14 Realtà di Ubu di EG Carlotti «Le grand mérite du Père

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14 Realtà di Ubu di EG Carlotti «Le grand mérite du Père
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da BAUBO, 12, 1992 (stampa giugno 1993)
Realtà di Ubu
di E. G. Carlotti
«Le grand mérite du Père Ubu, c’est donc sa nullité. C’est la pièce prétexte où
le public met tout ce qu’il veut, la pièce où doivent nécessairement collaborer la
salle et la scène»1: con questo giudizio Robichez apre senz’altro una porta a chiunque voglia utilizzare il testo di Jarry ed elaborarne una messinscena capace di
introdurre spunti e motivi d’attualità nell’accogliente nulla ubuesco. Più che un
nulla, tuttavia, Ubu appare come uno spazio cavo, in grado di sostenere agevolmente qualsiasi senso gli si voglia assegnare, inglobandolo nella ‘vicenda’ della
propria resistibilissima ascesa e caduta, ove non solo il pubblico può mettere
tutto ciò che vuole, ma anche l’allestitore è obbligato a confrontarsi con il problema essenziale di fornire un’‘identità’ al personaggio. Tutto perciò è concesso – al
metteur-en-scène e allo spettatore –, finanche adombrarvi momenti ed eventi dell’attualità. Ma non è questo il punto, giacché il «merito» effettivo del personaggio sembra essere una superiore duttilità che permette una discesa sotto al contingente per evocare altro, qualcosa di – probabilmente – più profondo. (Tutto ciò
che è troppo basso diventa per conseguenza logica profondo).
Non per nulla, crediamo, è stato definito «grumo d’emersione» 2 dell’inconscio – individuale e/o collettivo, a scelta –: nella temperie coeva, il materiale di
Ubu si configura come il prodotto di un processo di distillazione che è l’inverso
di quello dei simbolisti, quasi ne avesse raccolto le fecce scartate. Proprio come se
alla tragicità quotidiana percepita attraverso silenzi, fragranze, sentori lievi e accordi essenziali dell’anima, si sostituisse una comicità inverosimile raggrumata
nei frastuoni, negli odori, nelle cacofonie del corpo. Dal teatro dell’anima al teatro del corpo, quindi. Tuttavia, secondo quanto ci viene riportato circa la ricezione pubblica della rappresentazione, Ubu Roi non fu giudicato, all’epoca, quel
principio della fine della stagione simbolista come, invece, pare essersi attualmente cristallizzato nella critica teatrale. Né i simbolisti si scandalizzarono, né i
loro avversari si premurarono di fare distinzioni fra questa e le precedenti rappresentazioni del Théâtre de l’Œuvre. Era, cioè, in sintonia perfetta col clima dell’epoca, o – come la definì Arthur Symons – «una farsa simbolista».
«Lo swedenborghiano dott. Misès ha eccellentemente comparato le opere ru1. Jacques Robichez, Le Symbolisme au théâtre, L’Arche, Paris 1957, pp. 358-9.
2. Umberto Artioli, Teorie della scena dal naturalismo al surrealismo, Sansoni, Firenze 1972, p.
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dimentali con le più perfette e gli esseri embrionali con i più completi, in quanto
ai primi mancano tutti gli accidenti, protuberanze e qualità, il che lascia la forma
sferica o quasi, come l’ovulo e il signor Ubu»3: così Jarry nel discorso per la prima
dello spettacolo, e ciò sarebbe sufficiente a corroborare quanto sopra (les extrêmes
se touchent, o, con il titolo d’un articolo di Misès, extrema sese tangunt) ; ma quello
che ci sembra più interessante è il riferimento al dottor Misès, pseudonimo dello
psicofisico Gustav Theodor Fechner, la cui opera negli stessi anni esercitava ben
altra influenza sul fondatore della psicanalisi.
Autore sotto il suo pseudonimo di trattati del tipo L’anatomia comparata degli
angeli o La vita dell’anima nelle piante, Fechner è considerato attualmente come
uno degli ‘scopritori’ dell’inconscio, in particolare per la valutazione d’antitesi e
autonomia dalla vita della veglia della sua manifestazione, cioè la vita del sogno.
Da ciò è impossibile dimostrare un’influenza più che occasionale di Fechner su
Jarry, per quanto alcune coincidenze lo rendano un còmpito stimolante; tuttavia,
pur nella eterogeneità degli àmbiti d’emergenza, la concezione d’inconscio, come
si è sviluppata da Fechner a Freud e come è stata adattata ad Ubu, sembra aver
compiuto un percorso verso l’astrazione concettuale che non appariva tale in
principio. In breve: Fechner elabora la propria concezione inserendo l’inconscio
nel mondo notturno, invertendo i termini giorno-notte rispetto all’ideologia romantica, e così non già nel territorio dello spirito ma nella materia; Jarry fa di
Ubu il re di una Polonia (un nessun posto) che ci si offre come un anti-mondo
regolato da leggi similari a quelle del sogno e dell’inconscio, regno innanzitutto
materiale nel suo significato meno metaforico e più greve. Tutto ciò proprio nel
momento in cui la cultura coeva sembra giungere alla scoperta dell’inconscio
dopo aver esercitato – ed esaurito – il potere dell’occhio vigile di individuare ogni
segreto della materia.
James Hillman, in The Dream and the Underworld («Il sogno e il mondo infero»,
dove peraltro si occupa dell’eredità di Fechner in Freud), espone una sua personale visione del rapporto fra psicanalisi (o psicologia analitica) e materiale inconscio che ribalta i termini consueti e consolidati della questione:
Come il sogno è il guardiano del sonno, così il nostro lavoro sul sogno, il vostro e il
mio, sta a protezione di quelle profondità da cui il sogno nasce: l’ancestrale, il mitico,
l’immaginale, e tutte quelle nascoste invisibilità che governano la nostra vita. I sogni
sono i vigili fratelli del sonno, della fraternità della morte, araldi, custodi di quella notte
che giunge, e il nostro atteggiamento nei loro confronti può modellarsi su Ade, che è
3. Alfred Jarry, Discorso per la prima di «Ubu Re», in Essere e vivere, tr. it a cura di C. Rugafiori,
Adelphi, Milano 19843, p. 179.
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accogliente, ospitale, ma che pure porta inesorabilmente in basso, che è sintonizzato sul
notturno, sull’assenza di luce, e che è dotato di una spaventosa fredda intelligenza che
nella sua dimora dà alle condizioni incurabili dell’essere umano uno stabile rifugio4.
Il percorso di qui per arrivare a Ubu sembra impervio: un po’ meno se analizziamo, invece, il complesso Ubu sulla base di alcuni titoli di paragrafo del cap. VI
(Prassi) del succitato volume. In esso si tenta una rapida fenomenologia della
manifestazione del mondo infero nel sogno, e vediamo, in ordine sparso: la
rotondità, il mangiare rituale, odore e fumo, fango e diarrea, la baldoria, – tutti
aspetti che compaiono, seppure con forme e funzioni diversificate, nel testo. Come
compare il lapsus, il capovolgimento di senso, il nonsense, – anch’essi enumerati
fra gli aspetti tipici di questa manifestazione antitetica alle regole del mondo
diurno. Particolarmente interessante è una comparazione contenuta nel paragrafo intitolato «La baldoria», fra «l’esperienza capovolta» del mondo infero – in
particolare quello della tradizione egizia – e la sua «dimostrazione» diurna nel
«circo, dove ogni cosa sembra concentrata verso un unico scopo: rovesciare lo
stato naturale delle cose, un opus contra naturam che vince la gravità e costruisce
un mondo completamente pneumatico»5. Dove, mentre le esibizioni di trapezisti,
giocolieri e animali mirano direttamente alla sconfitta delle leggi naturali essenziali, in primis quella della gravità, «i clowns con bianche facce di morte, muti
quali anime del mondo infero, suonano una musica strana, cascano e vanno a
pezzi, sempre troppo lenti e smemorati, ripetono sempre gli stessi errori, sull’orlo
della diarrea e facendo di sé uno specchio vivente, mimano il nostro comportamento nel mondo supero»6.
Passare, come fa Hillman più sotto, dal clown ad Arlecchino, al Briccone, a
Ermes psicopompo – tutte immagini legate al mondo infero e al regno delle
ombre – è senza dubbio giustificato: a queste immagini si apparenta Ubu quando
ci apre le porte fra i due mondi, rappresentandoci – infatti «somiglia (per il basso)
a noi tutti»7 – nei nostri aspetti più ridicoli, o che ridicoli diventano d’un tratto al
solo spostare il sistema di riferimento del punto di vista. E, come Ermes, è capace
di guidarci all’interno della rappresentazione – che si fa un circo, un carnevale,
una festa – provocando, come all’epoca, il disagio mentale di chi ha visto venir
meno, in un contesto serio e cólto, i cancelli che separano la realtà dalla rappresentazione o viceversa.
4. James Hillman, Il sogno e il mondo infero, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1988, p. 190.
5. Ivi, p. 168.
6. Ibidem.
7. Alfred Jarry, Altra presentazione di «Ubu Re», in Essere e vivere, cit., p. 185.
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La festa antica e medioevale era un’irruzione del mondo infero nel supero
temperata dall’esistenza di delimitazioni temporali e, d’altro canto, predisposta
da precise esigenze politiche per scatenare sotto controllo forze che, se incontrollate, avrebbero messo in discussione l’ordine sociale di volta in volta vigente.
Nell’era moderna, ancora per necessità squisitamente politiche, la festa comincia
ad acquisire tratti di rappresentazione: l’aspetto visivo diviene fondamentale, la
partecipazione dello spettatore è preordinata allo spettacolo del potere, che così si
afferma e si giustifica. La situazione non muta quando è il Secolo dei Lumi a
dover riflettere sulla necessità politica della festa: «Ma, infine, quali saranno gli
oggetti di questi spettacoli? Niente, se si vuole... Piantate nel centro di una piazza
un palo con una ghirlanda di fiori, radunate il popolo e avrete una festa. Fate
ancora di più, fate degli spettatori uno spettacolo: fateli diventare attori anch’essi» 8. Come giustamente sottolinea Jesi commentando questo passo di Rousseau,
«era pur sempre una rappresentazione: una collettività che si riunisce per rappresentare una festa» 9; ma non voleva essere una rappresentazione, questo accadimento
auspicabile poiché socialmente utile, giacché il suo scopo era «rendere attuale
nella collettività il punto latente più lontano dai suoi bordi»10, e così regredire alla
fondazione mitica della collettività stessa. Il modello erano le feste dei ‘primitivi’
riportate dai primi etnologi, certamente non rappresentazioni, benché gli indigeni oggetto di osservazione fossero «veduti vedere» qualcosa. Ma il tempo e la
visione festivi male si conciliano con la credenza moderna che esista una rappresentazione, e quindi che si possa spacciare come realtà ciò che sta al di qua della
rappresentazione; per il ‘primitivo’ la realtà risiede comunque al di là. E non c’è
dubbio che una diversa religione abbia a che fare con ciò.
Le testimonianze sulla prima realizzazione scenica di Ubu ci offrono un quadro vagamente affine: si parla di «selvaggio», «primitivo», si invocano «disinfezioni»
ecc.; si reagisce, cioè, sotto evidente stimolo emotivo, all’irruzione di qualcosa
che si è visto; Yeats vi vede il «Dio Selvaggio», Symons l’uomo nella sua primitività
naturale, la critica teatrale francese ammassi di feci, pattume ecc., Mallarmé nota
la creta di cui è composto il «personnage prodigieux»11. Presumibilmente, proprio la fragorosa caduta della quarta parete aveva immerso gli spettatori in una
situazione festiva, e la spazzola da cesso dell’Ubu psicopompo indicava loro costantemente la stessa direzione verso il basso. Similmente agli etnologi settecente8. Jean Jacques Rousseau, Lettre à d’Alembert, cit. in Furio Jesi, La festa e la macchina mitologica, in
Materiali mitologici, Einaudi, Torino 1979, p. 86.
9. Ivi, pp. 95-6.
10. Ivi, p. 87.
11. Cfr. il nostro La scena dell’Ombra; il mito dell’Ubu Roi, in “Il Castello di Elsinore, IV, 12,
1991, pp. 59-70.
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schi, a noi d’Ubu rimane esclusivamente il «veder vedere», benché – per la vicinanza culturale con il fenomeno – siamo in possesso di informazioni di prima
mano più o meno agevolmente interpretabili.
Intercorso fra il fenomeno e noi lo sviluppo del concetto di inconscio, abbiamo quindi applicato il termine alla massa informe che va sotto il nome di Ubu.
Che è la stessa massa informe che affiora continuamente, in ogni suo aspetto
tragico e ridicolo, nella rappresentazione quotidiana del nostro essere nel mondo.
Origini e termine del processo sembrano convivere in una civiltà per la quale
perfezione delle regole e totale assenza di esse coincidono, tanto che alla coscienza collettiva, inserita in una molteplicità di rappresentazioni, ciascuna delle quali
artatamente mirata alla persuasione profonda del suo stesso essere realtà, è impossibile discriminare. Allo stesso modo – extrema sese tangunt – la perfezione dell’ordine e il disordine assunto a regola non presentano alcuna percepibile difformità; ma una situazione tale necessita che il controllo su di essa venga mantenuto
costante, con l’artificio della rappresentazione ripetitiva e ciclica dello stesso mito:
quello del sangue sparso che irriga e fertilizza, rinvigorendo, ed è tanto più efficace quanto più è mascherato sub specie realitatis, perché la realtà è una manifestazione dell’inconscio collettivo.
Ubu è la realtà.