percorso mistico compiuto
parallelamente da entrambi; l’atteggiamento dei due personaggi è tanto
simile da renderli interscambiabili, e si biforca soltanto nella seconda parte per ovvie esigenze di trama; si insiste, nella seconda sezione, sulla difficoltà di attribuire con certezza le peregrinazioni descritte al medesimo
rabbino, conferendogli così una sfumatura mitica; l’età plurisecolare e lo
stato di perpetua amnesia e apatia che affligge i due teologi sembra escluderli dalla sfera dell’umano per collocarli in una zona più rarefatta. Solo
nell’ultima scena, infine, i due si riappropriano di connotati umani: prima della diffidenza e dell’odio, poi, dopo il riconoscimento finale, della
fratellanza. Individui però, non lo sono mai.
Insieme ad Anan ben David va immaginato, in viaggio, l’intero popolo
ebraico; e nella segreta è accovacciato, al fianco di Abu Chanifa, l’Islam di
ogni era e paese. La valenza universale dei due personaggi è scoperta: “Da
tempo”, scrive Dürrenmatt, “Abu Chanifa è diventato una specie di Corano, e Anan ben David la Thora” (STfd, p. 22). Il ricongiungimento finale
è molto più che un generico inno alla fratellanza tra uomini: è l’auspicata
riconciliazione tra due popoli. La trama del racconto (l’iniziale alleanza
spirituale tra i due teologi sulla base di un credo comune, l’allontanamento dell’ebreo, il suo errare, il ritorno a una ‘terra santa’ che egli si aspetta
vuota, e che invece trova occupata dal vecchissimo musulmano, anch’egli
intimamente convinto di esserne il legittimo possessore, infine il reciproco
riconoscimento e il trionfo della libertà) è metafora trasparente di un’altra
trama, quella intessuta dalla Storia intorno ai popoli musulmano ed ebraico, e al conflitto sostituitosi, nei secoli, all’iniziale fratellanza tra culture.
Sergio Toppi, quindi, mantenendo i due personaggi sul limite dell’astratto, graficizzandoli e ostacolando ogni possibile immedesimazione
empatica da parte del lettore,27 rispetta appieno quella che sembra essere
l’intentio operis dell’originale. Di fatto, però, tra l’operazione di Dürren27
Se l’astrattezza della rappresentazione è causa di una certa ampiezza identificativa (si
adatta cioè, come si è visto, a rappresentare un ampio numero di lettori, o un’intera categoria), ostacola però anche, nel lettore, quella che si è scelto qui di chiamare la sua immedesimazione diretta.
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L’illustrazione 6
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L’illustrazione 7
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matt e quella del disegnatore intercorre una differenza di rilievo: se il racconto mantiene in vita con numerosi riferimenti la presenza del sacro,
imperturbabile, nell’animo dei due teologi, e la lunga meditazione su dio
che essi proseguono nel corso dei secoli, le immagini rinunciano a farlo.28
Nelle illustrazioni – nonostante un tentativo di raffigurare l’assente sia
realizzato con successo, laddove Toppi dà forma tangibile alle fantasie dello scultore svizzero – il disegnatore si limita a rappresentare, per così dire,
la vicenda esteriore, lasciando implicita quella mistica, e affacciandosi al
soprannaturale solo quando il testo ne consente una rappresentazione,
come nel caso del cane bianco dell’illustrazione 10, dotato di un indubbio valore simbolico nel senso del trascendente ma pur sempre delle fattezze di un cane.29
Le piccole dimensioni dei due teologi e la loro posizione marginale
nelle illustrazioni hanno inoltre un’altra conseguenza sul piano interpretativo: lasciano trasparire, in controluce, la particolare concezione della
Storia sottesa non solo al racconto, ma anche all’Essay über Israel, e all’intera produzione dello scrittore svizzero. Come si è detto, i soggetti delle
illustrazioni non coincidono con quelli del testo: le figure che nel racconto svolgono il ruolo di destinanti, opponenti, aiutanti, per citare solo i
più rilevanti, assurgono – tranne che in un caso – a protagonisti assoluti
delle immagini (in cinque casi si tratta di personaggi storici, o pseudostorici), mentre ai soggetti del racconto sembra accordato, nelle illustrazioni,
un ruolo accessorio.
In questo modo, Toppi raffigura i due personaggi per così dire a margine dei grandi avvenimenti storici; ce li mostra in balia della Storia: oltre
che molto piccoli, li disegna talvolta di spalle, altre volte a capo chino (ill.
5, 7, 9), o striscianti (ill. 6), per lo più sovrastati dalla mole di ciò cui sono assoggettati (un uomo, un avvenimento), o nell’atto di sfuggirgli. Dal
racconto sappiamo, però, che né l’ebreo né il musulmano – immersi in
28
L’unico riferimento figurativo diretto alla sfera del divino è il feticcio adorato dal
guardiano, raffigurato nella seconda illustrazione. Il suo grado di astrattezza, però (viene
descritto come un “arrugginito idolo monocolo”, STfd, p. 12), è innegabilmente inferiore
a quello posseduto dalle divinità dei due teologi.
29
Molto interessante, a questo proposito, il commento che Nencetti dedica al compito
dell’illustratore: “L’illustratore, conscio dell’infinita possibilità della parola non deve seguirla nelle regioni non rappresentabili dell’astratto e neppure deve ripetere il testo dove la
sua perfezione rende superfluo ogni altro commento, ma deve intendere a colmare i silenzi, le lacune, le reticenze della parte letteraria”. Angelo Nencetti, op. cit., p. 45.
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L’illustrazione 8
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pensieri più alti, e in perpetua contemplazione dell’immutabile – sono
mai vere e proprie vittime della Storia: questa scorre loro addosso senza
intaccarli, ed essi le sopravvivono proprio perché non ne avvertono il corso. In accordo con il testo le illustrazioni di Toppi raffigurano quindi, più
che il potere stritolatore della Storia, la sua sostanziale insulsaggine. Nella
finzione narrativa – e soltanto qui – Anan ben David non soffre stoicamente le avversità: le ignora. “[I]mmerso in chissà che pensieri, sostanzialmente assente” (STfd, p. 34), il rabbino sopravvive ad Auschwitz, e allo stesso modo inconsapevole fa ritorno nella sua personalissima terra
santa. La sua non è la storia di un uomo, ed è solo in parte la storia di un
popolo: più autenticamente, è la storia di uno spirito, che nulla, neppure
le barbarie della Storia, riescono a estinguere: “Proprio perchè questo popolo è stato perseguitato come nessun’altro, la sua storia è la storia del
suo spirito, non della sua persecuzione”, scrive Dürrenmatt (EüI, p. 24).
“Anche ciò che è accaduto al popolo tedesco tra il 1933 e il 1945” osserva poco più avanti, “è stato così orribile e assurdo da non poter essere
predetto né previsto” (EüI, p. 43). A provocare la Shoa, ammette Dürrenmatt, hanno concorso indubbiamente vari fattori concomitanti (la guerra
persa, una mistica idea di impero, un latente senso di inferiorità, la follia
collettiva, ecc.), ma i meccanismi più intimi restano, secondo lo scrittore,
imperscrutabili e assurdi, così come paradossale resta la loro conseguenza
storica più diretta: la nascita dello Stato di Israele. Chi poteva prevedere
che il nazismo avrebbe finito per scatenare ciò che in ogni modo aveva
cercato di impedire? Lo stesso Stato di Israele – scrive Dürrenmatt – deve
la sua esistenza, più che al movimento sionista, alla catastrofe del decennio precedente. “A dargli il diritto di esistere è l’imprevedibilità della Storia, non la prevedibilità della Storia, che non esiste” (EüI, p. 45). Il presente non è leggibile se non alla luce del futuro, e il carattere necessario
degli eventi non è altro, in quest’ottica, che una tardiva giustificazione
umana: “L’ineluttabilità che rinveniamo nella storia è soltanto qualcosa
che vi inscriviamo a posteriori. Ciò che riserva il futuro è incerto, per il
semplice fatto che la validità di un’analisi del presente può ricevere conferma solo dal futuro” (EüI, p. 43).
Al concetto di Storia come concatenazione causale di eventi Dürrenmatt non sostituisce, come questo racconto lascerebbe intendere, quello
di disegno divino – in cui non crede – bensì quelli di labirinto e di caso.
Il racconto si chiude, tuttavia, con un messaggio positivo: per una volta
s’intravede, nel disperante labirinto dürrenmattiano, uno spiraglio di lu-
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ce, senza tracce d’ironia. La via d’uscita al conflitto ebraico-palestinese –
leggiamo a conclusione del saggio e del racconto-apologo – va rintracciata sul piano dell’esistenziale, prima che nel compromesso politico: “La
tolleranza” scrive Dürrenmatt quasi a conclusione dell’Essay, “non è un’esigenza estetica ma un’esigenza esistenziale, che ognuno deve pretendere
in primo luogo da se stesso, prima che dagli altri. Prima della lotta per la
pace viene la lotta con noi stessi” (EüI, p. 145).
L’ultima illustrazione di Toppi è emblematica di queste contraddizioni: il labirinto non è debellato, anzi occupa l’intero campo visivo, ma in
un angolo, strette l’uno all’altra, stanno rannicchiate le due figure di
Anan ben David e Abu Chanifa, sopravvissute alla Storia e finalmente in
possesso di una nicchia di pace e di libertà. Qui, come in tutti i casi che
precedono, l’immagine valica di molto la mera illustrazione per tradurre,
con i mezzi espressivi che le sono propri, il discorso simbolico che il testo
ospita in profondità.
In un sapiente equilibrio tra evocazione e illustrazione, le immagini di
Toppi aggiungono al testo un completamento sia visivo che interpretativo: oltre alla peculiare combinazione e reazione reciproca di diversi piani
temporali, spaziali, narrativi, realizzata dalla sintesi compositiva operante
nelle singole illustrazioni, e alla forte connotazione emotiva e simbolica
imputabile all’intenso tratteggio, particolare rilievo assume lo slittamento
di accenti dai due soggetti agli altri attanti del racconto (predominanti
sui primi tanto a livello di frequenza figurativa che di dimensioni), con il
duplice effetto di elevare a universali i due personaggi (in modo forse più
immediato e perspicuo di quanto non faccia il testo narrativo) e di innescare una riflessione, più latente nel racconto, sul valore della Storia. Se
da una parte la riscrittura di Toppi fornisce, a un testo scarsamente visivo
quale quello in questione, un commento icastico, ricco di dettagli ed evocativo di un’atmosfera, dall’altra realizza quindi quella “co-invenzione” e
“critica parallela” che Eco auspicava per l’illustrazione.
Quelle di Toppi sono immagini ardue, dalla complessa temporalizzazione interna e dal fitto intricarsi di livelli, fruibili solo a patto di una lettura lenta e di un’attiva collaborazione da parte del lettore. Il delicato
equilibrio tra ciò che viene mostrato e ciò che rimane celato, infine, se da
un lato rispecchia appieno la tendenza del racconto a bilanciare sapientemente il detto e il taciuto, dall’altro rivela la maestria di Toppi nel “non
‘violentare’ l’immaginario del lettore con illustrazioni talmente ‘piene’ di
dettagli ed elementi descrittivi da non lasciare […] alcuno spazio all’ulte-
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riore elaborazione immaginifica e sognante. La capacità di ‘rappresentare’
creando illustrazioni dettagliate laddove necessario, ma essenziali nei loro
elementi, proprio per dare ‘conoscenza’ al lettore quanto basta per preservargli la possibilità dell’autonoma fuga nell’immaginario ed evocativo
personale”.30
30
Angelo Nencetti, op. cit., pp. 45, 47.