Religione Scuola Città

Transcript

Religione Scuola Città
Religione
Scuola
Città
Rivista on line per la scuola della Diocesi di Roma
2/2010
Editoriale
Indice del numero
p. 3
di Don Filippo Morlacchi
Persona ed etica?
p. 4
di Giuseppe Palocci
Dossier. La Bibbia nell’IRC: da Gesù a Paolo
Per fare il punto sul dibattito del Gesù storico
p. 11
di Emanuela Prinzivalli
La parabola
p. 20
di Giuseppe Pulcinelli
L’originalità del pensiero di Paolo oggi come allora
di Romano Penna
Il fattore Chiesa tra Gesù e Paolo
p. 37
di Romano Penna
San Paolo un giudeo in Cristo
p. 45
intervista a Romano Penna
Convegno Nazionale degli IdR a Montesilvano p. 49
di Massimiliano Ferragina
Natale in musica (OK, ma … quale musica?)
di Pasquale Giaquinto
Natale: ma Dio non si stanca di noi?
di Don Giuseppe Forlai
– 2 – p. 62
p. 51
p. 27
Editoriale
L’esperimento della rivista on­line sembra funzionare. Non son pochi gli IdR che mi hanno segnalato di aver letto, talvolta stampato personalmente il precedente numero, pubblicato solo in formato elettronico sul sito internet dell’Ufficio Scuola. Incoraggiati da questo successo, abbiamo voluto pubblicare questo secondo numero già prima di Natale. Senza troppo curarci della cura tipografica del materiale, presentiamo stavolta alcuni testi che ci sono stati liberamente proposti da voi insegnanti (Palocci, Ferragina, Giaquinto), e soprattutto i materiali relativi al corso di aggiornamento per gli IdR del Lazio che si è tenuto il 23 e 24 novembre presso la Casa Bonus Pastor. Oltre 130 IdR partecipanti e tre relatori di spicco (Prinzivalli, Pulcinelli, Penna) sono stati i numeri vincenti: l’eccellente qualità del corso è stata riconosciuta da tutti i partecipanti. I testi che sono stati distribuiti prima di ogni conferenza sono ora a disposizione di tutti, nella speranza che possano essere utili a qualcuno. Le riflessioni conclusive di d. Giuseppe Forlai anticipano quanto ci suggerirà, in maniera più approfondita, nella meditazione del ritiro di avvento che si terrà presso il Seminario Romano Minore sabato 11 dicembre. La redazione di RSC e l’Ufficio Scuola rivolge a tutti gli IdR un caloroso augurio di Buon Natale! don Filippo Morlacchi
Persona ed Etica
– 3 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
I presupposti antropologici del pensare cristiano
da un saggio del prof. Paolo Nepi rivisto da Giuseppe Palocci
In un breve saggio affidato alla stampa della rivista di cultura Quaderni Biblioteca
Balestrieri 1 , Paolo Nepi tratteggia l’inscindibile nesso che c’è tra il pensiero sociale
cristiano e la dottrina sociale della Chiesa, ma anche e, direi , soprattutto il legame tra
quest’ultima ed il concetto di persona, presupposto antropologico ad ogni altra concezione
della società e della politica, che affonda le sue radici nell’ontologia e nell’orizzonte
trascendente di ogni individuo umano, tipico della concezione cristiana dell’uomo. 2
Per quanto riguarda il primo aspetto il saggio ‘Persona ed etica’ risale alla Rerum
Novarum 3 di Leone XIII, di cui l’ultima enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate 4 ne
riflette lo spirito e ne esplicita non pochi aspetti, pur in uno scenario comprensivo delle
evoluzioni problematiche che si sono succedute da quella prima presa di posizione,
passando per la riflessione e l’elaborazione della Quadragesimo anno 5 di Pio XI e la
Populorum progressio 6 di Paolo VI, che si richiama alla concezione dell’umanesimo
integrale del filosofo francese Jacques Maritain, ribattezzato ‘umanesimo plenario’.
E’ pertanto una necessità non solo storica, ma soprattutto fondativa della dottrina sociale
della Chiesa quella di leggersi all’interno di una visione dell’uomo (Weltanschauung) che si
coniughi con la possibilità dell’annuncio cristiano dei primi secoli della Chiesa, in altre
parole con la concezione dell’uomo sottesa all’annuncio del kerigma, scevra dalle
interpolazioni moderniste o meccanicistiche determinate da diverse filosofie della
modernità.
1
Per visionare l’attività della Biblioteca Balestrieri cfr. http://www.istitutocurcio.it/qbb/
A tal proposito è utile consultare l’articolo di A. Szostek della PAV su: la questione antropologica: esiste la verità
assoluta sull' uomo. Cfr:
http://www.academiavita.org/template.jsp?sez=Pubblicazioni&pag=testo/nat_dig/szostek/szostek&lang=italiano
3
Per consultare il testo http://web.tiscalinet.it/claufi/rerumnovarum.htm
4
Per consultare il testo http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/encyclicals/documents/hf_benxvi_enc_20090629_caritas-in-veritate_it.html
5
Per consultare il testo http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/documents/hf_pxi_enc_19310515_quadragesimo-anno_it.html
6
Per consultare il testo http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/encyclicals/documents/hf_pvi_enc_26031967_populorum_it.html
2
– 4 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
La dottrina sociale cristiana si basa pertanto sui documenti magisteriali, ma anche e
soprattutto su un patrimonio di pensiero sociale cristiano che non è esplicitamente
richiamato dai testi dottrinali (come afferma anche la Gaudium et spes).
In essa, pertanto sono presenti non solo le istanze, le analisi e le proposte del pensiero
socio-economico ispirato ai valori evangelici (Cfr. il pensiero sociale di G. Toniolo in
Italia 7 , quello di E. Mounier in Francia 8 o anche quello di J. Maritain 9 ) ma anche quelle del
pensiero laico, liberato dalle pregiudiziali ideologiche e prodotto dall’impegno di uomini e
donne in cui soffia lo Spirito, che vi immette ‘i semi del Verbo’, quei germi di verità che
aiutano a comprendere meglio la realtà e a darle risposta.
La dottrina sociale cristiana costituisce tuttavia una dimensione intrinseca della teologia
cristiana, che si articola intorno ad una determinata idea dell’essere umano. Si può dire
anche che teologia ed antropologia formano, all’interno della dottrina sociale cristiana,
una sorta di intreccio costitutivo ed esplicativo al tempo stesso, del contenuto kerigmatico
dell’annuncio paolino e della primitiva dottrina ebraico-cristiana sull’uomo e sul mondo.
E’ stato l’illuminismo, nell’età moderna, a rivendicare il significato dell’uomo per sé e per
il mondo, a prescindere dal contenuto religioso che finora l’aveva caratterizzato,
riducendo la teologia all’antropologia. La contrapposizione tra antropologia e teologia era
stata risolta da E. Kant ponendo la teologia nell’ambito ristretto della ragion pratica
attraverso un postulato indimostrabile.
Successivamente, in Feuerbach, il rovesciamento dei termini teologia-antropologia si fa
assoluto, visto che per lui l’uomo moderno può riappropriarsi di tutti i valori che la
Religione aveva trasferito nella sfera dell’assoluto, può riappropriarsi cioè di tutti gli
attributi che aveva ‘alienato’ a Dio, nel mondo immaginario (quello religioso), per effetto
della fede religiosa. Inaugura perciò un umanesimo assoluto di cui la cultura moderna si
appropria e che Nietzsche considera l’ultima versione della metafisica tradizionale che,
pure, egli stesso intendeva superare.
Proprio questo mondo ideologicamente antireligioso, ora, è caduto sotto gli attacchi del
nichilismo e del relativismo.
Nell’età contemporanea, considerata post-moderna, ci si appella ad un percorso che neghi
sia la validità del presupposto ontologico tradizionale dell’uomo, sia la contrapposizione
razionalista ‘teologia-antropologia’ di stampo illuministico, ora ripercorsa in chiave
critica.
7
Per una introduzione a Giuseppe Toniolo cfr: http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/toniolo.htm
Per una introduzione a E. Mounier cfr: http://www.filosofico.net/mounier.htm
9
Per una introduzione a E. Maritain cfr. http://www.filosofico.net/maritain.htm
8
– 5 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Tale è il contesto sociale attuale, descritto da Zygmund Bauman nella ‘società liquida’,
secondo cui le trasformazioni sociali sono ridotte a frammenti atomistico-individualistici
tra soggetti. 10
Agli umanesimi laici sono subentrate antropologie fondate sulla
‘decostruzione’ di ogni immagine definita dell’uomo, rappresentazioni della persona che
assume via via immagini fluide continuamente cangianti, sul modello dell’’io variopinto’ di
cui parlava Montaigne 11 o ‘il fascio mentale’ di Derek Parfit 12 , per il quale la persona altro
non è che la successione cronologica di stati mentali senza consistenza ontologica e senza
responsabilità etica derivante da norme universali, ma solo da convenzioni linguistiche
verificabili in determinati contesti. La totalità della persona umana viene descritta dal
concetto di ‘rizoma’, ovvero struttura proteiforme non definibile a priori, ente dai
contorni non definiti che secondo l’esistenzialismo di Sarte, costituisce nient’altro che una
possibilità pura ed incondizionata.
La deriva ontologica ed etica innescata, ha interpellato l’umanesimo cristiano
a
riaffermare in modo nuovo una concezione della persona umana, ma senza pericolosi
riduzionismi.
ETICA ED ANTROPOLOGIA
L’uomo, concepito fin dall’inizio dalla tradizione occidentale ‘animale politico’, è stato
considerato dalla tradizione cristiana erede e sviluppatrice di quella ebraica, ‘persona’,
cioè soggetto dotato di una struttura ontologica inalienabile, tale da farlo assurgere a
‘interlocutore stesso di Dio’.
E. Mounier, noto esponente del personalismo comunitario 13 ritiene che proprio con il
cristianesimo si affermi l’idea complessa dell’immanenza della persona alla comunità, idea
che implica, per la singolarità spirituale di cui l’uomo è dotato, 14 una costitutiva
trascendenza.
L’uomo ad immagine di Dio è prima di tutto un dato teologico fondamentale inerente la
creazione, che si trasferisce, nel discorso sulla costruzione della società, nell’ambito
dottrinale e politico. “ 15 Nella dottrina sociale della Chiesa la categoria di persona
rappresenta la chiave d’accesso per comprendere la dimensione sociale dell’essere
umano”. Dal rapporto asimmetrico tra persona e società deriva il fatto che la comunità
10
Per comprendere il pensiero di Z. BAUMAN cfr video. http://www.youtube.com/watch?v=DIaT8wwHnz0 ed il video
http://www.youtube.com/watch?v=jeL0Qc-pQrQ&feature=related
11
Montaigne anticipatore del pensiero debole: cfr http://www.filosofico.net/mointagne.htm
12
D. PARFIT, Ragioni e persone, (1984) Il Saggiatore, Milano 1989
13
E. MOUNIER, Il personalismo, (1949) AVE, Roma 1987, pp.12-13
14
Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza.( Gen. 1,26),
15
A. SCOLA, persona e società, in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 2004 p. 31
– 6 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
politica non possiede tutte le caratteristiche necessarie al perseguimento del fine ultimo
della persona, rispetto al quale la politica ha solo una funzione “sussidiaria”. Pertanto non
tutto è permesso alla persona nei confronti della società, né alla società nei confronti
della persona, la cui finalità trascendente travalica la dimensione orizzontale della
socialità.
La dottrina sociale cristiana si afferma come luogo di incontro insostituibile tra la
dimensione etica e quella antropologica. La conferma viene anche dal pensiero della
cultura classica condensato nel comando ‘Conosci te stesso’, necessario a rispondere alla
domanda ‘Che cosa dobbiamo fare’. Nella cultura cristiana solo il volto di Dio rivelato in
Gesù Cristo è in grado di dirci fino in fondo che cosa sia l’essere umano.‘Gesù Cristo è la
forma compiuta dell’umano’.
Già la Rerum Novarum, la questione del lavoro umano (la questione operaia) e dei
lavoratori nella società industriale, considera il lavoro alla luce dell’idea della persona.
‘Il lavoro, dice Leone XIII, ha la proprietà di essere personale, perché la forza attiva è
inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data’ per
cui ne discende che il sistema economico al quale lo stesso lavoro è solo in parte
funzionale, non può prescindere da una valutazione etica, come anche riportato dalla
Mater et Magistra di Giovanni XXIII: “Com’è noto, allora la concezione del mondo
economico più diffusa e maggiormente tradotta nella realtà era una concezione
naturalistica che negava ogni rapporto tra morale ed economia. Motivo unico dell’operare,
si affermava, è il tornaconto individuale. Legge suprema regolatrice dei rapporti tra gli
operatori economici è una libera concorrenza senza alcun limite. Interessi dei capitali,
prezzi delle merci e dei servizi, profitti e salari, sono determinati puramente e
meccanicamente dalle leggi del mercato. (…) Ne risultava così un ordine economico
radicalmente sconvolto” 16 .
Le teorie economiche di fine 800 erano di stampo naturalistico, improntate al darwinismo
sociale. Le stesse teorie economiche marxiste contenevano la pregiudiziale naturalistica
nella stessa lotta di classe, considerata una legge immodificabile dell’economia
capitalistica e motore stesso dello sviluppo della storia. In tale contesto la politica non può
costituire altro che la conseguenza di un movimento necessario della dinamica sociale.
Althusser 17 , filosofo marxista ha sostenuto infatti che il marxismo autentico è scienza della
storia e non una filosofia umanistica, non un’ideologia politica, ma una specie di fisica
della società.
16
17
Mater et Magistra, n. 7
Per una introduzione ad Althusser, cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Louis_Althusser
– 7 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Il marxismo quindi esautora la politica del compito di regolare attraverso il criterio etico
della giustizia sociale, le leggi economiche del mercato e della libera concorrenza, dato
che il suo compito risiede solo nell’abbattere il sistema economico fondato sulla libera
iniziativa, per sostituirlo col collettivismo coatto.
Le vicende storiche degli ultimi decenni spingono a considerare il discorso della Chiesa
sulla centralità della dignità della persona umana, certamente più lungimirante di quello
del socialismo rivoluzionario.
DALLA RERUM NOVARUM ALLA CARITAS IN VERITATE
La concezione personalistica dell’uomo caratterizza pertanto tutta la dottrina sociale della
Chiesa come si evidenzia già dalla Rerum Novarum
a proposito del lavoro. Allora si
trattava di assicurare i livelli essenziali della giustizia sociale, in grado di garantire la
dignità del lavoratore e il diritto ad un giusto salario anche in funzione della famiglia. Con
la Quadragesimo anno di Pio XI, emerge il ‘principio di sussidiarietà’ a difesa della persona
e delle forme associative primarie in cui la persona vive. La Caritas in veritate di
Benedetto XVI affronta la questione della persona dal punto di vista dei più recenti
sviluppi scientifici e tecnologici introdotti dalla sfida delle biotecnologie e riaffermandone
l’impianto ontologico quale architrave dell’ordine sociale 18 . Nei paesi industrializzati
infatti lo sviluppo tecnologico-scientifico ha aperto il fronte di discussione dell’identità
personale, un tempo affidato alla natura ed ai suoi immodificabile ed imprevedibili
processi.
Nella Rerum Novarum l’idea di persona viene collegata a quella della dignità del lavoro e
dei diritti del lavoratore, superando così l’utopia di liberazione dallo sforzo umano e la
lotta di classe quale categoria legittimante la violenza e l’odio necessaria a legittimare le
rivendicazioni sociali.
Il lavoro è presentato come fatica e impegno che richiede responsabilità morale e la
proprietà privata viene difesa come segno della libertà della persona, ma nella prospettiva
della destinazione universale dei beni. Il diritto di proprietà non può escludere la finalità
sociale di ogni attività umana e se le differenze sociali sono viste nella prospettiva della
sana competizione, lo Stato deve in ogni caso correggere le forme più gravi di ingiustizia
proteggendo i più deboli e più bisognosi. Vengono riconosciuti i diritti delle persone di
unirsi in varie forme associative tra cui le organizzazioni sindacali a cui viene riconosciuto
il diritto di sciopero, fatta salva la sicurezza sociale. Viene infatti riconosciuta la funzione
18
Cfr presentazione della Caritas in veritate in video: http://www.youtube.com/watch?v=8GsL2-0etCM&feature=related
– 8 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
indispensabile dei cosiddetti ‘corpi intermedi’ tra il cittadino e lo Stato, sempre più
riaffermati nel ‘900 di fronte all’affermazione di varie forme dello Stato totalitario.
A seguire l’enciclica ‘Quadragesimo anno’ di Pio XI dopo la crisi del ’29, presenta la
tematica dell’individuo-ordine sociale, che deve essere ben delimitato nelle sue
prerogative e funzioni, per non ledere i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo. Emerge
pertanto la nozione di ‘sussidiarietà’, architrave teorico-pratica della concezione
personalistica e comunitaria della condizione umana, in base alla quale ‘è illecito sottrarre
agli individui ciò che possono compiere con le loro proprie forze e di loro iniziativa per
trasferirlo alla comunità, così è ingiusto affidare ad una maggiore e più alta società quello
che le minori e inferiori comunità possono fare’. E’ un principio che sancisce il primato
della persona e delle comunità più vicine alla persona stessa come la famiglia, rispetto
alle comunità più ampie del Comune e dello Stato, che hanno una funzione ‘sussidiaria’
rispetto alla persona e non possono mai richiedere ad essa il sacrificio dei suoi diritti
fondamentali.
L’aspetto antropologico è divenuto sempre più il centro della questione sociale e delle
grandi questioni etiche di oggi, aperte dalle acquisizioni scientifiche intorno al genoma
umano e alla possibilità di manipolare l’identità personale nei suoi dati biologici naturali,
come aveva già riconosciuto ed indicato Paolo VI. 19 (Caritas in veritate n. 75)
L’enciclica di Benedetto XVI mette in guardia sull’atteggiamento dell’uomo moderno che,
perso ogni sentimento del limite, rischia di far coincidere ciò che è possibile con ciò che è
lecito, sdoganando dalla coscienza la sistematica pianificazione eugenetica delle nascite e
l’eutanasia, motivata dal giudizio sul quando la vita non è più degna d’essere vissuta.
Benedetto XVI richiama dunque ad una cultura della vigilanza, necessaria a non
confondere le cose principali (come la questione degli OSM 20 ) con quelle marginali (come
la questione degli OGM 21 ) e del rispetto della vita, della sua dignità e della sua
conservazione sulla terra. Dietro le concezioni aperte a qualsiasi esperimento stanno
posizioni culturali negatrici della dignità umana che alimentano una concezione
materialistica e meccanicistica della vita umana.
Conseguenze della mentalità odierna è la selettività arbitraria di quanto sia degno di
rispetto, vista l’indifferenza per le molteplici forme umane di degrado, in cui ci si
scandalizza per questioni marginali e si tollerano ingiustizie inaudite, come la condizione
dei poveri del mondo.
19
Cfr. don Bruno Bignami, docente di teologia morale:
http://www.youtube.com/watch?v=onC8QmZ0G0I&feature=related; cfr nota 18.
20
OSM= Organismi socialmente modificabili
21
OGM= Organismi geneticamente modificabili
– 9 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
“Dio svela l’uomo all’uomo, la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo
che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica
la grandezza dell’uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della
verità morale”
La caritas in veritate riafferma l’imprescindibile unità tra antropologia ed etica, tra il
principio della consistenza ontologica dell’uomo e le verità di ordine morale.
CONCLUSIONE: Il rapporto tra persona ed etica è pregno di implicazioni di carattere sociale,
politico, giuridico, oltreché filosofico, teologico. Il pensiero sociale cristiano ritiene che
non si possa separare il discorso dell’identità personale da quello relativo ai doveri morali
della persona stessa. La responsabilità personale che il pensiero cristiano situa in un
orizzonte di carattere ontologico ed ancorato al valore stesso della persona umana, dotata
di libertà e della vocazione ad essere interlocutore della Vita, viene invece posta dal
pensiero contemporaneo come fulcro evanescente della persona, considerata ‘centro
dinamico di percezioni e di opzioni’ che la pone in un orizzonte di carattere
convenzionalistico-contrattualistico.
– 10 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Dossier
La Bibbia nell’IRC: da Gesù a Paolo
Per fare il punto sul dibattito del Gesù storico
di Emanuela Prinzivalli 1
1. Perché c'è bisogno di fare il punto sul dibattito intorno al Gesù storico?
Iniziamo i Neg/Otia nostra con un volume dedicato alla figura di Gesù di Nazaret,
perché la questione concernente la ricerca storica intorno a Gesù risulta centrale nel
dibattito culturale su tematiche religiose in questi ultimi tempi.
Nel mondo occidentale secolarizzato, dove le Chiese vedono ridurre la loro capacità di
effettiva influenza sugli individui, l'interesse per Gesù non è affatto scemato, anzi si è
intensificato. Restringendo lo sguardo all'Italia, si debbono segnalare, fra le cause che alla
lontana hanno prodotto tale interesse, da un lato l'ormai quasi totale alfabetizzazione, che
ha messo i singoli in condizione di accedere da soli a testi che parlino di Gesù – siano essi i
vangeli, o la pubblicistica di carattere religioso, oppure quella di vario genere, compresa
la narrativa, non di rado furbescamente scandalistica – sia l'azione della Chiesa cattolica,
che ha incoraggiato, a seguito del rinnovamento promosso dal Concilio Vaticano II, la
lettura diretta delle fonti evangeliche. A ciò si unisca, nel recente periodo, la rinnovata
centralità del fenomeno religioso, su scala mondiale, e il confronto sempre più frequente
nel nostro paese, a causa anche dell'immigrazione, con le religioni diverse dal
cristianesimo, in particolare con l'islamismo, e fra le diverse confessioni cristiane. Si
aggiunga che il richiamo alle origini rappresenta una delle dinamiche interne alla stessa
storia del cristianesimo e quindi le varie correnti riformiste che si oppongono a taluni esiti
istituzionali del cattolicesimo non esitano, in molti casi, a richiamarsi polemicamente alla
diversità degli inizi, e alla medesima diversità si richiamano non di rado anche i polemisti
agnostici o semplicemente anticlericali. Tutto ciò rende naturale interrogarsi anche sulla
figura che ha dato origine al cristianesimo, sulla sua vita e sulle sue intenzioni.
Introduzione al volume: E. PRINZIVALLI (a cura di) – C. GIANOTTO – E. NORELLI – M. PESCE, L'enigma Gesù. Fonti e metodi della ricerca storica, (Biblioteca di testi e studi) Roma, Carocci, 2008. 1 – 11 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Intendiamoci: non voglio dire che il risultato di questo insieme di circostanze, desideri
e pulsioni significhi che i vangeli siano oggi ben conosciuti in Italia – nell'introduzione a un
altro volume pubblicato da Carocci Giorgio Jossa 2 afferma, probabilmente non a torto, che
sono molto poco conosciuti e quasi per nulla compresi –, sostengo che c'è attualmente una
pluralità di modi di fruizione di materiale evangelico o collegato a Gesù, e un'aspirazione
diffusa, forse più velleitaria che consapevole, a comprenderlo non necessariamente
secondo le modalità di presentazione ecclesiastica, o secondo il paradigma di fede, ma
come uomo, che è stato protagonista di un'esperienza tanto straordinaria quanto tragica,
che è nato e vissuto in un preciso contesto culturale, sociale e religioso di cui è stato
partecipe e con cui ha interagito, che ha detto cose che continuano a toccare la coscienza
e il cuore degli uomini. Con ciò credo di aver descritto il processo di avvio, spontaneo e
irriflesso, della domanda di conoscenza storica del personaggio Gesù. Ma se l'avvio
dell'interesse storico su qualsiasi materia che tocchi il nostro presente è un bisogno
spontaneo, deve essere chiaro (e quindi ha bisogno di essere chiarito) ciò che è legittimo
chiedere all'operazione storiografica che a tale bisogno risponde, e, ugualmente,
l'operazione storiografica deve essere condotta seriamente, non barattando il metodo
storico con ibridi surrogati. Per cui, un primo intento di questo volume è di spiegare la
differenza fra una ricerca autenticamente storica su Gesù e i tanti «sentito dire» che
circolano.
Detto questo in generale, bisogna registrare due fatti avvenuti fra il 2006 e il 2007,
entrambi di interesse specifico per il nostro discorso. Da un lato, il grosso successo di
pubblico che ha accolto il volume-intervista di Corrado Augias e Mauro Pesce, Inchiesta su
Gesù; dall'altro l'uscita del volume di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI intitolato Gesù di
Nazaret. Il primo intercetta quella richiesta generalizzata di informazione storica su Gesù,
di cui dicevo sopra. Quanto al secondo, per comprenderne l'importanza basti leggere
quanto ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini: «non era mai successo finora che uscisse
su Gesù un libro di un Papa. Papa Giovanni Paolo II ci aveva abituati a qualche racconto
sulla sua vita. Ma è la prima volta che esce un libro di un Papa che affronta un tema così
arduo e ampio». 3
Il libro di Augias e Pesce è stato accompagnato da una serie di polemiche sulla stampa
che, in ultima analisi, hanno evidenziato, al di là delle critiche su aspetti specifici della
trattazione di entrambi, inficiate a volte dalla confusione fra la posizione di Augias e
quella di Pesce, una rinnovata diffidenza da parte di taluni settori del cattolicesimo
italiano nei confronti del metodo storico applicato alla ricerca su Gesù di Nazaret e,
insieme, il timore per i possibili effetti derivanti dalla divulgazione dei risultati della
ricerca storica. Un'analoga preoccupazione verso la storia e gli storici, espressa, certo, con
linguaggio meditato e pacato, si registra nella premessa di Ratzinger/Benedetto XVI al suo
volume: se è vero, infatti, che il pontefice non manca di citare,
indicandola come «pietra miliare per l'esegesi cattolica» l'enciclica Divino
afflante Spiritu del 1943, che legittimò l'uso per i teologici cattolici del
metodo storico-critico (p. 10), ribadendo, subito dopo, il valore del
metodo storico e il fatto che la storia, «la fatticità», appartiene alla fede
cristiana 4 e quindi essa «deve esporsi al metodo storico» (p. 11), è
altrettanto vero che, proprio in apertura denuncia, a partire dagli anni
Cinquanta del secolo appena trascorso, «lo strappo [corsivo mio] tra il
G. Jossa, La verità dei vangeli. Gesù di Nazaret tra storia e fede, Carocci, Roma 2001, p. 10. «30Giorni», numero di maggio 2007: cfr. l'intervista di Martini al Corriere della Sera, 24 maggio 2007. 4 Per spiegare la frase del pontefice basti ricordare che lo stesso Credo niceno‐costantinopolitano, base comune di dottrina per le varie confessioni cristiane, ricorda alcuni particolari della vicenda storica di Gesù: è stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato e ha patito ed è stato seppellito, cui aggiunge la proclamazione fondamentale di fede: ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture. 2 3 – 12 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
"Gesù storico" e "il Cristo della fede"». Egli si domanda: «che significato può avere la fede
in Gesù il Cristo, se poi l'uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti
e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa?» (p. 7). E, poco oltre (p. 8),
osserva: «come risultato comune di tutti questi tentativi [cioè le ricostruzioni prodotte
dalla ricerca storico-critica] è rimasta l'impressione che, comunque, sappiamo ben poco di
certo su Gesù e che solo in seguito la fede nella sua divinità abbia plasmato la sua
immagine [...]. Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il suo
autentico punto di riferimento: l'intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia
di annaspare nel vuoto» (p. 8). Dunque la figura stessa di Gesù, secondo il pontefice, si
sarebbe allontanata o rischierebbe di allontanarsi dai fedeli per il moltiplicarsi delle
ricostruzioni parziali e per lo iato fra l'annuncio della Chiesa e i risultati della ricerca
storica. Il lettore non può non dedurne che questa intensa preoccupazione guidi il
«tentativo» del suo libro che lo stesso scrivente così enuncia: «presentare il Gesù dei
Vangeli [quando il pontefice parla dei Vangeli intende quelli canonici] come il Gesù reale,
come il "Gesù storico" in senso vero e proprio [...] questa figura è molto più logica e dal
punto di vista storico molto più comprensibile [corsivo mio] delle ricostruzioni con le quali
ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni» (p. 18). Confesso la mia perplessità nei
confronti di questa posizione, la quale d'altro canto, cito le parole dello stesso pontefice,
non vuole essere un «atto magisteriale» (p. 20). Mi sembra infatti che essa conduca a una
confusione e mescolanza del piano storico con il piano teologico, che invece, per poter
interagire utilmente, necessitano allo stesso tempo di distinzione e di una mediazione
complessa, a livello teologico.
In ogni caso, le parole di Benedetto XVI confermano l'attualità
della questione del «Gesù storico» e la persistente
interrogazione, nell'ambito di molti teologi cattolici e forse
anche di moltissimi che teologi non sono, circa il rapporto tra
fede e storia. Non sempre, però, la percezione delle discrepanze
nella ricostruzione storica produce una visione così preoccupata
nei teologi e negli storici che siano anche credenti. Per rimanere
in campo cattolico John P. Meier annota: «non dobbiamo ritenere
i risultati della nostra ricerca insolitamente fragili e incerti. Non
sono fragili e incerti più di molti altri aspetti della nostra vita». 5
Nel campo dei riformati potremmo citare il libro Quale Gesù? Due
letture di Marcus Borg e Tom Wright, 6 entrambi fra i protagonisti
della cosiddetta «Terza ricerca su Gesù»: nella loro comune
introduzione dichiarano di essere «spesso rimasti sbigottiti, e
talvolta turbati, di fronte a certe affermazioni dell'altro», epperò
sempre protetti «dall'amicizia, dalla fede e dalla pratica cristiane
condivise» (p. 6). Non negano che, in generale, l'odierno dibattito
su Gesù si sia fatto aspro, con punte polemiche, 7 ma rivendicano
la possibilità di un diverso modo di procedere, di cui vorrebbero
dare esempio, dialogando, ascoltandosi reciprocamente e
confrontandosi con punti di vista che altrimenti non avrebbero
preso in considerazione. Borg e Wright dicono di offrire il loro
lavoro come «celebrazione della nostra amicizia, della nostra
fede condivisa e del nostro studio» (p. 9). Prendendo le mosse
J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, 1, Le radici del problema e della persona, Queriniana, Brescia 2001 (ed. or. New York 1991), p. 184. 6 M. Borg, N. T. Wright, Quale Gesù? Due letture, trad. di Chiara Versino, Claudiana, Torino 2007 (ed. or. New York 1999). 7 Nelle quali, fra l'altro, loro stessi cadono in altri volumi. 5 – 13 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
dal loro urbano confronto e dalla reciproca accettazione delle divergenze di
interpretazione storica come un passaggio ineludibile e necessario in vista di ulteriori
progressi, mi chiedo – e sto parlando non solo come storica, ma anche come credente,
senza presumere di coinvolgere nessuno dei tre autori del presente volume nelle mie
affermazioni sul versante della fede, – se non sia molto più utile (nonché liberatoria) la
posizione che prenda francamente atto della distinzione tra l'ambito della ricerca storica,
che tale non sarebbe se non trattasse Gesù con lo stesso metodo usato per ogni
personaggio storico, e l'ambito di fede, che tale non sarebbe se pretendesse di essere
dimostrata o rafforzata dagli storici: potremmo chiederci allora se sia fede oppure
umanissimo bisogno di certezze.
Proviamo allora a ribaltare la prospettiva, restituendo alla storia quanto le compete,
cioè la facoltà di considerare storicamente accertati o altamente probabili solo quei fatti
che possono essere ricostruiti in base al metodo storico, con procedimenti e secondo
paradigmi accreditati nell'ambito della comunità degli storici e che possano essere
presentati alla medesima comunità e al pubblico delle persone di buona volontà con la
fiducia che siano accolti a partire da questa base condivisa. Il lavoro dello storico ha
infatti comunque come punto di riferimento la verità, una verità accertabile storicamente,
cioè secondo parametri stabiliti dalla stessa ricerca. Lo storico che manipola la
documentazione, che omette deliberatamente parti di essa, che non dà ragione delle
proprie fonti, che parte da un presupposto, qualsiasi esso sia, da dimostrare a tutti i costi,
non merita il nome di storico. Il fatto che anche il lavoro più serio di uno storico raggiunga
obiettivi limitati è cosa ovvia, ed è un'apparente debolezza che si rivela una forza. Voglio
solo prospettare al lettore, credente o non credente, un'ipotesi: ammettiamo che i fatti su
cui gli storici, o meglio la loro maggioranza, si trovi a concordare a proposito di Gesù siano
un numero esiguo rispetto ai punti che rimangono in discussione, ma siano pur sempre un
certo numero: avremo raggiunto un consenso che prescinde da fede, dottrine, convinzioni
particolari, e che si basa solo su metodi e risultati condivisi. Questo, oltre ad essere un
approdo meritorio in sede storica, e quindi importante per il non credente come per il
credente, non è qualcosa di consolante proprio per quest'ultimo? Significa infatti che c'è
qualcosa di Gesù, anche se poco, che egli può condividere con chiunque, fiducioso che
qualsiasi uomo, che sia leale e intelligente, potrà seguirlo fino a quel punto. Una
consolazione di tal fatta non ha nulla di particolarmente moderno, o di relativista (accusa
di questi tempi lanciata a proposito e a sproposito), ma la riscontriamo anche negli antichi
scrittori cristiani, che, spesso, avevano problemi analoghi ai nostri. Mi piace citare uno di
loro, Girolamo. Come molti sanno, egli è stato l'audace traduttore della Scrittura
direttamente dall'ebraico in latino, in un'epoca in cui cristiani della statura di un Agostino
avevano serie perplessità ad abbandonare l'antica traduzione latina basata sul greco dei
Settanta, perché si sarebbe creata una discrepanza nell'uso del testo sacro con i cristiani
di lingua greca e perché sospettosi nei confronti degli ebrei, con cui c'era continua
polemica, che avrebbero potuto criticare o negare la bontà della traduzione latina.
Girolamo andò avanti per la sua strada; per questo è considerato il padre degli studi biblici
ed è forse per questo stesso motivo che Benedetto XVI ha licenziato il suo volume su Gesù
il 30 settembre, festa di san Girolamo. Ebbene, nel corso del dibattito, Agostino gli obietta
che un suo malcapitato collega, vescovo di una cittadina africana, era stato messo in
difficoltà da alcuni esperti ebrei che, per ignoranza o malizia, avevano dato torto alla
traduzione fatta da Girolamo. Ma quest'ultimo risponde (ep. 112, 21), ribadendo di voler
continuare ad affidarsi agli ebrei per un giudizio, di non credere che tutti gli ebrei
avrebbero avuto lo stesso atteggiamento malevolo di quei pochi del villaggetto africano. In
altri termini Girolamo ritiene il tradurre, anche qualora si eserciti sul testo sacro di ebrei e
cristiani, e come tale oggetto di controversie, un'attività soggetta a pubblica e razionale
verifica, noi diremmo un'attività «scientifica»: un terreno quindi di possibile incontro
– 14 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
anche fra quanti siano divisi da irrimediabili divergenze religiose: se dunque Girolamo
sapeva distinguere i diversi piani di verità, suppongo ci sia almeno una piccola speranza
anche per noi.
Andiamo avanti: ci si lamenta del dubbio rispetto ai vangeli che sarebbe insinuato dalla
moderna ricerca storica e che invece altro non è che il vaglio cui lo storico è obbligato nei
confronti della sua documentazione. Si può rispondere: 1) che gli interrogativi sulla vita di
Gesù non sono appannaggio dell'età contemporanea, perché fin dall'antichità i cristiani
cercarono spiegazioni al problema delle incongruenze e difformità fra i vangeli canonici; 2)
che già gli antichi cristiani, pur del tutto a digiuno del metodo storico-critico e dei suoi
eventuali pericoli, si rendevano implicitamente conto del diverso valore, nonché del
carattere problematico, di talune narrazioni contenute nei vangeli canonici. Potrei portare
centinaia di esempi. Ne faccio solo uno, ben circoscritto. Didimo il Cieco, grande esegeta
del IV secolo, si trova a commentare per i suoi studenti il passo di Mt 27, 52-3 («i sepolcri
si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E, uscendo dai sepolcri, dopo la sua
risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti»), che narra un episodio
sconosciuto agli altri evangelisti. Didimo ammette che il fatto potrebbe essere realmente
avvenuto, data la potenza di Cristo, nondimeno ammonisce l'allievo a non accedere a
questa interpretazione letterale, spiegando: «sta' attento, che non vada contro il seguito
del disegno salvifico. Pensa: se gli uomini avessero riconosciuto i loro congiunti, sarebbero
stati forzati a non restare nell'incredulità». 8 Didimo teme, in sostanza, che, accettando il
senso letterale di un tale miracolo, avvenuto davanti agli occhi di tutti e riguardante gli
affetti di tutti, si avalli l'idea, per lui sbagliata, di un Dio che costringa l'uomo all'assenso
anziché proporgli un dono di grazia e una fiduciosa adesione al mistero. La sua proposta di
un'interpretazione allegorica (i corpi santi sono in realtà le anime) tende a salvare la
validità del testo di Matteo: è chiaro tuttavia che Didimo si muove contro ogni tentativo,
da qualsiasi parte esso venga (persino dallo stesso testo sacro, attraverso una lettura
inadeguata!) di ridurre il salto di qualità che la fede consente all'uomo di compiere.
Mi fermo qui a riguardo, perché volevo solo dare alcuni spunti di riflessione, che il
volume darà modo di approfondire.
2. Qualche informazione di base per orientarsi
Il presente volume ha, nelle intenzioni, una destinazione ampia. Per questo inserisco
ora, con estrema sintesi, alcune nozioni che possano facilitare la comprensione dei capitoli
successivi al lettore che sia completamente digiuno dell'argomento.
Nel corso della lunga storia della ricerca su Gesù 9 sono stati elaborati alcuni criteri per
vagliare il materiale su di lui, che è abbondante, a paragone di quanto di solito accade per
un personaggio dell'antichità. Gesù, predicatore itinerante e maestro, non ha lasciato nulla
di scritto: il suo insegnamento è stato memorizzato, «ri-detto» e trasmesso in ogni
occasione propizia dai suoi seguaci. D'altra parte questa è una situazione consueta nel
mondo antico, nel quale l'oralità è dominante, anche in presenza di opere scritte.
Viene comunemente riconosciuto che chi ha composto le opere che vanno sotto la
dicitura di «vangeli» (prescindo da ogni distinzione fra vangeli canonici e apocrifi) 10 si è
servito di tradizioni precedenti, sia scritte sia orali, variamente assemblate, rielaborate e
Didimo il Cieco, Lezioni sui Salmi. Il Commento ai Salmi scoperto a Tura, Introduzione, traduzione e note di E. Prinzivalli, Paoline, Milano 2005, p. 445. 9 Di cui parlerà Mauro Pesce nel capitolo conclusivo di questo volume. 10 Per quanto riguarda l'irricevibilità di questa distinzione sul piano storico rimando alla spiegazione di Enrico Norelli. 8 – 15 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
ri-orientate 11 secondo le linee di tendenza sue proprie. Dobbiamo quindi immaginare, a
monte del lavoro degli evangelisti, l'esistenza di raccolte più o meno lunghe di detti e fatti
di Gesù, o anche la conoscenza di detti isolati. Insomma, gli studiosi hanno via via
compiuto il cammino di risalita dall'attuale redazione dei vangeli ai materiali preesistenti
che hanno costituito le fonti degli evangelisti. In proposito il primo passo compiuto fu la
determinazione dei rapporti che legavano i tre vangeli di Matteo, Marco e Luca, detti
sinottici perché, se posti su colonne parallele (sinossi), mostravano somiglianze tali da
presupporre rapporti di dipendenza letterale fra loro. Ne risultò la teoria, tuttora
accreditata, nonostante qualche persistente difficoltà, delle due fonti: Matteo e Luca
dipendono da Marco e utilizzano anche un'altra fonte denominata Q da Johannes Weiss nel
1890 (Q è l'iniziale della parola Quelle che in tedesco significa appunto «fonte»),
ricostruibile dagli studiosi solo in via ipotetica. 12 La fonte Q doveva essere un seguito di
detti privo di cornice narrativa (come il Vangelo di Tommaso, che, scoperto
successivamente, dimostrò l'effettiva esistenza di raccolte di questo tipo). 13 Una prova, fra
le altre, dell'esistenza di due fonti per Matteo e Luca è data dall'esistenza dei doppioni,
cioè detti di Gesù che ricorrono due volte in Matteo e Luca, una volta in una forma uguale
a Marco, e un'altra in forma comune a loro due e diversa da Marco: è il caso, per esempio,
del detto «a chi ha sarà dato... a chi non ha sarà tolto...)»: a) Mt 13, 12; Mc 4, 25; Lc 8,
18; b) Mt 25, 29; Lc 19, 26. Matteo e Luca utilizzano inoltre anche materiale proprio, cioè
che l'uno ha e l'altro non ha, e anche questo indica la varietà delle tradizioni loro
pervenute. La tradizione utilizzata nei sinottici fu conosciuta ben oltre i tre vangeli di
Marco, Matteo e Luca, confluendo anche negli apocrifi, 14 ma non esaurisce il corpo di
tradizioni di Gesù: lo stesso Vangelo di Giovanni, che conosce questa tradizione,
rielaborandola profondamente a causa della sua marcata impostazione teologica, conserva
altre tradizioni e informazioni autorevoli. 15 Insomma, non siamo in grado di determinare
l'entità e la diffusione del complesso corpo di tradizioni circolanti su Gesù, in forma orale
e talvolta scritta.
Per quanto concerne i detti di Gesù,
praticamente quasi in nessun caso si può
arrivare a stabilire la forma «letterale» in
cui sono stati pronunciati, non solo per il
fatto che Gesù parlava in aramaico, e per il
fatto che la forma letteraria dei detti può
essere stata modificata per facilitare la
memorizzazione, 16 ma anche perché, come
di recente la ricerca ha preso coscienza,
egli stesso può aver espresso più volte, e
con variazioni, nella performance orale, uno
stesso concetto o una stessa immagine o
Dico «ri‐orientate» in quanto ogni raccolta ha, quasi inevitabilmente, un suo orientamento, perché la memoria non è mai asettica. 12 Tutta questa parte della storia degli studi neotestamentari è merito della grande filologia tedesca dell'Ottocento. Per una rapida informazione si veda F. R. Prostmeir, Breve introduzione ai vangeli sinottici, Queriniana, Brescia 2007 (ed. or. 2007). 13 Si veda il capitolo scritto da Claudio Gianotto in questo volume. 14 Sull'errore metodologico di una distinzione fra canonici e apocrifi per il vaglio e la ricostruzione delle tradizioni su Gesù vedi il capitolo di Norelli nel presente volume. 15 C. H. Dodd, La tradizione storica nel quarto Vangelo, Paideia, Brescia 1983 (ed. or. 1963). 16 Un esempio classico è l'autore della Prima lettera di Clemente ai Corinzi, scritta verso la fine del I secolo, che cita in una diversa forma letteraria alcune delle beatitudini sinottiche. 11 – 16 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
parabola. 17
Tuttavia il contenuto dell'insegnamento, come pure i fatti della sua vita, possono
essere, in molti casi, ricostruiti su base storica grazie alla criteriologia elaborata,
rispondendo alla domanda: in base a quale criterio è possibile distinguere il materiale
effettivamente risalente a Gesù? Il primo a sentire l'esigenza di esplicitare dei criteri,
alcuni peraltro già operanti de facto nella ricerca, fu Ernst Käsemann, allievo del grande
Rudolf Bultmann. Così egli parla in una conferenza del 1953: 18
Ci manca ancora del tutto, per la messa in evidenza del materiale autentico su Gesù,
un presupposto essenziale, vale a dire una visione complessiva dello stadio più antico della
cristianità primitiva, e difettiamo quasi completamente di criteri sufficienti e plausibili
[corsivo mio]. Abbiamo un terreno in un certo senso solido sotto i piedi solo in un caso:
quando una tradizione, per un qualche motivo, non può essere né desunta dal giudaismo,
né attribuita alla cristianità primitiva; e specialmente quando il giudeo-cristianesimo ha
temperato o ritoccato il materiale ricevuto dalla tradizione, perché ritenuto troppo
audace.
Käsemann ha appena enunciato il criterio che sarà denominato della dissomiglianza,
detto anche della discontinuità o della originalità, o della differenza, o della doppia
irriducibilità. I limiti di questo criterio sono evidenti: esso corre il rischio di strappare
Gesù dal suo contesto storico giudaico, facendone un isolato senza radici e senza frutti, ed
è viziato dalla precomprensione teologica che Gesù sia unico e incomparabile. Il criterio
non può però essere abbandonato: esso va usato in positivo, per stabilire l'autenticità di
una tradizione, non in negativo, per respingere ciò che non sembra originale, e deve
essere accompagnato da altri criteri che ne compensino le possibili distorsioni e
restituiscano un quadro d'insieme, che la natura stessa di questo criterio impedisce di
produrre, perché ricupera solo una conoscenza frammentaria. Ciò che si è detto per
questo criterio, vale per qualsiasi altro che venga applicato in via preferenziale o
addirittura unilaterale. Il modo più equilibrato di procedere è invece quello di applicare
congiuntamente un certo numero di criteri riconosciuti come efficaci dalla critica,
tenendo presente che alcuni studiosi tendono a moltiplicarne il numero, a rischio di
confusione. Il lettore italiano, se desideroso di approfondire, ha a disposizione varie
trattazioni in proposito. 19
Iniziamo con: 1) il criterio della molteplice attestazione che può enunciarsi nel modo
seguente: viene ritenuto autentico un detto o un fatto di Gesù trasmesso almeno da due
fonti letterariamente indipendenti l'una dall'altra: per esempio, Paolo e Marco, o il
Vangelo di Tommaso e Luca. Che Gesù abbia predicato il regno di Dio (o dei cieli) è
innegabile, ricorrendo l'espressione in molte fonti indipendenti l'una dall'altra (Marco, Q,
Paolo, Giovanni, Vangelo di Tommaso). Ciò naturalmente non significa che ogni detto
contenente la menzione del regno sia autenticamente gesuano, perché il caratteristico
modo di esprimersi di Gesù potrebbe essere stato imitato. Abbiamo poi: 2) il criterio
17 W. H. Kelber, The Oral and the Written Gospel. The Hermeneutics of Speaking and Writing in the Synoptic Tradition, Mark, Paul, and Q, Fortress Press, Philadelphia 1983. Una buona esposizione della problematica in italiano in J. D. G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I, 1, La memoria di Gesù, Paideia, Brescia 2006 (ed. or. 2003), pp. 207‐70. 18 E. Käsemann, Saggi esegetici, Marietti, Genova 1985, pp. 30‐57, spec. p. 48. 19 Elenco i criteri nell'ordine seguito da Daniel Marguerat nel volume I della monumentale Histoire du Christianisme, condotta sotto la direzione di J.‐M. Mayeur, Ch. Pietri, L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard. Faccio riferimento all'edizione italiana del I volume, dal titolo Il nuovo popolo (dalle origini al 250), curata da P. Grech e A. Di Berardino, Borla‐Città Nuova, Roma 2003 (ed. or. Paris 2000), pp. 32‐4. Fra le altre simili trattazioni, disponibili in italiano va citato innanzitutto Meier, Un ebreo marginale, cit., pp. 137‐90, il quale spiega chiaramente i limiti derivanti dall'applicazione unilaterale di ciascun criterio. Cfr. la spiegazione più sintetica di J. Schlosser, Gesù di Nazaret, Borla, Roma 2002 (ed. or. Paris 1999), pp. 69‐78. Vedi anche i riferimenti forniti da Norelli, alla nota 33 del suo contributo. – 17 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
dell'imbarazzo: sono ritenute autentiche le parole o gli atti di Gesù che, per vari motivi,
hanno creato difficoltà alle comunità primitive: l'esempio classico è il battesimo di Gesù
da parte di Giovanni Battista. Seguendo il racconto dell'evento in Mc 1, 9-11; Mt 3, 13-7;
Lc 3, 21-22 si nota l'accrescimento dei dispositivi di sicurezza per compensare il fatto che
Gesù si sottopone al battesimo di Giovanni, che era «per il perdono dei peccati» (Mc 1, 4)
fino ad arrivare, con il Vangelo di Giovanni, alla soluzione radicale di tacere il battesimo
di Gesù. 3) Il criterio della dissomiglianza è stato già enunciato. Per esempio, ha buona
probabilità di essere autentico l'imperativo «lascia che i morti seppelliscano i morti» (Lc 9,
60) che non ha paralleli, salvo forse presso i filosofi cinici. Potremmo fare altri esempi: la
predicazione del regno, essa soddisfa anche questo criterio perché l'espressione «regno di
Dio» è discontinua rispetto al giudaismo dell'epoca e poco usata nella successiva tradizione
ecclesiastica, Paolo compreso. 4) Il criterio della plausibilità storica è particolarmente
adatto a correggere le eventuali distorsioni prodotte dal criterio precedente. Il criterio
ammonisce a tenere conto del nesso fra Gesù e il contesto giudaico e del nesso fra Gesù e i
suoi effetti: in altre parole, la differenziazione di Gesù può essere sorta solo all'interno del
contesto giudaico e i suoi atteggiamenti devono essere stati tali da spiegare l'evoluzione
successiva. Ad esempio, il suo atteggiamento verso la Legge giudaica è di rifondazione,
non di abrograzione: in questo modo si spiega, riguardo a Gesù, sia la sua relativizzazione
di alcune parti della Legge che arriva alla critica radicale (il detto sulla purità: Mc 7, 15)
sia la sua tendenza ad «inasprire» altre parti per attuare l'intenzione profonda della Legge
(come nel divieto di far adirare il fratello di Mt 5, 22, o quello del giuramento di Mt 5,
33), 20 e, allo stesso tempo si spiegano, per quanto riguarda gli sviluppi successivi, le varie
tendenze presenti fra i seguaci di Gesù nei confronti dell'osservanza della Legge (si pensi
ai contrasti fra la linea degli ellenisti, la linea di Paolo, quella di Giacomo). 5) Il criterio
della coerenza. È un criterio di appoggio, non principale. Una volta stabilito in base ai
criteri sopra esposti il materiale che ha alta probabilità di risalire a Gesù, e una volta
individuate linee di tendenza e costanti nel suo comportamento, si possono integrare nel
quadro elementi che appaiano con esso coerenti. Per esempio: il detto sul divieto del
ripudio gode della molteplice attestazione (cfr. 1Cor 7, 10-1; Mc 10, 1 ss.; fonte Q: Lc 16,
18 e Mt 5, 32), ma taluni fanno notare che non è del tutto originale (a Qumran c'era lo
stesso divieto). A rafforzare l'autenticità gesuana si può invocare il criterio della coerenza,
perché il detto si inserisce in modo coerente nella tendenza all'inasprimento etico della
Legge propria di Gesù.
Naturalmente non dobbiamo aspettarci dall'applicazione di questi criteri una univocità
di risultati: il mestiere dello storico non equivale all'applicazione di una tecnica, ma
investe tutto l'ampio spettro della sensibilità e dell'intelligenza umane. Piuttosto, si tratta
di una piattaforma condivisa di metodi, che consentono a chiunque di valutare il lavoro del
singolo.
Quanto abbiamo detto finora si muove nell'ampio spazio degli studi filologici, e storicoletterari. Ma la ricerca più recente utilizza anche, con profitto, le scienze sociali. 21 In
questo modo si spera di collocare in modo più soddisfacente Gesù e i suoi seguaci nel
contesto della loro cultura e società. 22
3. La struttura del volume
Gli autori di questo volume, Claudio Gianotto, Enrico Norelli e Mauro Pesce, sono tre
esperti della materia, riconosciuti a livello internazionale. Essi hanno animato la tavola
rotonda dal titolo Gesù storico: un enigma?, organizzata dal Dipartimento di Studi storicoCfr. G. Theissen, A. Mertz, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 1999 (ed. or., 1996), pp. 445‐61. Come spiega Mauro Pesce nel suo capitolo. 22 Cfr. W. Stegemann, B. J. Malina, G. Theissen (a cura di), Il nuovo Gesù storico, Paideia, Brescia 2006 (ed. or. 2002). 20 21 – 18 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
religiosi della Sapienza il 20 dicembre scorso, per iniziativa di Elena Zocca, di Francesca
Cocchini e di chi scrive. L'interesse suscitato presso il numerosissimo uditorio ci ha quasi
imposto di tradurre quanto prima in un volume i loro contributi, debitamente ampliati e
ripensati, alla luce della loro reciproca interazione e delle domande poste in quella sede
dal pubblico. I tre interventi si collegano fra loro in un discorso nel quale alla polifonia
degli accenti fa da contrappunto la sostanziale condivisione dei presupposti metodologici,
sì da costituire veri e propri capitoli di un'opera compatta. Il primo capitolo, scritto da
Enrico Norelli, imposta il discorso di metodo, fondamentale per la ricostruzione della
figura storica di Gesù, dell'uso delle fonti antiche. Il secondo capitolo, di Claudio Gianotto,
incentra l'attenzione sulla fonte apocrifa attualmente tenuta in maggior conto dagli
studiosi, il Vangelo di Tommaso. Infine Mauro Pesce entra nel vivo del dibattito
contemporaneo in Italia e all'estero. Sia Norelli sia Pesce tornano sul nodo problematico
del rapporto tra «fede» e «storia».
Naturalmente, nessun libro può pretendere di dare risposta a ogni interrogativo e
dunque nemmeno questo, che fa il punto su alcuni aspetti di una ricerca che avrà ancora
molti sviluppi affascinanti e non del tutto prevedibili. Appare ancora aperto, ad esempio,
il quesito riguardante i motivi per cui proprio i vangeli ascritti a Matteo, Marco, Luca e
Giovanni sono stati canonizzati. Ma l'obiettivo principale mi sembra raggiunto: il lettore
troverà limpidamente spiegati i termini del dibattito attuale e la ricostruzione dei passaggi
salienti della ricerca. Apprezzerà tanto il rigore dell'impostazione critica quanto, nella
diversità dei toni dovuti alle diverse personalità di ciascuno, l'argomentata e talvolta
appassionata difesa del valore della ricerca storica su Gesù di Nazaret, e le prospettive
delineate per il futuro di essa.
Cenni bibliografici
V. FUSCO, La ricerca del Gesù storico. Bilancio e prospettive, in
R. FABRIS (ed.), La Parola di Dio cresceva, EDB, Bologna,
1998, pp. 487-519 [con bibliografia ragionata]
A. PITTA (ed.), Il Gesù storico nelle fonti del I-II secolo, EDB,
Bologna 2005
G. JOSSA, Il Cristianesimo ha tradito Gesù?, Carocci, Roma
2008
G. GAETA, Il Gesù moderno, Einaudi, Torino 2010
G. SEGALLA, La ricerca del Gesù storico, Queriniana, Brescia
2010
G. JOSSA, Gesù. Storia di un uomo, Carocci, Roma 2010
– 19 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
La parabola
di Giuseppe Pulcinelli
Al contrario di quanto sembrerebbe a prima vista, non è facile dire che cos’è una
parabola.
1. Definizione
Un tentativo non molto recente di definizione di parabola è quello che le connota come
“frontiere dell’Evangelo”. L’annunzio del Vangelo è evento di grazia che, accolto nella
fede, conduce alla salvezza. La parabola assume, in questa prospettiva una funzione di
servizio: passando dal piano dell’annuncio a quello del dialogo, la parabola vuole
preparare la via al Vangelo, vuole rimuovere i pregiudizi. Richiamandosi alla razionalità
dell’interlocutore, la parabola intende liberare l’uditore dagli ostacoli che possono
intromettersi fra lui e l’accoglienza dell’annuncio di fede; quest’ultimo non rientra nella
finalità propria della parabola, che difatti può essere raggiunta anche se l’interlocutore
dovesse optare per il rifiuto di tale annuncio.
Compreso questo ruolo all’interno dei Vangeli, la parabola può essere intesa come un
racconto fittizio, narrante cioè una vicenda verosimile (non che sia necessariamente
accaduta ma che potrebbe verificarsi) e direzionale, cioè finalizzato ad un scopo,
costruito strategicamente per sortire un certo effetto e provocare una reazione
nell’interlocutore.
Nel confronto con altri espedienti letterari, la parabola possiede caratteristiche proprie
che non la rendono assimilabile alla allegoria né alla metafora. Cerchiamo di
comprenderne le differenze:
Parabola e allegoria
L’allegoria gioca su un continuo scambio tra immagine e realtà, tra racconto fittizio e
vicenda reale, per cui l’ascoltatore comprende fin da subito il tentativo di comparazione
in atto tra loro, impedendo proprio il mascheramento, condizione necessaria all’effetto
parabola che consiste, come vedremo più accuratamente dopo, nel far sentire ad un certo
punto l’interlocutore “con le spalle al muro” rispetto alla vicenda narrata.
Parabola e metafora
La metafora è costruita sulla giustapposizione di due diversi campi semantici. Nella
parabola non si verifica questo giustapposizione: non nella vicenda fittizia sviluppata
attorno ad una logica interna ben precisa, né al momento del trasferimento nel mondo
reale, trasferimento che si basa necessariamente su una identità strutturale tra le due
situazioni. Nella parabola il confronto poi non avviene a livello semantico (vedremo che
– 20 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
non tutti gli elementi del racconto vanno presi in considerazione) ma, per l’appunto, a
livello logico-strutturale.
Parabola e comparazione
La parabola non è una comparazione ampliata e prolungata. Non è sufficiente che ci sia
un qualsiasi legame tra due frasi e/o due racconti perché sia abbia necessariamente una
parabola. Il trasferimento dal reale al fittizio e viceversa deve condurre a quel preciso
giudizio, e non ad un altro.
2. Come è costruita una parabola e come funziona
L’autore della parabola mette in scena una vicenda, costruisce un racconto fittizio che
però non esclude l’utilizzo di elementi realmente esistenti; l’ambientazione del racconto
fittizio risulta pertanto spesso legata ad un contesto sociale e culturale specifico. Ciò è da
tenere in considerazione, sempre però in un’ottica di subordinazione rispetto
all’intenzione del parabolista, per cui non tutti gli elementi del racconto fittizio andranno
ripresi nella parte applicativa della parabola. Questa costruzione consente all’autore di
trasferire i suoi ascoltatori in un mondo fittizio. Ma il trasferimento è provvisorio: ad un
certo punto gli ascoltatori verranno ritrasferiti dal fittizio al reale, si troveranno faccia a
faccia con una realtà ben determinata, che l’autore della parabola aveva in mente sin
dall’inizio e in funzione della quale aveva costruito il racconto. Questo doppio passaggio
permette all’autore di condurre l’interlocutore verso un giudizio che, nel contesto della
vicenda reale, quest’ultimo non avrebbe mai pronunciato per non mettersi contro se
stesso: il racconto fittizio induce l’ascoltatore a prendere posizione nettamente, non
comprendendo la simmetria con la vicenda di cui è protagonista. La parabola nella sua
applicazione è quindi come un’improvvisa doccia fredda, una specie di tranello (mirante
però alla salvezza e non alla rovina) che scatta quanto è ormai troppo tardi per tirarsene
fuori. Questo artificio ha lo scopo di far allentare quelle resistenze interiori che
inevitabilmente scattano appena ci si accorge di essere interpellati o coinvolti in prima
persona, quando ci si trova di fronte a qualcosa che implica il mettersi in questione, o
quando si sente che riconoscere e ammettere la verità costerebbe qualcosa. Perché la
parabola funzioni correttamente occorre pertanto che il racconto fittizio sia saldamente
strutturato in modo tale che il giudizio che l’interlocutore è chiamato a pronunciare sia
quello pensato dal parabolista e non un altro; inoltre la vicenda fittizia deve trovare il
giusto equilibrio tra diversità ed identità con la vicenda reale tale che quella stessa
valutazione possa essere applicata alla vicenda reale.
Per sintetizzare:
L’autore della parabola mette in scena una vicenda, costruisce un racconto, così da
trasferire i suoi ascoltatori in un mondo fittizio.
Ma il trasferimento è provvisorio: ad un certo punto gli ascoltatori verranno ritrasferiti
dal fittizio al reale, si troveranno faccia a faccia con una realtà ben determinata, che
l’autore della parabola aveva in mente sin dall’inizio e in funzione della quale aveva
costruito il racconto.
Perché questo passaggio?
Risposta: Perché da quel trasferimento nel fittizio si ritorna portando con sé qualcosa.
Ecco un esempio dall’AT: 2Sam 12, 1-7.
– 21 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Il Signore mandò a Davide Natan che, entrato da lui, disse: "C'erano due uomini in una
stessa città, uno ricco e uno povero: il ricco possedeva greggi e armenti in grande
abbondanza; il povero non aveva che un'agnella, piccolina, che aveva comprato; l'aveva
nutrita ed era cresciuta insieme con lui e con i suoi figli; mangiava dal suo piatto, beveva
dal suo bicchiere e dormiva sul suo seno: era per lui come una figlia. Un viandante giunse
dall'uomo ricco; questi però non andò a prendere del suo gregge e del suo armento per
preparare all'ospite venuto da lui, ma prese l'agnella di quel povero e la preparò per
l'uomo venuto da lui". Davide arse d'ira contro quell'uomo e disse a Natan: "Per la vita del
Signore, l'uomo che ha fatto questo è certamente degno di morte! Pagherà quattro volte
l'agnella per aver compiuto un tale misfatto e per non aver avuto compassione". Natan
rispose a Davide: "Sei tu quell'uomo!
L’antefatto di questo episodio è noto ai più: Davide si era reso colpevole non solo di
adulterio con Betsabea ma anche dell’omicidio del marito di lei, Uria l’Hittita. A questo
punto interviene il profeta Natan con questo racconto, per suscitare la reazione del re
Davide.
Cerchiamo di cogliere gli elementi prima definiti teoricamente:
- la vicenda del duplice peccato di Davide è il racconto reale, l’antefatto;
- l’episodio narrato da Natan è il racconto fittizio;
- «Quell’uomo è degno di morte» è il giudizio pronunciato da Davide, già presente
nelle intenzioni del profeta Natan.
- «Sei tu quell’uomo» è la frase che scatena l’effetto parabola e che conduce Davide
alla comprensione del male compiuto
Dicevamo che la parabola nella sua applicazione è come un’improvvisa doccia fredda,
una specie di tranello (mirante però alla salvezza e non alla rovina) che scatta quanto è
ormai troppo tardi per tirarsene fuori. Questo artificio ha lo scopo di far allentare quelle
resistenze interiori che inevitabilmente scattano appena ci si accorge di essere interpellati
o coinvolti in prima persona, quando ci si trova di fronte a qualcosa che implica il mettersi
in questione, o quando si sente che riconoscere e ammettere la verità costerebbe
qualcosa.
Perché non si affronta subito la realtà (presentando subito il messaggio)?
Risposta: Perché queste resistenze interiori impedirebbero - nel caso si presentasse
subito la realtà - di assumere un atteggiamento imparziale e disinteressato.
Attraverso questo passaggio, dal reale al fittizio, implicante un mascheramento, si
mette in condizione l’interlocutore di osservare e giudicare con libertà e imparzialità.
3. Effetto parabola
Il passaggio dal fittizio al reale, che costituisce l’asse portante della struttura di una
parabola, non è un artificio puramente letterale ma ha una sua funzione precisa e ben
determinata. Il parabolista che costruisce il racconto fittizio induce l’interlocutore ad
esprimersi, a prendere posizione e a formulare un giudizio che, come già detto, è ben
presente nella mens dell’autore. il trasferimento ora si inverte: dal fittizio si ritorna al
reale e il giudizio emesso viene attribuito alla vicenda attuale. L’effetto parabola consiste
proprio nell’impossibilità dell’interlocutore di sottrarsi alla valutazione imparziale che lui
stesso aveva emesso.
4. La comprensione di una parabola
La comprensione di una parabola, che culmina in una illuminazione istantanea, include
vari momenti distintivi:
– 22 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
1. capire il racconto;
2. coglierne la pointe (il punto culmine), pronunciando un’opinione-giudizio (cfr. 2Sam
12, 5: «Quell’uomo è degno di morte»);
3. cogliere la complementarietà tra la vicenda fittizia e quella reale, in modo da poter
trasferire dall’una all’altra, il giudizio già pronunciato.
Segue quindi l’"effetto sorpresa", che scatta appena ci si rende conto di essere
interpellati o coinvolti in prima persona in qualcosa che implica il mettersi in questione.
È quindi un procedimento di tipo argomentativo, che implica un mascheramento per
impedire che l’interlocutore sia messo subito direttamente di fronte la realtà che lo
coinvolge.
Per poter funzionare il racconto deve portare una precisa valutazione e non un’altra;
inoltre deve avere sì un mascheramento, una certa differenza con il reale, ma deve altresì
possedere sufficiente somiglianza.
Si dice che la parabola ha un solo "punctum comparationis" (punto culminante da
paragonare tra fittizio e reale): si vuole dire che non tutti gli elementi della vicenda
fittizia vanno trasferiti in quella reale (ce ne sono di eccedenti: cfR in 2Sam 7 Davide non
è ladro di bestiame; per la parabola del granello di senapa [Mc 4,30-32] non è importante
il sapore o il colore; nella parabola del ladro l’aspetto in questione è solo l’imprevedibilità
non certo la disonestà); se tutto fosse trasferibile tra le due situazioni non ci sarebbe solo
corrispondenza strutturale ma addirittura identità, non si avrebbe il "mascheramento", che
è indispensabile al funzionamento della parabola.
Ciò non implica necessariamente che i singoli elementi non abbiano valore, ma solo che
non hanno valore autonomo, valgono per il rapporto che scaturisce dalla loro correlazione.
Infatti nella parabola del granello di senapa il punto da trasferire non è la piccolezza
iniziale, né la grandezza finale, bensì il rapporto dinamico che le collega; altresì nella
parabola del tesoro e della perla (Mt 13, 44-46): oltre al ritrovamento è indispensabile la
vendita di tutti i beni.
La parabola non intende trasmettere un significato, altrimenti se ne potrebbe fare a
meno e spiegare senza mascheramenti, ma vuole sortire un effetto.
(per approfondire: V. FUSCO, Oltre la Parabola, Roma 1983).
5. Evoluzione delle parabole: dal Gesù storico al redattore del vangelo
Leggendo le parabole occorre tener conto che originariamente Gesù si rivolgeva quasi
sempre ad un pubblico misto (discepoli, folla, scribi e farisei, ecc.). In seguito esse
vennero usate nella catechesi della chiesa nascente (per poi confluire nel vangelo scritto),
e furono quindi proposte a dei cristiani, o comunque a credenti in Gesù, subendo quindi un
cambiamento di "pubblico" e quindi di prospettiva.
Facciamo un esempio: la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14):
9
Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e
disprezzavano gli altri: 10 «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e
l'altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio
che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo
pubblicano. 12 Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. 13
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al
cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. 14a Io vi dico:
– 23 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro,
umiliato e chi si umilia sarà esaltato».
14b
perché chi si esalta sarà
Al tempo del Gesù storico il fariseo agli occhi degli ascoltatori rappresentava
generalmente un modello di vita religiosa da imitare (nella chiesa nascente invece, e
sempre più fino ai nostri giorni, è diventato sinonimo di "ipocrita"); il pubblicano (colui che
riscuoteva le tasse per conto dei romani-oppressori), era invece considerano un furfante
sfruttatore e peccatore incallito.
Quindi con buona approssimazione possiamo individuare quali parti della parabola
lucana risalgono al Gesù storico (vv. 10-14a), e quali invece rappresentano l’introduzione
(v. 9: Luca probabilmente ha di fronte a sé una comunità in cui ci sono dei cristiani che si
sentono a posto e giudicano peccatori gli altri) e l’interpretazione dovute al redattore (v.
14b, l’applicazione alla comunità, che riguarda l’atteggiamento giusto o sbagliato da
tenere davanti a Dio, specialmente nella preghiera).
Per capire il senso che la parabola aveva per il Gesù storico occorre prescindere
dall’introduzione e interpretazione-applicazione del redattore (vv. 9 e 14b) e ricollocarsi
nel Sitz im Leben (ambientazione originaria) del Gesù storico: possiamo allora riuscire ad
immaginarci quale effetto-sorpresa, se non un vero e proprio scandalo, devono aver
suscitato le parole di Gesù negli ascoltatori: Il peccatore incallito, ma cosciente della sua
totale dipendenza dalla grazia, viene dichiarato gradito a Dio, che invece rifiuta la
salvezza al fariseo, al "giusto" che si era sforzato con tutte le sue forze di osservare anche
in eccedenza i comandi e i precetti divini!
Il messaggio che Gesù voleva comunicare è che non ci si può salvare con le proprie
forze o esibendo le buone opere fatte, ma vivendo la dipendenza totale dalla grazia di Dio,
cioè nell’atteggiamento giusto che rende onore a Dio che ama poter dare gratuitamente a
chi non ha.
(per approfondire: G. ROSSÉ, I Vangeli. Chi li ha scritti, perché, come leggerli, Roma 1994)
– 24 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
LE PARABOLE NEI VANGELI SINOTTICI
L’uomo forte
Il Seminatore
Il seme che cresce da sé
Il grano di senape
I Vignaioli Omicidi
Il fico germogliante
Il portiere di notte
In strada con l'avversario
Le due case
I ragazzi con flauto
L'albero e il frutto
Lo spirito immondo
La zizzania e il grano
Il lievito
Il tesoro e la perla
La rete da pesca
La pecora smarrita
Il servo spietato
Gli operai dell’ultima ora
I due figli
La grande cena
Gli invitati senza veste nuziale
Il ladro notturno
Il servo e il maggiordomo
Le dieci vergini
I talenti / le mine
Il giudizio universale
I due debitori
Il buon samaritano
L'amico importuno
Il ricco stolto
Il fico sterile
La porta stretta
I posti a tavola
La costruzione della torre
La moneta perduta
Il padre misericordioso
L’amministratore astuto
Il ricco e Lazzaro
Il servo e il padrone
Il giudice la vedova
Il fariseo e il pubblicano
Marco
Matteo
Luca
3,23-27
4,1-20
4,26-29
4,30-32
12,1-12
13,28-32
13,33-37
12,24-29
13,1-23
11,17-22
8,4-15
13,31-32
21,33-46
24,32-16
25,13-15
5,25-26
6,24-27
11,16-19
12,33-35
12,43-45
13,24-31
13,33
13,44-46
13,47-50
18,12-14
18,21-35
20,1-16
21,28-32
22,1-10
22,11-14
24,42-44
24,45-51
25,1-13
25,14-30
25,31-46
13,18-19
20,9-19
21,29-33
19,12-13/12,38-40
12,58-59
6,47-49
7,31-35
6,43-45
11,24-26
13,20-21
15,3-7
14,16-24
12,39-40
12,42-46
19,12-27
7,41-43
10,29-37
11,5-8
12,16-21
13,6-9
13,24-30
14,7-11
14,28-32
15,8-10
15,11-32
16,1-8
16,19-31
17,7-19
18,1-8
18,9-14
– 25 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Alcuni studi generali sulle parabole
- DELORME, J., (Ed.), Les paraboles évangeliques. Perspectives nouvelles, Paris 1989, 452p.
- DODD, C.H., The Parables of the Kingdom (London 1935); ed. riv. ’61. Ital. Le Parabole
del Regno, Brescia 1967.
- DUPONT, J., Porquois des Paraboles? Paris 1977. Ital.: Il metodo parabolico di Gesù,
Brescia 1978
- FUSCO, V., Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Borla, Roma 1983.
- GOURGUES, M., Le Parabole di Luca, LDC, Torino 1998 (orig. fr. 1997)
- GOURGUES, M., Le Parabole di Gesù in Marco e Matteo, LDC, Torino 2002 (orig. fr. 1999)
- JEREMIAS, J., Die Gleichnisse Jesu, Zürich 1947 (Göttingen 81970). Ital., Le Parabole di
Gesù, Brescia 19732
- MAGGIONI, B., Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, Milano 31995 (1992), 251p.
- MUSSNER, F., Il messaggio delle parabole di Gesù, Brescia 1971.
- SEGALLA, G., “Cristologia implicita nelle parabole di Gesù”, in Teol 1 (1976) 297-337.
- WEDER, H., Metafore del regno. Le parabole di Gesù: ricostruzione e interpretazione,
Brescia 1991 (orig. Ted. Göttingen 1978, 19843, rist. 1989).
- ZIMMERMANN R. - KERN G. (edd.), Hermeneutik Der Gleichnisse Jesu (WUNT 231), Tübingen,
Mohr S. 2008 (688p.)
Voci di dizionari
- FUSCO, V., “Parabola-Parabole”, in Nuovo Dizionario di teologia Biblica, a cura di P.
ROSSANO - G. RAVASI - A. GIRLANDA. Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, pp. 1081-1097. Con
ottima bibliografia, anche se fino al 1984.
- CROSSAN, J.D., “Parable”, in ABD 5, [Freedman, David Noel, ed., The Anchor Bible
Dictionary, (New York: Doubleday) 1997, 1992] pp. 146-152.
Sulla metafora
- ECO, U., I limiti dell’interpretazione, Milano 1990, pp. 142-161 [sull’interpretazione delle
metafore]
- BECCARIA, G.L. (ed.), voci: "Allegoria", "Metafora", Dizionario di Linguistica, Einaudi,
Torino 1994.
- MORTARA GARAVELLI, B., Manuale di Retorica, Milano 1989, pp. 160-167.
Sulla didattica delle parabole
- DE VIRGILIO G. - GIONTI A., Le parabole di Gesù. Itinerari: esegetico-esistenziale,
pedagogico-didattico, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2007.
- PFEIFER, A., Gleichnisse im Religionsunterricht der Grundschule?!, in: KatBl 134,5 (2009)
340 - 346.
- ZIMMERMANN, H. O. - SCHENKE, L. (Hg.), Gleichnisse im Religionsunterricht. Exegese und
Umsetzung im Blick auf die religiöse Situation Jugendlicher, exemplarisch aufgezeigt an
der Beispielgeschichte vom Barmherzigen Samariter, in: Jesus von Nazaret - Spuren und
Konturen (2004) 348 - 376.
– 26 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
L’originalità del pensiero di Paolo oggi come allora
di Romano Penna
In genere non è cosa facile cogliere
compiutamente il pensiero di un autore,
essendoci il rischio, se non proprio di travisarlo,
almeno di essere parziali nella sua presentazione.
Uno studioso tedesco di inizio ’900 ebbe a
dichiarare che Paolo «ebbe un solo discepolo che
lo ha compreso, cioè Marcione, il quale però lo
ha frainteso»! D’altronde c’è anche chi ha
sostenuto che è più difficile spiegare il pensiero
di Paolo a chi lo conosce solo a metà di quanto lo
sia a chi non lo conosce affatto 1 . Ovviamente si
tratta di paradossi, che però colgono aspetti reali
inerenti all’impresa. In ogni caso, ritengo che sia
possibile richiamare, sia pur compendiosamente,
il contenuto specifico di un qualunque pensatore nella misura in cui esso è sintetizzabile in
alcuni punti specifici. Così, per esempio, la filosofia di Platone è riassumibile o almeno
tipizzabile con il concetto del «mondo delle idee preesistenti», quella di Aristotele con il
concetto di «essere», quella di Kant con l’assioma della «religione nei limiti della
ragione», quella di Heidegger nel principio dell’«esistenza o del Dasein», ecc.
1. Il caso-Paolo.
Il caso di Paolo è un po’ diverso, dato che i suoi scritti, se si prescinde in parte dalla
Lettera ai Romani, non sono propriamente esposizioni compiute e tantomeno sistematiche
di una dottrina o di speculazioni teoriche, ma sono intese a trattare argomenti specifici
che interessano la vita delle comunità destinatarie. Come cifra del suo pensiero ci si
potrebbe richiamare al concetto di euanghélion. Infatti, almeno un paio di volte egli parla
di un suo proprio vangelo (cf. Rm 2,16; 16,25) e altrove egli vede proprio in esso tutta la
ragion d’essere della sua attività (cf. 1Cor 9,16-23). Ma, a parte il fatto che il vocabolo
stesso significa propriamente «annuncio» e non «insegnamento» (o simili), il suo uso
appare in contesti argomentativi assai limitati, che comunque non spiegano in che cosa
mai esso consista. Non è quindi su questo sintagma che bisogna insistere per conoscere la
tipicità del suo annuncio. Molto più significative sono semmai altre locuzioni, che troviamo
là dove egli accenna a «il vangelo che vi ho annunciato», sia pur compendiosamente, (Gal
1,11), «il vangelo che proclamo» (Gal 2,1), «il nostro vangelo» (2Cor 4,3; 1Tes 1,5), per
non dire dei passi dove l’Apostolo offre addirittura una definizione formale del vangelo
stesso (cf. Rm 1,16-17; 1Cor 1,18-25) o lo presenta come una necessità a cui non può
sottrarsi (cf. 1Cor 9,16.23). In ogni caso non basta richiamarsi al concetto di «evangelo»,
poiché esso andrebbe ulteriormente precisato nei suoi contenuti.
1 I due autori sono rispettivamente Franz Overbeck e William Wrede. Le citazioni sono tratte da O. Kuss, Paolo. La funzione dell’Apostolo nello sviluppo teologico della Chiesa primitiva, San Paolo, Cinisello Balsamo 1974, pp. 369 e 371. Religione Scuola Città – n. 2/2010
Una luce maggiore sulla originalità del paolinismo può venire dalla tipologia della sua
cosiddetta ‘conversione’ 2 . Nell’antichità, oltre al suo caso, ci sono altri due personaggi di
cui è raccontata appunto la conversione, e ad essi accenniamo qui brevemente 3 . L’uno è il
caso di Polemone di Atene, un giovinastro scapestrato e dissoluto che verso il 318 a.C. si
‘convertì’ alla filosofia e divenne il terzo successore di Platone alla guida dell’Accademia,
vivendo poi in una eccezionale rigorosità di costumi. L’altro è il caso di Izate, re
dell’Adiabene (a nord della Mesopotamia) in età claudiana (tra il 41- e il 54 d.C.), che per
l’intervento casuale di due mercanti ebrei si ‘convertì’ al giudaismo abbracciando la legge
mosaica e facendosi circoncidere. Questi due casi presentano rispettivamente un tipo di
conversione morale e un tipo di conversione religiosa. Ebbene, il caso di Paolo non è
riducibile né al primo né al secondo: non al primo, perché egli era già «irreprensibile»
quanto all’osservanza della Legge (Fil 3,6), non al secondo, perché storicamente non ha
senso per lui parlare di un cambiamento di religione 4 . Il caso di Paolo, invece, rappresenta
un’altra tipologia: quella di chi, rimanendo nella sua cultura, aderisce a una persona, in
questo caso a Gesù Cristo, stabilendo con lui un rapporto esistenziale totalizzante.
È proprio nel nome e nella figura di Gesù Cristo, dunque, che semmai si può ridurre in
sintesi il pensiero di Paolo! Infatti per l’apostolo «il vivere è Cristo» (Fil 1,21). Ma dire
«Gesù Cristo» non basta, perché anche altri cristiani della prima ora aderirono a lui,
sostenendo però un’ottica diversa (cf. sotto). Del resto, per stare alla contrapposizione
enunciata a suo tempo da Ernest Renan, ci si può chiedere quale sia il Gesù che conta:
quello del Discorso della montagna o quello della Lettera ai Romani? Per Renan,
condizionato dall’illuminismo, contava il primo. Invece per Paolo, che tra l’altro non
definisce mai Gesù come maestro, conta il secondo, cioè un Gesù che nella sua tipicità non
è riducibile alla figura di un precettore morale.
È dall’insieme delle lettere che possiamo cogliere quale sia, non tanto la formula specifica
della predicazione di Paolo, come se bastasse una semplice battuta per qualificarla, bensì
l’intera sua ermeneutica evangelica, che è complessa e articolata. Una cosa è certa, ed è
che egli si staglia sullo sfondo del cristianesimo delle origini per sicure note di originalità.
Come ebbe a scrivere tempo fa il celebre Albert Schweitzer, «Paolo ha assicurato per
sempre nel cristianesimo il diritto di pensare … Egli non è un rivoluzionario. Parte dalla
fede della comunità, ma non ammette di doversi fermare dove quella finisce … Egli fonda
per sempre la fiducia per cui la fede non ha nulla da temere dal pensiero …. Paolo è il
santo protettore del pensiero nel cristianesimo» 5 ! Forse senza saperlo, con queste parole
Schweitzer di fatto riformulava, applicandolo a Paolo, ciò che già aveva affermato
Sant’Agostino in termini più generali: «Se la fede non viene pensata, è come se non ci
fosse» 6 . In effetti, Paolo ha ripensato la fede, e lo ha fatto in termini non scontati.
Ma procediamo per gradi.
2. Rapporto dialettico con la chiesa primitiva e con il giudaismo.
La teologia di Paolo non è certo spuntata come un fungo all’interno del cristianesimo
delle origini, né è rimasta confinata in uno splendido isolamento. Da una parte, infatti, i
debiti di Paolo nei confronti della chiesa primitiva sono innegabili, come si vede da vari
2 Per essere fedeli al linguaggio proprio di Paolo, non dovremmo usare questo vocabolo, visto che egli non impiega mai il lessico della conversione. Piuttosto egli utilizza le categoria della «visione» (1Cor 9,1), della «apparizione» (1Cor 15, 8), della «illuminazione» (2Cor 4,6), della «chiamata» (Gal 1,15), e della «rivelazione» (Gal 1,16). 3 Per più ampi sviluppi, cf. R. Penna, «Tre tipi di conversione raccontate nell’antichità: Polemone di Atene, Izate dell’Adiabene, Paolo di Tarso», in Id., Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, SBA 6, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 275‐296. 4 A parte il fatto che il latino religio, da cui deriva il nostro vocabolo, non ha un vero corrispettivo né in ebraico né in greco, Paolo non si designa mai come «cristiano» ma solo come «ebreo» (Fil 3,5) o «giudeo» (Gal 2,15). 5 A. Schweitzer, Die Mystik des Apostels Paulus, Mohr, Tübingen 1930, pp.365‐366. 6 Agostino, De praedestinatione sanctorum 2,5: “Fides, si non cogitetur, nulla est” (= PL 44,963). – 28 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
elementi, quali: la sua personale preoccupazione di mantenere opportuni legami con
coloro che avevano aderito a Cristo prima di lui (cf. Gal 2,2.9: «per non trovarmi nel
rischio di correre invano … Diedero a me la loro destra in segno di comunione»”),
qualche citazione esplicita del credo comune (cf. 1Cor 15,3-5: «Vi ho trasmesso ciò che
anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che
fu sepolto e che risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e poi
ai Dodici»), e l’utilizzo di testi che la critica letteraria riconduce con tutta probabilità
ad ambiti giudeo-cristiani preesistenti (cf. la confessione cristologica di Rom 1,3b-4a:
«Nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito figlio di Dio potente secondo lo
Spirito di santità dalla risurrezione dei morti»; e l’ampia composizione innica in Fil 2,611). Semmai bisognerebbe precisare quale sia stata la chiesa che maggiormente gli
trasmise la formulazione degli elementi fondamentali della fede cristiana, se
Gerusalemme o Antiochia 7 . C’è poi da calcolare il ruolo che a Gerusalemme dovrebbe
aver svolto nei suoi confronti il gruppo dei sette cristiani di provenienza giudeoellenista, rappresentati da Stefano e dalla sua predicazione (almeno secondo il racconto
di Luca in Atti 6-7, visto che Paolo nelle sue lettere non ne parla mai), la cui critica al
Tempio e alla Legge mosaica potrebbe avere rappresentato per lui un punto di
partenza, sia prima per la persecuzione sia poi per il ripensamento del messaggio
cristiano 8 . D’altra parte, Paolo ebbe già in vita tutta una serie di collaboratori che
condivisero il suo pensiero prima che la sua sorte apostolica (cf. uomini come Barnaba,
Timoteo, Tito, Epafra, Epafrodito, Tichico, Clemente, Aquila; e donne come Lidia,
Priscilla, Febe, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Pèrside, Giulia), e poi originò una
successiva tradizione teologica attestata sia dalle cosiddette lettere deuteropaoline (le
sei individuate sopra) sia da alcuni autori posteriori (come Ignazio di Antiochia,
Giustino, Ireneo di Lione).
In più, bisogna riconoscere che egli non rinnegò affatto la sua matrice giudaica. Certo
non si professa mai «cristiano», anche perché il termine è sicuramente posteriore
(nonostante At 11,26). E non solo si dichiara «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe
d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei» (Fil 3,5), «stirpe di Abramo» (2Cor
11,22), ma giunge persino ad augurarsi di essere «anàtema, separato da Cristo a
vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne» (Rom 9,3), ai quali
riconosce tutta una serie di peculiarità distintive (cf. Rom 9,4-5: «Essi sono Israeliti e
possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse,
i patriarchi, e da essi proviene Cristo secondo la carne»). Paolo condivide le stesse
«sacre Scritture» (Rom 1,2), la stessa fede monoteistica dello Shemà (cf. 1Cor 8,6), la
stessa attesa del futuro «giorno del Signore» (1Cor 5,5; 1Tes 5,2; ecc.), la stessa
concezione di fondo su Israele come popolo scelto e amato da Dio, che lo ha chiamato
«senza pentirsene» (Rom 11,29). Egli perciò avrebbe sicuramente continuato a definirsi
un «Giudeo», anche se un giudeo «in Cristo».
Resta il fatto che Paolo fu a sua volta incompreso e fortemente contrastato. Ciò si
verificò già da parte degli ebrei di fede giudaica, da cui fu ripetutamente flagellato
(«Cinque volte dai Giudei ricevetti i quaranta colpi meno uno»: 2Cor 11,24; cf. anche
1Tes 14-16) e in vari luoghi fu variamente oggetto di violenza (cf. At 9,23 [a Damasco]
7 Decisivo per lui fu il triangolo formato da Gerusalemme‐Damasco‐Antiochia sull’Oronte: poiché di una comunità cristiana a Damasco sappiamo pochissimo, gli Studiosi si suddividono in base alla preferenza da dare o a Gerusalemme o ad Antiochia. 8 Gli studi più rappresentativi in materia raggiungono conclusioni diverse. Per M. Hengel, «Zwischen Jesus und Paulus. Die ‘Hellenisten’, die ‘Sieben’ und Stephanus (Apg 6,1‐15; 7,54‐8,3)», in ZTK 72 (1975) 151‐206, Stefano sarebbe un ponte tra Gesù e Paolo. Secondo H. Räisänen, «The ‘Hellenists’ – A Bridge between Jesus and Paul?», in Id., The Torah and Christ, Raamattutalo, Helsinki 1986, pp.242‐306, egli invece si connetterebbe più a Gesù che a Paolo. Da parte sua S. Légasse, Stephanos, LD 147, Cerf, Paris 1992, ritiene che l’immagine di Stefano presente negli Atti sia sostanzialmente lucana cioè redazionale; così anche F. Vouga, Il cristianesimo delle origini: scritti, protagonisti, dibattiti, Claudiana, Torino 2001, pp. 47‐52. Più possibilista dal punto di vista storico si dimostra invece E.J. Schnabel, Urchristliche Mission, Brockhaus, Wuppertal 2002, pp.643‐653. – 29 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
.29 [a Gerusalemme]; 13,50 [ad Antiochia di Pisidia]; 17,5 [a Tessalonica].13 [a Berea];
18,12-17 [a Corinto]; 21,27 [tentativo di lapidazione a Gerusalemme]). Ma l’opposizione
fu messa in atto sorprendentemente anche da quegli ebrei, che per aver aderito a Gesù
Cristo condividevano la stessa fede cristiana, sostenendo però un’altra ermeneutica
dell’evangelo. Egli li chiama ironicamente «super-apostoli» (cf. 2Cor 11,4-5.22-26) o
«falsi fratelli, che si sono intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo» (Gal 2,45; cf. anche Gal 2,11-15; 4,29; 5,11; Fil 3,2-3; Rom 16,17-18). Questi fatti suscitano un
interrogativo inevitabile: Come mai Paolo fu così osteggiato? Qui si pone il complesso
problema storico e teologico del cosiddetto ‘giudeo-cristianesimo’, cioè di quel settore
del primo cristianesimo di provenienza giudaica (di cui fu esponente Giacomo, «fratello
del Signore», autore o referente della lettera omonima), che accettò la fede in Gesù
Cristo ma la combinò con una perdurante osservanza della Torah o di parte di essa 9 .
Con ciò tocchiamo il punto centrale dell’originalità del pensiero paolino: un argomento,
che ha molte sfaccettature e che va trattato ripartitamente.
3. Il punto focale.
Stabilito che al centro della teologia paolina c’è Gesù Cristo, ci si
pone la questione di sapere quale sia la sua ermeneutica specifica 10 .
Mentre la tesi luterana classica punta sulla centralità della
giustificazione per fede (così R. Bultmann, E. Käsemann, H. Hübner),
altri all’interno dello stesso protestantesimo sottolineano piuttosto la
decisività dell’unione mistica con Cristo (W. Wrede, A. Schweitzer,
E.P. Sanders); altri ancora evidenziano il valore della teologia della
croce (U. Wilckens, J. Becker) o la dimensione apocalittica della
rivelazione di Dio in Cristo (J.C. Beker) o la costante tensione verso
orizzonti universalistici (K. Stendahl, F. Watson, J.D.G. Dunn) o infine
vedono semplicemente in Cristo stesso il fattore oggettivo e
scatenante di tutta la teologia del Paolo cristiano (L. Cerfaux, R.
Schnackenburg). Certo è che per Paolo fu appunto la scoperta della
figura di Cristo e della sua valenza soteriologica a costituire la causa,
l’origine, la fonte del suo sfaccettato discorso sulla fede, sulla
giustificazione, sulla partecipazione mistica, sull’evento crocerisurrezione, e sulla destinazione universale dell’evangelo 11 .
Non che tutti questi vari capitoli sarebbero rimasti lettera morta
senza l’adesione a Cristo. Per esempio, di fede in Dio Paolo avrebbe
certamente continuato a parlare anche come semplice Giudeo, viste
le celebrazioni della fede (’emunàh) che si fanno in vari scritti
9 A questo proposito, cf. C. Gianotto, «Il movimento di Gesù tra la Pasqua e la missione di Paolo», in R. Penna, a cura, Le origini del cristianesimo. Una guida, Carocci, Roma 2004, 22006, 95‐127. Accogliendo la distinzione proposta alcuni anni fa da R.E. Brown e J.P. Meier, Antiochia e Roma, chiese­madri della cattolicità antica, Cittadella, Assisi 1987 («Introduzione»), potremmo suddividere i Giudei che aderirono a Gesù Cristo in quattro gruppi, da una posizione di destra a una di sinistra: (1) coloro che insistevano sulla piena osservanza della legge mosaica, inclusa la circoncisione (cf. At 11,2; 15,5; Gal 2,4); (2) coloro che non insistevano sulla circoncisione ma richiedevano dai pagani l’osservanza di alcuni precettti giudaici (cf. At 15; Gal 2,11‐14; Apoc 2,14; comprese le figure di Giacomo e forse di Pietro); (3) coloro che non insistevano né sulla circoncisione né su alcun altro precetto giudaico (così Paolo); (4) coloro che non riconoscevano più nessun significato al culto e alle feste giudaiche (forse i Sette di At 6,1‐6; certo il Vangelo di Giovanni e la Lettera agli Ebrei). 10 La questione è stata riproposta fortemente da D.A. Campbell, The Quest for Paul’s Gospel. A Suggested Strategy, T&T Clark, London‐New York 2005, che peraltro sposa apertamente la posizione di E.P. Sanders. In second’ordine, cf. pure le ricerche di J. Plevnik, «The Center of Pauline Theology», CBQ 51 (1989) 461‐478; V.P. Furnish, «On Putting Paul in His Palce», JBL 113 (1994) 3‐17. 11 Cf. anche L.W. Hurtado, Signore Gesù Cristo. La venerazione di Gesù nel cristianesimo più antico, I, Paideia, Brescia 2006, 90‐
159; G.D. Fee, Pauline Christology. An Exegetical­Theological Study, Hendrickson, Peabody 2007. – 30 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
rabbinici 12 . Ciò vale pure per l’idea di una rivelazione di Dio nella storia umana,
specialmente di Israele, come si esprime qualche testo rabbinico sia pure stabilendo una
netta differenza con i pagani 13 . Inoltre, benché il messianismo del tempo fosse un
fenomeno molto complesso 14 , Paolo avrebbe comunque continuato a sperare nella
venuta del Messia come liberatore d’Israele, se non dell’umanità intera 15 , anche se in
base alla sua formazione farisaica avrebbe piuttosto attribuito alla Torah il peso
maggiore come criterio di individuazione del vero Giudeo 16 .
Ma di tutti questi concetti egli ha operato un vero e proprio reset, una riconfigurazione,
tale da rielaborarli e fonderli in una sintesi nuova, sicché ciascuno di essi alla fine è
caratterizzato da una semantica diversa da quella originale. Ebbene, se volessimo
ricercare la causa responsabile dell’innovazione non la troveremmo, se non nella
percezione della portata dirompente della figura e dell’operato di Gesù Cristo, il quale,
nient’altro che per la sua identità messianica diversamente concepita in rapporto alle
premesse giudaiche, ridefinisce sia la fede in Dio sia l’idea di storia della salvezza, ecc.
Si intuisce quindi che la novità del pensiero di Paolo va assolutamente associata con la
determinante esperienza da lui fatta sulla strada di Damasco 17 , a cui si aggiungerà poi
anche il fatto di un certo qual sviluppo del pensiero 18 , condizionato di volta in volta
dalle diverse situazioni delle chiese destinatarie delle sue lettere cioè delle sue prese di
posizione.
4. La portata soteriologica e universalistica della figura di Gesù Cristo.
Chi è dunque Gesù Cristo secondo Paolo? La posizione di chi vorrebbe vedere nell’Apostolo il vero fondatore del cristianesimo come religione di redenzione, in quanto egli
avrebbe appunto trasformato Gesù in un Redentore, cozza inevitabilemente contro due
fatti inoppugnabili: il fatto che già prima di lui Gesù veniva confessato come «morto per
i nostri peccati» (1Cor 15,3: citazione di una confessione di fede anteriore all’Apostolo),
12 Per esempio il Talmud babilonese, Makkot 24a, addirittura sintetizza i 613 precetti, dati secondo la tradizione a Mosè, nella sola esigenza della fede espressa in Ab 2,4 (cf. R. Penna, «Il giusto e la fede. Abacuc 2,4b e le sue antiche riletture giudaiche e cristiane», in La parola di Dio cresceva (At 12,24). Scritti in onore di Carlo Maria Martini nel suo 70° compleanno, a cura di R. Fabris, RivBib Suppl. 33, EDB, Bologna 1998, 359‐380). 13 Il midrash Genesis Rabbà 52,5, presupponendo una rivelazione anche fuori d’Israele, si esprime così: «Che differenza c’è tra i profeti d’Israele e i profeti dei pagani? Si può istituire il paragone con un re, che si trovava insieme a un amico in una sala e un velo pendeva fra di loro: quando il re desiderava parlare col suo amico, lo sollevava; ma quando parlò ai profeti dei pagani non sollevò il velo, bensì si rivolse loro standovi dietro. Si può anche paragonare con un re, che aveva una moglie e una concubina: la prima egli la visitava apertamente, l’altra segretamente. Similmente il Santo, benedetto egli sia, parlò ai profeti pagani soltanto con mezze parole, ma ai profeti d’Israele parlò con parole intere, con linguaggio d’amore». 14 Vedi per esempio il plurale usato da J. Neusner, W.S. Green, E,S. Frerichs, eds, Judaisms and Their Messiahs at the Turn of the Christian Era, Cambridge 1987. Cf. anche J.J. Collins, The Scepter and the Star. The Messiahs of the Dead Sea Scrolls and Other AncientLiterature, Doubleday, New York‐London 1995; G.S. Oegema, The Anointed and his People. Messianic Expectations from the Maccabees to Bar Kochba, Academic Press, Sheffield 1998. 15 Cf. l’apocrifo Salmi di Salomone 17,21‐31 (secolo I a.C.): «Guarda, Signore, e fà sorgere il loro re figlio di David … e cingilo di forza così che possa spezzare i governanti ingiusti … E riunirà un popolo santo … e non permetterà che l’ingiustizia abiti ancora tra loro … Terrà i popoli pagani sotto il suo giogo … sicché giungeranno nazioni dall’estremità della terra per vedere la sua gloria». Erano però riprovati i tentativi di calcolare la fine: «Maledetti coloro che calcolano la fine, in quanto dimostrano che, essendo la fine giunta e il Messia non arrivato, non verrà mai più; invece, aspettatelo, come è detto: “Anche se tarda, aspettalo” (Ab 2,3)» (Sanhedrin 97b). 16 Il Talmud babilonese dice: «Tutte le fini sono passate (e il Messia non è ancora venuto); dipende solo dal pentimento e dalle buone opere» (Sanhedrin 97b); e il Talmud palestinese precisa: «Se Israele si pentisse un giorno solo, immediatamente verrebbe il figlio di Davide; se Israele osservasse a dovere un solo Shabbat, immediatamente verrebbe il figlio di Davide» (Taanit 64a). 17 Cf. C. Dietzfelbinger, Die Berufung des Paulus als Ursprung seiner Theologie, WMANT 58, Neukirchener, Neukirchen‐Vluyn 1985; S. Kim, The Origin of Paul’s Gospel, WUNT 2.4, Mohr, Tübingen 1981; Id., Paul and the New Perspective. Second Thoughts in the Origin of Paul’s Gospel, Eerdmans, Grand Rapids‐Cambridge 2002. 18 Cf. per esempio P. Benoit, «L'évolution du langage apocalyptique dans le corpus paulinien», in Aa.Vv. Apocalypses et théologie de l'espérance: ACFEB, Congrès de Toulouse 1975, LD 95, Cerf, Paris 1977, pp.299‐335; U. Schnelle, Wandlungen im paulinischen Denken, SBB 137, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1989. – 31 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
e il fatto che egli non definisce mai Gesù né come Redentore 19 né come Salvatore 20 ,
mentre la formulazione astratta e d’impronta cultuale circa la morte «per i peccati»
viene sostituita da lui con termini di tipo personalistico con la dizione «per tutti, per
voi, per noi, per me, per gli empi» (cf. rispettivamente 2Cor 5,14s; 1Cor 11,24; 1Tes
5,10; Gal 2,20; Rom 5,6) 21 .
L’Apostolo condivide con il cristianesimo primitivo, a lui anteriore, la fede scandalosa di
definire Messia (Christòs) e persino Signore (Kyrios) 22 non un sovrano potente e glorioso,
ma un oscuro galileo miserevolmente condannato all’ignominia della croce, la cui gloria
in termini paradossali si ritiene che gli provenga soltanto dal fatto di avere dato la vita
per gli altri e di essere stato, proprio «per questo motivo» (dió: così nell’inno prepaolino di Fil 2,9), inopinatamente risuscitato dai morti da Dio stesso. Dunque, almeno
in gran parte, i primi cristiani ritengono che Gesù sia «morto per i nostri peccati» (1Cor
15,3) 23 e che con la risurrezione dai morti sia stato «costituito figlio di Dio potente»
(Rom 1,4a). Inoltre, alcune forme di missione (giudeo-cristiana, all’interno di Israele)
devono essere esistite anche prima di Paolo, benché limitate e soprattutto esenti da
conclamate sottolineature polemiche nei confronti della matrice giudaica 24 . Perciò
l’ebreo Paolo condivide con altri ebrei (poiché tali furono tutti i primi discepoli di Gesù)
una fede che riguarda pure un altro ebreo, certamente atipico, ma estremamente
umano, culturalmente appartenente a una non brillante regione palestinese del tempo.
Certo, dal punto di vista storiografico, c’è da essere meravigliati che nel giro di
pochissimi anni di un certo Galileo chiamato Gesù (che del resto era un nome molto
diffuso nell’ambiente giudaico) si siano potute dire cose del genere. Ed è già tantissimo.
Di suo, in più, Paolo ritiene che questo Gesù (Cristo e Signore) sia l’iniziatore di una
nuova stagione della storia e di una nuova identità antropologica dalle ricadute
universalistiche, eventualmente paragonabile non a un re come Davide o a un profeta
come Isaia, ma neppure a un grande legislatore come Mosè, bensì soltanto a chi è
anteriore a tutti costoro e per di più non appartenente al popolo storico d’Israele, cioè ad
Adamo progenitore dell’intera umanità (cf. 1Cor 15,21-22.45-47; Rom 5,12-21) 25 . Sicché,
con il Cristo ha luogo nell’uomo credente una «nuova creazione» (2Cor 5,17; Gal 6,15).
Certamente Paolo non ha un’idea gnostica di Gesù, quasi fosse un rivelatore angelico che
non avesse nulla da spartire con questo mondo caduco e con i chiaroscuri della storia; al
contrario, egli sa bene che Gesù è discendente di Abramo (cf. Gal 3,16), poiché è
precisamente il popolo israelitico ad avere prodotto «il Cristo secondo la carne» (Rom
9,4).
Ma gli orizzonti di questo giudeo atipico, che è Paolo, vanno molto al di là di Israele:
a lui interessa l’uomo come tale, ogni uomo, a prescindere da qualunque distinzione o,
peggio, contrapposizione culturale e religiosa. Lo confessa ai Romani: “Io sono in debito
19 Certo Paolo impiega il sostantivo astratto «redenzione» (apolýtrosis), ma molto raramente (solo in Rom 3,24; 8,23; 1Cor 1,30), e in più sapendo bene che esso non è di origine cultuale ma profana‐sociale (rapportato al riscatto di schiavi o prigionieri). 20 Paolo impiega il titolo di «salvatore» (sotér) una sola volta (in Fil 3,20), e lo fa in riferimento non all’operato storico o attuale di Cristo bensì soltanto alla sua venuta escatologica, come a dire che solo alla fine dei tempi egli si manifesterà come salvatore! Cf. F. Jung, SOTER. Studien zur Rezeption eines hellenistischen Ehrentitels im Neuen Testament, NA 39, Aschendorff, Münster 2002 (su Fil 3,20: pp. 309‐316). 21 Vedi anche R. Penna, «Il fattore‐chiesa tra Gesù e Paolo. Rivisitazione del topos sul secondo fondatore del cristianesimo», in Id., Paolo e la chiesa di Roma, Paideia, Brescia 2009. 22 Egli non utilizza mai i titoli cristologici né di Maestro né di Profeta, che pur dovevano appartenere al linguaggio dei discepoli della prima ora! 23 Sull’esistenza di discepoli di Gesù che, tuttavia, non computavano la morte di lui come redentrice, cf. R. Penna, «Cristologia senza morte redentrice: un filone di pensiero del giudeocristianesimo più antico», in Id., Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, SBA 6, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 680‐704. 24 Cf. l’esposizione dettagliata di E.J. Schnabel, Urchristliche Mission, Wuppertal 2003, 654‐883; e F. Vouga, Il cristianesimo delle origini, 36‐52 e 88‐95; J. Gnilka, I primi cristiani. Origini e inizio della chiesa, Paideia, Brescia 2000, 322‐335. 25 Cf. G.D. Fee, Pauline Christology, 512‐529. – 32 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
tanto verso i Greci quanto verso i Barbari, tanto verso i sapienti quanto verso gli ignoranti”
(1,14); e ai Corinzi ammette: “Mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei;
con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, … con
coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge … Tutto io faccio
per l’evangelo, per diventarne partecipe con loro” (1Cor 9,20-23). Anzi, se ha una
preferenza, essa è per i Gentili, cioè per coloro che erano tradizionalmente tagliati fuori
dalla tipica coscienza di Israele circa la propria elezione distintiva: “Ecco che cosa dico a
voi Gentili: come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di
suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni” (Rom 11,13-14). In
quest’ultima frase sarebbe fuori luogo leggere anche solo un’ombra di antigiudaismo,
poiché subito dopo Paolo definisce «sante le primizie e la radice», su cui sono fondati i
Gentili convertiti alla fede cristiana, e «buono» l’ulivo su cui «contro natura» è innestato
l’ulivo «selvatico» degli stessi Gentili credenti (Rom 11,16-24) 26 . In queste dichiarazioni
non si può affatto intravedere la fregola di un proselitismo a tutti i
costi, magari fine a se stesso; ma c’è sicuramente l’entusiasmo di chi
«vive per Cristo» (Fil 1,21), poiché è stato «ghermito» da lui (Fil 3,12),
è «tenuto in pugno dal suo amore» (2Cor 5,14), e si sentirebbe un
traditore se non lo annunciasse ai quattro venti (cf. 1Cor 9,16-17; Fil
1,18). Né si può parlare di fanatismo, che semmai contraddistinse la
fase pre-cristiana della sua vita; come cristiano, invece, egli esorta a
«non farsi un’idea troppo alta di sé», a «non rendere a nessuno male
per male», a «vivere in pace con tutti» (Rom 12,16-18), a
«sperimentare ogni cosa e tenere ciò che è buono» (1Tes 5,21), in una
parola a pensare in grande: «Tutto ciò che è vero, tutto ciò che è
nobile, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è onesto, tutto ciò che è
amorevole, tutto ciò che vi fa onore, se c’è qualcosa di valore e se c’è
qualcosa di lodevole, questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8).
Ma ecco ancora ripresentarsi la domanda: che cosa significa,
dunque, Gesù Cristo per Paolo? In breve, e a livello di superficie,
potremmo dire che ai suoi occhi il Cristo rappresenta il superamento
della disuguaglianza tra Giudei e Gentili: non nel senso della
eliminazione della peculiarità di Israele, ma nel senso di una
equiparazione dei secondi con i primi. Tutta l’attività missionaria di
Paolo, che con ogni verosimiglianza, almeno nella forma a noi nota,
non avrebbe avuto luogo senza la sua adesione alla fede cristiana 27 ,
consistette proprio in questo: nell’eliminare la distanza che separava i
Gentili dai Giudei, ritenuti comunque il popolo dell’alleanza con Dio,
al fine di includervi anche gli ‘altri’, i ‘diversi’, i ‘lontani’ 28 . Ma il
principio ispiratore del suo impegno non era più soltanto il desiderio di
procurare a Israele dei «proseliti» provenienti dal versante dei Gentili,
26 Cf. maggiori approfondimenti nella monografia di T.L. Donaldson, Paul and the Gentiles. Remapping the Apostle’s Convictional World, Fortress Press, Minneapolis 1997. E vedi anche l’esegesi del passo paolino in R. Penna, Lettera ai Romani – II. Rm 6­11, SOC 6/11, EDB, Bologna 2006, 22007, 356‐370. 27 Con tutta probabilità egli sarebbe rimasto confinato nella terra d’Israele (o sarebbe tornato a Tarso?), forse come maestro di una vita ‘ortodossa’, conforme alle regole della Torah; è probabilmente a questo che si riferisce in Gal 5,11, dove ammette di avere «predicato la circoncisione» quando non era ancora cristiano; un possibile modello di un’attività rivolta ai Gentili potrebbe essere dato dal mercante Eleazaro di età claudiana, che solo occasionalmente insegnò la Torah al pagano Izate re dell’Adiabene (cf. Fl. Giuseppe, Ant. 20,43). 28 “La quintessenza del vangelo di Paolo sta nell’accettazione degli ‘altri’, nel suo caso i Gentili, così come sono … C’è qui un profondo messaggio per i cristiani di oggi, che affrontano la sfida di ridefinire la loro identità di fronte ad ‘altri’ in questo sempre più pluralistico e postmoderno villaggio globale” (E. Chun Park, Either Jew or Gentile. Paul’s Unfolding Theology of Inclusivity, Westminster J.K. Press, Luisville‐London 2003, p.ix). Di fatto, Paolo è l’ebreo che ha precisato come anche noi pagani possiamo considerarci figli di Dio, legittimandoci a dirlo (cf. K. Stendahl, Paolo tra ebrei e pagani, Claudiana, Torino 1995, pp.147s). – 33 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
così da realizzare la voluta parità sulla base dell’osservanza della medesima Torah
divina 29 . Era invece la persona viva di Gesù Cristo, in quanto ritenuto mediatore non più
della rivelazione di una nuova legge imposta all’uomo, bensì di una grazia cioè di un
favore divino, che includeva i Gentili prima ancora e, anzi, a prescindere da ogni criterio
legalistico o morale 30 . Il giudeo Paolo poteva pur ritenere anche la legge mosaica come
una grazia concessa da Dio a Israele (cf. Dt 4,7-8.37-40; Bar 3,27-4,4) o comunque come
qualcosa di conseguente rispetto al favore fondamentale della liberazione dall’Egitto, su
cui peraltro si basava la legittimità della Legge stessa 31 . Ma il cristiano Paolo ritiene ormai
che con l’offerta totale della vita fatta da Cristo e con la sua risurrezione, la grazia di Dio
non solo non passa più attraverso comandamenti e precetti, ma supera anche di gran lunga
l’idea di liberazione (nazionale e politica) connessa con l’antico esodo; anzi, se questa
costituiva il fondamento della Torah, ormai con la morte/risurrezione di Cristo il
fondamento è cambiato, e dunque la sua sostituzione regge anche qualcosa di sostitutivo
della Legge. Secondo lui, pertanto, l’uomo può ormai essere ritenuto «giusto» (cioè,
santo) agli occhi di Dio, non più in base a ciò che l’uomo stesso possa fare di moralmente
giusto in conformità ai dettami della legge (le «opere»), ma in base alla semplice
accettazione per fede di quell’evento di morte e risurrezione in quanto valido per tutti gli
uomini e per ogni singolo individuo. E se la legge mosaica non è più il criterio distintivo
della rivelazione di Dio e dell’identità religiosa dell’uomo, allora l’accesso a Dio (al Dio
d’Israele!) non è più riservato ai Giudei ma è aperto anche a tutti i Gentili. Così quella di
Paolo diventa una battaglia in favore dell’inclusivismo. La sua èormai «una tollerante
indifferenza alle differenze» 32 .
5. Cristo e/o Torah.
In definitiva, l’evangelo e la missionarietà di Paolo si spiegano solo in base a precise
premesse sia cristologiche sia anche giudaiche. Le premesse cristologiche sono le più
decisive: esse consistono non tanto nel dovere di ottemperare a un comando missionario
del Gesù terreno, visto che nelle sue lettere Paolo non cita mai una qualunque parola del
Gesù terreno circa la necessità della missione 33 , ma piuttosto nel fatto di essersi reso
conto della portata dirompente della fede nel Cristo crocifisso/risorto, che d’un balzo
supera ogni steccato e accomuna tutti gli uomini su un piede di parità. Le premesse
giudaiche sono di vario genere 34 : benché il giudaismo del tempo non attesti la prassi di una
qualche propaganda missionaria ufficiale 35 , tuttavia è innegabile che esso praticava in
29 Sull’argomento, cf. la voce «Proselyte» di P.F. Stuhrenberg, in The Anchor Bible Dictionary, vol. 5, Doubleday, New York‐
London 1992, 503‐505; e più diffusamente B. Wander, Timorati di Dio e simpatizzanti. Studio sull’ambiente pagano delle sinagoghe della diaspora, SBA 8, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002. 30 Cf. R. Penna, «Resto d’Israele e innesto dei Gentili. La fede cristologica come modificazione del concetto di alleanza in Rm 9‐
11», in J.E. Aguilar Chiu, F. Manzi, F. Urso, C. Zesati Esrada, a cura, «Il Verbo di Dio è vivo». Studi sul Nuovo Testamento in onore del Cardinale Albert Vanhoye, S.I, Analecta Biblica 165, PIB, Roma 2007, 277‐299. 31 Cf. approfondimenti di questo aspetto in E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Paideia, Brescia 1986, pp.133‐136 (sul rabbinismo).382ss (su Qumran). 32 A. Badiou, Paolo. la fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli 1999, 153. 33 E dire che la tradizione proto‐cristiana ha conservato molte parole di invio in missione, attribuite a Gesù: cf. Mt 10,5‐16; 28,19; Mc 13,10; 14,9; 16,15; Gv 17,18; 20,21; At 1,8. 34 Cderto bisogna anche tener conto di premesse offerte dall’ampio mondo greco‐romano: cf. R. Penna, «Aperture universalistiche in Paolo e nella cultura del suo tempo», in Id., Vangelo e inculturazione, 323‐364. 35 Gli studi in merito sono numerosi e rappresentano posizioni diverse: mentre alcuni sono fortemente negativi (cf. S. McKnight, A Light Among the Gentiles. Jewish Missionary Activity in the Second Temple Period, Fortress Press, Minneapolis 1991; E.Will & C. Orrieux, “Prosélytisme juif?”. Histoire d’une errreur, Les Belles Lettres, Paris 1992; M. Goodman, Mission and Conversion. Proselytizing in the Religious History of the Roman Empire, Clarendon Press, Oxford 1994; E.J. Schnabel, Urchristliche Mission, cit., pp.94‐175), altri invece sostengono posizioni più sfumate (cf. L.H. Feldman, Jew and Gentile in the Ancient World: Attitudes and Interactions from Alexander to Justinian, University Press, Princeton 1993, soprattutto pp.288‐341; R. Goldenberg, The Nations that Know Thee Not. Ancient Jewish Attitudes toward Other Religions, Academic Press, Sheffield 1997; W. Liebeschuetz, «L’influenza del giudaismo sui non‐ebrei nel periodo imperiale», in A. Lewin, a cura, Gli ebrei nell’impero romano, Giuntina, Firenze 2001, pp.143‐159). – 34 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
forme diverse il suo dovere di essere «un popolo di sacerdoti e una nazione santa … in
mezzo a tutti i popoli» (Es 19,5-6), non solo con la testimonianza di un’etica rigorosa, ma
anche con la preghiera per i Gentili, con la sua vita liturgica e con una esplicita
apologetica verbale 36 . La stessa fondamentale questione concernente i «Gentili» e la loro
sorte non si spiega, se non in base a una prospettiva e precomprensione giudaica. Ebbene,
Paolo si muove seguendo due linee ideali nei confronti di Israele: in consonanza con esso,
egli continua a concepire lo status proprio di questo popolo e la decisività della sua
funzione storico-salvifica, oltre al fatto di esprimersi con i canoni della sua cultura, sia per
quanto riguarda la polemica anti-idolatrica propria del giudaismo del tempo ellenisticoimperiale e in specie di quello della diaspora egiziano-alessandrina (cf. Rom 1,18-32; 1Tes
1,9) 37 , sia per quanto riguarda lo stesso fondamentale concetto di «giustizia», cioè di ciò
che fonda lo status di accettazione dell’uomo da parte di Dio, benché il Paolo cristiano
opponga la fede alle opere 38 ; in dissonanza con esso, egli si impegna in un progetto di
superamento della separatezza dai Gentili, che Israele invece gelosamente nutriva per
salvaguardare la propria identità nazionale e religiosa 39 .
Dunque, Paolo coltiva due atteggiamenti apparentemente inconciliabili, che
costituiscono il paradosso fondamentale del suo pensiero. Da un lato, continua a
considerarsi personalmente parte di Israele, sopportando anche varie opposizioni
provenienti da quella parte e mantenendo ferma la tipica fede giudaica nella salvezza
escatologica di quel popolo 40 . Dall’altro, egli ritiene che sia ormai Cristo e non più la
Torah a configurare la nuova comunità degli eletti di Dio. In questo egli si distingue da
altri settori del cristianesimo primitivo, la cui parte maggiore, soprattutto a Gerusalemme,
riteneva che Cristo e la Torah fossero mutuamente compatibili, come Giacomo
apertamente gli obietta (cf. At 21,20: «Vedi, o fratello, quante migliaia di Giudei sono
venuti alla fede e tutti sono gelosamente attaccati alla legge»); egli invece considerò i due
poli sostanzialmente in antitesi e perciò inconciliabili. Anche per lui non ci sarebbe stata
nessuna tensione, se gli ultimi tempi si fossero definitivamente imposti con la domenica di
Pasqua: nell’inaugurazione dell’éschaton la Torah avrebbe normalmente terminato il suo
ruolo, sicché la funzione della Torah e del Messia sarebbero stati consequenziali e
complementari. Ma l’annuncio cristiano proclamava un Messia apparso prima della
manifestazione escatologica del regno di Dio, proponendo così nel perdurare della storia
una giustificazione e quindi una salvezza dell’uomo dipendenti essenzialmente
dall’accettazione di quel Cristo e dall’appartenenza alla comunità che lo confessava
Messia e Signore 41 . Paolo da queste premesse tirò le conseguenze più logiche o almeno le
più nette, sicché per lui ormai vale il principio secondo cui «Cristo è il termine della
Legge» (Rom 10,4), e perciò: «Se qualcuno è in Cristo, lì c’è una nuova creazione: le cose
36 In merito, cf. le interessanti conclusioni di J.P. Dickson, Mission­Commitment in Ancient Judaism and in the Pauline Communities, WUNT 2.159, Mohr, Tübingen 2003. Eloquente è il passo di Filone Al., Spec.leg. 1,320‐323, dove si invitano i Giudei a non comportarsi come gli iniziati ai misteri greci, chiusi nell’oscurità, ma ad essere di beneficio a tutti gli uomini «in mezzo alla pubblica piazza» (dià mésēs agorâs)! 37 Vedi R. Goldenberg, The Nations that Know Thee Not, pp.51‐62; Paolo condivide concetti comuni sia con il Libro della Sapienza sia con Filone Alessandrino. 38 Cf. M.A. Seifrid, Justification by Faith: The Origin and Development of a Central Pauline Theme, NT Suppl. 68, Brill, Leiden 1992, soprattutto pp.78‐135; D.A. Carson‐P.T. O’Brien‐M.A. Seifrid, a cura, Justification and Variegated Nomism I.The Complexities of Second Temple Judausm, WUNT 2.140, Mohr, Tübingen 2001. 39 Simbolo eloquente era l’iscrizione greca posta a Gerusalemme nell’area templare tra il Cortile dei Gentili e i cortili più interni riservati agli Israeliti, dove si leggeva: «Nessuno straniero penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda lo hieròn; chi venisse preso in flagrante sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà» (OGIS 598); vedi anche Lettera di Aristea 139 (secolo II a.C.): Mosè «ci ha circondati con una trincea invalicabile e con mura d ferro, perché non ci mescolassimo minimamente con gli altri popoli». 40 Sempre suggestive sono le parole da lui pronunciate ai Giudei di Roma, quando vi giunse prigioniero: “E’ a motivo della speranza d’Israele che sono legato a questa catena” (At 28,20)! 41 Cf. T.L. Donaldson, Paul and the Gentiles, cit., 290‐292; e S.K. Davis, The Antithesis of the Ages. Paul’s Reconfiguration of Torah, CBQ MS 33, The Catholic Biblical Association of America, Washington 2002. – 35 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
antiche sono passate, poiché, ecco, ne sono sorte di nuove» (2Cor 5,17). E così, pur
considerandosi un Giudeo in Cristo, egli finì per alienarsi le simpatie della maggior parte
del suo proprio popolo, sia di quello che non aveva accettato l’identificazione di Gesù con
il Cristo, sia però anche di quello che una tale identificazione aveva accolto e
proclamava 42 . Il fatto che, nonostante tutto, egli non sia venuto meno alle proprie
convinzioni, non solo denota la forza dell’impatto che la figura di Gesù Cristo esercitò sul
suo animo (cf. Gal 1,8: “Se anche noi stessi oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un
vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema”!), ma rappresentò la
conferma che era iniziata una nuova ermeneutica dell’annuncio cristiano, il cui fascino
non è ancora cessato e di cui ci si augura che resista a ogni addomesticamento devozionale
o peggio moralistico 43 .
6. Conclusione.
L’originalità del pensiero di Paolo non si esaurisce qui. In più, ci sarebbe da dire della sua
concezione della comunità cristiana e delle varie qualifiche che la connotano, da cui
traspare una inedita coscienza del trovarsi insieme tra uguali 44 .
Ci sarebbe anche da dire del suo concetto di attesa del futuro, che andrebbe collocato
all'interno del più vasto movimento di pensiero proprio dell'escatologia cristiana tra il I e il
II secolo. A questo proposito la tesi di uno slittamento di prospettiva e cioè di una sempre
più acuta ellenizzazione (secondo le vecchie teorie di A. Loisy e di A. von Harnack) si
scontra con la testimonianza opposta di molti testi letterari. Infatti, si può constatare che
l'interesse per l'escatologia futuristica e persino per il linguaggio apocalittico, almeno in
alcuni settori della chiesa, è ancor più alto dopo Paolo 45 .
Ma ce n’è già abbastanza per rendersi conto della genialità del pensiero di Paolo e della
verità delle parole di Albert Schweitzer citate sopra. Certo è che Paolo può aiutare la
chiesa a rinfrescare i tratti caratteristici della sua identità e a ripresentarsi al mondo con
una incisività nuova.
42 Sul rapporto problematico e dialettico di Israele con Paolo, cf. S. Meissner, Die Heimholung des Ketzers. Studien zur jüdischen Auseinandersetzung mit Paulus, WUNT 2.87, Mohr, Tübingen 1996. 43 Cf. J.D.G. Dunn, The Cambridge Companion to St Paul, University Press, Cambridge 2003, pp.1‐15. Ricordiamo qui che Dunn è stato anche l’iniziatore di una cosiddetta New Perspective su Paolo (cf. «The New Perspective on Paul», BJRL, 65 [1983] 103‐118), secondo cui l’Apostolo si sarebbe interessato più di annunciare l’evangelo ai Gentili che non di sminuire la Torah nell’evento della giustificazione. Su questa linea stanno per esempio F. Watson, Paul, Judaism and the Gentiles, SNTS MS 56, Cambridge 1986 (però questo Autore si è apertamente ricreduto nel sito internet: http://www.abdn.ac.uk/divinity/articles/watsonart.hti); H. Räisänen, «Paul’s Conversion and the Development of His View of the Law», NTS 33 (1987), 404‐419; e K.L. Yinger, Paul, Judaism, and Judgment According to Deeds, SNTS MS 105, Cambridge 1999, 169‐175. Contro questa impostazione, invece, si pongono più giustamente P. Stuhlmacher, A Challenge to the New Perspective: Revisiting Paul’s Doctrine of Justification, Downers Grove 2001 (avec un complément de D.A. Hagner, «Paul and Judaism: Testing the New Perspective», 75‐105); e soprattutto S. Kim, Paul and the New Perspective: Second Thoughts on the Origin of Paul’s Gospel, Grand Rapids/Cambridge 2002. Un equilibrio tra le due ermeneutiche sarebbe salutare; cf. in merito S. Westerholm, Perspectives Old and New on Paul. The “Lutheran” Paul and His Critics, Eerdmans, Grand Rapids‐Cambridge 2005; e M. Bachmann, Hg, Lutherische und Neue Paulusperspektive. Beiträge zu einem Schlüsselproblem der gegenwärtigen exegetischen Diskussion, WUNT 182, Tübingen 2005. 44 Sulla definizione della chiesa come «corpo di Cristo», cf. R. Penna, «La chiesa come Corpo di Cristo secondo S. Paolo. Metafora sociale‐comunitaria o individuale‐cristologica?», Lateranum 68 (2002) 243‐ 257. 45 Lo provano con sufficiente chiarezza l'Apocalisse di Giovanni, le lettere di Pietro e di Giuda, e le successive apocalissi apocrife cristiane (di Paolo, di Pietro, per non dire del Pastore di Erma); persino la post‐paolina Lettera di Giacomo sa che "la parusìa del Signore è ormai vicina" (Gc 5,8). Il fenomeno è parallelo alla ripresa dell'apocalittica in campo giudaico tra la fine del I e l'inizio del II secolo (come testimoniano gli apocrifi 4Esdra, 2Baruc, Apocalisse di Abramo). Quindi il giudizio su di un cambiamento d'interesse dovrebbe essere comunque molto più circospetto di quanto spesso avviene. Per ulteriori sviluppi sul tema, cf. R. Penna, «Aspetti originali dell’escatologia paolina: tradizione e novità», in Id., Vangelo e inculturazione, 581‐611; Id., «Pienezza del tempo e teologia della storia», in Ibid., 729‐745. – 36 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Il fattore Chiesa tra Gesù e Paolo
Rivisitazione del topos sul secondo fondatore del cristianesimo
di Romano Penna
Gli studi più recenti sulle origini cristiane, oltre a quelli che si interessano del loro
ambiente storico-culturale, si possono suddividere grosso modo in due categorie. Gli uni
prendono in considerazione il fenomeno da un punto di vista globale, sia individuandone
tappe cronologiche e dislocazioni geografiche, sia esaminandone i contenuti e le
posizioni ideali 1 . Gli altri insistono piuttosto o su momenti o su personaggi o su temi
particolari, che hanno contribuito, ciascuno per la sua parte, a configurare da posizioni
diverse l’insieme del fenomeno stesso. Per quanto riguarda specificamente i personaggi,
non c’è dubbio che, oltre a Gesù, la parte del leone la fa Paolo, che di volta in volta
viene studiato in rapporto ai suoi maestri ebrei, ai primi apostoli, ai suoi collaboratori, a
Giacomo fratello del Signore, e particolarmente in rapporto a Gesù stesso.
Proprio sulla relazione Gesù-Paolo, o Paolo-Gesù (a questo proposito va precisato
che si intende solo il Gesù storico e non il Gesù risuscitato), si dà ormai una bibliografia
vastissima, la cui catalogazione e discussione meriterebbero da sole una ricerca. A mia
conoscenza, le ultimissime produzioni sono quelle di Barbaglio 2 , di Murphy-O’Connor 3 e
del curatore Still 4 . Tra questi tre studi 5 dico subito che quello di Murphy-O’Connor è un
prodotto infelice, non solo per la bizzarra idea derivata impropriamente da Plutarco di
mettere in parallelo due personaggi del tutto asimmetrici, stante il fatto che il secondo
si professa addirittura doûlos del primo, ma anche perché a mio parere va a forzare i
testi e, per fare ad ogni costo di Gesù un corrispettivo di Paolo, sostiene addirittura che
anche lui ebbe una sorta di conversione da una primitiva fase di sostenitore zelante
della Legge.
In ogni caso, resta vero ciò che scriveva Wedderburn nel 1996, cioè che «è difficile
pensare nello studio di tutto il Nuovo Testamento un tema più pressante del rapporto tra
Paolo e Gesù» 6 . In realtà, questo non è altro che un capitolo della questione più ampia
concernente il passaggio dalla fase gesuana a quella più propriamente cristiana. Infatti,
se Crossan ritiene di non poter trovare correttamente Gesù partendo da Paolo 7 , è pur
vero che, come osserva invece Hurtado, se non si tiene in adeguata considerazione Paolo
non si arriva a presentare correttamente la nascita del cristianesimo 8 .
1 Esempi tipici di questa impostazione sono, per esempio, J.D. Crossan, The Birth of Christianity. Discovering what happened in the years immediately after the execution of Jesus, San Francisco 1998; E. Nodet & J. Taylor, Le origini del cristianesimo, Casale Monferrato 2000 (orig. ingl. 1998); F. Vouga, Il cristianesimo dele origini. Scritti protagonisti dibattiti, Torino 2001 (orig. ted. 1994); G. Theissen, La religione dei primi cristiani, Torino 2004 (orig.ted. 2000). 2 Cf. G. Barbaglio, Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso. Un confronto storico, Bologna 2006. 3 Cf. J. Murphy‐O’Connor, Jesus and Paul: Parallel Lives, Collegeville 2007. 4 Cf. T.D. Still, ed., Jesus and Paul Reconnected, Grand Rapids‐Cambridge 2007. 5 In più, cf. anche P. Barnett, Paul, Missionary of Jesus, Grand Rapids‐Cambridge 2008, specie 11‐22: «Paul and Jesus». 6 A.J.M. Wedderburn, Prefazione a W.A. Simmons, A Theology of Inclusion in Jesus and Paul: The God of Outcasts and Sinners, Lewiston N.Y. 1996, V. 7 J.D. Crossan, The Birth of Christianity, XXVII. 8 L.W. Hurtado, Signore Gesù Cristo. La venerazione di Gesù nel cristianesimo più antico, Brescia 2006, 95. – 37 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Il giudizio negativo sulla parte svolta da Paolo proprio sulla nascita del
cristianesimo, diventato poi pressoché un topos negli studi o meglio in certi studi sulle
origini cristiane, a mia conoscenza è stato formulato per la prima volta da Nietzsche in
Aurora (del 1881). Mentre in Umano, troppo umano (del 1879) è ancora Gesù a essere
considerato il «fondatore del cristianesimo» (§ 85,177), in Aurora invece egli scrive
testualmente a proposito di Paolo: «È questo il primo cristiano, l’inventore della
cristianità» (§ 68,53), dove però bisogna avere presente la singolare ermeneutica
nietzschiana secondo cui si trattò di un passaggio dall’evangelo di Gesù al dysangelo
paolino imperniato sull’odio per l’umano, che sarebbe tipico dell’ebreo 9 . Ancora nel
1999 uno scrittore esponente del giudaismo italiano poneva come sottotitolo a una sua
biografia dell’Apostolo: «L’ebreo che fondò il cristianesimo» 10 .
Il più noto Wrede nel 1904, pur senza citare Nietzsche, parlerà se non altro di
«secondo fondatore del cristianesimo», riconoscendo tra i due, se non proprio una
continuità, certo uno sviluppo 11 . Ancora Bultmann, ampiamente debitore della ‘religionsgeschichtliche Schule’, scorgeva nella teologia di Paolo «eine neue Bildung» in
quanto tra Gesù e Paolo si deve calcolare il cristianesimo ellenistico, sicché la questione
del rapporto tra i due si ridurrebbe semplicemente a quella tra Gesù e appunto il
cristianesimo ellenistico 12 . I successivi studi sul giudeo-cristianesimo hanno in buona
parte modificato il quadro generale, sicché, a quanto vedo, nella produzione luterana
tedesca recente, quel topos sembra ormai abbandonato 13 , anche se qualcuno mette di
più l’accento sul fattore della discontinuità, almeno nella misura in cui è possibile
ipotizzare che Paolo si collocasse in una corrente della tradizione cristiana che
concedeva poco spazio alla trasmissione di dati gesuani 14 . E in effetti, una semplice
equivalenza tra i due è ben difficile da sostenere 15 .
In tutto questo gran parlare di Gesù e Paolo si trascura spesso il ruolo, a mio parere
decisivo, giocato dalla comunità cristiana primitiva. Perlomeno questo fattore è
praticamente dimenticato o comunque bypassato da chi continua a parlare di Paolo
come fondatore/inventore del cristianesimo, che semmai è rimasto un luogo comune
solo in ambito giornalistico o simili. A livello di ricerca, invece, non v’è (Bultmann
compreso) chi non ponga tra la trattazione della figura di Gesù e quella di Paolo un
capitolo specifico dedicato alla comunità primitiva, eventualmente divisa un po’
discutibilmente tra versante palestinese e versante ellenistico 16 .
9 Cf. F. Nietzsche, L’anticristo, §§ 41, 42, 59 (lo scritto è del 1887). Sull’insieme, vedi M. Zoppi, «Nietzsche e il cristianesimo. Dall’ortodossia evangelica al “Dysangelium” di Paolo», Lateranum 73 (2007) 485‐519. 10 Cf. R. Calimani, Paolo. L’ebreo che fondò il cristianesimo, Mondadori, Milano 1999. Del resto, la traduzione italiana di una biografia dell’Apostolo uscita nel 1997 poneva come sottotitolo «L’uomo che inventò il cristianesimo» (Rizzoli), assente nell’originale inglese: A.N. Wilson, Paolo. L’uomo che inventò il cristianesimo, Rizzoli, Milano 1997 (orig. ingl: Paul: The Mind of the Apostle, Norton & Company, New York‐London 1997). 11 Cf. W. Wrede, Paulus, Halle 1904, 104; vedi la riedizione a cura di K.H. Rengstorf, Das Paulusbild in der neueren deutschen Forschung, Darmstadt 1969, 96: per il confronto con Gesù sono importanti le pp. 83‐97 (= nell’originale 89‐106). 12 Cf. R. Bultmann, Theologie des Neuen Testaments, Tübingen 51965, 190. 13 Cf. per esempio E. Lohse, Compendio di teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1987 (orig.ted. 1984); P. Stuhlmacher, Biblische Theologie des Neuen Testaments – 1. Grundlegung von Jesus zu Paulus, Göttingen 1992; H. Hübner, Biblische Theologie des Neuen Testaments – 2. Die Theologie des Paulus, Göttingen 1993; U. Schnelle, Paulus. Leben und Denken, Berlin 2003. 14 Cf. G. Strecker, Theologie des Neuen Testaments, Berlin 1995, 108. 15 In questo senso, tuttavia, cf. C. Senft, Jésus et Paul. Qui fut l’inventeur du christianisme?, Genève 2002 (= 1985). 16 Così fanno praticamente tutti gli Autori citati nelle due note precedenti; ma così già anche A. von Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, Cosenza 1986 (= 1906; orig.ted. 1902), 31‐51. In più, cf. almeno L. Schenke, Die Urgemeinde. Geschichtliche und theologische Entwicklung, Stuttgart 1990; M. Hengel & Anna Maria Schwemer, Paul Between Damascus and Antioch. The Unknown Years, London 1997. – 38 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Ebbene, ciò che a me preme di evidenziare è appunto la parte svolta dal
cristianesimo pre-paolino nei confronti dell’Apostolo, per dire in sostanza che, se
dobbiamo proprio parlare di una eventuale ‘ri-fondazione’ del cristianesimo, questa
semmai avvenne già prima di Paolo. Altri recentemente vorrebbero enfatizzare piuttosto
il ruolo specifico di Simon Pietro, che funzionerebbe come trait-d’union tra la “Third
Quest on Jesus” e la “New Perspective on Paul”, in quanto egli è caratterizzato sia dal
giudaismo sia anche da un sicuro rapporto storico con entrambi, Gesù e Paolo 17 . Ma in
definitiva il suo è un ruolo che si può inserire nel quadro più ampio della chiesa
primitiva. Comunque, è certamente indiscusso il fatto che il rapporto tra Paolo e Gesù
non è stato diretto ma che tra di essi, un ebreo palestinese e un ebreo della diaspora
ellenistica, si inframmezzò la comunità postpasquale.
Tuttavia, ciò che mi interessa in questa sede non è la descrizione completa del
patrimonio confessionale della comunità o, meglio, delle comunità al plurale 18 (ma si
potrebbe anche usare il singolare «comunità/chiesa» da intendersi come singolare
collettivo), che storicamente si interposero tra i due Ebrei. Mi interessa piuttosto
considerare l’apporto che le comunità primitive diedero al formarsi dell’identità
cristiana di Paolo. Il mio punto di vista, cioè, non vuol essere quello delle comunità
cristiane in quanto tali, ma quello di Paolo stesso in quanto nelle sue lettere rivela di
essere stato condizionato dalla loro vita di fede. A questo proposito distinguo
metodologicamente tra il Paolo anteriore all’evento di Damasco e il Paolo posteriore, in
quanto ciascuna delle due fasi in modi diversi influì sulla sua conoscenza di Gesù Cristo.
1. Prima di Damasco.
Con ogni probabilità, come già accennato, Paolo non incontrò mai Gesù di Nazaret
durante la propria vita terrena, anche se resta il problema suscitato da una loro
effettiva contemporanea presenza a Gerusalemme, sia quando Gesù vi scendeva dalla
Galilea, sia quando egli vi fu crocifisso, stante il fatto che Paolo si trovava proprio in
quella città fin da quando vi si trasferì da Tarso (forse all’età del bar mitzvà) e quindi
anche sul finire degli ultimi anni 20 del I secolo 19 .
Al massimo, quindi, egli seppe di Gesù solo per sentito dire. Ed è qui che si colloca
il primo decisivo influsso esercitato su di lui da quelle che egli stesso chiama «le chiese
della Giudea» (1Tes 2,14; Gal 1,22). È precisamente da queste che egli ebbe la prima
conoscenza di Gesù di Nazaret. E fu una conoscenza «secondo la carne», come scrive
17 Cf. H. Taylor, «Paul and the Historical Jesus Quest», Neot 37 (2003) 105‐126; M. Bockmuehl, «Peter between Jesus and Paul: the “Third Quest” and the “New Perspective” on the First Disciple», in T.D. Still, ed., Jesus and Paul Reconnected, 67‐102. In parte, cf. anche R. Fabris, «Il Gesù storico e il Cristo della fede nell’epistolario paolino», in N. Ciola & Giuseppe Pulcinelli, a cura, Nuovo Testamento: teologie in dialogo culturale. FS R. Penna, Bologna 2008, 209‐217. 18 Ritengo infatti che parlare tout court della «chiesa» al singolare non corrisponda alla effettiva realtà delle origini. È vero che in alcuni testi Paolo dice di avere perseguitato «la chiesa di Dio» (1Cor 15,9; Gal 1,13; Fil 3,6), presupponendone apparentemente una comprensione in senso universale; ma è altrettanto vero che questo modo di esprimersi intende sottolineare piuttosto la qualità teologica della comunità cristiana («… di Dio»; cf. l’ammonimento di Gamaliele in At 5,39: «… perché non avvenga che voi vi troviate a combattere Dio stesso»; cf. 2Mac 7,19 nel contesto), senza voler affatto negare che in concreto essa si trovi realizzata in singole comunità, variamente dislocate. Infatti, in 1Tes 2,14 egli parla al plurale de «le chiese di Dio che sono in Giudea» (cf. anche Gal 1,22), e storicamente furono proprio quelle realtà ecclesiali, pluralisticamente diversificate (cf. At 2,46), a essere oggetto della sua persecuzione. Del resto, Paolo di norma parla sempre di una chiesa che si trova in determinato luogo (a Corinto: 1Cor 1,2; 2Cor 1,1; in Galazia: Gal 1,2; a Cencre: Rm 16,1; altrove: Rm 16,23a; oppure nella casa di determinate persone: cf. Rm 16,5; Col 4,15; Flm 2) L’impiego del termine ekklesía in senso almeno tendenzialmente ‘cattolico’, cioè unitario e universalistico, è cosa propria della deuteropaolina Lettera agli Efesini, dove non una singola chiesa locale ma la Chiesa intera, nel suo insieme, viene addirittura ipostatizzata come partner coniugale di Cristo (cf. Ef 5,21‐32). 19 Cf. J. Murphy‐O’Connor, Vita di Paolo, Brescia 2003, 71‐82. – 39 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
testualmente in 2Cor 5,16. Egli cioè percepì nella fede dei primi cristiani qualcosa di
eccessivamente nuovo e insostenibile, che non poteva essere facilmente coniugato con il
tradizionale patrimonio del popolo d’Israele. Non intendo qui parlare dello «zelo» del
fariseo Paolo (cf. Gal 1,14; Fil 3,6), che peraltro si inscrive in un fenomeno tipico del
giudaismo del Secondo Tempio 20 . Piuttosto è importante rendersi conto del perché egli
abbia preso di petto il movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret e si sia dimostrato
intollerante nei suoi riguardi fino ad adottare forme persecutorie.
A questo proposito sono state scritte pagine importanti da Donaldson 21 . Egli fa
vedere bene che, se Paolo avversò il movimento cristiano, non fu perché gli fosse
genericamente antipatico, ma perché là scorse dei tratti inaccettabili da un pio Giudeo
in quanto incompatibili con il suo status di appartenente al popolo dell’alleanza
costituito dall’adesione alla Torah rivelata da Dio. L’unica incongruenza è che non
abbiamo una documentazione che provenga direttamente dal periodo pre-damasceno.
Ma due fattori ci confermano in questa ipotesi. L’uno è che l’evangelo paolino svincolato
dalla Legge non è certamente anteriore a quell’esperienza. Infatti la consapevolezza che
egli attribuisce già a quel momento (cf. Gal 1,15-16a: «… perché lo annunziassi tra le
Genti») dimostra almeno un tendenziale superamento dei limiti storico-salvifici della
Legge, la quale non è per i Gentili, tanto più che il cristianesimo prepaolino nel suo
insieme, almeno quello palestinese, non è sostanzialmente intenzionato a varcare i
confini di Israele 22 . L’altro fattore è il fatto incontestabile che Paolo dimostrò uno zelo
particolare nel perseguitare la comunità cristiana con l’intento addirittura di
distruggerla (cf. Gal 1,13-14). Il motivo per cui ciò avvenne riecheggia in alcune parole
del Paolo post-damasceno, là dove egli afferma che il Gesù oggetto di fede delle prime
comunità non poteva che essere «maledetto» in quanto appeso al legno (Gal 3,13 con
citazione di Dt 27,26) e quindi inevitabilmente «uno scandalo per i Giudei» (1Cor 1,23).
Si può discutere se all’origine della persecuzione si debba collocare al primo posto
una motivazione di tipo teologico attinente al patrimonio ideale della fede israelitica
oppure una motivazione di tipo piuttosto sociologico correlata all’emergere di un gruppo
deviante all’interno di una comunità precostituita. Generalmente parlando, «il
giudaismo del Secondo Tempio era caratterizzato da un considerevole grado di
tolleranza verso partiti, sette e altri movimenti dai punti di vista diversi. Solo quando la
presenza e le attività di tali gruppi rompevano l’equilibrio sociale ed erano percepiti
come minaccia alla comunità costituita e alle sue linee di demarcazione, veniva
intrapresa un’azione di persecuzione per preservare le delimitazioni sociali e proteggere
la solidarietà di gruppo» 23 . Ma ciò significa che doveva esserci in gioco qualcosa di
troppo importante. Questo ‘qualcosa’, nel caso di Paolo, non poteva essere altro che
una minaccia alla Torah e quindi alla comunità che si definiva in base all’obbedienza ad
essa. Non per nulla, il gruppo di Qumran, benché assolutamente settario (tanto da
20 Cf. R. Penna, «Un fariseo del secolo I: Paolo di Tarso», in Id., Vangelo e inculturazione, Cinisello Balsamo 2001, 197‐322 specie 308‐314; e più in generale M. Hengel, Gli zeloti. Ricerche sul movimento di liberazione giudaico dai tempi di Erode I al 70 d.C., Brescia 1996, specie 214‐220. 21 Cf. T.L. Donaldson, Paul and the Gentiles. Remapping the Apostle’s Convictional World, Minneapolis 1997, specie 284‐292. Dello stesso Autore si veda ora anche Judaism and the Gentiles. Jewish Patterns of Universalism (to 135 CE), Waco Tx 2007. 22 Solo dopo il racconto dell’evento di Damasco con le sue prospettive universalistiche (cf. At 9,1‐19) Luca pone sia l’episodio di Pietro a Cesarea Marittima, con il rimprovero rivoltogli dai cristiani della Giudea (cf. At 10,1‐
11,18), sia la prima predicazione del vangelo ai Gentili avvenuta ad Antiochia di Siria (cf. At 11,19‐22). D’altronde, la precisazione che Paolo stesso fa in Gal 2,15 a proposito di «noi che per nascita siamo Giudei e non Gentili peccatori» rivela una coscienza pre‐damascena, ormai superata da ciò che scrive subito dopo: «…sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo …». 23 T.L. Donaldson, Paul and the Gentiles, 287. – 40 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
definire «figli delle tenebre» tutti coloro che non vi appartenevano), per quanto ne
sappiamo non suscitò voglie persecutorie da parte dell’establishment giudaico, poiché
evidentemente non rappresentava una minaccia al criterio identitario fondamentale del
giudaismo dominante 24 .
Ebbene, la prima comunità cristiana e il suo kérygma dovevano caratterizzarsi
appunto per una centralità e una funzione particolare accordata a Gesù, proclamato
Cristo e Signore (cf. At 2,36), tale da non potersi accordare con il punto focale della
tradizionale identità giudaica e quindi da non poter essere sopportata da un fariseo
zelante come Paolo. Improvvisamente apparve che la Torah (da sola) non era più
sufficiente e quindi neanche necessaria per acquisire la giustizia davanti a Dio. Una
ulteriore discussione si potrebbe instaurare sull’interrogativo se il fattore determinante
sia stato più la cristologia (= Gesù come Signore ) o la soteriologia (= Gesù come
Salvatore) o non piuttosto l’idea di appartenenza alla vera comunità di salvezza. Certo è
che, «se il Gesù crocifisso e risuscitato era l’Unto di Dio, allora l’associazione al popolo
di Dio, o la giustizia, non poteva venire dalla Torah» 25 .
Proprio questo fu il Gesù conosciuto per la prima volta da Paolo! Probabilmente
invece Paolo non ebbe contatti con la/le comunità che fanno capo a Q, poiché in quel
testo mancano loghia sulla morte salvifica di Gesù e invece vi è presente una cristologia
di tipo sapienziale e profetico che Paolo non dimostra di conoscere 26 . Non dunque il
maestro e profeta della Galilea fu quello conosciuto da Paolo, ma un Gesù crocifissorisuscitato, inopinatamente confessato e venerato come decisivo identity marker di una
inedita comunità che si stava impiantando all’interno di Israele. Questa comunità ormai
non vedeva più ‘soltanto’ nella Legge il proprio elemento distintivo. Un Gesù di questo
tipo per il fariseo Paolo, come già accennato, non poteva che essere associato alla
maledizione di cui si legge in Dt 21,23; 27,26 (cf. Gal 3,13) ed essere quindi
assolutamente motivo di scandalo (cf. 1Cor 1,23; Rm 9,33). Certo non si può dire che la
fede della prima comunità cristiana si riducesse tutta qui, poiché la sua configurazione
confessionale era sicuramente molto sfaccettata. Neppure si può dire che la sua
soteriologia corrispondesse già a quella poi elaborata da Paolo, essendo invece
connotabile come giudeo-cristiana 27 . Ma Paolo si concentrò polemicamente su questo
particolare aspetto, che sul piano della caratterizzazione propria dei credenti in Cristo
era quello forse più distintivo.
Come si vede, dunque, se ci fu uno slittamento confessionale a proposito di Gesù di
Nazaret, questo si verificò non primariamente con Paolo, ma già con le prime chiese
della Giudea. E fu subito qualcosa di rilevante a livello di configurazione identitaria. Fu,
24 In 1QpAb 11,4‐8 è documentata un’aspra contrapposizione tra il Sacerdote Empio di Gerusalemme e il Maestro di Giustizia qumraniano («Il Sacerdote Empio ha perseguitato il Maestro di Giustizia per divorarlo con il furore della sua ira nel luogo del suo esilio, nel tempo della festa, nel riposo del giorno delle Espiazioni. Si presentò davanti a loro per divorarli e farli cadere nel giorno del digiuno»). Essa però, a parte la difficile identificazione del Sacerdote Empio, concerne con tutta probabilità una questione di calendario su cui appunto c’era divergenza tra Gerusalemme e Qumran (cf. F. Garcia Martinez, «I calendari di Qumran», in J. Vazquez Allegue, I manoscritti del Mar Morto, Roma 2005, 259‐292 specie 288), ma non certo la validità della Legge; anzi, in 4QMMT C 21‐32 si attribuisce proprio alla pratica della Legge il perdono dei peccati, ed è appunto su di una maggiore fedeltà alle «opere della Legge» che il manoscritto testimonia l’avversione al Sacerdozio gerosolimitano (cf. 1QpAb 8,8‐11; 9,910; 10,9‐13; 11,12‐15; 12,8‐9). 25 T.L. Donaldson, Paul and the Gentiles, 292. 26 Cf. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria –II. Gli sviluppi, Cinisello Balsamo 22003, 26‐44; Id., «Cristologia senza morte redentrice. Un filone di pensiero del giudeo‐
cristianesimo più antico», in G. Filoramo e C. Gianotto, a cura, Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeocristia­
nesimo. Atti del Colloquio di Torino (4­5 novembre 1999), Brescia 2001, 68‐94. 27 Cf. R. Penna, «Inizi e primi percorsi della cristologia giudeo‐cristiana», in A. Pitta, a cura, Il giudeo­cristianesimo nel I e II sec.d.C. Atti del IX Convegno di Studi Neotestamentari, RSB 15 (2003,2) 201‐232. – 41 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
se non l’inizio, certo un inizio del parting of the ways. A questo proposito va però
precisato che il fortunato sintagma coniato da Dunn connota, semmai, non la coscienza
propria della comunità dei «santi di Gerusalemme» (Rm 15,26), che per parte loro si
sentivano certamente integrati in Israele 28 , ma certo connota la reazione risentita di
almeno una parte della comunità israelitica, di cui proprio Paolo rappresentò il
fenomeno più vistoso. È dunque sulle prime chiese che occorrerebbe puntare
l’attenzione per prendere atto di un secondo inizio del cristianesimo, chiedendosi
eventualmente come mai ciò sia stato possibile. E allora il discorso dovrebbe riguardare
l’importanza e la natura delle prime confessioni cristiane, che vertevano sulla
risuscitazione di Gesù.
2. Dopo Damasco.
L’evento della strada di Damasco non fece altro che condurre a un esito
imprevedibile, ma in qualche modo anche sanzionò, una esperienza che per Paolo era
stata traumatica. Là si provocò un vero e proprio ribaltamento del suo convictional
world. Comunque si voglia spiegare il fatto, il risultato è uno solo: colui che prima
infieriva contro i discepoli di Gesù improvvisamente si trovò invece ad annunciare la sua
signorìa (cf. At 9,21.28; Gal 2,23)! È forse per questo capovolgimento, inaspettato e
soprattutto documentato dalle fonti come per nessun altro dei primi testimoni di Gesù,
che si pensò a una ri-fondazione del cristianesimo, naturalmente combinato con una
originale operazione ermeneutica condotta poi personalmente da Paolo stesso.
Ma ciò che importa notare in questa sede è che Paolo attesta ripetutamente nelle
sue lettere una propria interessante dipendenza dalla fede delle prime comunità
cristiane e dalla formulazione stessa di quella fede. Già per quanto riguarda alcuni
loghia del Gesù terreno, Paolo è il primo scrittore a trasmettercene almeno qualcuno.
Non sto qui a trattare la questione della conoscenza da parte sua delle tradizioni
gesuane e in particolare dei detti riconducibili al Maestro galileo, eventualmente sotto
forma di citazione o di riecheggiamento o di adattamento 29 . Benché le posizioni degli
studiosi in materia siano molto diverse, una cosa è sicura: Paolo ha ricevuto l’eventuale
materiale gesuano rintracciabile nelle sue lettere soltanto dalla tradizione viva delle
prime comunità cristiane palestinesi, il contatto con le quali è perlomeno documentato
dalla sua propria informazione di essere stato quindici giorni con Cefa a Gerusalemme,
oltre che di avere visto là anche Giacomo fratello del Signore (cf. Gal 1,18-19) 30 .
Ma, a parte i debiti verso le tradizioni gesuane, sono le medesime lettere paoline a
permetterci di ricostruire, mediante citazioni, richiami e allusioni, la stessa fede
cristiana delle origini post-pasquali, quale essa era confessata prima di lui. Sicché,
proprio Paolo è praticamente l’unica fonte, o almeno la principale 31 , che ci permette di
28 Ancora Gc 1,1, comunque si voglia datare la lettera (se prima del 70 con F. Mussner o nell’ultimo quarto del I secolo con H. Frankemölle), utilizza categorie prettamente giudaiche nel definire le comunità cristiane sue destinatarie come «le dodici tribù della diaspora». Vedi le pagine di H. Conzelmann, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1991, 65‐68 («L’autocomprensione della chiesa e il suo rapporto con Israele»). 29 Cf. P. Furnish, «The Jesus‐Paul Debate: From Baur to Bultmann», in A.J.M. Wedderburn, ed., Jesus and Paul, JSNT SS 37, Sheffield 1989, 11‐50 specie 47‐48. Vedi anche in generale M. Pesce, Le parole dimenticate di Gesù, Milano 2004. 30 Probabilmente «la visita a Pietro fu un atto di omaggio di Paolo a colui che presiedeva la comunità cristiana nella carità e non una ricerca di informazioni supplementari sulla catechesi, né tanto meno una ricerca di conferma del suo apostolato, che Paolo ha la certezza di avere ricevuto da Dio e da Cristo stesso» (M. Buscemi, Lettera ai Galati. Commentario esegetico, Jerusalem 2004, 130, su altre ipotesi, cf. Ib. 129‐130; sulla figura di Giacomo, cf. Ib. 132‐133). 31 Su At 1‐5 come possibile fonte della cristologia primitiva, cf. soprattutto G. Lüdemann, Das frühe Christentum nach den Traditionen der Apostelgeschichte, Göttingen 1987. Inoltre: R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, II, 44‐52. – 42 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
risalire all’identità confessionale della chiesa primitiva. A questo proposito, già alcuni
anni fa si produssero alcuni studi importanti a opera di Neufeld e Wengst 32 , per non dire
di Deichgräber 33 , che si preoccuparono di distinguere e catalogare le forme letterarie,
nelle quali aveva preso corpo la più antica enunciazione della fede cristiana. In effetti,
l’Apostolo documenta l’esistenza di confessioni/homologhìe, acclamazioni e ‘inni’, che
quella fede esprimono, testimoniandola e perfino celebrandola nel canto. Non è mia
intenzione dare qui l’elenco di questa documentazione e tantomeno analizzarla
esegeticamente. Ritengo sufficiente rimandare ad alcune di queste forme e ai rispettivi
passi epistolari.
Per quanto riguarda le confessioni di fede, altrimenti etichettate anche come ‘il
credo’ o kérygma, la loro caratteristica è la proclamazione degli eventi salvifici
incentrati sulla figura di Gesù Cristo. Ricordo solo due di queste formule: 1Cor 15,3-5
(«Vi ho trasmesso ciò che anch’io ho ricevuto, [cioè] che Cristo morì per i nostri peccati
secondo le Scritture e che fu sepolto e che risuscitò [o: fu risuscitato] il terzo giorno
secondo le Scritture e che apparve a Cefa e poi ai Dodici») e Rm 1,3b-4a («… nato dal
seme di Davide secondo la carne, costituito figlio di Dio in potere secondo lo Spirito di
santità dalla risurrezione dei morti»). Esse convergono unicamente nella confessione
della risuscitazione di Gesù, ma per il resto si differenziano e comunque ognuna delle
due presenta un proprio schema ermeneutico di base (rispettivamente quello del giusto
sofferente e quello della intronizzazione regale) 34 . In più si potrebbero citare perlomeno
Rm 3,25; 4,25; 1Cor 8,6; 2Cor 13,4; 1Tes 4,14.
Quanto alle acclamazioni, esse sono incentrate sulla dichiarazione solenne di
Gesù/Cristo come Kyrios. Molto più brevi delle homologhìe, esse con ogni probabilità
non sono destinate all’esterno della comunità cristiana ma appartengono a momenti
celebrativi-cultuali della sua vita interna. Tali sono le frasi che leggiamo in 1Cor 12,3
(«Nessuno può dire “Signore Gesù”, se non nello Spirito Santo»); Rm 10,9 («Se
confesserai con la bocca che Gesù è Signore …»); Fil 2,11 («… ogni lingua confessi che
Gesù è Signore»). Anzi, Paolo addirittura definisce i cristiani come «coloro che invocano
il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (1Cor 1,2) 35 . D’altronde, l’attribuzione al Gesù
glorificato della qualifica aramaica di mār/mārā’ (1Cor 16,22) dice con chiarezza che si
tratta di una venerazione di antica ascendenza proto-cristiana 36 .
Anche la innologia proto-cristiana è documentata da Paolo 37 . A parte
l’informazione generica che egli ci dà in 1Cor 14,26 («Quando vi radunate ognuno può
avere un salmo 38 , un insegnamento, una rivelazione…»), qui mi riferisco in particolare al
brano di Fil 2,6-11, che ritengo essere con ogni probabilità pre-paolino e che in quanto
32 Cf. V.H. Neufeld, The Earliest Christian Confessions, NTTS 5, Leiden 1963; K. Wengst, Christologische Formeln und Lieder des Urchristentums, StNT 7, Gütersloh 1973. Vedi anche R.P. Martin, «Credo», in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. Hawthorne‐R.P. Martin‐D.G. Reid, Cinisello Balsmao 1999, 348‐351. 33 Cf. R. Deichgräber, Gotteshymnus und Christushymnus in der frühen Christenheit. Untersuchungen zu Form, Sprache und Stil der frühchristlichen Hymnen, SUNT 5, Göttingen 1967. 34 Cf. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo – I. Gli inizi, Cinisello Balsamo 32001, 196‐210. 35 H. Conzelmann polemizza con chi vorrebbe equiparare l’acclamazione kýrios Iēsoûs con quella di kýrios Kaîsar, dato che questa nel culto dell’imperatore non ha nessun ruolo (cf. Der erste Brief an die Korinther, Meyers Kommentar, Göttingen 1969, 244 nota 22; il riferimento implicito è probabilmente a O. Cullmann, Christologie du Nouveau Testament, Neuchâtel‐Paris 1958, 171‐172). 36 Vedi la discussione in R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, II, 52‐62. 37 Cf. in generale R. Penna, «Da Israele al cosmo: Ampliamenti dell'orizzonte cristologico nello sviluppo dell'innografia neotestamentaria», in P. Coda, a cura, L'unico e i molti. La salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, PUL‐Mursia, Roma 1997, 49‐66. 38 Che il termine psalmós non si riferisca necessariamente ai Salmi biblici, risulta dal significato generico di «canto» che esso ha nell’uso greco sia classico (cf. Euripide, Reso 363) sia ellenistico (cf. Plutarco, Aless. 67,5; Pomp. 24,5). – 43 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
tale può essere considerato «il più antico esempio di una composizione innica
cristiana» 39 , anche se la sua qualifica formale di ‘inno’ verosimilmente non è
adeguata 40 . Certo vi manca l’interpretazione soteriologica della morte di Cristo (e
proprio questo a mio parere è un indizio pesante sulla pre-paolinità del testo), ma la
doppia confessione della sua pre-esistenza e dell’ottenimento di una kyriótēs/signorìa
da parte del crocifisso, equiparabile solo a quella divina, dà ragione a quanto scrive
Hengel: «La “apoteosi del crocifisso” deve essere giunta a compimento già negli anni
quaranta, onde si ha la tentazione di affermare che nel giro di neanche due decenni il
fenomeno cristologico è andato incontro a un processo le cui proporzioni sono maggiori
di quelle più tardi raggiunte durante i successivi sette secoli» 41 .
3. Conclusione.
Dunque, non si può pensare a Paolo senza includere necessariamente nella
formazione della sua identità cristiana il ruolo decisivo svolto da coloro che egli
riconosce esplicitamente di essere stati in Cristo prima di lui (cf. Rm 16,7: hoì kaì prò
emoû gégonan en Christôi, a proposito della coppia Andronico e Giunia!).
Altra cosa è poi riconoscere che Paolo non si è limitato a fare il ripetitore e che
invece ha elaborato l’evangelo primitivo con una propria ermeneutica, che dimostra
indubbiamente l’apporto di una personale genialità. In effetti, come ebbe a scrivere a
suo tempo Albert Schweitzer, «Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto
di pensare … Egli non è un rivoluzionario. Parte dalla fede della comunità, ma non
ammette di doversi fermare dove quella finisce … Egli fonda per sempre la fiducia che la
fede non ha nulla da temere dal pensiero …. Paolo è il santo protettore del pensiero nel
cristianesimo» 42 ! Forse senza saperlo, con queste parole Schweitzer di fatto riformulava,
applicandolo a Paolo, ciò che già aveva affermato Agostino in termini più generali: «Se
la fede non viene pensata, è come se non ci fosse» 43 . Ma non credo che questo basti per
fare dell’Apostolo un altro fondatore del cristianesimo, altrimenti chissà quanti ne
dovremmo calcolare 44 !
39 L.W. Hurtado, How on Earth Did Jesus Become a God? Historical Questions about Earliest Devotion to Jesus, Eerdmans, Grand Rapids‐Cambridge 2005, 84. Cf. anche R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, II, 121‐137. 40 Quando non si tratta di un semplice prodotto letterario ma di una composizione inserita nel culto, l’inno comporta una supplica con la richiesta del favore del dio al quale esso è indirizzato (cf. W.D. Furley & J.M. Bremer, Greek Hymns – I. The Texts in Translation. STAC 9, Tübingen 2001, 2); ma proprio questa componente manca in Fil 2,6‐11. 41 M. Hengel, Il figlio di Dio. L’origine della cristologia e la storia della religione giudeo­ellenistica, SB 6, Brescia 1984, 18. 42 A. Schweitzer, Die Mystik des Apostels Paulus, Tübingen 1930, 365‐366. 43 Agostino, De praedestinatione sanctorum 2,5: «Fides, si non cogitetur, nulla est» (= PL 44,963). 44 Molto importante, per rendersi conto di quanto inconsistente sia il topos suddetto, è anche la semplice constatazione storiografica dell’assenza di considerazione, e in alcuni casi di una vera e propria opposizione, che Paolo subì all’interno della chiesa fino almeno alla fine del II secolo. Cf. in merito R. Penna, a cura, «Antipaolinismo: reazioni a Paolo tra il I e il II secolo», Ricerche Storico­Bibliche 1 (1989,2); L. Padovese, «L’antipaulinisme chrétien au IIe siècle», Recherches de Science Religieuse 90 (2002) 399‐422; un esempio concreto riguarda la questione degli idolotiti, su cui cf. R. Penna, «Il caso degli ‘idolotiti’: un test sulla sorte del cristianesimo da Paolo all’Apocalisse», in E. Bosetti e A. Colacrai, a cura, Apokalypsis. Percorsi nell’Apopcalisse in onore di Ugo Vanni, Assisi 2005, 225‐244. – 44 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
San Paolo un giudeo in Cristo
Intervista con Romano Penna di Lorenzo Cappelletti (da 30Giorni – maggio 2008)
Si è scritto polemicamente che il vero inventore del cristianesimo non sarebbe Gesù,
ma san Paolo.
ROMANO PENNA: È una polemica paradossale, ma sono comunque interessanti le
ragioni che hanno indotto alcuni studiosi a definire Paolo in questo modo. La prima è che
fra il Gesù terreno e Paolo c’è l’evento pasquale, che ha influito sul messaggio, sulla
formulazione evangelica della prima comunità cristiana. Gesù nella sua vita non ha
parlato molto della propria morte e risurrezione. Gesù predicava il regno dei cieli. Dopo
la Pasqua, invece, il destino e la vicenda personale di Gesù sono entrati a far parte del
cuore dell’annuncio dei suoi discepoli. I suoi discepoli si rifanno a Lui non soltanto come
maestro, profeta, riducibile eventualmente al quadro israelitico del tempo (come fanno
i nostri fratelli ebrei, ai quali fa piacere dire che Paolo è inventore del cristianesimo),
ma inseriscono la figura di Gesù in questo quadro storico-salvifico ormai maturo, diciamo
così, per cui la figura di Gesù diventa quella del Crocifisso risorto con una certa
destinazione: per gli altri. Tra Gesù e Paolo poi c’è la Chiesa, la comunità cristiana
primitiva. Già la prima comunità cristiana definisce Gesù come colui che è «morto per i
nostri peccati». Paolo non inventa nulla, è anzitutto testimone della Tradizione. Non fa
altro che riprendere una tradizione prepaolina, ad esempio, quando dice ai Corinti: «Vi
ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per
i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le
Scritture…» (1Cor 15, 3ss). L’altra ragione che entra in conto per spiegare quella
definizione di Paolo è la effettiva originalità, e diciamo pure la genialità di Paolo nella
sua operazione di ermeneutica dell’evangelo.
Qual è la genialità di Paolo se la si potesse esprimere in una parola?
PENNA: Paolo si contraddistingue all’interno delle origini cristiane essenzialmente
per il messaggio della giustificazione sulla base della fede. L’uomo diventa giusto
davanti a Dio, è considerato da Dio giusto e diciamo pure santo (ricordiamoci che Paolo,
quando parla dei fedeli, li chiama santi per ben venticinque volte all’interno delle sue
lettere) non per un autonomo apporto alla propria santità, ma per l’accoglienza umile e
anche gioiosa di un intervento ab extra, l’intervento di Dio in Gesù Cristo. Questo è ciò
che rende l’uomo giusto, cioè l’accettazione per fede di ciò che Dio ha operato per me.
Questo, a livello delle origini cristiane, non era pacifico. Era pacifica la fede in Gesù
Cristo come Messia e anche come Figlio di Dio. Ma soprattutto il cosiddetto filone
giudeo-cristiano faceva coesistere la fede in Gesù Cristo con un apporto personale. Nella
Lettera di Giacomo (Giacomo è esponente di questa corrente) si dice chiaramente che
l’uomo non è giustificato solo mediante la fede. E viene portato come esempio il
sacrificio di Isacco da parte di Abramo, invertendo però l’ordine delle pagine bibliche.
Nella Genesi il sacrificio di Isacco lo troviamo nel capitolo 22, dopo che già nel capitolo
16 si dice che Abramo credette, che venne giustificato per la fede, cosa che Paolo cita
nel capitolo 4 della Lettera ai Romani. Tale giustificazione dunque non è condizionata
dall’esercizio fattivo di quell’obbedienza che poi è raccontata nel capitolo 22 della
Genesi. Il punto di vista giudeo-cristiano consiste in fondo in questa inversione.
– 45 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
A proposito del rapporto coi giudeo-cristiani: da loro san Paolo risulta osteggiato
come nessun altro; eppure è colui che più rivendica la sua origine giudaica e il suo
amore appassionato per la sua stirpe.
PENNA: Se si sta ai testi, Paolo non conosce l’aggettivo “cristiano”, che d’altronde
non esiste ancora al suo tempo. Sappiamo da Luca che i discepoli furono chiamati
cristiani ad Antiochia; ma Atti 11, 26 è anacronistico, anticipa la cosa agli anni 30. In
realtà Paolo non conosce questo aggettivo. Lui si ritiene un giudeo, è un giudeo in
Cristo. Ecco perché non usa mai il lessico della conversione. Paolo non è un convertito. Il
giudeo non si converte. C’è una celebre frase del rabbino di Roma Eugenio Zolli,
battezzato dopo la Seconda guerra mondiale: «Io non sono un convertito, sono un
arrivato»; perché il convertito è colui che gira le spalle al suo passato, invece il giudeo
non gira le spalle, va solo avanti. Certo, Paolo ha conosciuto un passaggio. Lo mostra in
Filippesi 3, 7: «Tutto quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato
una perdita a motivo di Cristo». Il guadagno in cosa sarebbe consistito? Nella adesione
farisaica (in senso non volgare) alla Legge, ovvero nella adesione totale, completa, alla
Legge, tanto da considerarla come condizione del proprio essere giusto davanti a Dio.
Paolo questo l’ha superato. Però Israele resta sempre il punto di riferimento. Basterebbe
riandare ai capitoli 9-11 della Lettera ai Romani: i Gentili sono innestati su Israele; la
pianta è santa se la radice è santa (cfr. Rm 11, 16ss). Noi viviamo di una santità
derivata; non primaria, ma secondaria, e proprio dal punto di vista storico-salvifico. Dico
sempre che il cristianesimo è semplicemente una variante del giudaismo, e mi fanno
pena quelli che polemizzano con Israele o che, addirittura, come si legge nella cronaca,
compiono gesti vandalici: costoro non hanno capito niente di cosa significa essere
cristiani.
Mi ha sempre colpito il brano della Lettera agli Efesini 3, 6 in cui «il mistero
rivelato» sembra consistere nel fatto che «i Gentili sono chiamati in Cristo Gesù a
partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e a essere partecipi della
promessa per mezzo del vangelo del quale sono divenuto ministro». Sembrerebbe
quasi che l’intero mistero cristiano abbia per contenuto la partecipazione dei Gentili
alla stessa eredità promessa ai Giudei.
PENNA: Ha citato la Lettera agli Efesini che secondo molti, e anche secondo me, non
è del Paolo storico. Ma questo tema è comunque tipico e centrale nelle Lettere
cosiddette autentiche di Paolo. Già lo troviamo in Galati 2, dove viene ricordato il
cosiddetto Concilio di Gerusalemme. Lì è avvenuta una distinzione chiara: come Pietro,
Giovanni e altri si rivolgono ai circoncisi, io – dice Paolo – e Barnaba ai Gentili. Paolo si
caratterizza proprio per questo. Ha dato la vita per questo. Ha avuto incomprensioni
essenzialmente per questo. È stato osteggiato – in quella stessa Lettera si parla di
avversari – dalla parte giudeo-cristiana, non tanto dai Giudei, per questa sua apertura.
«Noi non siamo figli della schiava ma della libera», dice Paolo in questa stessa Lettera
(cfr. 4, 31) riferendosi alle due donne di Abramo; e i cristiani a cui scrive, i Galati, sono
dei pagani, non dei Giudei. La cosa grande che fa Paolo non è di sganciare l’evangelo da
Israele, ma di aprire a tutti gli uomini fuori di Israele le caratteristiche che sono di
Israele stesso, di essere cioè il popolo di Dio, il popolo dell’Alleanza (dice proprio
popolo). Tanto che in Romani 9, 25 Paolo cita un testo polemico del profeta Osea
(«chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo») e lo riferisce ai Gentili, ai
pagani, a tutti noi, a tutti coloro che non sono di origine giudaica. Questa è l’operazione
di Paolo: tanto sul piano ermeneutico che missionario; perché tutto questo poi significa
dedizione fattiva, concreta a tutte le città fuori d’Israele in cui Paolo va. Paolo non
predica in Israele. E ad Atene, per esempio, dove è che predica Gesù Cristo? Nell’agorà,
– 46 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
nella piazza, e nell’Areopago, dove viene a contatto con la società viva del tempo, fuori
delle atmosfere ovattate dei luoghi religiosi. Ecco, egli si interessa dei lontani, lontani
rispetto a Israele, come si legge in Efesini 2, 13. Dice l’autore: «Voi che eravate lontani
siete diventati vicini». I lontani, gli altri, quelli che per Israele sono gli altri, i diversi, il
non-popolo, le gentes (in Israele era tradizionale distinguere “il popolo” dalle “genti”),
Paolo si dedica a loro: questa è la sua grande operazione. Si potrebbe arrivare a dire
che, agli occhi di Paolo, Gesù Cristo non rappresenta altro che l’eliminazione della
distanza dei Gentili dai Giudei. San Paolo ha da dire molto su tutti gli steccati che si
erigono.
È strano però che san Paolo non abbia conservato alcuna parola di Gesù relativa al
mandato missionario, benché nella tradizione protocristiana ci siano molteplici
attestazioni di questo genere.
PENNA: L’inizio della coscienza missionaria della Chiesa è un problema complesso,
perché innanzitutto c’è da chiedersi se mai il Gesù storico abbia enunciato un mandato
missionario, mentre è molto chiaro il contrario: «Non andate se non alle pecore perdute
della casa d’Israele», dice Gesù (cfr. Mt 10, 6 e 15, 24). E Gesù stesso, nella sua vita, è
sempre rimasto entro i confini d’Israele, non ha mai fatto come Giona, che è andato a
Ninive. Gesù non è andato né a Ninive, né ad Atene, né a Roma, né ad Alessandria
d’Egitto che pure era vicina. Quindi c’è da spiegare come mai la Chiesa dopo la Pasqua,
invece, si sia sentita investita dell’annuncio alle genti (non subito, bisogna dire, perché
in Atti 10 Pietro si fa problema quando deve andare a battezzare il centurione Cornelio:
questo non apparteneva alla coscienza apostolica primitiva, evidentemente). Non per
nulla le parole che leggiamo alla fine del Vangelo di Matteo, «Andate in tutto il mondo,
battezzate tutte le genti» (cfr. Mt 28, 19s), sono del Gesù risorto, non del Gesù terreno.
C’è dunque l’ipotesi che siano parole redazionali, dell’evangelista o della sua Chiesa,
una Chiesa giudeo-cristiana che ha conosciuto un travaglio per arrivare poi all’apertura
della Chiesa antiochena, che in effetti aveva trovato questo varco. Paolo non poteva
dunque citare parole del Gesù terreno circa la necessità della missione. Però, stando al
capitolo 9 degli Atti, il primo racconto dell’incontro sulla strada di Damasco, Gesù gli
dice: «Tu sarai mio testimone davanti ai re, davanti ai potenti della terra…». È una
vocazione personale la sua, condivisa da Barnaba e da una serie di collaboratori che lo
attorniano: Timoteo, Sila, Apollo, Tito e tutti quelli che menziona nel capitolo 16 della
Lettera ai Romani, «quelli che hanno faticato nel Signore», che si sono dedicati
all’evangelo, alla missionarietà. Ma, insomma, che vuol dire missionarietà? Vuol dire
aver preso sul serio la fede nel Risorto, perché è il Risorto che ha rotto gli argini, è la
Pasqua che ha rotto gli argini e ha fatto un… exploit, ha spinto…
Sembrerebbe quasi di capire, da quello che lei dice, che il mandato missionario non
può essere, come dire, esteso in maniera generica, come un “ordine di servizio”, a
tutta quanta la Chiesa, ma che è legato quasi a una vocazione personale e
all’approfondimento di una coscienza personale…
PENNA: È così. Chi più percepisce il valore dirompente della Pasqua più lo sente.
Questo è. Paolo non racconta nulla del Gesù terreno, ma solo del Crocifisso risorto. La
cristologia di Paolo è tutta centrata sull’evento pasquale, sulla doppia faccia dell’evento
pasquale, la croce e la risurrezione, dove lui ha percepito questa cosa dirompente,
dicevo, che va al di là dei confini d’Israele. D’altronde, è diventata poi tradizionale
anche degli scritti giudeo-cristiani non paolini la coscienza che Gesù è venuto ad abolire
i sacrifici. Se è venuto ad abolire i sacrifici, vuol dire che la sua identità va al di là delle
liturgie templari, è qualcosa che sta al di fuori della categoria del sacro, è aperta al
profano – usiamo questa categoria –; e il profano si trova dappertutto, profano è
– 47 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
soprattutto ciò che è fuori di Israele come popolo santo (quello che “gli altri” non sono).
Ma è proprio per quegli “altri” che Paolo ha percepito la destinazione dell’evento
pasquale.
Qual è, in conclusione, la maggiore attualità della figura e del messaggio di Paolo
che, secondo lei, questo Anno paolino deve riproporre?
PENNA: Un messaggio di essenzialità, la riduzione del cristianesimo a ciò che è
essenziale: l’adesione personale a Gesù Cristo. Nient’altro; e in questo “altro” metta
tutto e tutti, dagli angeli compresi in giù. Lo spazio tra l’uomo e Dio è riempito da Cristo
e da nessun altro. Perché essere in Cristo (del resto questo è linguaggio paolino: «essere
in Cristo», o «nel Signore») significa essere in Dio. Una riduzione all’essenzialità,
dunque. Il che comporta sfrondare varie cose, almeno nel senso del giudizio di valore da
dare. Dire Paolo vuol dire Gesù Cristo. Anche a livello ecclesiale, istituzionale. Certo, al
tempo di Paolo la Chiesa era agilissima come istituzione anche perché non c’era il carico
portato dai secoli successivi. Ma la cosa era molto leggera soprattutto perché l’identità
ecclesiale del cristianesimo era intesa come un essere tutti fratelli (termine che ritorna
112 volte nel Corpus paolinum!), tutti sullo stesso piano. E magari chi è dedito al
servizio sta sotto. Nella Prima Lettera ai Corinti Paolo dice: «Cosa è Apollo, cosa è
Paolo, cosa è Cefa? Vostri ministri… Tutto è vostro: Paolo, Cefa, il mondo, la vita. Ma voi
siete di Cristo e Cristo è di Dio» (cfr. 1Cor 3, 5ss). Non c’è una linea che va dall’alto in
basso, ma dal basso in alto. «Tutto è vostro»… Voi siete sopra i ministri, nel senso che i
ministri fanno parte della comunità. Certo, la comunità cristiana non è un mollusco, è
vertebrata, ma l’importante, nella Chiesa, non sono i ministri, sono i battezzati; e i
ministri sono importanti nella misura in cui sono anche loro dei battezzati. Non vorrei
essere frainteso. Che l’esistenza di ministri sia importantissima, per non dire essenziale,
è un dato che Paolo conosce bene. Basta ricordare quando parla della Chiesa come un
corpo strutturato (cfr. 1Cor 12, 12ss).
– 48 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Convegno Nazionale insegnanti di religione Cattolica
EMERGENZA EDUCATIVA
E INNOVAZIONE TECNOLOGICA
Montesilvano (PE), 25-27 ottobre 2010
Si è svolto a Montesilvano il consueto Convegno Nazionale per Insegnanti di religione
Cattolica (IdR) organizzato dal Servizio nazionale IRC della CEI dal titolo: “@-alunno?L’IRC nei nuovi processi di apprendimento” rivolto agli IdR formatori dei formatori.
Ha introdotto il lavori S. E. Mons. Michele Seccia (Vescovo di Teramo-Atri e Vescovo
delegato regionale per l’educazione, la scuola e l’università) sottolineando come il
formatore deve trasmettere le conoscenze acquisite ai colleghi che lavorano con lui per
evitare il terremoto culturale.
Il corso, nel suo tema specifico, ha affrontato il problema educativo con tutte le
insidie e le speranze che oggi lo attraversano, interrogandosi in particolar modo
sull’incidenza delle moderne tecnologie multimediali sui processi di apprendimento e
sulla formazione delle nuove generazioni. L’IRC nella sua offerta formativa rimane
coinvolto tanto quanto le altre discipline.
L’IRC trasmette cultura religiosa che sempre più è centrale nella preparazione
scolastica, contribuisce ad aprire finestre diverse sul mondo, pone l’attenzione su
questioni di natura morale, sociale, culturale per realizzare il passaggio dalla pedagogia
del confronto alla pedagogia del consenso.
Questo decennio, inoltre, sarà dedicato dalla Chiesa all’educazione in un contesto di
emergenza educativa, tale preoccupazione non può esimersi dall’affrontare il tema
dell’innovazione tecnologica e del suo linguaggio che necessariamente deve diventare
terreno comune tra i “nativi digitali” (gli alunni) e i “migranti digitali” (i docenti).
In questo contesto, il Santo Padre nel suo discorso all’assemblea generale della CEI
del 27 maggio scorso indica due radici dell’emergenze educativa. La prima è la presunta
autoeducazione: educazione “fai da te”, autosviluppo, fondata su un concetto di
autonomia dell’uomo che non sarebbe in debito con nessuno per il suo essere e divenire
persona. La seconda è il naturalismo antropologico (il Papa parla anche di scetticismo e
relativismo) a cui corrisponde una concezione dell’educazione carente di ogni
dimensione etica. S. E. Mons. Franco Giulio Brambilla (Vescovo ausiliare Milano,
Presidente Comitato studi superiori di teologia e di scienze religiose, membro della
Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi)
apprezzando quanto il Papa dica il vero in queste affermazioni, ne suggerisce una terza:
la distensione temporale, che è elemento fondamentale in questa dicotomia tra radici,
del processo educativo, situato tra una promessa e un compimento.
Gli insegnanti quindi sono ulteriormente chiamati a rimettersi in gioco, a rivedere le
proprie competenze e la propria “offerta formativa” anche in ambito tecnologico.
Aggiunge ancora che gli insegnati di religione scherzosamente possono sentirsi i marines
della Chiesa, le truppe della Chiesa per tessere relazioni! Non bisogna mai dimenticare
che se fondamento del processo di apprendimento è la relazione, per l’IdR è
doppiamente necessaria, vista la natura delle disciplina: abbiamo bisogno di maestri
buoni, la relazione con un maestro buono nella scuola è sempre una ricchezza.
Nel suo intervento, invece, il prof. Rivoltella (ordinario di Metodologia per
l’innovazione educativa e l’integrazione sociale, Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento, Metodologia e didattica dei processi di educazione degli adulti e
formazione continua – facoltà di Scienze della formazione presso l’Università Cattolica
Sacro Cuore di Milano) parlando delle nuove modalità di approccio al sapere e alle
– 49 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
implicanze multimediali, ha voluto mettere in guardia sul rischio di relazioni basate sul
gioco del “voi” e “noi”: «noi insegnanti alla vostra età… noi eravamo migliori…». Ha
evidenziato che dobbiamo accettare la sfida e non sentirci impotenti, dobbiamo tornare
a trasmettere il desiderio d’apprendere; ripensare il concetto dell’autorità, far nascere
delle libertà attraverso le autorità.
Pensare alla multimedialità oggi, non è più pensare a multi-media da utilizzare nella
didattica per rendere efficace l’insegnamento; oggi il digitale ha semplificato il multi- in
monomedialità, multi-linguaggio in modalità multi-rappresentativa ma tutti in un solo
supporto.
Gli strumenti digitali, come l’I-pad e la LIM (lavagna interattiva multimediale)
possono anche rappresentare uno spazio informale per l’apprendimento, un’estensione
dell’apprendimento scolastico a tutta la vita quotidiana: occorre quindi costruire
passerelle tra educazione formale e informale. Situazioni di apprendimento
significativo, favorire lo sviluppo della saggezza digitale!
In pratica significa educare un “cervello bilingue” facendo attenzione a non spostare
tutta l’attenzione solo sul digitale! Mai dimenticare il libro. Ed è proprio dal libro per
eccellenza, la Bibbia, come ha ricordato don Guido Benzi (Direttore Ufficio Catechistico
Nazionale della CEI) che traiamo un modello di educazione: due parti che dialogano.
Gesù come comunicatore esemplare ha utilizzato la parabola per interpellare,
“performare”! All’interno della condizione enigmatica della parabola bisogna
considerare il modo semplice ed efficace con cui Gesù si metteva in relazione con le
persone, per svelare il mistero del Padre, raccontando cioè la vita con la vita.
La parabola dunque, lungi dall’essere solo uno strumento retorico-letterario è dotata
di un valore dialogico-argomentativo, capace così di coinvolgere l’uditore in un processo
interattivo. La Bibbia stessa si può considerare un testo interattivo-multimediale: è un
codice che interpella ancora oggi con una proposta educativa di ristrutturazione della
realtà.
Il tempo dedicato ai laboratori coordinati dalla prof.ssa Rita Minello (Pedagogista
esperta di processi e metodologie formative in presenza e a distanza, con particolare
riferimento alle problematiche dell’adolescenza, del cooperative learning e della
formazione dei docenti – Università Ca’ Foscari di Venezia) è stato quest’anno più che
sufficiente per permettere ai partecipanti di mettere in comune (moderatori
permettendo…) le proprie competenze maturate sul campo e confrontarle con l’utilizzo
delle nuove tecnologie. La prof.ssa Minello ha puntato l’attenzione sul fatto che la
corresponsabilità formativa è necessaria per progettare, con l’aiuto delle nuove
tecnologie, il destino formativo della singola persona.
L’IdR che oggi non vuole impegnarsi nell’apprendimento e nell’utilizzo delle nuove
tecnologie si mette da solo fuori gioco! Conoscerle non significa dominare, perché
apprendere non è dominare: le tecnologie sono solo un veicolo dell’esserci nel mondo;
apprendere è migliorarsi, per alunni e per insegnanti!
Resta fondamentale affiancare – principio sottolineato da tutti i laboratori – la lettura
alla tecnologia. Se si fa una scelta univoca della sola tecnologia evapora il potere
dell’identità basilare nell’educazione.
Chi vi scrive ha potuto ancora una volta cogliere questi eventi come momenti forti di
formazione e di condivisione con altri IdR da tutta Italia. Esperienze che diventano lo
sfondo integratore della personale professionalità con quella di ciascun collegapartecipante, nell’entusiasmo tipico dell’IdR che sempre più fa la differenza nella scuola
italiana oggi.
Ferragina Massimiliano
– 50 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
NATALE IN MUSICA
(OK, MA… QUALE MUSICA?)
di Pasquale Giaquinto
Qualche estate fa mi trovavo in un paesino di campagna per le vacanze. C’era un
caldo terribile, accompagnato dal tipico canto delle cicale. Improvvisamente, in
lontananza, un campanile iniziò i
rintocchi per il mezzogiorno intonando la
melodia di… Adeste Fideles! Scoppiai a
riderei non dando, lì per lì, molto peso
alla cosa.
Poi ci ritornai col pensiero chiedendomi
se ci fosse stato un qualche brano
musicale tipico della tradizione cristiana
adatto ad accompagnare i rintocchi delle
campane per un mezzogiorno di pieno
agosto! Effettivamente mi sono trovato
senza risposte e con la conclusione che
non c’è nessun altro periodo dell’anno
come quello natalizio che porti con sé un
bagaglio di tradizione musicale così
largamente diffuso e conosciuto, forse anche più conosciuto di quello della
solennità di Pasqua.
Come insegnanti di religione percepiamo il subitaneo e immediato accostamento
tra musica e attività didattica per il periodo che precede immediatamente le
vacanze natalizie, ma, nello stesso tempo, ci troviamo a disagio nel proporre
qualche ascolto ai ragazzi che non ricada in due ‘eccessi’ opposti.
Di quali ‘eccessi’ sto parlando? Mi riferisco, da un lato, a canti che i ragazzi
ascolteranno molto probabilmente nelle celebrazioni natalizie parrocchiali, canti
come Tu scendi dalle stelle, Astro del Ciel, o, per l’appunto, Adeste fideles.
Dall’altro lato, spesso, ci affidiamo agli scaffali delle librerie religiose di viale
della Conciliazione che propongono numerose raccolte di recital natalizi.
La scelta non è semplice, ne comprendo perfettamente i motivi. Ci si trova
dinanzi ad un dilemma non semplice: affidarsi alla sicurezza della tradizione
musicale e religiosa con la certezza di proporre contenuti solidi di cui non
sempre se ne sa ricavare un’adattabilità didattica. Oppure rifarsi ai numerosi
brani musicali il cui stile ‘giovanile’ a volte, può lasciare perplesso qualcuno di
noi (me per primo) sulla qualità musicale e, a volte, anche sulla qualità dei
contenuti.
– 51 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Vorrei provare a focalizzare l’attenzione su una produzione di musica ‘sacra’,
intellettualmente stimolante, acusticamente godibile, che pervade tutto il
Novecento ed è in gran parte sconosciuta. Nella fattispecie mi riferisco ad un
compositore inglese Benjamin Britten (Lowestoft, Suffolk 1913 - Aldeburgh
1976).
Precocissimo talento musicale, studiò pianoforte e composizione al Royal College
di Londra. Fu fecondo compositore cimentandosi con vari generi, anche per colpa
delle ristrettezze economiche: dai brani per pianoforte, a quelli vocali, alle
colonne sonore per numerosi documentari cinematografici. Viaggiò molto
soprattutto negli Stati Uniti. Di ritorno in Inghilterra, nel 1947, collaborò alla
fondazione della English Opera Group, rimanendo
attivo sia come pianista che come direttore
d’orchestra. È ancora oggi considerato una delle
figure più prestigiose della musica inglese del XX
secolo.
In un periodo musicale dove molte tendenze
procedevano lentamente verso la frantumazione
del sistema tonale, Britten tenne la tonalità come
punto fermo, affidata non tanto all’armonia,
piuttosto destituita dalle sue abituali funzioni
strutturali, quanto alla nitidezza delle linee
melodiche, sia vocali che strumentali. Per questo
motivo, grande preminenza ha avuto la sua
produzione operistica (Peter Grimes 1945, Il Ratto
di Lucrezia 1946, Billy Budd 1951, Il giro di vite
1954).
L’importanza primaria data al rapporto tra
strutture poetico-verbali e musicali si mostra nella precisa aderenza ai valori
semantici della parola, al suo ritmo interno, all’assoluta preminenza della chiara
articolazione in semplici arditi musicali, in ariosi concentrati. Capolavoro di
musica vocale sacra restano, infatti, il suo oratorio Saint Nicolas 1948, la sua
Missa brevis del 1959 e soprattutto il War Requiem del 1961.
Una delle caratteristiche della musica vocale di Britten è quell’idea collettiva e
comunitaria, con numerosi parti corali affidate ad esecutori dilettanti o ragazzi,
idea a cui Britten rimarrà fedele e che comincerà ad evidenziare nelle sue
composizioni proprio a partire da quella che si intende esaminare in questa sede:
A Ceremony of Carols op. 28 per voci acute ed arpa, scritta nel 1942.
Se c’è una caratteristica che rimane a lungo impressa nella mente ascoltando
questa composizione è appunto l’impiego delle voci di ragazzi, tendenza
confermata dall’abitudine ormai consolidata di affidare il canto delle Carols a
sole voci bianche. La composizione può essere letta come una cantata sacra i cui
testi sono tratti dalla migliore tradizione letteraria inglese di autori
prevalentemente vissuti nell’arco di tempo che va dal 1300 al 1500. La cantata è
suddivisa in nove Carols, aperti e chiusi da un tradizionale brano gregoriano, per
la complessiva durata di 23 minuti circa.
La versione linkata da youtube è un’esecuzione del Choir Trinity College di
Cambridge nel 1997; sullo sfondo ci sono i testi in inglese.
– 52 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
1. Procession (melodia gregoriana)
http://www.youtube.com/watch?v=2f526gHUSro
Hodie Christus natus est:
hodie Salvator apparuit:
hodie in terra canunt angeli:
laetantur archangeli:
hodie exsultant justi dicentes:
Gloria in excelsis Deo.
Alleluia! Alleluia! Alleluia!
Oggi è nato Cristo,
oggi è apparso il Salvatore,
oggi gli angeli cantano sulla terra,
si rallegrano gli arcangeli,
oggi esultano i giusti che dicono:
Gloria a Dio nell'alto dei cieli.
Alleluia! Alleluia! Alleluia!
Il graduale emergere delle
voci ci catapulta proprio
nell’atmosfera
delle
processioni tipiche delle
grandi
cattedrali
britanniche,
dove
a
precedere il clero che
esce dalla sacrestia per
dirigersi verso il coro
troviamo una schiera di
piccoli cantori in vesti
bianche e rosse, secondo
un costume ininterrotto dal tempo della Riforma. Così come tutto nasce dal
silenzio, in parallelo, le voci si spengono nel silenzio.
2. Wolcum Yole! (testo anonimo)
http://www.youtube.com/watch?v=OwFkfHHVEGk
Wolcum, Wolcum, Wolcum
be thou hevenè king,
Wolcum Yole! Wolcum,
born in one morning,
Wolcum for whom we sall sing!
Wolcum be ye, Stevene and Jon,
Wolcum, Innocentes every one,
Wolcum, Thomas marter one,
Wolcum be ye, good Newe Yere,
Wolcum, Twelfthe Day both in fere,
Wolcum, seintes lefe and dere,
Wolcum Yole, Wolcum Yole, Wolcum!
Candelmesse, Quene of bliss,
Wolcum bothe to more and lesse.
Wolcum, Wolcum, Wolcum
be ye that are here,
Wolcum Yole, Wolcum
alle and make good cheer,
Wolcum alle another yere,
Wolcum Yole, Wolcum!
Benvenuto il Natale, benvenuto,
benvenuto, benvenuto, o Re divino,
benvenuto il Natale!
Benvenuto il mattino in cui nascesti,
benvenuto Tu che osanniamo!
Benvenuti voi Stefano e Giovanni,
benvenuti gli Innocenti tutti,
benvenuto Tommaso Martire,
benvenuto il buon Anno Nuovo,
benvenuta l’Epifania e le sue cerimonie,
benvenuti cari santi, benvenuto il Natale,
benvenuto il Natale, Benvenuto!
Candelora, regina di beatitudine,
benvenuti grandi e umili.
Benvenuti, benvenuti, benvenuti
voi che siete qui,
benvenuto il Natale!
Benvenuti tutti e fate festa.
Benvenuto a un altro anno,
Benvenuto il Natale, benvenuto!
– 53 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
La prima Carol è un grazioso inno di benvenuto al Natale. Un po’ caotico, sembra
vedere il radunarsi della folla della Messa di mezzanotte, l’avvio di un popolo nel
momento in cui ancora un po’ disordinatamente cerca posto in chiesa.
L’atmosfera è davvero festosa: con gioia si invita tutti ad avere un volto
raggiante wolcum alle and make good cheer. Un benvenuto non solo al Natale ma
anche alle feste che lo seguono: santo Stefano, san Giovanni, i santi Innocenti,
san Thomas Becket, il Capodanno, l’Epifania e la festa finale, la Candelmesse
(Candelora). La musica che ondeggia su due note che compongono la parola
wolcum, appena punteggiate dall’arpa, sembrano camminare alacremente con
ghiribizzo scherzoso.
3. There is no rose (testo anonimo)
http://www.youtube.com/watch?v=PX4k0Mf7i8s
There is no rose of such vertu
as is the rose that bare Jesu.
Alleluia, alleluia.
For in this rose conteinèd was
heaven and earth in litel space,
res miranda, res miranda.
By that rose we may well see
there be one God in persons three,
pares forma, pares forma,
The aungels sungen the shepherds to:
gloria in excelsis,
gloria in excelsis Deo!
Gaudeamus, gaudeamus.
Leave we all this werldly mirth,
and follow we this joyful birth.
Transeamus,
transeamus,
transeamus.
Alleluia, res miranda,
pares forma, gaudeamus,
Transeamus, transeamus, transeamus
Non c’è rosa di tale virtù
come la rosa che generò Gesù.
Alleluia, alleluia.
Perché questa rosa racchiudeva in sé
cielo e terra,
res miranda, res miranda.
In quella rosa noi possiamo ben
ammirare
Dio come uno e trino,
pares forma, pares forma.
Gli angeli cantavano ai pastori:
gloria in excelsis,
gloria in excelsis Deo!
Gaudeamus, gaudeamus.
Sia pure con esultanza terrena,
assistiamo a questa gioiosa nascita.
Transeamus, transeamus transeamus.
Alleluia, res miranda,
pares forma, gaudeamus,
transeamus, transeamus, transeamus
L’atmosfera cambia immediatamente, il coro ci introduce in un momento di
contemplazione estatica, di meraviglia, con un metodo di scrittura testuale
molto in voga nel Trecento, alternare l’uso della lingua praticata, l’inglese, con
il latino. E proprio al latino è affidato il compito caratteristico di fissare i
termini fondamentali della Carol, partendo dal giubilo - alleluia - attraversando
lo stupore della nascita umana - res miranda - di una delle tre persone divine,
che allo stesso tempo continua ad essere pari alle altre nell’essenza - pares
forma -, rallegrandosi per l’annuncio degli angeli - gaudeamus -, muovendo il
cuore - transeamus - alla letizia. Poi, lentamente, la musica si spegne.
– 54 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
4a. That yonge child (testo anonimo)
http://www.youtube.com/watch?v=S-P4fBOsD4I
That yonge child when it gan weep
with song she lulled him asleep:
that was so sweet a melody it passèd
alle minstrelsy.
The nightingalë sang also: Her song is
hoarse and nought thereto:
whoso attendeth to her song and
leaveth the first then doth he wrong.
Quel
giovane
bambino
quando
comincia a piangere, Lei lo culla
cantando:
una melodia così soave da strabiliare
i menestrelli.
Anche l’usignolo cantava: ma in
confronto il suo canto era rauco:
chiunque ascolti la sua canzone e non
la prima sbaglia.
L’arpa segue con accordi oscuri, con note molto basse, la voce solista che lacera
la notte con note molto alte, il contrasto però non è affatto sgradevole. Britten
riprende il motivo di molte ninna-nanna medievali che venivano intese come
preludio della passione. In questa la Vergine culla il bambino in lacrime
facendolo addormentare. Anche l’usignolo cantava, sebbene con suono meno
dolce e chi segue questo suono abbandonando l’altro, commette uno sbaglio; il
tono è morale perché l’usignolo è emblema dell’amore mondano.
4b. Balulalow (testo di James, John e Robert Wedderburn, poeti scozzesi del XVI
sec.)
http://www.youtube.com/watch?v=eL4fhwhq9KE
O my deare hert, young Jesu sweit,
prepare thy creddil in my spreit,
and I sall rock thee to my hert,
and never mair from thee depart.
But I sall praise thee evermoir
with sanges sweit unto thy gloir;
The knees of my hert sall I bow,
and sing that richt Balulalow.
O mio carissimo, dolce giovane Gesù,
prepara la tua culla nel mio spirito,
e io ti cullerò nel mio cuore per
non lasciarti mai più.
E ti loderò per l’eternità
con soavi canti alla tua gloria;
piegherò le ginocchia del mio cuore,
e canterò quel Balulalow.
– 55 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
La Carol successiva è decisamente una ninna-nanna evocata da quelle tipiche
parole senza senso che le mamme inventano per i propri bambini: balulalow. Il
ritmo ternario della siciliana infonde incredibile dolcezza a questa preghiera
recitata affinché Gesù trasformi il cuore di chi lo invoca in una cuna dove poter
essere cullato con soavi canzoni. Toccante il passaggio in cui il solista intercetta
il coro per una preghiera di gruppo, che diventa di grande respiro.
5. As dew in Aprille (testo anonimo)
I sing of a maiden that is makèles:
King of all kings to her son she ches.
He came also stille there his moder
was,
as dew in Aprille that falleth on the
grass.
He came also stille to his moder’s
bour,
as dew in Aprille that falleth on the
flour.
He came also stille there his moder
lay,
as dew in Aprille
that falleth on the spray
Moder and mayden
was never none but she:
well may such a lady Goddes moder
be.
Canto una fanciulla senza pari: per il
Re di tutti i re, il suo figlio, ella fu
scelta.
Venne Egli silente dove sua madre
era,
come rugiada in aprile che cade
sull’erba.
Venne silente alla dimora di sua
madre, come rugiada in aprile che
cade sul fiore.
Venne silente dove sua madre
giaceva,
come rugiada in aprile
che cade sul ramoscello.
Madre e vergine
fu solo lei una simile donna
non poteva che essere la madre di
Dio.
Si passa poi ad una lirica di grande impatto, piena di magia, il cui pizzicato
rimanda all’immagine della rugiada. Più che al testo in sé, Britten sembra qui
– 56 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
interessato a produrre, attraverso la musica, un’atmosfera sostanzialmente
festosa, con interessante caduta dall’alto in basso dell’ultimo verso, della prima
e l’ultima strofa. La forma è un contrappunto veloce in cui le brevi note si
rincorrono vivaci nelle tre voci.
6. This little Babe (su testo di Robert Southwell, poeta gesuita, sacerdote e
martire)
5+6: http://www.youtube.com/watch?v=_iDD7wqtwmM
This little Babe so few days old, is
come to rifle Satan’s fold; all hell
doth at his presence quake, though
he himself for cold do shake; for in
this weak unarmed wise the gates of
hell he will surprise.
With tears he fights and wins the
field, His naked breast stands for a
shield; His battering shot are babish
cries, His arrows looks of weeping
eyes, His martial ensigns Cold and
Need, and feeble Flesh his warrior’s
steed.
His camp is pitched in a stall, His
bulwark but a broken wall; the crib
his trench, haystalks his stakes; of
shepherds he his muster makes; and
thus, as sure his foe to wound, the
angels’ trumps alarum sound.
My soul, with Christ join thou in
fight; stick to the tents that he hath
pight. Within his crib is surest ward;
this little Babe will be thy guard.
If thou wilt foil thy foes with joy,
then flit not from this heavenly Boy.
Questo piccolo Bambino di pochi giorni, è
venuto per sgominare il caprile di Satana;
tutto l’inferno alla sua presenza freme,
benché egli stesso dal freddo tremi;
debole, disarmato abbatterà le porte
dell’inferno.
Con lacrime combatte e vince la battaglia,
il suo petto nudo uno scudo; mazzate i
suoi lamenti infantili, frecce gli sguardi
dei suoi occhi piangenti, le sue insegne
marziali il Freddo e il Bisogno, la debole
Carne il suo destriero.
Il suo accampamento una stalla, il suo
bastione
un
muro
diroccato;
una
mangiatoia la sua trincea, gambi d’avena
la sua palizzata; per schiera aduna i
pastori; e per marciare contro il nemico,
suonano l’allarme le trombe degli angeli.
Mia anima, con Cristo unisciti in battaglia;
usa le difese che Egli ha eretto. Dentro la
sua mangiatoia v’è la più sicura
protezione; questo piccolo Bambino sia la
tua guardia.
Se tu desideri sconfiggere tuoi nemici con
gioia, allora non disertare questo
Fanciullo divino.
È Natale. I bambini cantano le Carols ma non è lecito dimenticare il lato duro
della faccenda e i primi versi di This little babe non lasciano dubbi: questo
Bambinello di così pochi giorni è venuto a far guerra al rifugio di Satana, tutto
l’inferno davanti a lui trema, anche se ora è Lui che trema dal freddo. Il
paradosso è al centro del lessico natalizio: l’Onnipotente si fa completamente
vulnerabile; ma qui il paradosso è letto in una maniera particolare: è applicato
alla lotta contro il male che solitamente tendiamo a relegare in Quaresima e a
Pasqua e non a Natale. Eppure le metafore evocate dal brano, la stalla, il suo
campo, la mangiatoia, la trincea, il fieno, le insegne, i pastori, l’esercito, le
trombe degli angeli che si trasformano in strumenti di guerra, creano un
equilibrio decisamente armonico, che tendono a celebrare la vittoria della
debolezza e della fragilità, quasi a parafrasare san Paolo: “è quando sono
debole, che sono forte” (2 Cor 12,10). Il ritmo musicale accelera creando una
dinamica che converge in un solo punto: l’invito finale, come un correre nel
– 57 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
campo di battaglia senza indugi, con l’ardore di un guerriero. Anima mia, unisciti
a Cristo nella lotta!
7. Interlude (per arpa)
http://www.youtube.com/watch?v=LM7J_L8-ag8
L’interludio successivo è perfettamente adatto ad introdurre una pausa, uno
spazio di tranquillità in un percorso partito dalle grida festose di benvenuto e
che ci ha condotto a fare i conti con il lato aspro della faccenda, una pausa lirica
e trasognata, appena marcata dal tocco gentile dell’arpa.
8. In freezing winter night (su testo di Robert Southwell)
http://www.youtube.com/watch?v=C-kxRUYVjhQ
Behold, a silly tender babe,
in freezing winter night,
in homely manger trembling lies.
Alas, a piteous sight!
The inns are full; no man will
yield this little pilgrim bed. But
forced he is with silly beasts in
crib to shroud his head.
This stable is a Prince’s court,
this crib his chair of State;
the beasts are parcel of his
pomp,
the wooden dish his plate.
The persons in that poor
attire His royal liveries wear;
The Prince himself is come from
heaven; This pomp is prized
there.
With joy approach,
o Christian wight,
do homage to thy King,
And highly praise his humble
pomp, wich he from Heaven doth
bring.
Scorgi, un inerme bimbo in fasce,
che nella notte gelida d’inverno,
nell’umile mangiatoia giace tremolante.
Ahimè, che vista pietosa!
Le locande sono piene; nessuno cederà un
letto a questo piccolo pellegrino. Ed è
costretto con umili animali a poggiare la
sua testa in una mangiatoia.
Ma questa stalla è la corte di un Principe,
questa mangiatoia il suo trono;
gli animali il suo fasto,
una ciotola di legno il suo piatto.
Le persone con vesti dimesse
portano la sua livrea regale;
il Principe stesso è venuto dal Cielo;
questo fasto è altamente stimato lassù.
Avvicinati con gioia,
o creatura Cristiana,
rendi omaggio al tuo Re;
e loda altamente il suo umile fasto, che
egli porta dal Cielo.
Con la Carol successiva si ritorna al tema della sofferenza, stavolta legata
all’immagine del freddo pungente, alla notte glaciale, al rifiuto della gente di
Betlemme di accogliere i pellegrini. Il contrappunto ottiene di ripetere ogni frase
tre volte, costringendo a meditare, a tenere gli occhi su una scena che muove
pietà - a piteous sight -. Le dissonanze ricorrenti accentuano la sensazione di
dolore e tristezza, il termine pomp ritorna spesso dalla metà del brano
sottolineando il genere opposto del fasto di cui si circonda questo bambino, così
diverso da quello dei governanti della terra. I personaggi della scena, infatti,
sono di altro tipo: gli animali, mentre gli oggetti richiamati sono l’emblema della
– 58 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
povertà: la stalla come corte, la mangiatoia come trono, un piatto di legno come
vassoio.
9. Spring Carol (su testo di William Cornisch, drammaturgo, poeta inglese, fine
XIV sec.)
http://www.youtube.com/watch?v=OshRvrVBaWE
Pleasure it is to hear iwis, the Birdes
sing,
The deer in the dale, the sheep in
the vale, the corn springing.
God’s purveyance for sustenance, It
is for man, it is for man.
Then we always to give him praise,
and thank him than
È davvero un piacere sentir cantare
gli uccelli.
I cervi sui pendii, pecore nelle valli,
il grano va crescendo.
La provvidenza di Dio, un sostegno,
che è per l’uomo, che è per l’uomo
Siamo sempre a dargli lode, e io lo
ringrazio
Dopo versi così austeri la Carol della primavera è una gradita sorpresa. L’idea
principale che i velocissimi glissandi dell’arpa sembrano comunicare è quella di
una giravolta per fissare lo sguardo su immagini di purissima felicità. Le liriche di
William Cornish sembrano fare da complemento al contrappunto di quelle di
Robert Southwell utilizzate precedentemente. Queste contribuiscono a dare uno
sfondo di fiducia alla sofferenza presente nella vita, che lo stesso Maestro ha
voluto fosse nella vita dei suoi discepoli quando li ha invitati ad ammirare “gli
uccelli del cielo e i gigli del campo” (Mt 6,26-30).
10. Deo gracias (testo anonimo)
http://www.youtube.com/watch?v=i7kRoqAsxQ4
– 59 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
Deo gracias! Deo gracias!
Adam lay ibounden, bounden in a
bond;
Four thousand winter thought he not
to long. Deo gracias! Deo gracias!
And all was for an appil, an appil
that he tok, aAs clerkes finden
written in their book. Deo gracias!
Deo gracias!
Ne had the appil take ben, the appil
take ben, ne hadde never our lady a
ben hevene quene.
Blessed be the time that appil take
was. Therefore we moun singen. Deo
gracias! Deo gracias! Deo gracias!
Deo gracias!
Deo gracias! Deo gracias!
Adamo giaceva incatenato, per un
patto non rispettato. Quattromila
inverni non gli parvero così lunghi.
Deo gracias!
E tutto per una mela, una mela che
egli aveva preso, come gli studenti
trovano scritto nei loro libri. Deo
gracias!
Se la mela non fosse stata presa, non
fosse stata presa, la nostra Signora
non sarebbe divenuta la Regina del
Cielo.
Benedetto sia il momento in cui
quella
mela
fu
presa.
Quindi
dobbiamo cantare. Deo gracias! Deo
gracias! Deo gracias!
Siamo giunti al termine! La scelta della Carol conclusiva non poteva essere
migliore: il testo è una poesia del Quattrocento, una variante natalizia del tema
della ‘felix culpa’, che sottolinea la strana logica di Dio che si serve delle righe
storte per scrivere dritto, tanto per utilizzare una ben conosciuta metafora. È
una vera e propria Carol: canzone con ritornello: Deo gracias!
C’è una mirabile semplicità in tutto questo testo che gioca su molteplici
allitterazioni. La prima strofa recita: Adam lay ibounden, bounden in a bond. Il
termine è ambiguo: il senso di base è quello di vincolo, mentre rimane la
connotazione che può essere negativa, nel senso di laccio, e positiva nel senso di
patto. Adamo è da un lato legato dal laccio del peccato dall’altro lato alla
promessa di Dio.
Dietro la storia della mela c’è un tragitto immenso di tutta l’umanità, quella di
Adamo, che giace a terra legata e paralizzata e che in Maria trionfa, in alto,
nella gloria regale del cielo. È proprio il momento di cantare senza smettere Deo
gracias! A ritmo focoso l’arpa corre sempre più veloce, le voci dietro, a cantare
la follia di Dio, al ripetere continuo singen, singen, singen.
11. Recession (melodia gregoriana)
http://www.youtube.com/watch?v=P9fnka_pmzE
Hodie Christus natus est:
hodie Salvator apparuit:
hodie in terra canunt angeli:
laetantur archangeli:
hodie exsultant justi dicentes:
Gloria in excelsis Deo.
Alleluia! Alleluia! Alleluia!
Oggi è nato Cristo,
oggi è apparso il Salvatore,
oggi gli angeli cantano sulla terra,
si rallegrano gli arcangeli,
oggi esultano i giusti che dicono:
Gloria a Dio nell'alto dei cieli.
Alleluia! Alleluia! Alleluia!
– 60 – Religione Scuola Città – n. 2/2010
L’esultanza un po’ popolare preferisce, per la chiusura, cedere il passo al
solenne gregoriano della liturgia latina. L’Hodie Christus già intonato all’inizio è
ora ripreso per sottolineare il ritornare da dove eravamo venuti. L’Alleluia finale
si estingue piano, la musica è finita, come il canto degli angeli apparso nella
notte. Eppure qualcosa rimane: l’eco, una reliquia di gioia che sembra vana solo
se non è stata fatta vibrare nei cuori. Niente paura. La si potrà far risuonare
tutte le volte che si vorrà.
Piccola bibliografia di riferimento:
•
L ANZA A NDREA , Il secondo Novecento, EdT, Torino 1991, pagg. 89-90.
•
P EZZINI D OMENICO , Cantate Domino. Meditazioni musicali sul mistero del
Natale, Ancora, Milano 2003.
•
S URIAN E LVIDIO , Manuale di Storia della Musica, vol. IV, il Novecento,
Rugginenti, Torino 2002, pagg. 171-173.
61
Religione Scuola Città – n. 2/2010
Natale: ma Dio non si stanca di noi?
di Don Giuseppe Forlai
Giovanni battezza oltre il Giordano. Si definisce ‘voce’ di uno che grida nel
deserto. La sua parola ha una storia, viene da lontano, attraverso la sua lingua giunge
l’eco dei più grandi profeti d’Israele. Giovanni ha fatto esperienza della povertà sua e
degli altri. Ha compreso che la religione del Tempio, quella ufficiale, tenuta saldamente
in mano dai sommi sacerdoti e dai sadducei, non sfama più le attese del popolo, non
parla più alla gente. Riti di purificazione, oblazioni e sacrifici rischiano di scadere
continuamente in una sorta di abitudinaria ricerca di protezione divina. Quello che
Giovanni vuole evitare è proprio il presentare un Dio garantista, che assicura tranquillità
e vende illusioni buoniste. Per lui Dio è altro. Va cercato lì dove non lo cercheremmo
mai. Il Dio di Giovanni Battista è un Vivente esigente che chiede non regali ma
cambiamenti, non infinite orazioni ma giustizia sociale: “Quando venite a presentarvi
davanti a me, chi richiede da voi che calpestiate i miei atri? Cessate di portare oblazioni
inutili, l’incenso è per me un’abominazione, noviluni, sabati, pubbliche assemblee, non
sopporto iniquità e feste solenni” (Is 1,12-13).
Giovanni è un marginale. Non parla dal centro della capitale religiosa ma scivola
volontariamente nel luogo simbolico e realissimo del deserto, oltre il Giordano, dove
meglio si può far memoria della vicenda del popolo d’Israele, dei suoi tradimenti e dei
suoi ritorni. Da questo luogo di solitudine, ove tutto si può fare tranne che ingannare il
Creatore con una religiosità affettata e algida, il Battezzatore rilancia la sfida di un Dio
o che ha eletto fra tutti i popoli. Il Dio di
coloro
che vuole riprendersi in mano la storia di color
Giovanni è un padre stanco: stanco di avere figli che lo cercano per comprarlo con doni
che non gli servono; stanco di vedere prostrati ai suoi piedi professionisti del sacro che
chiedono conferme e sicurezze senza mai mettere in discussione il loro comportamento,
62
Religione Scuola Città – n. 2/2010
la loro spudorata ingiustizia. Ora questo Dio stanco dell’ipocrisia dei
suoi figli vuole riprendere in mano le fila della vicenda umana, come
fece a Babilonia e in Egitto.
Giovanni è disinteressato, è povero. Come i profeti si veste di
pelli di cammello, mangia locuste e miele selvatico; non accetta regali,
come il Dio che annuncia. La sua vita personale è sottile, quasi
trasparente. Sembra quasi che Giovanni voglia far sparire il corpo per
far spazio solo alla sua voce perché sa che solo una cosa conta: gridare
che il Signore è vicino. C’è poco tempo. Digiunando e scrutando le
Scritture sacre il Battezzatore ha compreso che il Dio di Abramo e di
Elia invierà il suo Messia, l’eletto, re e sacerdote, l’Agnello pronto a
pagare il prezzo della redenzione. Questo Messia deve essere accolto da
un manipolo di gente pronta a seguirlo per realizzare il suo regno di
giustizia e vera pietà. Quando l’Eletto arriverà purificherà il Tempio di
Gerusalemme, spazzerà via gli affaristi della religione, solleverà il
popolo dall’oppressione straniera. Giovanni spera tutto questo e a
questa missione consacra la sua vita.
Chi raccoglie la sfida del Dio di Giovanni? I peggiori, quelli ai
quali la religione del Tempio ha chiuso le porte del divino. Gli irregolari
della vita scivolano verso il Giordano irresistibilmente attratti dalla
‘voce’: l’acqua modesta e profana del fiume non è certo l’acqua delle
abluzioni della Città Santa. Ma è pur sempre nervosa e veloce. Cercano
la purificazione, un’occasione per guarire dalla lebbra del peccato e
dall’altrui indignazione che li condanna e che non gli offre altre
opportunità. Ecco il paradosso: non i tiepidi accorrono al fiume, ma proprio coloro che
più di altri potrebbero essere condannati; quelli che hanno più necessità di mettere
ordine nella vita. Chi crede di star bene da Giovanni non ci va. Chi non si è accorto della
stanchezza di Dio non crede a questo nuovo profeta saltato fuori con le sue follie. Chi
prega dicendo a Dio quello che deve fare per garantire la propria tranquillità non è fatto
per ascoltare la voce del deserto.
Chi raccoglie la sfida del Dio di Giovanni? Solo quelli che sono così consapevoli
dell’aridità della propria esistenza tanto da non sapere più ‘che pesci prendere’ o ‘a che
santo votarsi’. Solo loro vanno dal Battezzatore chiedendo: “Che cosa dobbiamo fare?”
(Lc 3,10). Sono prostitute, mercenari, farisei scontenti, pubblicani. Non si fidano più dei
63
Religione Scuola Città – n. 2/2010
loro criteri, delle loro capacità di risolvere le situazioni. Sono stanchi di provarci, di fare
propositi la mattina e andare a letto sconfitti la sera. La loro stanchezza si sintonizza
con quella di Dio.
Questi marginali del benessere apparente sanno solo due cose: che stanno male, e
che nell’affidarsi all’acqua del Giordano si può risolvere qualcosa, come accadde al
tempo del profeta Eliseo, 850 anni prima, quando Naaman il Siro guarì dalla lebbra
bagnandosi in quelle stesse acque (cfr. 2Re 5,1-19). Forse sono solo dei disperati che le
provano tutte e che si inginocchiano in tutti i santuari. Ma a Dio non importa.
Sorprendendo anche Giovanni, in quel deserto, l’Onnipotente organizzerà l’incontro tra
il suo Figlio prediletto e questi disperati; l’incontro tra chi non ce la fa più e Colui che
porta i pesi altrui e i peccati non suoi; l’incontro tra l’attesa vecchia di secoli e l’Atteso
confuso tra la folla.
64
Religione Scuola Città – n. 2/2010
Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo; Dio vuole esser colto
da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte. Questo vale
per la relazione tra Dio e la conoscenza scientifica. Ma vale anche
per le questioni umane in generale, quelle della morte, della
sofferenza e della colpa. Oggi le cose stanno in modo tale che
anche per simili questioni esistono delle risposte umane che
possono prescindere completamente da Dio. Gli uomini di fatto
vengono a capo di queste domande - e così è stato in ogni tempo anche senza Dio, ed è semplicemente falso che solo il cristianesimo
abbia una soluzione per loro. Per quel che riguarda il concetto di "
soluzione ", le risposte cristiane sono invece poco (o tanto) cogenti
esattamente quanto le altre soluzioni possibili. Anche qui, Dio non è
un tappabuchi; Dio non deve essere riconosciuto solamente ai limiti
delle nostre possibilità, ma al centro della vita; Dio vuole essere
riconosciuto nella vita, e non solamente nel morire; nella salute e
nella forza, e non solamente nella sofferenza; nell'agire, e non
solamente nel peccato. La ragione di tutto questo sta nella
rivelazione di Dio in Gesù Cristo - Egli è il centro della vita, e non è
affatto " venuto apposta " per rispondere a questioni irrisolte.
(Dietrich Bonhoeffer)
65