Sul Brigantaggio meridionale dal 1799 al 1900
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Sul Brigantaggio meridionale dal 1799 al 1900
LICEO CLASSICO “TOMMASO CAMPANELLA” DI REGGIO DI CALABRIA RICERCA SUL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE DAL 1799 AL 1900 CLASSE II liceo SEZIONE F ANNO SCOLASTICO 2010-2011 PREMESSA La presente ricerca fa parte del progetto Fare gli italiani, culture a confronto ed è stata condotta nell'anno scolastico 2010-2011, sulla base di alcune letture critiche, dagli alunni della classe II sezione F del Liceo Classico “Tommaso Campanella”di Reggio di Calabria, coordinati dal Prof. Giuseppe Licandro. L'intento è stato quello di approfondire la conoscenza del fenomeno del brigantaggio nel Mezzogiorno, con particolare riferimento alla Calabria, esaminando le ragioni politiche che spinsero una massa non indifferente di contadini e di proletari del Sud ad opporsi dapprima al dominio francese, poi alla restaurazione borbonica e, infine, alla legislazione imposta dallo Stato italiano. Il lavoro è diviso in sette parti e spazia dalle origini del brigantaggio antifrancese, subito dopo il 1799, fino alla definitiva repressione del fenomeno intorno al 1870 , descrivendone alcuni dei più noti briganti della Calabria e facendo riferimento anche alle origini della “picciotteria” nel Reggino, nonché all'ultimo, per molti versi atipico, bandito calabrese, Giuseppe Musolino. In appendice è inserita una nota bibliografica con l'indicazione dei principali testi consultati dagli allievi. IL BRIGANTAGGIO NELLA PRIMA META' DELL'800 A leggere gli storici o gli scrittori che si sono espressi sul fenomeno del brigantaggio, emergono continuamente sentimenti, posizioni e valutazioni quasi mai concordi ed univoci; infatti il brigante è visto una volta come bandito feroce, un'altra come eroe leggendario in difesa dei deboli, oppure ad volte viene visto come un personaggio marginale della storia o come figura di grande rilevanza storico sociale. Sorvolando sul fatto che il fenomeno, come scrive lo storico francese Fernand Braudel, affondi le sue radici molto indietro nel tempo, e superando le molte generalizzazioni o le mode che pure hanno influenzato i giudizi sui briganti, questi ultimi devono essere considerati comunque, protagonisti di un momento organico della lunga “tragedia meridionale”. FERNAND BRAUDEL è stato un illustre storico francese. (1902-1985) Durante tutto il periodo in cui si sviluppò, i briganti furono utilizzati contro i baroni dai sovrani e contro questi dai baroni. Ma cominciamo il nostro studio da due momenti storici particolari: il 1779 e il 1806.In entrambi, il brigantaggio ebbe un ruolo decisivo nella lotta contro i francesi: in funzione reazionaria con l'irruzione delle masse contadine contro la borghesia giacobina e riformatrice nel 1799 e come protagonista della rivolta più ampia e drammatica nel 1806. La sua organizzazione irregolare ed anarchica non fu mai stimata come una vera e propria struttura militare anche perché,si diceva , composta da persone di origine “abbiette” e molto spesso da criminali e assassini che avevano raggiunto,in alcuni casi,anche i più elevati gradi dell'esercito,ma solo grazie ai favori dei Borboni, che li sfruttavano nella causa antifrancese. Altre volte furono confusi nel più vasto popolo amato,i cui obbiettivi secondo alcuni storici (Il Colletta ad esempio) erano ben diversi da quelli dei briganti. Insomma, districarsi tra il carattere socio-politico e quello criminale, tra vera insurrezione e brigantaggio è stato – e ancora oggi se ne discute – il tema che ha diviso e divide la storiografia su questo fenomeno. Le truppe francesi entrano in Napoli il 21 gennaio 1799 Museo di Versailles Comunque si deve pur dire che, nel decennio di inizio '800 i briganti avevano formato una estesa rete di piccoli e grandi “masse”, uscendo dall'isolamento individuale o di gruppi esigui. Infatti, il Ruffo, fu artefice della prima grande levata di massa di popolo e briganti, per arrivare fino a Napoli a combattere i francesi,levata risultata indispensabile alla Monarchia per riconquistare il Regno. Questo però significò anche aver posto delle pesanti ipoteche per il sovrano ed il suo potere politico, per cui le bande di briganti inglobate nell'esercito,dopo il periodo eccezionale del 1806 faticarono non poco ad accettare la loro emarginazione. Card. Fabrizio Dionigi RUFFO,dei duchi di Baranello e Bagnara (17441827) A livello locale il loro potere era enorme e sovrastante e la monarchia, non riuscendo a reprimerne la potenza, fu costretta a conquistarsi le sue simpatie. Il brigante Mammone, uno dei più feroci briganti,fu ucciso perché tra i più ostili e refrattari a cedere. Tuttavia il brigantaggio e i suoi effetti nella società divennero col tempo “normali” e, poiché non fu vinto,venne spesso usato e strumentalizzato. Episodi di violenza, omicidi, stragi e saccheggi da parte di briganti come Fra Diavolo, Sciarpa e Sciabolone si susseguirono successivamente. Ma, tornando all'analisi del fenomeno,ci si continua a chiedere da dove sia nato e come si sia sviluppato un così esteso moto di ribellione. Molti concordano sul fatto che le cause più profonde siano da ricercare nel sistema economico e sociale che aveva creato miseria, precarietà e forti squilibri delle risorse. Fra Diavolo [Michele Arcangelo Pezza] (1771-1806) è stato un noto brigante italiano Il caso più drammatico è rappresentato proprio dal brigantaggio in Calabria. Alcuni tentativi di ridistribuzione delle ricchezze e delle proprietà erano miseramente falliti e il conseguente rancore popolare si manifestò sotto forma di Sanfedismo o brigantaggio,talora strettamente intrecciati tra loro, sfociando in una vera e propria guerra. Stabilire se nel 1806 ci fu una vera insurrezione o fu solo un fenomeno di brigantaggio rimane controverso perché i due aspetti sono spesso mescolati e per giudicare la reale portata del fenomeno si devono considerare le conseguenze e gli effetti sull'assetto complessivo della società meridionale .Una svolta si ebbe con la discesa al Sud dell'esercito di Murat , allorché la polizia murattiana individuò 5400 briganti in Calabria rispetto ai 472 della Campania: cominciò allora una feroce repressione con un drammatico bagno di sangue. Ridotto nei numeri, nel ruolo e nella forza il brigantaggio rimase,tuttavia, vivo e mescolato all'opposizione dei contadini e della nuova borghesia agraria e manifestò la sua presenza con atti criminosi e di guerriglia. La Calabria Ulteriore in una mappa settecentesca La fine del sistema feudale, nel 1806, aprì nuovi scenari e le forze in campo si combatterono con nuovi obiettivi e nuove aspirazioni :i baroni persero la giurisdizione ed altri diritti connessi al feudo, la borghesia rafforzò l'assetto della grande proprietà ma i contadini, pur acquistando piccole quote di proprietà persero però molti diritti comunitari per cui la loro condizione rimaneva precaria. Sullo sfondo il fenomeno del brigantaggio persistette e, pur non assumendo mai il carattere rivoluzionario come afferma qualche storico,teneva sveglio nel popolo lo spirito di vendetta e di rivolta. In seguito tre furono i momenti di reviviscenza del fenomeno del brigantaggio: 1) nel quinquennio 1815-1820; 2) in coincidenza con il ritorno di Francesco I; 3) negli anni’40. Tutti e tre questi momenti coincidono con congiunture economiche avverse e si innestano con acute crisi politiche: la rivoluzione carbonara, i moti del ‘28 e la rivoluzione del ‘48. Forse non esistono veri collegamenti, ma non è senza importanza se in quei momenti il brigantaggio endemico acquistò nuovo vigore e rilievo politico. Insomma le mutate condizioni sociali scaturite dal regime di Murat, come si è detto, ridisegnano una società completamente diversa in cui i rancori della plebe si riaccendono. Nel 1814 Murat dichiara finito il brigantaggio e con esso decadute le leggi speciali per cui i delitti vennero condonati o ridotti. Il brigante tornava ad essere il delinquente abituale e con la restaurazione del 1815 Ferdinando dichiarava abolita l’azione penale nei loro confronti: la lotta al brigantaggio divenne una questione di reati comuni. Gioacchino Murat (1767-1815) è stato un generale francese, re di Napoli e maresciallo dell'Impero con Napoleone Bonaparte Ma qualche anno più tardi con la carestia dovuta agli scarsi raccolti e al forte aumento del prezzo del grano tornò la miseria la fame e con esse le lotte interne al ceto politico che, pur non essendo una causa diretta,alimentò il risveglio briganti che in questa fase si affiancò alla carboneria e al calderarismo, si diffuse cioè un perpetuo conflitto intrecciato alla situazione economica consentendo un reclutamento di nuove forze di briganti. In questo contesto emergono le figure di due capi di briganti: Gaetano Meomartino detto Vardarelli e don Ciro Annicchiaro, detto Papa Ciro, prete brigante. Diversissimi tra loro, rappresentano, tuttavia, molto bene la fenomenologia di questa fase del brigantaggio politico. Guerrigliero il primo, fuggiasco il secondo: i due briganti hanno in comune la loro provenienza filo borbonica, sono stati entrambi carbonari e attuano un brigantaggio di tipo populista a favore dei contadini. Operano in un ampio territorio tra Capitanata, Molise e Puglia. S’incontrano molto poco, agendo invece in maniera del tutto autonoma, anche se entrambi avevano però una forte componente popolare che spiega la simpatia e la solidarietà delle plebi rurali. Di fronte ad un così grave movimento brigantesco, che coinvolgeva più province ed era avviluppato al mondo settario in tempi di profonda crisi, il governo/dopo il fallito tentativo di repressione, venne a patti coi briganti. Il caso Vardarelli fu clamoroso e portò fino alla firma solenne di una “convenzione” tra brigante e amministrazione politico-militare e si concluse dopo le stragi di Ururi e di Foggia, con la morte di Vardarelli, dei suoi fratelli e di 20 uomini della sua banda. Con Annicchiaro, il brigante prete, non si scese mai a patti, egli fu arrestato, dopo due mesi di lotta e fucilato sulla piazza di Francavilla Fontana. Dopo la fallita rivoluzione del 1820, crollato il “colosso” carbonaro, gli effetti, come la rottura tra borghesia e ceti rurali, furono durevoli e irreversibili anche quando salirono al potere prima Francesco I e poi Ferdinando II. Il brigantaggio fu in questo periodo poco diffuso anche in Calabria, regione dove il fenomeno è presente, ma ridotto a poche bande di 10-15 uomini. Ovviamente un fenomeno di così vaste radici nel costume e nella società era tutt’altro che spento. Esso negli anni a seguire rinasceva ogni qualvolta la conflittualità di base si riacutizzava e quando s’entrava in fasi di crisi politica ed economica. Si sviluppò, quindi, una nuova fase di brigantaggio criminale e sociale che trovava appoggi nelle campagne, anche se non si legava ad un preciso fermento politico diffuso. Le cause della reviviscenza di questo periodo furono da un lato, lo sviluppo demografico del Meridione, con tassi di crescita elevati rispetto al passato, senza un correlato aumento delle risorse; dall’altro, la crisi finanziaria seguita allo sforzo della rivoluzione del ‘20 e i raccolti magri del periodo che va dal 1821 al 1827. Se si aggiunge poi che il sovrano Francesco I aveva riaperto la crisi politica anziché risolverla, con la sua risposta reazionaria alla domanda riformista, il terreno per un risveglio di ribellione era bello e pronto e il brigantaggio ritrovava quasi naturalmente lo spazio perduto. Seguì come prevista una forte reazione militare con esecuzioni e arresti spesso indiscriminati che testimoniavano un sentimento di paura nel potere e di ribellione nei ceti popolari. Se si guarda poi all’età di Ferdinando II e soprattutto agli anni 1830-1848 colpisce il fatto che quella fase di progresso economico e civile si chiuse non solo con una pagina rivoluzionaria nel 1848, ma con una altrettanto pericolosa fase di brigantaggio che precedette e seguì la crisi politica stessa. Per cui, in un certo qual modo, risultò ancora più complessa e controversa la terza fase di reviviscenza del brigantaggio, almeno fino alla rivoluzione del ‘48, alla quale sopravvisse. Non più solo come conseguenza del conflitto a sfondo sociale o effetto di crisi economiche: anche quando la situazione è in forte crescita e si registrano evidenti evoluzioni della società, ad alimentare il risveglio del fenomeno del brigantaggio è la nuova struttura delle classi sociali che via via andava formandosi negli anni. Ferdinando Carlo Maria di Borbone (1810 -1859) è stato re del Regno delle Due Sicilie Il tipo di sviluppo economico aveva prodotto una nuova fase, più grave, di miseria delle plebi rurali, palpabile fino alla sussistenza. Molte zone del sud avevano visto crescere la produttività, ma si era spostato ulteriormente il reddito a favore della borghesia agraria e dei gruppi commerciali monopolistici a danno della media e della piccola proprietà, mentre si registrava la proletarizzazione dei ceti contadini, che fruivano, insieme ai bracciantili salar! reali sempre più bassi. Insomma si stava creando un miscuglio pericoloso di nuovi e vecchi rancori e rivendicazioni mal soddisfatte. Una miscela esplosiva che porterà fino ed oltre il ‘48, ma che in certe zone, e in Calabria in particolare, si legherà al mai sopito fenomeno del brigantaggio che rialza la testa: mentre i moti fallivano (vedi i tentativi dei fratelli Bandiera o di Mosciaro e Mauro), in Calabria restava la sostanza della guerriglia e nasceva il mito romantico del brigante rivoluzionario. Il caso di Talarico, nuovo capo della Sila, ripeteva m qualche modo quello del Vardarelli: brigante e potere politico venivano a patti. Talarico godeva di una forte solidarietà e contava molto più delle autorità costituite. Finì la sua esistenza con una pensione dello Stato. Il brigantaggio era comunque più che vivo e rigoglioso e ricostruì la fitta rete delle sue bande e delle scorrerie. Per arginarla fu necessario molto tempo e un gran dispiego di forze militari, nonché di leggi speciali. In conclusione dell’analisi di questo periodo, la prima meta dell’800, si può affermare che il brigantaggio esprimeva, a suo modo, il profondo malessere delle plebi rurali ed era una risposta primordiale e violenta alla progressiva espropriazione dei diritti contadini. Qualche mese più tardi, allo scoppio della rivoluzione del 1848, contadini e braccianti lasceranno i loro tuguri per andare ad occupare le terre e più avanti si creerà un forte movimento che metterà in crisi la stessa borghesia, impedendo ad essa la sua rivoluzione, quella borghese,appunto. Sofia Speranza I CARATTERI GENERALI DEL BRIGANTAGGIO DOPO L’UNITÀ D’ITALIA L’Unità d’Italia costituisce la più importante conquista storico-politica conseguita negli ultimi secoli dalle popolazioni della penisola. Tale conquista non avvenne però grazie a un corale impegno di tutti i ceti e di tutte le popolazioni, fu voluta e ottenuta da una minoranza ed è rimasta a lungo incompiuta e incompresa per vasti strati della popolazione. L’Unità non si è raggiunta facilmente, ma è costata lacrime e sangue. L’incontro fra il Nord e il Sud del Paese è stato particolarmente difficile. La retorica risorgimentale e la carità di patria hanno fatto passare sotto silenzio che per più di un decennio dopo la proclamazione del Regno d’Italia si è combattuta nel Mezzogiorno una vera e propria guerra civile. Il fenomeno del brigantaggio, diffuso nel Meridione della penisola italica, non nasce nella metà dell’800; questo ebbe, però, modo di intensificarsi proprio in quegli anni, a causa dell’Unità d’Italia. Tra il 1860 e il 1870 fu dichiarata una guerra contro questo fenomeno, che finì per indebolire le già precarie condizioni del Sud. Si distinguono due grandi fasi nelle vicende del brigantaggio: una prima, che va dal 1860-1861 al 1864-1865, nella quale appare più seria la minaccia politica e militare al nuovo Stato unitario; la seconda, che si protrarrà fino 1869-1870, nella quale l’azione dei briganti costituirà l’espressione di un disagio circoscritto, incapace di mettere in pericolo l’assetto istituzionale. Carmine Crocco, Cosimo Giordano, i fratelli Giona e il sergente Romano, erano solo alcuni tra i principali briganti, che imperversavano in quel periodo, commettendo i più efferati ed illeciti atti. Pensare che costoro agivano spinti dal desiderio del ritorno dei Borbone, non è affatto sbagliato. Franceschiello, per esempio, dovette abbandonare Napoli, il 6 settembre del 1860, a causa dello sbarco di Garibaldi e, in seguito, sostenne la lotta brigantesca. È pertanto naturale che i briganti vedessero di buon occhio i sovrani delle Due Sicilie, piuttosto che il re di Sardegna. Francesco II di Borbone, Il brigante Carmine Crocco Pasquale Domenico Romano, noto come Sergente Romano . Ma come nel caso del brigante Crocco, a volte erano loro stessi restii ad attaccare grandi centri urbani, dal momento che ciò avrebbe fatto sì che il potere militare venisse ceduto a terzi, potere che per un preciso calcolo politico era preferibile mantenere circoscritto nei boschi. In più con il ritorno dei Borbone sarebbe venuta meno, anche, la causa per la quale commettere le suddette scorrerie, limitando gli introiti di varia natura, ma soprattutto “il prestigio”, di cui costoro tanto andavano fieri. Il Regno d’Italia rispose in maniera ferma e feroce. Furono inviati fanti, carabinieri e bersaglieri, i quali però non erano adatti agli scontri con i “malandrini”. Quest’ultimi, infatti, agivano liberamente e, anche se in numero minore ai repressori, avevamo il vantaggio di conoscere la morfologia del territorio e le cavità naturali. Per tale motivo le forze armate, non riuscendo a contrastare i principali esponenti di questo fenomeno, colpivano a volte paesi inermi, ove i briganti compivano gesti deplorevoli, al fine di ristabilire l’ordine. È doveroso fare, però, una netta distinzione tra briganti neoborbonici, a cui prima si accennava, e quelli delle Calabrie; costoro infatti erano inizialmente spinti dalla mancata risposta alla questione agraria. Ai contadini non furono dati a prezzi modici quelle parti dei territori demaniali ed ecclesiastici che legalmente spettavano loro, bensì questi terreni finirono per ingrassare i guadagni, già opulenti, dei borghesi e degli ex feudatari. Sia i Borbone sia i Savoia non posero la giusta attenzione verso questo annoso problema, che fu una delle cause principali delle scorrerie brigantesche. Nonostante Francesco II fosse a Roma (fuggì da Gaeta il 13 febbraio 1861), egli tentò ugualmente la presa del Meridione attraverso alcuni personaggi, che diedero vita al legittimismo borbonico. Le bande borboniche avevano quasi la stessa consistenza di quelle della Santa Fede del cardinale Ruffo. Siffatte bande miravano a “riportare in vita” il trono duosiciliano per consegnarlo, nuovamente, nelle mani di Francesco II, utilizzando metodologie del tutto simili a quelle garibaldine. La cattiva organizzazione, dovuta soprattutto alle ristrettezze economiche del sovrano, finì per portare verso il fallimento alcuni tentativi. Josè Borjes e Rafael Tristany, che sull’esempio di Garibaldi volevano effettuare uno sbarco seguito dall’arruolamento di truppe che avrebbe amplificato l’insurrezione, non portarono a buon fine le loro operazioni. Con il passare del tempo si perse anche quello spirito che spingeva a compiere tali azioni e, conseguentemente, ci fu un aumento della criminalità comune, più congeniale al brigantaggio. Aumentarono, così, i reati, a causa della creazione di decine di bande (i cui componenti non ebbero mai la pretesa di farsi passare per filo-borbonici), responsabili delle più atroci nefandezze. Antonino Suraci Angelo Ventura José Borjes, nome in catalano Josep Borges è stato un generale spagnolo, inviato da re Francesco II di Borbone per riconquistare il perduto Regno delle Due Sicilie dopo l'unità d'Italia, cercando di sfruttare il fenomeno del brigantaggio. LE FORME DI BRIGANTAGGIO DOPO IL 1860 Franco Molfese, nel saggio Storia del brigantaggio dopo l’Unità d’Italia (Feltrinelli), con la piena consapevolezza del grave spreco di risorse economiche-umane, si chiede se era possibile evitare la rivoluzione borghese-liberale nel Sud e avere dei rapporti diversi con le masse contadine. La risposta del Molfese è che il grande dramma del brigantaggio sarebbe potuto esser di molto ridotto nel tempo, nello spazio e nell’intensità da una differente politica dei governi unitari moderati, anche perché era un fenomeno inevitabilmente sorto a causa del crollo della monarchia borbonica, della crisi economico-sociale, di fattori strutturali e contingenti e per le sollecitazioni di carattere politico e tradizionale. La grande “reazione” del 1861 rappresentò la matrice del grande brigantaggio durato tino al 1864, mentre il brigantaggio in generale durò fino al 1870. Il consenso popolare e borghese, che nel 1860 aveva accolto l’avanzata garibaldina delle provincie meridionali e aveva reso possibile la caduta della monarchia si era trasformata in malcontento a causa della politica dei moderati che vollero solo reprimere, centralizzare, addossare carichi all’economia meridionale e monopolizzare il potere. Il clero venne vessato e spaventato senza che il suo potere economico venisse scalfito. Ai contadini fu promessa la ripresa delle operazioni demaniali che non avvenne mai. I moderati vollero reprimere fin da subito l’anarchia del Mezzogiorno con la forza ma al momento critico non ebbero forze militari a sufficienza per domare la situazione. Erano poi caratterizzati dal timore di complicazioni internazionali e dal conservatorismo politico e sociale. I loro timori erano validi fino al 1860 quando ancora la dittatura dell’esercito garibaldino poteva provocare potenziali pericoli. I moderati avrebbero potuto ottenere nel momento risolutivo della crisi la collaborazione dei democratici e dei garibaldini, ma essi respinsero questa possibilità e procurarono quella rottura che approfondirono successivamente con la discriminazione retta a sistema di governo. Ma comunque una forma di dialogo fra le parti ci fu lo stesso, perché il brigantaggio era un problema che riguardava tutti e in qualche modo doveva essere risolto. Per poter esaminare meglio tale fenomeno bisogna vedere come il potere nel Meridione era conteso tra moderati, democratici e reazione borbonico-clericale. I moderati lottarono su due fronti con molta più energia e continuità dei democratici e dei reazionari, ma questo tipo di lotta non solo non permetteva di combattere il brigantaggio ma lasciava la possibilità di una restaurazione legittimistica. resa possibile da eventi internazionali o da cambi di posizione politiche. Il successo finale l’ottennero i moderati ma a un prezzo altissimo sul piano costituzionale-politico. La repressione del brigantaggio contribuì ad imprimere all’apparato dello stato unitario un’impronta burocraticopoliziesca in funzione anti-contadina e anti-popolare ed instaurò in esso la forte influenza del potere militare. In questo modo venne meno la fiducia nelle istituzioni rappresentative e nelle garanzie costituzionali. La Destra attuò una vera e propria dittatura escludendo dai benefici statutari quasi tutto il Mezzogiorno e le correnti politiche avversarie. Il brigantaggio nasce dalla crisi generale della società meridionale ed ha anche uno stretto legame con i tre gruppi politici presenti. Lo scopo dei contadini che sostenevano il brigantaggio era di ottenere quotizzazioni demaniali e la conservazione degli usi civici. I salariati-briganti aspiravano al pane, alla libertà, anche alle vendette come forma di rozza giustizia, dibattendosi nelle strette del carovita, della disoccupazione, dei redditi insufficienti. Il brigantaggio perciò è la manifestazione estrema ed armata di un movimento di protesta di una massa contadina e arretrata . Le uniche motivazioni politiche che giustificano queste lotte armate erano quelle della restaurazione borbonico - clericale che però dopo il 1861 perdono di significato e diventano solo il “pretesto” all’azione delle bande brigantesche. Il brigantaggio non è solo una reazione alla pressione statale ma anche ai gravami imposti dallo Stato unitario. I contadini meridionali furono molto attivi soprattutto nel contrastare, armati, la rivoluzione borghese liberale e a stabilirne i limiti, anche se la grande protesta venne repressa con la forza. Secondo Francesco Saverio Nitti. il brigantaggio era un fenomeno sociale attraverso il quale la borghesia rurale sottometteva i contadini. Massari, deputato del collegio di Bari, ebbe modo di completare e di sviluppare il suo pensiero sull’argomento grazie alle analisi e ai giudizi raccolti nel corso di un indagine svolta nel Mezzogiorno dalla Commissione parlamentare d’inchiesta del 1863. Nella famosa relazione del maggio del 1863 Massari spiegò che tra le cause del brigantaggio vi è lo stato di estrema miseria in cui versava il proletariato. Tale affermazione fu confermata dal fatto che nelle provincie dove i contadini possedevano le terre, risultava minore il flagello del brigantaggio. Le zone maggiormente colpite erano: Capitanata, Basilicata e Vastese dove il brigantaggio appariva come un fenomeno inestirpabile mentre nelle tre Calabrie, Puglia, Terra di Lavoro e Abruzzo i rapporti tra contadini e proprietari erano posti su base più equa e quindi il brigantaggio non riusciva a porre basi solide. Le testimonianze dei militari che parteciparono alla repressione del brigantaggio mirarono a stabilire il carattere fondamentale della rivolta sociale ponendo l’attenzione sulla piaga dei bassi salari. Il generale Covone, che comandò la zone militare di Gaeta dall’estate del 1861. mise in evidenza il fatto che la crisi politica del Mezzogiorno era soltanto “la causa determinante e occasionale” del brigantaggio. Francesco Saverio Nitti (1868-1953) Il capitano Alessandro Bianco raccolse in un suo volume delle statistiche che testimoniano l’aumento dei salari in rapporto ai crescenti prezzi dei generi alimentari essenziali. Egli documentò la concentrazione della proprietà terriera nella provincia dell’Aquila e lanciò invettive contro la corruzione e l’intera prepotenza dell’intera classe dei “gentiluomini”. Secondo Vialardi, le cause del brigantaggio calabro riguardano il “rapporto sociale” tra ricco e proletario: essendo quest’ultimo lasciato senza lavoro, si trova privo di ogni mezzo di sussistenza per se e per la propria famiglia. L’analisi del Covone punta su una riorganizzazione amministrativa affidata a pochi onesti commissari governativi. Antonio Mosca aveva accennato ad un atroce “antagonismo” fra i proletari e i proprietari della campagna napoletane, ponendo in rilievo il carattere politico più di quello sociale. Secondo Mosca, i proletari ritenevano il governo unitario un governo della classe proprietaria e pensavano che i loro interessi e i loro veri rappresentanti erano stati sconfitti insieme alla dinastia borbonica. Una posizione particolare spetta agli autonomisti moderati, Roberto Savarese e Enrico Cenni, i quali formularono acute osservazione sulle conseguenze del cattivo funzionamento delle amministrazioni locali elettive, sul fomite di contrasti da esse costituito e sulle “reazioni” scaturite. Ma le loro analisti limitarono agli aspetti politico-giuridici della generale crisi meridionale, trascurando di approfondire i motivi degli schieramenti delle varie classi. Il barone Alfonso Barrasco, senatore e grande latifondista calabrese, fece osservare che il brigantaggio ricorreva a mezzi che nessun partito politico avrebbe usato per “accattivarsi lo spirito politico” e ammise le cattive condizioni generali dei “nullatenenti” pur ritenendo migliore la condizione dei contadini calabresi rispetto a quelli lucani. Il risentimento dei proprietari terrieri verso la scarsa sensibilità del governo nei confronti dei ceti possidenti emerge in uno scritto indirizzato alla Commissione d’inchiesta sul brigantaggio da un proprietario di Trani, Fabio Carcani. il quale denunciava la delusione per gli errori governativi e i contrasti fra lavoratori agrari. Contrario alle precipitose divisioni dei beni ex feudali, suggeriva concessioni graduali e discriminate ad ex garibaldini poveri, guardie campestri, contadini e “artigiani infelici” in modo da promuovere la loro partecipazione attiva alla repressione del brigantaggio. Il gruppo ristretto degli esponenti della nobiltà latifondista e della borghesia agraria appare compatto, composti da conservatori tenaci e prammatici passati al regime unitario. La media e la piccola borghesia seguiva Libero Romano condividendo il parere che la sollevazione contadina dovesse esser sventata con lavori pubblici e con le quotizzazioni demaniali da condurre contemporaneamente alla repressione armata. I contadini del Sud combatterono per anni, contro forze preponderanti, una lotta senza speranza, condannata all’insuccesso. Gli esigui e isolati gruppi democratici del Mezzogiorno non pervennero a costituire una corrente centralizzata di opinione o tanto meno un partito politico definito. L’accentuazione della richiesta di una quotizzazione e di una censuazione dei beni ecclesiastici distingue i democratici e liberali progressisti dai gruppi liberali più moderati. Le testimonianze di elementi democratici delle provincie meridionali individuano la classe dei contadini senza terra come protagonista del brigantaggio. Malgrado i limiti posti dal governo e la tattica elusiva delle autorità militari, la commissione raccolse materiale documentario e uno dei suoi membri, Aurelio Saffi, adempì al compito di ricevere, esaminare e protocollare le informazioni circa tale fenomeno. L’analisi formulata da quest’ultimo si differenzia da quella svolta da Massari per un accento più critico verso la politica governativa, di cui attaccava l’acquiescenza nei confronti della politica francese a Roma, ossia la discriminazione anti-democratica e la tolleranza verso i borbonici praticate nelle provincie meridionali. Saffi inoltre collegò aspetti politici a quelli sociali riuscendo a comprendere le posizioni dei diversi strati cittadini. Il brigantaggio non presupponeva alcun carattere di protesta sociale e politica ma i briganti miravano ad impossessarsi dei viveri di tutti senza distinzione assalendo e usando violenza. I1 brigantaggio post-unitario viene invece inteso come una particolare forma delle rivolte contadine contro l’oppressione economico-sociale della borghesia agraria. Per quanto riguarda la questione demaniale essa si collega ai moti sociali contadini e al brigantaggio dei primi Aurelio Saffi ( 1819anni successivi all’unificazione. La nobiltà latifondista e la maggior parte 1890)Importante figura del Risorgimento italiano, Saffi della borghesia agraria del Mezzogiorno continentale furono borboniche fu un politico di spicco repubblicana finché il regime assolutistico non crollò improvvisamente. Tale crollo, dell'ala radicale incarnata da Mazzini, di cui è provocato dall’impresa garibaldina, fu accompagnato in tutte le provincie Giuseppe considerato l'erede meridionali da forti movimenti contadini che riaprivano in forma violenta la politico. questione demaniale. Questi moti imposero un riassestamento politico ai ceti possidenti obbligando la parte borbonica ad una conversione che si protrasse nel tempo. Una parte della nobiltà latifondista rimase legittimista mentre la maggior parte della borghesia agraria aderì al regime unitario per salvare privilegi della classe. La questione demaniale nei primi anni dopo l’unificazione costituì un motivo di agitazione e di mobilitazione locale sfruttato dai partiti liberale e borbonico a seconda delle situazione contingenti e municipali. La ripresa delle operazioni demaniali, che erano circa 2600 e che furono avviate nel gennaio del 1861, fu una conseguenza diretta dei moti contadini e delle “reazioni” del Mezzogiorno nell’autunno del 1860: però solo in dieci provincie (meridionali) su sedici i prefetti avevano provveduto ad organizzare gli uffici delle ripartizioni demaniali. Si può dunque affermare che una mancata attuazione delle operazioni demaniali mancò praticamente per tutto il 1861 e fu irrilevante per tutto il 1862. Il fatto che tali operazioni erano troppo tardate aveva determinato l’estirpazione violenta del brigantaggio prima delle quotizzazioni. È difficile stabilire quali strati contadini parteciparono al brigantaggio armato o al favoreggiamento di esso perché le statistiche giudiziarie dell’epoca raramente precisarono le categorie professionali degli imputati contadini. Fra le varie forme d’appoggio contadino al brigantaggio l’aspetto più rilevante fu quello delle informazioni fomite alle bande e negate alle forze repressive. Per quanto riguarda i briganti del periodo post-unitario, questi ultimi avevano un’umile estrazione sociale o erano ex soldati dell’esercito delle Due Sicilie. Le masse contadine si erano poste in movimento per cause economiche ma non erano ancora in grado di organizzare il Mezzogiorno d’Italia similmente alla Vandea controrivoluzionaria o alla guerriglia anti-napoleonica,/in quanto mancavano veri e propri capi legittimisti “napoletani” alla testa delle bande. I capi per emanare proclami s’avvalevano delle legalità impersonata da Francesco II. Questo sosteneva una parte dei briganti, la cui speranza in una restaurazione borbonica era continuamente alimentata dai comitati borbonici, dal clero reazionario e dai capibanda. Il passaggio dei contadini del Meridione al brigantaggio fu un fenomeno di massa che nasceva sia dalla miseria sia dalla povertà e non trovava altro mezzo che la violenza per la lotta contro l’ingiustizia, l’oppressione e lo sfruttamento. Il movente economico-sociale era dato da due principali sollecitazioni: l’impulso anarchico alla vendetta e la sete d’avventura I fattori “morali” e materiali che spingevano i contadini al brigantaggio erano sia il modo di guerreggiare alla partigiana, che risultava esser l’unico modo possibile contro le forze repressive regolari superiori, sia un coraggio particolare a cui era estraneo ogni timore della morte. La violenza contadina stimolata dalla repressione assunse un carattere indiscriminato colpendo i possidenti senza distinzione con carneficine di greggi e di armenti, incendi di raccolti e di masserie. Dopo il 186 i briganti attaccavano sempre più indistintamente in misura maggiore o minore a seconda dei tempi e luoghi. Le bande erano suddivise in: bande grosse (1861 al 1864) e bande piccole (dopo il 1861). Le bande grosse presentavano una struttura militare e si sforzavano di mantenere buoni i rapporti con le popolazioni mentre le bande piccole erano composte da ladri, assassini e praticavano il brigantaggio comune. Inoltre le bande presentavano basi stabili nei folti boschi dell’Appennino meridionale e ricevevano la paga dal loro capo: i danari venivano tratti dalle contribuzioni imposte ai proprietari oppure provenivano dal ricavato della vendita degli animali più grossi razziati e di altri oggetti rapinati. I briganti indossavano vestiti di panno nero con cappelli a larghe tese ornati di nastri rossi con calzoni a gamba e mantelli di lana di color bigio o nero ed erano armati della doppietta da caccia dei contadini. I sistemi di segnalazione erano multiformi e adeguati all’ambiente rurale, con colonne di fumo durante il giorno e falò la notte. Questo regime di vita comportava pernottamenti all’addiaccio, veglie, fame, marce, scontri ripetuti anche d’inverno. Si richiedeva grande robustezze fisica e una non comune resistenza alle privazioni. I feriti meno gravi venivano trasportati via, i più gravi venivano uccisi e cremati per impedirne il riconoscimento. Uno dei principali fattori fu l’eccezionale mobilità delle grosse bande che permetteva loro di correre fino a 50 miglia in una notte. Mentre i collegamenti che vi erano fra le bande permettevano loro adunate fulminee sotto il comando del capobanda. Il modo migliore di combattere contro la forza regolare era la guerriglia che consisteva nell’attaccare da varie direzioni, presso località dominanti accuratamente scelte, con vie di ritirata sempre aperte per i boschi o verso i monti. Erika Brancia Angela Cuzzocrea Ludovica Mangione Caterina Motta LA RELAZIONE MASSARI E LA LEGGE PICA II sedici dicembre dell’anno 1862 la Camera del neonato (“minorenne”) Regno d’Italia, nomina una commissione d’inchiesta al fine di studiare il brigantaggio nelle cosiddette “province napolitane” ossia nei territori dell’ex reame borbonico. Essa ha anche il compito, di accertare la reale responsabilità dell’esercito italiano che si oppone ai “malandrini” in maniera efferata. Nel maggio dell’anno successivo si concludono i lavori concernenti lo studio del fenomeno brigantesco e i risultati, raccolti in una relazione ad opera di Giuseppe Massari, vengono letti alla Camera. La Relazione sulle cause del brigantaggio meridionale (1863) è divisa in sei capitoli e illustra le cause e il carattere del brigantaggio. Essa si propone di attuare dei rimedi davvero onerosi per le popolazioni meridionali, quali la concessione di premi per chiunque denunci i briganti, la chiusura di forni, di masserie e di industrie ecc., e in più auspica che «la cognizione dei reati di brigantaggio deve essere deferita ad una giurisdizione che non sia quella dei tribunali ordinari» (G. Massari, Relazione sulle cause del brigantaggio meridionale (1863), in S. Castagnola - G. Massari, Il brigantaggio nelle province napoletane, Forni, 1989, p. 155). Con l’affermazione sopra citata s’intende mirare alla promulgazione di una legge che decreti un vero, e proprio “stato d’assedio”: «Il brigantaggio è la guerra contro la società, praticando dunque a suo riguardo la giurisdizione che si pratica in tempo di guerra, non si offende nessun principio, non si lede nessuna guarentigia, non si manca a nessuna norma di equità» (Ivi, p. 156) . Ciò finisce per far approvare una legge deleteria ai massimo per le province dell’ex Regno Duosiciliano, ossia la Legge 1409 del 1863, meglio nota come “Legge Pica”, della quale si parlerà di seguito. Nella relazione, inoltre, viene apertamente fuori l’odio e la supponenza dei “piemontesi”, anche se Massari, oltre a definire in modo davvero colorito i meridionali («orde di masnadieri», «contadiname», «crudele flagello»), accenna ai disordini cagionati dall’esercito governativo, ma attribuisce comunque la colpa del brigantaggio a Roma e, pertanto, alla parte clericale. Egli si guarda bene dall’inimicarsi i potenti signori meridionali, che facevano vivere i braccianti in maniera disumana, limitandosi a parlare del malgoverno dei precedenti re borbonici. Nella loro indagine, inoltre, i nove membri del governo non si premurano neppure di ascoltare i briganti che si trovano nelle patrie galere, mentre viene ascoltata soltanto la voce dei signori filo-governativi. La legge, presentata dal deputato Giuseppe Pica, viene promulgata da Vittorio Emanuele II il 15 agosto del 1863 e rimane in vigore sino al 31 dicembre del 1865. Essa è denominata Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Province infette e costituisce un mezzo tanto eccezionale, quanto brutale, di difesa contro il brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno, attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza. La legge è costituita da nove articoli, coi quali vengono creati i tribunali militari, a cui passa la competenza in materia di reati riconducibili al brigantaggio stesso Giuseppe Massari (1821-1884) Ai sensi del primo articolo del provvedimento legislativo è dichiarato brigante chiunque sia trovato armato, in gruppo di tre persone. La legge, in più, contempla, per la prima volta il provvedimento restrittivo del domicilio coatto che si attribuisce al reato di eccitamento al brigantaggio. Vengono anche istituiti i Consigli inquisitori, ai quali viene deputato il compito di redigere le liste con i nominativi dei briganti. Probabilmente, però, la più importante peculiarità delle Legge Pica è il suo valore retroattivo, per cui essa può essere applicata anche ai reati contestati prima della sua promulgazione. Già al tempo dell’approvazione viene largamente contestata (ad esempio, da Giuseppe Ferrari e Luigi Menabrea), in quanto sospende la garanzia dei diritti costituzionali presenti nello Statuto Albertino, a tal punto che nel 1864 Vincenzo Padula, nelle note di un suo dramma teatrale, giunge a scrivere quanto segue: «II brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione» (V. Padula, Antonello capobrigante calabrese: dramma in cinque atti, Feltrinelli, 1952). Sotto il comando del generale Enrico Cialdini, come ricorda Pasquale Amato, «il governo fu costretto ad inviare un esercito di 120.000 soldati, cui si aggiunsero 90.000 componenti della Guardia Nazionale» (Pasquale Amato, Il risorgimento oltre i limiti e i revisionismi, Città del Sole, p.152). Nonostante il rigore che la caratterizza, la Legge Pica non sortisce subito gli effetti sperati dal governo, infatti l’attività insurrezionale si protrae sino al 1870. Anche se nel 1869 vengono catturati i guerriglieri delle ultime bande e, nel gennaio del 1870, il governo sopprime le zone militari nelle province meridionali, sancendo così la fine ufficiale del brigantaggio, ancora negli anni Settanta del Secolo Decimonono, si continuano a perpetrare omicidi, furti ed estorsioni, grassazioni. Tra il 1876 e 1877 si annoverano, nel circondario di Gerace 111 omicidi, 693 furti e 522 arresti. Secondo Isabella Loschiavo Prete, infatti, «il brigantaggio si trasformerà successivamente in male endemico, deviando in forme più violente e prendendo la denominazione di mafia. La sua virulenza, attraverso i secoli, dimostra l’inefficienza del potere statale, che non ha risolto la questione meridionale, incrementando la disoccupazione» (I. Loschiavo Prete, II Brigantaggio nella Prima Calabria Ultra, Città del Sole Edizioni, 2010, p. 130). Tommaso Fragomeni Marta Laurendi Claudia Merenda Antonino Suraci Angelo Ventura \ LE STRAGI DIMENTICATE DEL 1861 Secondo quanto sostiene Pino Aprile, autore di Terroni (Piemme, 2010), accanto alla storia ufficiale del Risorgimento ve n’è un’altra, rimasta a lungo semiclandestina perché giudicata poco rispettosa delle “patrie memorie”. Solo da poco si è avviato un processo di revisione critica, a cui molti hanno contribuito e contribuiscono. Il brigantaggio in realtà fu, agli inizi, un movimento di vera e propria “resistenza “ contro liberatori rivelatisi ben presto degli oppressori; non fu lotta di classe per il possesso delle terre, ma guerra di difesa contro l’invasore, in nome di Dio e del re Borbone. «Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me è accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell’unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell’abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori». Questo è quello che riporta Francesco Saverio Nitti in Scritti sulla questione meridionale (Laterza, 1958, p. 44). Ma sono tanti gli autori che si sono interessati della situazione risorgimentale e del brigantaggio, così come tanti personaggi del mondo culturale e politico non solo italiano hanno scritto rimostranze su quello che stava succedendo al Sud Anche Benedetto Croce, nella sua Storia del Regno di Napoli, ipotizza come poter risolvere il problema: «Una buona legge sul censimento, a piccoli lotti dei beni della Cassa ecclesiastica e demanio pubblico ad esclusivo vantaggio dei contadini nullatenenti, e il fucile scappa di mano al brigante. Date una moggiata al contadino e si farà scannare per voi, e difenderà la sua terra contro tutte le orde straniere e barbariche» (B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, 1966, p. 338). Le stragi che vennero perpetrate ai danni della popolazione inerme, e spesso solo per rappresaglia, furono innumerevoli, e in tutto il territorio del Regno delle Due Sicilie, ma vennero per lungo tempo celate. Le più tremende avvennero il 14 agosto 1861: due paesi campani, Casalduni e Pontelandolfo, furono rasi al suolo dall’esercito italiano, su ordine del generale Enrico Cialdini. A Pontelandolfo tre case rimasero, di Casalduni nulla. Né si sa quanti furono uccisi per ritorsione, per aver appoggiato un’azione brigantesca contro una colonna piemontese, che venne annientata. Ma il male eccede sempre, e anche Campolattaro, un paese vicino, fu incluso nella ritorsione, con qualche fucilazione, così, en passant. Antonio Ciano, in Savoia e il massacro del Sud (Grandmelò, 1997) riporta stime di oltre 900 vittime, ma c’è chi parla di molte di più. Giuseppe Ferrari, deputato del nuovo stato, parla anche di 3000 profughi, e riferisce in diverse relazioni al nuovo governo le sue perplessità su quanto visto: «Non potete negare che intere famiglie vengano arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi». E ancora: «Potete chiamarli briganti ma combattono sotto la loro bandiera nazionale. Potete chiamarli briganti ma i padri di quei briganti hanno riportato per due volte i Barboni sul trono di Napoli. È possibile, come il mal governo vuole far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120.000 uomini? Ho visto una città di 5 mila abitanti completamente rasa al suolo non dai briganti» (cfr. Patrick Keyes O’Clery, La rivoluzione italiana, Ares, 2000, passim). La storia del massacro di Pontelandolfo negli anni ‘70 è diventata una canzone degli Stormy Six: Pontelandolfo. Eccone il testo: «Era il giorno della festa del patrono / E la gente se ne andava in processione / L’arciprete in testa ai suoi fedeli / Predicava che il governo italiano era senza religione / Ed ecco da lontano / Un manipolo con la bandiera bianca / Incline ad inneggiare a re Francesco / Ed ecco tutti quanti Ti a gridare / Poi si corre furibondi al municipio / E si bruciano gli archivi / E gli stemmi dei Savoia // Pontelandolfo la campana suona per te / Per tutta la tua gente / Per i vivi e gli ammazzati / Per le donne ed i soldati / Per l’Italia e per il re.// Per sedare disordine al paese / Arrivano quarantacinque soldati / Sventolando fazzoletti bianchi / In segno di pace, ma non trovano nessuno. / Poi mentre si preparano a mangiare / II rumore di colpi di fucile / Li spinge ad uscire allo scoperto / E son presi tutti quanti prigionieri / Poi li portano legati sulla piazza / E li ammazzano a sassate /Bastonate e fucilate. Pontelandolfo la campana suona per te / Per tutta la tua gente / Per i vivi e gli ammazzati / Per le donne ed i soldati / Per l’Italia e per il re. // La notizia arriva al comando / E immediatamente il generale d’aldini / Ordina che di Pontelandolfo / Non rimanga pietra su pietra / Arrivano all’alba i bersaglieri / E le case sono tutte incendiate / Le dispense saccheggiate, le donne violentate, / Le porte della chiesa strappate, bruciate / Ma prima che un infame piemontese / Rimetta piede qui, lo giuro su mia madre, / Dovrà passare sul mio corpo. // Pontelandolfo la campana suona per te / Per tutta la tua gente / Per i vivi e gli ammazzati / Per le donne ed i soldati / Per l’Italia e per il re». (Pontelandolfo, ne L’unità, First, 1972). La storia della fine del Regno delle Due Sicilie è una storia matrigna, e spesso ciò che è stato scritto sui libri ha avuto l’unico scopo di infangare e annullare la memoria storica, di cancellare le radici di un popolo che aveva osato rifiutare la libertà giacobina e savoiarda. Guardati con sospetto, tenuti sotto il tallone del più feroce e arbitrario dispotismo, briganti ieri, camorristi e mafiosi oggi. Briganti erano le centinaia di migliaia di Duosiciliani uccisi negli scontri con l’esercito invasore, trucidati nelle loro case, briganti erano gli abitanti di 54 paesi rasi al suolo, briganti erano le donne violate, i preti crocifissi, i 56.000 soldati borbonici chiusi nei campi di concentramento di San Maurizio Canavese e di Fenestrelle a morire di fame e stenti. Ma, per battere quei briganti, il liberale e democratico Piemonte dovette far scendere in campo più di 120.000 soldati di linea, affiancati da quasi 400.000 guardie nazionali. Se questo fu brigantaggio... L’esercito piemontese affrontò una guerra interminabile, la più feroce e sanguinosa della sua storia militare, cercando di mettere la sordina, di far trapelare il meno possibile, arrivando finanche a nascondere il numero dei soldati caduti. Il governo piemontese, se avesse lasciato campo libero alla stampa dell’epoca, non avrebbe più potuto invocare la “volontà popolare” espressa durante i ridicoli plebisciti per legittimare l’annessione del Regno delle Due Sicilie. Riportiamo, infine, un interessante documento del 1864, Il giuramento dei “briganti”: «Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma, Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati. Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo» (Marco Monnier, Notizie e documenti sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbero,1862, pp. 73-74). Lavinia Labate Chiara Parente Domenico Tripepi IL BRIGANTAGGIO IN CALABRIA Il fenomeno del brigantaggio divenne di “massa” in Calabria durante il primo decennio del XIX secolo e perdurò anche oltre la sconfitta di Napoleone e il ritorno di Ferdinando di Borbone sul trono di Napoli. Gran parte dei briganti rimasero ancora ribelli dopo la restaurazione a testimonianza del disagio economico e sociale che percorreva questa terra da secoli a prescindere dagli occupatori. L’intendente De Thomasis scrisse infatti che la ragione essenziale che stava alla base del brigantaggio era la terra; esempio di ciò fu una banda di Gimigliano che durante il periodo francese s’accanì contro i filogiacobini e che al ritorno dei Borboni saccheggiò Gimigliano stessa assassinando quattro persone, tra cui il sindaco voluto da Ferdinando I, e la sua testa fu issata al posto della bandiera borbonica. Nel 1824 il governo borbonico inviò in Calabria il colonnello Del Carretto per arginare il fenomeno brigantesco, soprattutto contro la banda di Ippolito Crocco di Spezzano e quella di Giovanni Roma di Caloveto. Nel 1831 Ferdinando II, considerata l’incapacità fino ad allora mostrata di contrastare efficacemente il fenomeno, nominò un commissario ad hoc nella persona di Giuseppe de Liguoro. Dai rapporti della polizia emerge che nel biennio 1831-32 in tutta la Calabria furono arrestati 123 briganti e 12 furono uccisi. Da ricordare Rosario Rotella detto “Terremoto” e le bande di Lappano, Trenta, Celico, San Benedetto Ullano. La caratteristica delle bande fu che, anche se decimate, in poco tempo si ricostituivano perché le condizioni di vita erano talmente misere che per sopravvivere finiva per essere necessario rubare. Riportiamo di seguito il profilo di alcuni tra i più noti briganti calabresi e le vicende accadute a Mammola e nel Circondario di Gerace subito dopo l’Unità d’Italia. Francatrippa All’inizio dell’800, il capobanda, a nome Francatrippa, infestava i dintorni di Rogliano e, disponendo di molti partigiani e di spie più fedeli di quelle dei Francesi, riusciva a sottrarsi a tutti i tentativi fatti per arrestarlo. Verso il settembre 1807 un’intera compagnia di volteggiatori fu distrutta: era seguita e tenuta d’occhio dalla banda di Francatrippa, che risolse di farli cadere in un’insidia: recatosi a Parenti e presentatosi a nome della Guardia nazionale, il capobanda disse di venire da parte del Comune ad offrire ristoro ed ospitalità ai soldati francesi. Imprudenti, i soldati posero le armi fuori dalle case ospitanti, ma ecco che ad un tratto un colpo di fucile diede il segno dell’attacco, seguito da una scarica generale: solo sette uomini scamparono a tanto macello, mentre tutto il resto della compagnia fu trucidato. Poche settimane dopo fu annunziata la presenza di due esploratori nelle vicinanze per cercare di sorprendere il brigante. L’ordine di assalto fu deciso all’alba: i soldati salirono su una collina, ma Francatrippa si era allontanato dalle tre del mattino, mandando a vuoto il disegno. Sul finire del 1807 Francatrippa cercò rifugio nel bosco di Sant’Eufemia e, in seguito, salì sopra una nave inglese e raggiunse la Corte dei Borboni in Sicilia. Parafante Un altro brigante, di nome Parafante, supplì Francatrippa, riunendo gli avanzi della sua banda e ottenendo rinomanza uguale a quella del suo predecessore. Il comandante della piccola città di Rogliano studiava il modo di prendere quel formidabile capobanda, quando un ecclesiastico andò a trovarlo, affermando che era nemico personale di Parafante a causa di un assassinio di un suo congiunto commesso dal brigante in persona e promettendo di far cadere Parafante nelle mani dei Francesi, in un modo semplice e ingegnoso. Infatti il brigante aveva catturato un cittadino di Rogliano e avrebbe dovuto incassare il riscatto in quella stessa notte: il comandante approvò l’espediente, per cui una colonna di cento militi sarebbe stata condotta sul luogo del rilascio da una guida. Questa portò i soldati al di fuori della città, ma poi confessò che il suo padrone non aveva altro scopo all’infuori di quello di allontanare da Rogliano la maggior parte della guarnigione per dare agio ai briganti di fare un’incursione in città. La guida fu ammanettata e presto si udì un rumore confuso che annunziava l’arrivo dei briganti; quando costoro furono a mezzo tiro di carabina i soldati fecero fuoco: dieci o dodici furono i morti e altrettanti i feriti, ma Parafante non era con loro. Infatti, i colpi di fucile e le grida erano giunge sino al brigante che, credendosi tradito da qualcuno dei suoi, passò in altra parte della Calabria, così le vicinanze di Rogliano furono liberate della sua presenza. Gaetano Ricca Ultimo vero bandito della Sila, vissuto tra la fine del ‘700 e il primo ‘800, fu costretto a darsi alla macchia in seguito ad un banale malinteso con le autorità; nonostante fosse stata posta una taglia sulla sua testa, la popolazione era però troppo intimidita per denunciarlo. Costretto infine ad arrendersi, trascorse in carcere circa 20 anni prima di ritornare in Sila nella sua casa di Parenti (già famosa per il caso di Francatrippa). Il caso di Ricca è l’esempio tipico di un fuorilegge che sfrutta la confusa configurazione geografica del paese per i propri scopi. Giosafatte Talarico Nessun brigante è stato mitizzato dal popolo come difensore delle classi povere come Giosafatte Talarico, che vive ancora oggi nella memoria collettiva del suo paese, Panettieri, come il vendicatore dei torti. Egli fu un brigante solitario e particolare: uccideva solo per vendetta o per ridare ai poveri quello che l’arroganza dei baroni aveva loro tolto, era acculturato, abile nel travestirsi, e decise di accompagnarsi solo a due amici fedeli, Felice Cimicata di Taverna e Benedetto Sacco di Castagna. Nel 1845 il re Ferdinando II propose a Giosafatte e ad altri briganti di arrendersi in cambio di una nuova e libera vita lontano dalla Sila. Talarico fu così esiliato nell’isola di Ischia dove ebbe casa e stipendio per 40 anni. Dopo l’Unità il deputato napoletano Mariani con un’interrogazione parlamentare chiese se fosse giusto mantenere a spese dello stato un brigante graziato dai Borboni, ma non ebbe risposta. Ferdinando Mittica Nel settembre 1861 il generale spagnolo Josè Borjes sbarcò sulla spiaggia di Brancaleone, dove iniziò una spedizione militare al fianco della banda legittimista del brigante Ferdinando Mittica di Platì per restaurare la deposta monarchia borbonica. In quello stesso mese quelle contrade furono teatro di scontri che videro sommarie fucilazioni di civili inermi e devastazioni di edifici pubblici e case private. La spedizione finì tragicamente e due mesi dopo il generale Borjes fu fucilato dai piemontesi in Abruzzo; non miglior sorte toccò a Ferdinando Mittica, che fu ucciso in un agguato dal “capo urbano” a Galatro. Finì così il tentativo legittimista di due personaggi della controstoria italiana postunitaria, i cui nomi sono stati taciuti («Vae victis!») dalla storiografia ufficiale. Domenico Strafece, detto Palma Tra i tanti capobriganti della Calabria, uno degli ultimi a morire fu Domenico Strafece, detto Palma. Originario della Sila, da poverissimo contadino si diede alla macchia nel 1847 a poco più di vent’anni, muovendosi tra la Sila e la costa ionica fino alla Basilicata. Ormai a capo di una banda propria, Palma continuò a resistere in latitanza per oltre vent’anni, e, sebbene fosse nel mirino di una caccia spietata e accanita, non si sottrasse agli scontri. Celebre fu l’episodio che lo vede circondato da 400 carabinieri e in cui riuscì comunque a filarsela. Ebbe infatti la fama di imprendibile: lo si ritraeva come un brigante di bella presenza, ardito, che colpiva la fantasia popolare. E morì proprio così, nel suo vile destino di brigante, per una spiata. Quell’anno la lotta alle bande era affidata al colonnello Bernardino Milon: il momento giusto arrivò la sera del 12 luglio 1869, quando il brigante imprendibile si era appena inoltrato nel bosco accompagnato da un solo uomo. Gli si parò davanti un gruppo di carabinieri già appostati ad attenderlo, di cui uno riuscì a ferirlo, ma non gravemente, costringendolo però a ripararsi in un fosso. Restò lì tutta la notte, finché colui che l’aveva ferito non riuscì a dargli il colpo di grazia. Quel coraggioso, Pietro Librandi, ricevette così una fortuna di 10.000 lire e la fama di carnefice dell’imprendibile brigante. Maria Oliverio detta Ciccilla e Pietro Monaco Maria Oliverio detta Ciccilla fu la fuorilegge più celebre di tutto il Sud. Era moglie di Pietro Monaco, brigante della Sila che per tre anni riuscì a sfuggire alle forze di repressione e fu ucciso da alcuni suoi compagni corrotti col denaro. Pietro era un sottufficiale borbonico che, abbracciata la causa della rivoluzione garibaldina, aveva poi combattuto durante l’assedio di Capua. Il pomeriggio del primo novembre 1860 iniziò il bombardamento della città, provocando incendi e vittime fra la popolazione civile. Capua dovette arrendersi e Pietro, come tanti altri volontari, divenne di colpo disoccupato. Tornato a casa, si impelagò nella lotta politica per il potere nei paesi locali. A capo di una comitiva di ribelli, uccise un possidente di Serrapedace, piccolo centro alle falde della Sila. La sua guerra fu una lotta contro baroni e galantuomini che s’erano schierati per interesse coi nuovi governanti. La storia della Sila è una storia di rivolte e di usurpazioni, di terre e boschi contesi da baroni e contadini. I primi tendevano ad usurpare le zone demaniali, gli altri difendevano il diritto di fare legna e di coltivare. La vita dei borghi era caratterizzata da faide e soprusi. Intorno al 1850 il brigantaggio era limitato dall’istituzione, ad opera dei Borboni, delle corti marziali per gli “scorridori di campagna”. Ma quando ci fu il crollo dei Borboni, si venne a creare una situazione di disordine e incertezza nella quale il brigantaggio divampò con rinnovata violenza: tutto il Sud era in rivolta, la stagione era propizia per regolare i conti sospesi. La banda di Pietro Monaco fu abbastanza numerosa. In poco tempo, egli divenne noto e temuto e vide aumentare il suo prestigio quando, nel dicembre del 1862, un brigante pentito, Giuseppe Scrivano tentò di ucciderlo ma il colpo non fu mortale. Nel dicembre del 1863 tre uomini della stessa banda Monaco, Marrazzo, Celestino e De Marco, cercarono di assassinare Pietro ma non seppero avvelenare l’acqua con della stricnina fornita dalla banda Falcone. Poco tempo dopo, tirarono due colpi mortali a Pietro Monaco addormentato in un pagliaio. Contemporaneamente spararono a Ciccilla, che rimase ferita a un braccio, e uccisero un altro uomo della banda, Giacomo Madeo. Gli assassini di Pietro Monaco furono portati in trionfo per tutti i paesi, poi però vennero arrestati e processati, ma la condanna fu mite. Ciccilla però non si arrese. Assunse il comando della banda e tenne la campagna per altri 47 giorni, fino a quando, circondata dalla truppa dovette arrendersi. Sulla sua fine si hanno notizie discordanti. Secondo un’annotazione, Ciccilla fu condannata a morte e fucilata, secondo un’altra le furono inflitti quindici anni di galera. Ciccilla, secondo alcune fonti, avrebbe ucciso per gelosia la sorella Concetta, che le aveva sottratto l’amato Maria Oliverio, detta Ciccilla (1841-1879) Giuseppe Musolino Il brigante più noto della Calabria, vissuto tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, fu accusato nel 1898 di tentato omicidio e condannato a ventuno anni di carcere per colpa di alcuni testimoni falsi, e da quel momento giurò vendetta (durante la lettura della sentenza canticchiò il motivo della canzone del brigante Martino). Riuscito ad evadere, si vendicò dei suoi accusatori e dei suoi nemici, compiendo sette omicidi. Fu catturato nel 1901 per un caso fortuito da due carabinieri in perlustrazione nelle campagne di Acqualunga (Urbino). Fu successivamente processato e condannato all’ergastolo. Non riuscì a riprendersi dal proprio dramma, e in carcere impazzì. Graziato nel 1946, si stabilì, ormai stanco ed inebetito, a Reggio Calabria, dove morì nel 1956 “U 'rre dill 'Asprumunti”(soprannome con il quale era meglio conosciuto il brigante Musolino) . Fenomeni di brigantaggio a Mammola e nel Circondario di Gerace Diverse segnalazioni ad opera dell’intendente Spanò-Bolani fecero notare nel 1860 al Ministero degli Interni i vari disordini che accendevano la zona di Gerace; era chiara la richiesta di rinforzi che cooperassero al mantenimento dell’ordine pubblico. La causa di tutto ciò era, secondo Spanò-Bolani, un sentimento di sovversione fomentato da una potente famiglia di Gioiosa, in grado di influenzare la popolazione più ignorante che veniva facilmente sedotta. Non era d’accordo il sindaco di Roccella, Giuseppe Cappelieri, che risolse tutte le accuse in uno stato di calma a suo dire tutt’altro che sovversivo. Dopo il 1861 la rivolta era capitanata dalle forze ostili all’Unità, come la monarchia borbonica e i gruppi legittimisti di altri paesi. Lo Stato italiano impiegò ben 120.000 uomini per domare le ribellioni e sottopose a dure rappresaglie la popolazione delle campagne. A conferma di questo impegno abbiamo la testimonianza del prefetto Cornero, il quale informò i Sindaci, i Prefetti stessi, i Tesorieri, i Ricevitori e i Cassieri calabresi che il Ministero dell’interno stava per nominare una commissione a Napoli con l’incarico di distribuire ed amministrare le somme stabilite per la lotta contro il brigantaggio. Nonostante i provvedimenti restrittivi attuati dal generale d’armata Cialdini, fenomeni di brigantaggio esplosero in tutti i distretti della Calabria Ultra e Citra: furono segnalati telegraficamente diversi conflitti, come quello, a Mammola, che causò un morto, o l’episodio di brigantaggio avvenuto in quelle stesse montagne che venne fermamente smentito dopo un paio di giorni e spacciato per un affare da poco. Anzi, quello fu solo uno dei primi casi di smentita riguardo alla presenza di briganti: vediamo infatti come la stessa scena si ripete a Catanzaro nel 1864, quando un atto di brigantaggio denunciato precedentemente venne in seguito spacciato per il gesto criminale di una semplice comitiva di ladruncoli.Questo fece crescere il sospetto nel maggiore Pallavicini, che ordinò l’impiego delle Guardie nazionali, dato che molte milizie cittadine avevano abbandonato la persecuzione dei briganti. A Mammola si continuò però ad evitare le segnalazioni di fatti di rilievo come scontri e rappresaglie, sebbene i contrasti sociali e le diatribe tra opposte fazioni sussistessero. Generale Enrico Cialdini (1811-1892) è stato un generale e politico italiano. Mirko Malara Iole Pizzi Eliana Repaci Carmela Zavettieri LE RELAZIONI TRA IL BRIGANTAGGIO E LA PICCIOTTERIA NEL REGGINO A cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, in Calabria, la criminalità organizzata si è sviluppata maggiormente nelle zone dove meno si poteva cogliere l’articolazione sociale ed economica del latifondo, dando origine al fenomeno del “brigantaggio”. Per brigantaggio si suole definire una forma di banditismo caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione, ma che ha avuto, in altre circostanze, risvolti insurrezionalisti a sfondo politico e sociale. D’altro canto, le bande dei briganti davano ascolto alle voci dei contadini oppressi dalle ingiustizie, in particolare nelle zone del Crotonese e del Cosentino, riscuotendo un forte appoggio tra queste classi maggiormente disagiate. I briganti, dunque, si battevano anche per porre fine ai soprusi e per impedire al potentato fondiario di continuare a usurpare i terreni demaniali. Lo Stato iniziava a reagire a questa presenza radicata nelle campagne meridionali. Se da un lato, però, nel 1874, il procuratore generale del re Vittorio Emanuele II, Cosimo Ratti, aveva decretato la scomparsa del brigantaggio, dall’altro, la “picciotteria” cominciava a dilagare, insediandosi, a partire da Palmi, in tutto il resto del Reggino e, in particolare, nelle zone che costituivano sicure fonti di guadagno. Era possibile, dunque, che, debellato il brigantaggio, su quella medesima pianta che l’aveva generato germogliasse la ’ndrangheta? Molti lo credettero. A rafforzare questa opinione arrivò, proprio a cavallo fra Ottocento e Novecento, un nuovo episodio che si impose all’attenzione nazionale, quello del brigante Musolino. Meglio conosciuto come “U rri ill’Asprumunti” (ovvero “II re dell’Aspromonte”), Musolino si era sempre proclamato reo di molteplici atti di rivalsa (si parla di sette omicidi compiuti, quattro mancati, ferimenti e lesioni) scaturiti tutti dalla prima condanna a ventuno anni di reclusione che gli era stata assegnata nel 1897, a suo dire, ingiustamente. Segnando l’inizio di una ricca mitologia costruita intorno alla sua figura, egli evaderà del carcere di Gerace nel 1899 e per circa tre anni si mimetizzerà miracolosamente negli anfratti delle sue amate campagne aspromontane. Nel frattempo, nelle filande e nelle case reggine non si faceva altro che inneggiare al mito del brigante, animato, secondo la famiglia, da “un alto senso della libertà”. Paradossalmente, a detta di tutti e dello stesso interessato, non si trattava di un brigante nel vero senso della parola, ma di un bandito sui generis che certo nulla aveva avuto a che fare con la “picciotteria” o con la criminalità dell’epoca. Secondo lo storico Gaetano Cingari, infatti, Musolino non fu l’erede della tradizione brigantesca, anche perché il brigantaggio era già finito da tempo e, poi, nel Reggino c’erano stati solo casi sporadici riconducibili a tale fenomeno, in quanto «ne era mancata la materia stessa, la grande proprietà latifondistica e i conflitti secolari delle masse contadine per l’uso delle terre demaniali come nella Sila e nei Casali di Cosenza» (Cingari, Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud (1799-1900), Editori Meridionali Riuniti, 1976, p. 262). Fonti dell’epoca attestano come fosse divenuta abituale, a quel tempo, la confusione tra i termini “’ndrangheta”, “maffìa” o “picciotteria” con il concetto di brigantaggio. Più appropriata appare, invece, l’analogia con la criminalità camorristica, che sarebbe arrivata nella città di Reggio Calabria negli anni 1880-1885, in seguito ad un imponente approdo di operai emigranti in cerca di lavoro presso la nuova linea ferroviaria. Le radici di questo fenomeno criminale sarebbero addirittura ascrivibili al periodo del dominio spagnolo i cui caratteri filo-baronali avrebbero radicato nei cittadini meridionali una mentalità del potere come conseguenza dell’assoggettamento. Tuttavia non risulta neanche trascurabile l'influenza delle neonate mafia e camorra, sorelle della 'ndrangheta (secondo il mito di Ostro, Mastrosso e Carcagnosso).Il rapido radicamento criminale non è unicamente legato a questioni di mentalità. Esso è un effetto del degrado sociale e della mancanza di istruzione, propri di queste località. La scuola infatti, vede partecipi esclusivamente i figli degli esponenti della classe classe media, mentre i più poveri sono abbandonati all'accattonaggio ed alla mala vita. Inoltre l'economia attraversa un periodo oscuro per la crisi della produzione di lavoro. E' questo il contesto in cui si iniziano a delineare i profili di quelli che saranno i futuri mafiosi ovvero “picciotti”:calzoni stretti alla coscia e larghi agli estremi inferiori ,fazzoletto al collo,cappellaio tondo con ciuffo a bella vista, immancabile aria spavalda e provocante,mollettone sempre a portata di mano. Alto elemento che emerge da molti processi effettuati durante il corso del ‘900 è il modo di vestire e le acconciature degli inquisiti: «I distintivi adottati da tutti per riconoscersi erano i capelli tagliati a farfalla, il berretto con lunghi nastri, in alcuni paesi un neo al volto; e per i capi un anello ad uno degli orecchi», modelli che ritroviamo anche nel periodo del brigantaggio del 1806-1815: i briganti ornano i loro indumenti con elementi religiosi, quali crocifissi, rosari, immagini sacre. Tuttavia, nonostante ciò, l’idea che la ’ndrangheta abbia, in qualche modo, a che fare con il brigantaggio è opinione diffusa ancora oggi. Come mai una tale sopravvivenza? La spiegazione è duplice. Da una parte, chi ritiene la ’ndrangheta un fenomeno puramente delinquenziale si rifà alla valenza negativa del brigantaggio; dall’altra parte, chi considera la ’ndrangheta – almeno quella dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento – come fenomeno di protesta o come “onorata società” in grado di amministrare quella giustizia che lo Stato non riesce a garantire, si rifà alla concezione del brigante ribelle nei confronti di tutte le ingiustizie. Come si vede, due facce della stessa medaglia, a volte fra loro confuse e sovrapposte, che fanno riferimento a idee, a sedimentazioni presenti nel senso comune, a opinioni che hanno avuto, e ancora hanno, una larga circolazione. Ma che non poggiano su solide basi. Caterina Crucitti Claudia Martino Maria Carmela Nucara BIBLIOGRAFIA - Pino Aprile, Terroni, Piemme, 2010; - Gaetano Cingari, Brigantaggio, proprietari e contadini (1799-1900), Editori Meridionali Riuniti, 1976; - Gaetano Cingari, Reggio Calabria, Laterza, 1988; - Isabella Loschiavo Prete, Il brigantaggio nella Prima Calabria Ultra, Città del Sole, 2010; - Giuseppe Massari - Stefano Castagnola, Il brigantaggio nelle province napoletane, Forni, 1989; - Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità d’Italia, Feltrinelli, 1964; - Salvatore Scarpino, Il brigantaggio dopo l’unità d’Italia, Fenice 2000, 1993