RASSEGNA STAMPA
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RASSEGNA STAMPA mercoledì 21 gennaio 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Adn Kronos del 21/01/15 BANDO PER LA XVII^ BIENNALE DEI GIOVANI ARTISTI DELL’EUROPA E DEL MEDITERRANEO La Bjcem (rete internazionale composta da più di 70 membri e partner provenienti da Europa, Medio Oriente e Africa, di cui la Città di Torino è socio fondatore) e il Comune di Milano promuovono la XVII^ edizione della Biennale dei Giovani Artisti delL’Europa e del Mediterraneo. Nata nel 1985, la Biennale si svolge ogni due anni in una città diversa dell’Europa e del Mediterraneo e ospita le opere di giovani artisti e creatori. L’evento, internazionale e multidisciplinare, quest’anno è ospitato nella Fabbrica del Vapore di Milano, dal 22 al 25 ottobre 2015, e prevede la partecipazione di oltre 300 artisti, nati entro il 31 dicembre 1980. Il tema di questa edizione è “NO FOOD’S LAND – il mondo dopo l'EXPO”. Da molto anni si parla di alimentazione in termini salutistici. Può essere opportuno farlo anche in senso interiore. La XVII^ Biennale invita a riflettere su come si nutrono le parti più profonde e invisibili di ognuno di noi e su come si viva in balìa delle abitudini in senso pratico, mentale ed emotivo. Il Settore Arti Contemporanee della Città di Torino promuove la partecipazione con due produzioni nelle sezioni DESIGN DI MODA e GASTRONOMIA. Gli ARTISTI PIEMONTESI che vorranno candidarsi dovranno presentare un progetto specifico in relazione al tema. Il termine per la presentazione della candidatura è il 15 marzo 2015. Il bando e le relative schede tecniche sono scaricabili dal sito: http://piemontecreativo.giovaniartisti.it/bjcem-milano2015 L’adesione è gratuita e aperta a tutti. Non potranno proporsi gli artisti che hanno già partecipato a più di una edizione precedente. Sarà comunque data priorità a coloro che non hanno mai preso parte alla manifestazione. Sezioni: MODA Si ammettono modelli originali con eventuali accessori. Possono essere presentate collezioni primavera/estate o autunno/inverno. Per la selezione occorre inviare disegni, bozzetti, fotografie a colori dei capi, illustrazione dei tessuti e degli accessori e documentazione di precedenti creazioni. I modelli saranno esposti in mostra e in sessioni dedicate agli esperti del settore con modalità da definirsi. GASTRONOMIA Si possono presentare menù completi con ricette originali, proposte per aperitivi e degustazioni corredati dalla lista dei vini e dagli ingredienti. Gli chef selezionati avranno la possibilità di partecipare a un evento di gruppo con degustazione cibi. Per la preparazione delle loro proposte i partecipanti disporranno di una cucina professionale. L'organizzatore provvederà a fornire gli ingredienti necessari per realizzare le ricette. Gli ARTISTI PIEMONTESI potranno anche concorrere a livello nazionale per le sezioni FUMETTO E SPETTACOLO. FUMETTO Vengono prese in considerazione tutte le forme di espressione visiva realizzate con strumenti tradizionali o innovativi, digitali o analogici. I lavori saranno inseriti in una esibizione collettiva. Non è consentito richiedere condizioni adatte a esposizioni individuali. Le opere non potranno superare i 4 metri lineari o occupare una superficie superiore a 2x2m. La sezione SPETTACOLO si articola in tre discipline: TEATRO, DANZA E PERFORMANCES METROPOLITANE. TEATRO Si ammettono spettacoli senza limitazioni di tecnica e linguaggio, lavori originali con una durata massima di 90 minuti. Le esibizioni saranno presentate su un palco 8x6m con impianto luci e audio standard. Per le performance che non necessitano di un palco grande ne è previsto uno di 4x3m con impianto luci-audio standard. Il gruppo dovrà essere 2 composto da un massimo di sei persone (compresi autori, scenografi, tecnici, ecc.). Per partecipare bisogna presentare una video documentazione dello spettacolo, del materiale illustrativo delle rappresentazioni già realizzate il progetto del lavoro che si intende realizzare. E’ previsto anche l'invio di materiale informativo del gruppo (rassegna stampa, fotografie, altro). DANZA Possono partecipare coreografie di danza contemporanea originali e inedite, senza condizioni di stile, della durata massima di 45 minuti. Le esibizioni saranno effettuate su un palco 8x6m con impianto luci e audio standard. Il gruppo dovrà essere composto da un massimo di sei persone (compresi autori, scenografi, tecnici, etc.). Per la selezione si dovrà presentare una video documentazione dello spettacolo, il progetto e il materiale informativo del gruppo. PERFORMANCES METROPOLITANE Si accettano eventi o azioni da realizzarsi in spazi esterni con l’utilizzo di diversi linguaggi e media. Il gruppo dovrà essere composto da un massimo di sei persone (compresi autori, scenografi, tecnici, etc.). Per la selezione è necessario presentare un progetto dell’intervento e materiale di documentazione dell’attività del gruppo. COME PARTECIPARE: E’ necessario inviare al socio BJCEM di riferimento entro il 15 marzo: • CV e portfolio con i dati personali dell'artista o del gruppo; la scheda tecnica compilata accuratamente in ogni sua parte in lingua inglese e firmata; • I materiali necessari per meglio documentare il lavoro proposto; • La presentazione della candidatura comporta automaticamente l'accettazione integrale regolamento e l'approvazione della riproduzione di immagini o video dei lavori selezionati nei materiali di presentazione e promozione dell'evento o degli artisti selezionati. Il bando è disciplinato dalla legge vigente nel paese in cui viene inviata la candidatura; Nel caso di Torino, per le discipline di DESIGN DI MODA e GASTRONOMIA i materiali dovranno essere inviati via e-mail all’indirizzo: [email protected] I testi sono richiesti in formato PDF o RTF mentre le immagini informato JPG. Il limite massimo degli allegati è di 5 MB. Per dimensioni superiori si consiglia l’uso di WeTransfer o similari. A ogni partecipante sarà inviata una email di conferma di ricezione della candidatura. Per informazioni su Torino BJCEM: Città di Torino - Direzione Cultura, Educazione e Gioventù - Settore Arti Contemporanee - Ufficio Creatività e Innovazione - via San Francesco da Paola, 3 10122 Torino - Tel 011/4430020 - e-mail: [email protected] Per le selezioni nazionali di Fumetto e Spettacolo i materiali dovranno essere inviati ai seguenti indirizzi: FUMETTO: ARCI Direzione Nazionale - Ufficio Cultura - via dei Monti di Pietralata, 16; 00157 Roma – RM; tel. 0641609501, fax 0641609275 - Email [email protected] TEATRO: ARCI Emilia Romagna - via Santa Maria Maggiore, 1; 40121 Bologna – BO tel. 051260610, fax 051230692 Email [email protected] La selezione verrà effettuata da giurie locali o nazionali formate da esperti nelle differenti discipline artistiche. I vincitori saranno scelti sulla base dei materiali presentati. La decisione - documentata in un verbale in cui si presentano le ragioni della scelta - sarà definitiva e non soggetta ad appello. Coerenza tematica e qualità del lavoro in rapporto alle linee guida sono i criteri fondamentali di scelta. I vincitori saranno invitati a presentare il proprio lavoro e a partecipare alla manifestazione. La spedizione delle opere, l'assicurazione, l'allestimento, i viaggi, i costi di vitto e alloggio e il supporto per le richieste di visto verranno forniti rispettivamente dagli enti selezionatori e dall'organizzatore locale. Per ulteriori informazioni è possibile consultare il socio BJCEM presente nel paese in cui viene presentata la candidatura sul il sito www.bjcem.org. BJCEM TORINO La Città di Torino, socio fondatore dell’associazione Bjcem, ha partecipato a partire dal 1984 alla genesi e alla costruzione graduale del progetto Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo. L’iniziativa è il risultato generato da una rete internazionale, a cui hanno aderito da subito molteplici realtà istituzionali e associative, per dare voce e visibilità alla creatività dei giovani artisti dei paesi dell’Europa e, in particolare, a quelli del bacino del Mediterraneo. La manifestazione è nata dall’urgenza di riportare al centro dell’attenzione 3 le nuove tendenze giovanili che erano state marginalizzate dal mercato culturale. Per garantire assetti istituzionali e stabilità finanziaria alla manifestazione, nel 2001 è stata fondata l’Associazione Internazionale “Biennale Internazionale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo” (Association Internationale pour la Biennale des Jeunes Créateurs d’Europe e de la Méditerranée). Aderiscono alla rete i seguenti Paesi: Bosnia ed Erzegovina, Cipro, Egitto, Francia, Grecia, Italia, Libano, Malta, Montenegro, Palestina, Portogallo, Repubblica di San Marino, Serbia, Slovenia, Spagna e Turchia. Dal 2001 a oggi la Biennale ha acquisito sempre più credibilità diventando il più importante evento sulla creatività giovanile dell’area mediterranea, che ha permesso ad artisti di età compresa fra i 18 e i 35 anni di esprimere la propria sensibilità artistica in vari campi: architettura, cinema, video, grafica design, fumetto, fotografia, letteratura, gastronomia, musica, teatro, danza, ecc. La Bjcem ha acceso i riflettori sulla nuova creatività costruendo, a livello internazionale, una rete capillare di soggetti pubblici e privati realizzando, con la collaborazione di tutti i soci e il pieno coinvolgimento di undici grandi città, un programma di eventi biennali e di scambi artistici di dimensioni significative. Nel 1997 la Biennale è stata ospitata a Torino. http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/arte/2015/01/20/bando-per-xvii-biennale-deigiovani-artisti-dell-europa-del-mediterraneo_bNHmvodcRUokRlpd8VCQcJ.html Da Redattore Sociale del 20/01/15 Servizi socio-educativi a Bologna, la Cgil: “Un altro bando al ribasso” La coop Mosaico di Fabriano ha vinto la gara per la gestione dei servizi per infanzia e minori con un ribasso dell’11% dei costi rispetto al bando. Per Fp-Cgil è “un taglio al welfare che mette a rischio l’offerta per i ragazzi e le tutele dei 43 lavoratori delle cooperative”. Il 28 incontro con i lavoratori e coop BOLOGNA - I tagli al welfare ci sono ma non si vedono, almeno in apparenza. “A Bologna la riduzione dell’offerta dei servizi non passa da un taglio diretto, ma tramite gare d’appalto scritte all’insegna del risparmio”. A dirlo è Michele Vannini, segretario del Funzione pubblica della Cgil di Bologna, che accusa l’Amministrazione comunale di voler ridurre i fondi a questo settore attraverso bandi che privilegino costi bassi a danno della qualità. A farne le spese in questo caso i servizi socio-educativi per l’infanzia e i minori e di conseguenza i lavoratori che se ne occupano. Da febbraio, infatti, la gestione passerà alla cooperativa Mosaico, di Fabriano (Ancona), che si è aggiudicata la gara grazie a un ribasso dell’11 per cento sui costi previsti dal bando. A rimanere esclusi un consorzio formato dalle coop bolognesi che lo avevano gestito in precedenza: Csapsa2, Open Group, Società Dolce, Il Pettirosso, Arci, La Carovana. “Da quanto sappiamo il progetto di quest’ultime era migliore per quel che riguardava l’offerta educativa. Infatti, hanno ottenuto un punteggio elevato – spiega Vannini –. Ma quando si è trattato di guardare ai costi lo scenario è cambiato. Segno che a prevalere è una logica del risparmio su servizi importanti”. Il bando, aperto a cooperative e associazioni per un importo di 620 mila euro su un anno e mezzo (fino ad agosto 2016), si prefiggeva l’obiettivo di assegnare la gestione del servizio al progetto che bilanciasse bene l’offerta economicamente più vantaggiosa con la sua qualità “invece si è guardato solo al lato economico penalizzando l’aspetto formativo”. Se fino a oggi il servizio ha garantito ai ragazzi di poter frequentare ore di laboratori dopo la 4 scuola o di avere degli educatori in grado di seguirli in attività pomeridiane, il rischio secondo Fp-Cgil, è che molte di queste attività potrebbero essere ridotte. “L’Amministrazione comunale aveva detto che il welfare non sarebbe stato interessato da eventuali tagli – continua Vannini –. E questi cosa sono? Certo non si riduce direttamente la voce di bilancio. Ma si preferisce assegnare appalti ad aziende che propongono un prezzo inferiore del 5-6 per cento rispetto a quello dei concorrenti. È successo esattamente quello che avevamo denunciato anche la scorsa estate con il dormitorio Rostom”. Oltre all’offerta a rischio ci sono anche i 43 lavoratori che fino a poco tempo fa si occupavano del servizio e che potrebbero vedersi ridotte le ore. “Adesso bisognerà capire cosa li aspetta – conclude Michele Vannini – Di base ogni volta che una nuova cooperativa o associazione subentra a un’altra, i dipendenti della precedente vengono tutelati. Per capire cosa succederà abbiamo convocato un incontro per il 28 gennaio con loro e le coop escluse. Poi chiederemo al Comune un incontro per chiarire questa situazione e capire di chi è la responsabilità di questa scelta”. (Dino Collazzo) Da Repubblica.it del 20/01/15 (Genova) Primarie, la sinistra non rinuncia Paita: "Loro sfasciano, io unisco". Pastorino: "Non la voterò , mi caccino se vogliono" di WANDA VALLI Il progetto non si ferma. L'idea di mettere insieme un nuovo centrosinistra a Genova e in Liguria, dopo il caos primarie, va avanti. Mentre Raffaella Paita replica ancora a Cofferati e non solo. L'idea del nuovo centrosinistra è confermata dalla gente di Sel e anche, nel pd, dai civatiani. Luca Pastorino, deputato ligure, ribadisce quello che aveva detto a caldo, dopo la vittoria di Paita: "Non la voteremo mai". Adesso aggiunge: "Non ho cambiato idea, credo in una nuova alleanza di centrosinistra", il tutto senza andarsene dal pd. Lo statuto del partito impone di sostenere il candidato uscito vincente dalle primarie. E allora? "E allora io non me ne vado, se vogliono mi cacciano", provocazione in stile grillino che potrebbe trasformarsi in una nuova grana per il premier Renzi, se il tutto continuerà a avere riflessi a livello nazionale. Intanto la vincitrice Paita propone ottimismo e voglia di chiarezza, e sintetizza il suo pensiero su Facebook. Alle accuse di Sergio Cofferati e di quanti sostengono "non voterò mai Paita", lei ribadisce sarcastica: "Una bella lezione di unità e di stile da parte di alcuni vecchi, loro sfasciano, io unisco". Poi dopo questo affondo al veleno, spiega la sua idea di pd. Chiarisce: "Il pd che ho in testa mira al 40 per cento e non al 25, deve essere un pd che include e non esclude, un pd che vince". Paita garantisce di "essere impegnata con tutte le sue forze per l'unità". E chiude al centrodestra: "Il pd della Liguria non può essere alleato con forze che hanno la parola destra nel proprio nome e che non scelgono di stare stabilmente nel campo del centrosinistra". E così si torna al progetto di chi, a sinistra, immagina un altro percorso. Oggi c'è l'assemblea federale di Sel con l'onorevole Michele Fratoianni, numero 2 dopo Vendola, e domani primo incontro di chi vuol e essere della partita 5 alle 17 e 30 al Teatrino degli Zingari della Comunità di San Benedetto. Lì si ritroveranno Sel, Prc, l'Arci di Walter Massa, e soprattutto quelli che ora si sentono senza leadership dopo le dimissioni dal Pd di Cofferati. Non sarà lui a guidare la lista del nuovo centrosinistra, così è al momento, ma da Stefano Quaranta, deputato (Sel) a Pastorino (pd) sono convinti che la strada per trovare una candidatura forte sia lunga e complicata ma non impossibile. http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/01/20/news/sel-paita-105353183/ Da Left.it del 20/01/15 Tommaso Rodano La sinistra italiana vola ad Atene. A lezione da Syriza Tutti insieme, a sciacquare i panni rossi sulle rive del Mar Egeo. Il 25 gennaio Alexis Tsipras e la sua Syriza si giocano le elezioni in Grecia, in un voto che potrebbe davvero “cambiare verso” all’Europa. In quei giorni gli esuli della sinistra italiana corrono ad Atene a fare il tifo per lui. È un vero e proprio ritorno alla polis. Ci sono stati e ci saranno Stefano Fassina e Pippo Civati, per respirare un po’ di aria buona dopo mesi controvento tra gli spifferi del Nazareno. Ci sarà Nichi Vendola, con il quartier generale di Sinistra e libertà. Ci saranno, fisicamente o col pensiero, anche Maurizio Landini, Stefano Rodotà, Andrea Camilleri, Curzio Maltese, Paolo Ferrero e tanti altri ancora tra politici, intellettuali e attivisti. La “cellula organizzativa” di questa sinistra italo-ellenica si chiama, ironicamente, “Brigata kalimera”. In greco significa “buon giorno”. In italiano si traduce con un auspicio per una nuova stagione politica. Una primavera rossa che metta i primi fiori ad Atene per contagiare il continente. «Siamo già quasi 200 persone pronte a partire, un numero impressionante », spiega Raffaella Bolini, componente della presidenza nazionale dell’Arci, che ha passato le vacanze di Natale a coordinare biglietti aerei e camere d’albergo per la truppa che si imbarcherà dall’Italia. «Non solo parlamentari ed europarlamentari, soprattutto gente comune. E molti giovani. Andiamo a imparare come si fa la sinistra», sorride. Già, come si fa? Pippo Civati è appena tornato da un viaggio proprio ad Atene, dove ha provato a studiare i segreti del successo di Syriza. Al ritorno, ha pubblicato una lunga riflessione sul suo blog: «Il movimento politico cresce solo all’aumentare della mobilitazione in campo sociale. Non è roba di Palazzo. Di Syriza mi ha colpito soprattutto il lavoro in campo sociale, parallelo e indipendente rispetto alla politica in senso stretto. Sarebbe provinciale disinteressarsene, fare finta di non vedere che sotdito il profilo politico europeo e anche nazionale ci sia bisogno di qualcosa che vada in quella direzione. La Grecia vive nella necessità di un esodo, di una transizione verso qualcosa di più umano e più sostenibile. Un percorso di riscatto che dovrebbe parlare anche a noi, perché ci riguarda. Molto direttamente». Civati ha di nuovo la valigia pronta: «Sarò ad Atene nei giorni del voto? Penso proprio di sì – sorride – anche se non vorrei portare sfortuna, in quanto gufo». Con lui, anche Stefano Fassina. Da viceministro dell’Economia nel governo Letta ad ambasciatore della sinistra critica del Pd ad Atene. Nel suo primo viaggio ha provato a convincere gli interlocutori greci che le posizioni di Syriza sono «esportabili» nel partito di Renzi. Impresa titanica. Quasi quanto quella di una listarella della sinistra radicale ellenica che in pochi anni è passata dal 2 per centoal sogno di un trionfo nelle elezioni che terrorizzano mezza Europa. 6 Tutti sul carro di Alexis Tsipras, quindi. E su quello della Brigata Kalimera. Massimo Torelli è un altro degli organizzatori della spedizione e dell’appello “Cambia la Grecia, cambia l’Europa”. Il documento è stato firmato da oltre 1.300 persone, mentre Atene è diventata metà di un piccolo pellegrinaggio laico. «Parteciperemo alla chiusura della campagna elettorale giovedì 22 gennaio – spiega Torelli – mentre nei giorni successivi daremo una mano ai compagni di Syriza e ci faremo mostrare le esperienze di resistenza sul territorio, dalle mense popolari alle altre forme di welfare “alternativo” che la Troika non ha ancora estirpato. Domenica poi si tifa Tsipras». La convinzione è di assistere a una vittoria epocale: «C’è voglia di partecipare e di poter dire “io c’ero”. Sarà una specie di social forum europeo: le “brigate” arrivano da tanti Paesi diversi. Dopo Atene, sarà la volta della Spagna e di Podemos. È come una finale di Champions League – ride – sentiamo che è un appuntamento che può far girare la storia». http://www.left.it/2015/01/20/la-sinistra-italiana-vola-ad-atene-a-lezione-da-syriza/ 7 ESTERI del 21/01/15, pag. 18 Arrestati 5 ceceni con l’esplosivo Parigi ripiomba nell’incubo Un drone sorvola l’Eliseo, polemiche sulla sicurezza Passaporto a Lassana, eroe del supermarket ANAIS GINORI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI . «Non ho nascosto ebrei, ma esseri umani. Siamo tutti fratelli». La Francia sotto choc, in cui risorge lo spettro del conflitto tra comunità religiose, aveva bisogno di un simbolo e delle parole semplici ma preziose che Lassana Bathily ha pronunciato ieri, ricevendo il passaporto francese durante una commovente cerimonia al ministero dell’Interno. Il ragazzo musulmano, impiegato del supermercato kosher di Porte de Vincennes, ha nascosto dieci ostaggi tra cui un neonato di 10 mesi. Immigrato all’età di 16 anni, Bathily non aveva mai avuto i documenti in regola, qualche anno fa aveva persino rischiato l’espulsione. «Dobbiamo essere fieri di accogliere nuovi francesi, sono una chance per il nostro paese», ha commentato il premier Manuel Valls, abbracciando Bathily davanti alle telecamere. «Per favore, non chiamatemi eroe» si è schermito il ragazzo, 24 anni, che ha avuto la prontezza di chiudere alcuni clienti del locale in una cella frigorifera spenta, appena ha visto entrare Amédy Coulibaly. Per tragica ironia, Lassana è del Mali, come i genitori dell’attentatore. Sono i due volti di un paese che s’interroga ancora dopo gli attentati del 7 e 9 gennaio compiuti da “terroristi di casa”. Ieri è stata un’altra giornata di frenetiche notizie sul fronte delle indagini, con due nuovi allarmi. Un drone è misteriosamente riuscito a sorvolare l’Eliseo, riaprendo le polemiche sulla sicurezza del palazzo presidenziale. A Béziers, nel sud della Francia, cinque ceceni sono stati arrestati. «Non abbiamo stabilito se progettassero un attentato, siamo certi della detenzione di materiale esplosivo» ha detto il capo della polizia di Montpellier, Gilles Soulié, precisando che i fermati non hanno alcuna connotazione religiosa e non ci sono legami con gli attacchi nella capitale. Dopo 96 ore di fermo, sono state invece arrestate quattro delle dodici persone che la polizia aveva rintracciato nella ricerca sui presunti complici di Coulibaly. I quattro uomini avrebbero dato appoggio logistico — armi e veicoli — al terrorista. Ieri la Bulgaria ha accolto la richiesta di estradizione del ventinovenne Fritz Jolie Joaquin, cittadino francese di origine haitiana sospettato di legami con i fratelli Kouachi. La cerimonia di naturalizzazione di Lassana Bathily ha permesso di dare una risposta indiretta al Front National che ha già ricominciato a chiedere la chiusura delle frontiere. I tre attentatori di Parigi erano francesi. Valls ha voluto riflettere sulle cause sociali che possono portare cittadini della République dentro a una spirale di odio. «In Francia — ha detto il premier — esiste un apartheid territoriale, sociale, etnico». Un mea culpa sulla “miseria sociale” delle banlieue che ha stupito molti commentatori. «Non si tratta di giustificare nulla — ha precisato Valls — ma bisogna anche guardare la realtà del nostro paese in faccia». Il premier ha ricordato che le «tensioni covano da troppo tempo». Nella capitale francese ieri è arrivato il sindaco di New York, Bill de Blasio. «Sono venuto a testimoniare la mia solidarietà» ha detto il primo cittadino della Grande Mela, che ha definito «vergognosi » i servizi di Fox News su presunte “nogo zones”, quartieri parigini 8 pericolosi per i non musulmani. La tv statunitense si è dovuta scusare, ma il sindaco della Ville Lumière, Anne Hidalgo, ha annunciato che sporgerà denuncia contro l’emittente. del 21/01/15, pag. 18 La debolezza di Bruxelles e le truppe in Mali così Belgio e Francia sono il vivaio dei jihadisti GILLES KEPEL SE LA Francia e il Belgio sono i Paesi maggiormente investiti dalla nuova ondata di jihadismo non è solo per motivi demografici. La Francia possiede la popolazione di musulmani più numerosa d’Europa — tra 5 e 6 milioni di persone — e conta il più alto numero di giovani partiti a combattere in Siria e in Iraq — tra 1.200 e 1.500 — di cui quasi un quarto di neo-convertiti. Quanto al Belgio è la nazione con la più grande quantità di jihadisti per abitante. Ma sono altre le ragioni che spiegano la predilezione dei terroristi per questi due Paesi. In Belgio si può invocare l’estrema debolezza dello Stato o la frammentarietà di un popolo spaccato tra fiamminghi, valloni e brussellesi. Per questo motivo, l’islamismo ha potuto sopperire a un’identità sociale difettosa e s’è anche sostituito a un’identità politica poco attraente. Non è un caso se nel nostro recente passato sia le legioni pro-naziste sia le brigate indella ternazionali reclutavano in Belgio in modo sproporzionato rispetto al resto d’Europa. In Francia, dove lo Stato è solido e portatore di forti valori culturali, tra i quali spicca la laicità, uno dei motivi che spiega la presenza della grande quantità di jihadisti è che l’esercito di Parigi ha contenuto l’espansione della “guerra santa” nel Mali, conseguendo il solo, grande successo militare contro il movimento islamista. Ora, Amadi Coulibaly, il responsabile dell’attacco contro il supermercato kosher di Vincennes è originario proprio del Mali. Un altro motivo consiste nel fatto che, con la sua aviazione, la Francia partecipa attivamente ai raid coalizione internazionale in Iraq. Ma c’è dell’altro. I numerosi jihadisti partiti da Lione o Parigi in Iraq e in Siria hanno prodotto un abbondante materiale propagandistico in lingua francese, fatto per lo più di filmati che mettono in scena fatti di guerra e altre porcherie contro gli “empi”. Da laggiù questo materiale viene inviato ai compagni rimasti a casa, assieme agli inviti ad attaccare ciò che non osano più chiamare la loro “madre patria”. Ciò accade in un Paese sorprendentemente risparmiato dal terrorismo, almeno tra il 1996, quando il francoalgerino Khaled Kelkal compì i suoi attentati nel metrò di Parigi per sostenere gli islamisti della guerra civile in Algeria, e il marzo 2012, quando un altro franco-algerino, Mohamed Merah, assassinò quattro ebrei e tre militari a Tolosa e Montauban, nel cinquantesimo anniversario degli accordi di Evian che sancirono l’indipendenza dell’Algeria. In realtà durante quegli anni molti furono gli attentati sventati dalle squadre dell’antiterrorismo francese che era riuscito a infiltrare in modo capillare le reti tradizionali dell’islamismo e a tenere sotto stretto controllo gli imam, le moschee e i predicatori sospetti. Essenziale fu anche il controllo sociale operato dai padri di famiglia di origini algerine in Francia, i quali capirono immediatamente che una deriva terroristica avrebbe rimesso in questione tutto ciò che s’erano faticosamente guadagnati, dal lavoro all’alloggio a una possibile ascesa sociale. 9 Oggi tutto è cambiato perché la jihad passa attraverso i social network favorendo un indottrinamento sempre più difficile da individuare, e quindi da sorvegliare, e può beneficiare della prossimità di campi di addestramento a poche ore d’aereo da Parigi. Anche la struttura famigliare della comunità musulmana è molto cambiata: i padri immigrati di vent’anni fa non ci sono più, ma sono apparsi dei “giovani imprenditori del Corano” il cui potere è generato dalla difesa di un Islam integralista e intransigente, e per i quali le caricature di Charlie Hebdo sono una blasfemia inaccettabile e imperdonabile. Sono loro che in Francia e nel resto d’Europa provocano quelle scissioni di carattere culturale, sconosciute fino a pochi anni fa. In Francia però, dalle elezioni presidenziali del 2012, molti giovani provenienti dall’immigrazione post-coloniale si sono candidati alle legislative e alle municipali, hanno guadagnato posizioni di responsabilità, sono diventati direttori di azienda, quadri superiori, ministri. Questo spiega il senso della guerra che lo Stato islamico conduce contro coloro che chiama gli “apostati”, tra i musulmani d’Europa, dove è definito traditore chiunque non si comporti da jihadista. Ora l’offensiva lanciata contro questi “apostati” è importante e cruenta come quella che lo Stato islamico ha dichiarato agli ebrei e ai non musulmani. Al momento, questa guerra il Califfo l’ha perduta, poiché l’immensa maggioranza dei musulmani di Francia prova orrore per il terrorismo. Ma sparando contro i vignettisti di Charlie Hebdo gli assassini sapevano che avrebbero creato un malessere tra i musulmani. Molti di loro, senza essere jihadisti, salafiti né islamisti, sono stati profondamente offesi dalle caricature del Profeta. del 21/01/15, pag. 14 Dall’Isis una raffica di video dell’orrore Mostrati due ostaggi giapponesi: saranno uccisi se Tokyo non verserà un riscatto di 200 milioni Secondo gli attivisti, giustiziati tredici ragazzini per aver guardato una partita di calcio in tv Questa volta sono giapponesi gli ostaggi ad essere minacciati di decapitazione dai tagliagole dello Stato Islamico (Isis) in Siria. Dopo un paio di mesi di tregua torna a farsi vivo il boia numero uno, noto ormai come «Jihadi John», il terrorista in nero dal volto mascherato e il coltellaccio militare che parla su Youtube e apostrofa i leader della Terra prima di uccidere le sue vittime. Era dal video della decapitazione dell’operatore umanitario Usa Peter Kassig, il 16 novembre, che non si faceva sentire. E il ricatto si annuncia ancora più oneroso: 200 milioni di dollari. Ieri è comparso il nuovo filmato con lui (tutto almeno lo lascia credere: stesso inglese rauco e aggressivo, stessa postura, medesima gestualità) che parla direttamente al premier giapponese Shinzo Abe e, inginocchiati a terra, i due ostaggi. Uno sarebbe il 42enne Haruna Yukava, un personaggio dal passato perlomeno «disturbato», descritto come «depresso» dai media giapponesi per la morte della moglie due anni fa, disoccupato, in piena crisi personale tanto da voler cambiare sesso e poi arrivato in Siria come volontario per le milizie ribelli, prima di essere catturato dall’Isis il 14 agosto. L’altro sarebbe Kenji Goto Jogo, un giornalista 47enne abbastanza noto, preso dai terroristi nella cittadina curda di Kobane a metà ottobre. Il boia lascia poche illusioni rivolgendosi nel video ad Abe: l’esecuzione potrebbe avvenire entro 72 ore. «Sebbene il Giappone si trovi a oltre 8.500 chilometri dalle zone del Califfato, tu sei stato ben contento nell’unirti alla 10 campagna internazionale di aggressione», dice, esprimendo poi un concetto molto diretto: il Giappone ha versato 200 milioni per sostenere lo sforzo militare contro l’Isis, adesso la stessa somma deve essere pagata per salvare gli ostaggi. Da Gerusalemme, dove si trovava ieri nel contesto di un tour a più tappe in Medio Oriente, Abe si è detto «scandalizzato dalla minaccia», ha ribadito che la «politica giapponese non cambia, riferendo»si al sostegno per la coalizione contro Isis, ricordando tuttavia che la vita degli ostaggi è una «priorità». I media giapponesi non lasciano però credere che possa venir pagata una somma tanto ingente. Anche il precedente del pagamento di 6 milioni di dollari nel 1977 per la liberazione dei passeggeri di un aereo di linea giapponese catturato dal gruppuscolo marxista della «Fazione dell’Armata Rossa» è descritto come totalmente diverso. Dal flusso di notizie miste a propaganda sulle continue violenze nella regione colpisce anche quella relativa a tredici ragazzini che sarebbero stati assassinati dagli uomini dell’Isis il 12 dicembre a Mosul mentre seguivano alla televisione la partita di calcio tra Iraq e Giordania. Sarebbero stati accusati di aver offeso la «legge islamica». La vicenda diffusa sui social media locali trova però poche conferme verificabili, come del resto è dubbia quella relativa al presunto ferimento del capo di Isis, il «Califfo» Abu Bakr al Baghdadi, durante un bombardamento. Molto più tragicamente reale sembra invece la morte di decine di civili (si parla di oltre 60) durante un raid dell’aviazione di Bashar Assad su di un villaggio presso il confine con l’Iraq. Lorenzo Cremonesi del 21/01/15, pag. 15 Se lo Yemen cade in mano sciita Le mosse dell’Iran e di Al Qaeda Guido Olimpio Washington Barack Obama non poteva scegliere modello peggiore. Mesi fa, per illustrare la sua tattica anti-Isis, aveva citato quanto fatto nello Yemen contro al Qaeda. Un mix di azioni «coperte», incursioni di droni, aiuto all’esercito locale. Un successo, aveva detto il presidente. Ora lo Stato che domina l’ingresso meridionale del Mar Rosso rischia di non esserlo più, frantumato dalle molte guerre civili che si combattono sul suo territorio. In queste ore il conflitto predominante è quello animato dagli Houthi, la comunità sciita del Nord che con il suo braccio armato Ansar Allah ha dato l’ultima spallata nella capitale Sana'a. Dopo una mattinata di tregua ieri i miliziani si sono impadroniti del palazzo presidenziale a Sana'a. I ribelli badano ai propri interessi — non sempre lineari — e fanno anche quelli di chi li appoggia in modo discreto: l’Iran. Per molti il rapporto è solido, sostenuto da attività clandestine, analisi contestata da quanti vedono un rapporto più fluido. Gli osservatori insistono sull’agenda locale del movimento che vuole bilanciare con i propri muscoli e i kalashnikov il peso dei sunniti, vicini all’Arabia Saudita. Ecco che la faida yemenita — che sembra ripetere quelle di decenni fa — è lotta per il potere e in parte un segmento del conflitto tra le due grandi famiglie dell’Islam. Divisioni religiose che rendono ancora più aspre quelle politiche. Un prolungamento di quanto sta accadendo in Siria, in Iraq e in Libano. 11 Un successo marcato degli Houti nello Yemen preoccupa molti. Perché sono convinti che l’Iran non si farà sfuggire l’occasione per allargare la sua influenza in un punto geografico strategico. C’è la via d’acqua importante, la rivale Arabia Saudita è dall’altra parte del confine. Teheran, come altre capitali, ha cercato da tempo di tutelare una rotta sfruttata per sostenere «partiti» amici, come l’Hezbollah e Hamas. Un corridoio che risale Suez, tocca il Sudan, da qui il Sinai, infine Gaza. In alternativa supera lo Stretto e punta sul Libano. Presenza sottolineata anche dalle ripetute missioni in contrasto alla pirateria somala affidate a una flottiglia della Marina iraniana. Il crollo yemenita porta, poi, altri guai. Un territorio «selvaggio», dove i fucili sono più comuni di un’auto, con frontiere permeabili e autorità inesistente è come la manna per i qaedisti. È quello che cercano costantemente, e non solo qui, per poter stabilire la loro base e attirare volontari, magari anche dall’Europa. In realtà gli estremisti sono molto più avanti, visto che da anni tengono testa all’esercito e agli americani. Bombardamenti, raid, operazioni di intelligence che Washington ha lanciato insieme all’alleato saudita non hanno estirpato i qaedisti. Ne hanno uccisi a dozzine, ma i seguaci di Osama si sono dimostrati tenaci mettendo spesso in difficoltà i governativi. E poi, inevitabilmente, hanno aperto il fronte con gli sciiti mandando i loro attentatori suicidi a compiere stragi in stile iracheno. Impegni che non hanno intaccato la volontà di partecipare alla campagna terroristica. Lo dice un exploit, magari solo propagandistico che però va considerato: i qaedisti locali hanno rivendicato gli attentati di Parigi a Charlie Hebdo . Saranno gli investigatori a stabilire se esista questo legame, ma se non vi fosse cambierebbe poco. Lo Yemen resta pericoloso. Una landa senza legge, un confronto infinito tra i molti clan, un vulcano di violenza che a volte può spargere i suoi lapilli molto lontano. È già accaduto e si ripeterà. Del 21/01/2015, pag. 9 I jihadisti ceceni sono contro Grozny Cecenia. 800 mila alla manifestazione contro le vignette su Maometto Fabrizio Poggi Sembra che in Italia qualcuno sia rimasto impressionato dal numero di persone – si parla di oltre un milione; le agenzie russe si fermano a 800mila – che hanno partecipato lunedì alla marcia di Grozny contro le caricature di Maometto. Si tenta di esorcizzare – o forse in tal modo lo si evoca – lo spettro jihadista. Attorno alla grande moschea di Grozny si ssono radunate persone di fede musulmana provenienti da Caucaso settentrionale e Russia centrale. Intervenendo dopo il presidente ceceno Ramzan Kadyrov, il metropolita di Makhachkalà e Grozny, Varlaam ha detto «tutta la chiesa ortodossa russa condanna categoricamente le caricature. Dichiariamo un netto no al male che si tenta di diffondere tra le nostre religioni». Il presidente della Direzione spirituale dei musulmani russi Ravil Gajnutdin: «Ci sono terroristi tra i rappresentanti di popoli e di religioni diverse. Ma per questo nessuno ha il diritto di accusare la religione e interi popoli». Una manifestazione simile, ma di dimensioni molto più modeste, si era svolta sabato scorso nella vicina Ingushetia, il cui Presidente Evkurov aveva dichiarato che «la pubblicazione delle caricature blasfeme del profeta non è altro che una manifestazione di estremismo di stato da parte di alcuni paesi occidentali»; ma, al tempo stesso «è indiscutibile che ogni persona di buon senso si esprime contro ogni violenza o atto terroristico». L’ondata di proteste nei paesi musulmani si è sollevata dopo la pubblicazione del numero di Charlie Hebdo successivo alla strage di Parigi del 7 gennaio. 12 Ma, nella manifestazione di Grozny, a meno di non volerlo evocare espressamente, è difficile vedere qualcosa che somigli a una Jihad, la quale, d’altronde è in atto e di cui la Cecenia stessa continua a essere vittima. L’assalto più sanguinoso (non l’ultimo e non nella sola Cecenia) risale al 4 dicembre scorso: a Grozny, pagarono con la vita 14 poliziotti ceceni. E il giorno successivo, alla Rada ucraina, deputati del Partito radicale, comandanti di battaglioni neonazisti, proponevano di aprire un secondo fronte contro la Russia, fornendo appoggio e basi ai terroristi ceceni e daghestani. Il deputato Igor Mosijchuk (uno dei capi del battaglione «Azov»), invitava a stimolare azioni del tipo di quella di Grozny in tutta l’Asia centrale. Un anno prima, attentatori daghestani avevano causato la morte di 34 persone a Volgograd. Guerriglieri ceceni combattono con i battaglioni neonazisti nel Donbass. Forse ci si riferisce a tutto ciò quando si evoca la Jihad cecena. In occasione dell’attacco del 4 dicembre a Grozny, gli stessi media nostrani scrissero di «movimenti indipendentisti ceceni»: quando il terrorismo che dice di rifarsi all’Islam attacca gli interessi occidentali, allora si tratta di terrorismo; in caso contrario, si tratta di insorti per giusta causa. Se il perno della questione è davvero la libertà di espressione dei giornalisti, allora dovremmo parlare – per ricordare un solo esempio di giornalisti ammazzati sul posto di lavoro – dei sedici giornalisti della televisione serba massacrati dal bombardamento umanitario della Nato su Belgrado nel 1999. Anche quello, così come le dodici vittime del terrorismo che dice di rifarsi alla religione islamica, fu giudicato a Washington un «legitimate target»: quei giornalisti facevano propaganda! Del 21/01/2015, pag. 7 Si rafforza l’asse Tehran-Mosca Iran. Dopo gli accordi energetici viene rilanciata la cooperazione militare con la Russia di Putin. Per il raid israeliano che ha ucciso in Siria il generale Allahdadi, i pasdaran iraniani promettono vendetta Giuseppe Acconcia Non si è fatta attendere la reazione dei pasdaran iraniani all’uccisione del generale Mohammad Ali Allahdadi nel raid israeliano dello scorso lunedì a Quneitra in Siria. «I sionisti si aspettino fulmini devastanti», ha tuonato il capo delle guardie rivoluzionarie, il generale Mohammad Ali Jafari. Non solo, in vista del protrarsi dei negoziati per il nucleare, dopo gli accordi energetici siglati con Mosca, Tehran sta rafforzando ulteriormente l’asse con la Russia di Vladimir Putin. L’accordo di cooperazione militare firmato ieri in Iran prevede una maggiore cooperazione nella lotta al terrorismo, lo scambio di personale militare per le esercitazioni e un maggior uso reciproco dei porti. Come se non bastasse, pare risolto il contenzioso sulla sospensione della fornitura russa di cinque sistemi missilistici anti-aerei S-300, applicata in seguito a una risoluzione delle Nazioni Unite che ha imposto nuove sanzioni per il programma nucleare di Tehran. Il contratto era stato sospeso nel 2010 ma potrebbe presto tornare in vigore. Ma il governo del presidente moderato Hassan Rohani è costretto anche a fronteggiare uno dei più sensibili abbassamenti dei prezzi del petrolio degli ultimi anni. La diminuzione dei prezzi del greggio ha causato, secondo il segretario del Consiglio per la soluzione delle Controversie, Mohsen Rezaei, una perdita che ammonta fin qui a cento miliardi di dollari. I media locali non fanno che ripetere quanto il prezzo del petrolio, intorno ai 45 dollari al barile, renda un litro di benzina più economico di una bottiglia di acqua minerale. Per il ministro del petrolio, Bijan Namdar Zanganeh non ci sono dubbi, si tratta di un complotto politico di Stati uniti e Arabia Saudita per danneg13 giare le economie iraniane e russe. Ma gli ayatollah conservatori, tra cui Abdollah Javadi Amoli, controbattono ricordando che la stabilità del paese non sia dipendente solo dagli introiti per la vendita del petrolio. Eppure i finanziamenti di progetti nel mercato petrolifero sono fermi da un anno e gli imprenditori iraniani del settore rivolgono l’attenzione all’estero per attrarre nuovi investimenti. Per questo la Compagnia nazionale del gas ha iniziato negoziati con la Japan Mitsubishi Engineering and Energy e le compagnie Sud Coreane Samsung e LG per la costruzione di nuove raffinerie e pipelines in Iran. Anche il vicedirettore della Iranian Oil Refining and Distribution Company (Niordc), Shahrokh Khosravani ha annunciato la firma di un accordo con le autorità cinesi per il finanziamento di una delle più grandi raffinerie del paese. Dopo il rinvio del novembre scorso a Ginevra, sono ripresi in Svizzera anche i colloqui tra i paesi del Consiglio di sicurezza con la Germania (P5+1) e l’Iran per raggiungere un accordo sul nucleare. Il segretario di Stato Usa, John Kerry ha avuto nei giorni scorsi un lungo bilaterale con il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif. Eppure il Congresso Usa sarebbe pronto ad approvare nuove sanzioni contro l’Iran che potrebbero mettere una pietra sul negoziato. Tuttavia, il presidente Usa, Barack Obama si è detto pronto a porre il veto contro nuove sanzioni, volute dal Congresso a maggioranza repubblicana, che intensifichino l’embargo contro Tehran Del 21/01/2015, pag. 9 La rabbia di Rahat Israele. Sciopero generale nei centri abitati arabi contro la polizia dal grilletto facile. Nei giorni scorsi uccisi nel Neghev due giovani beduini. Nadim Nashef: «gli agenti non ci pensano due volte ad aprire il fuoco contro di noi. Le nostre vite non contano nulla, anche se siamo cittadini israeliani». Michele Giorgio Nadim Nashef punta l’indice contro la brutalità della polizia. «Siamo di fronte ad omicidi continui, gli agenti non ci pensano due volte ad aprire il fuoco contro di noi. Le nostre vite non contano nulla, anche se siamo cittadini israeliani. E con una campagna elettorale che punta sulla sicurezza, per la polizia sparare è ancora più semplice», spiega con amarezza Nashef, direttore della ong palestinese “Baladna” di Haifa. Parole che descrivono la rabbia e la frustrazione crescenti tra i palestinesi di Israele (20% della popolazione) che si sentono sempre più cittadini di serie B sotto l’urto dell’offensiva della destra israeliana – lo stesso premier Netanyahu è il principale promotore alla Knesset di emendamenti alla Legge Fondamentale finalizzati a proclamare Israele “Stato della Nazione Ebraica” – e fanno fatica fatica a sentirsi rappresentanti dai leader dei partiti arabi. Ieri i maggiori centri abitati palestinesi in Israele sono stati paralizzati da uno sciopero generale proclamato per protestare contro l’uccisione di due beduini da parte della polizia, nel corso di rastrellamenti ed «operazioni di sicurezza» nella città di Rahat, nel Neghev, a pochi km da Bersheeva. A Nazareth, Giaffa, Haifa, Umm el-Fahem e in decine di villaggi della Galilea e del Neghev tutti gli uffici pubblici, le scuole, le banche, i negozi non hanno aperto. Le strade sono rimaste deserte per ore prima di riempirsi di manifestanti che hanno preso parte a cortei e raduni. La tensione ha rischiato di sfociare in scontri in più di una occasione. Cortei di studenti arabi hanno attraversato i campus di Tel Aviv, Bersheeva, Haifa e dell’università di Gerusalemme. 14 Gli incidenti a Rahat erano iniziati una settimana fa, con l’uccisione di un giovane, Sami Jaher. I poliziotti hanno dichiarato di aver aperto il fuoco «in una situazione di pericolo» durante un’operazione anti-droga, uccidendo Jaher. L’accaduto però in gran parte resta misterioso. Peraltro il giovane beduino è stato colpito a morte mentre era seduto nel patio di casa. Per questo l’altro giorno i suoi funerali si sono trasformati in una manifestazione di protesta contro la polizia. I gas lacrimogeni, lanciati in abbondanza verso i manifestanti, hanno soffocato un altro abitante di Rahat, Sami Zayadna. Si tratta del 50esimo palestinese ucciso dalla polizia dall’ottobre 2000, quando, all’inizio della Seconda Intifada, 13 cittadini arabi caddero sotto il fuoco delle forze di sicurezza in diverse località. I palestinesi d’Israele denunciano che le autorità non indagano a sufficienza sulle uccisioni degli arabi. Il centro Adalah, che tutela legamente la minoranza araba, riferisce che su 11.282 denunce per cattiva condotta della polizia depositate tra il 2011 e il 2013, ben il 93% è stato archiviato con o senza indagine. Lunedì notte, dopo i funerali della seconda vittima, la stazione di polizia di Rahat è stata attaccata con lanci di sassi da dimostranti al grido di «Governo israeliano, Governo terrorista». Gli scontri sono andati avanti per ore e le autorità hanno fatto affluire sul posto ingenti rinforzi di polizia e della guardia di frontiera. È stato un assaggio delle tensioni che si svilupperanno nel Neghev quando il “Piano Prawer” — per il trasferimento con la forza di decine di migliaia di beduini che vivono nel Neghev – entrerà nella sua fase centrale. Rahat è l’esempio più compiuto del processo di sedentarizzazione obbligata e trasferimento della comunità beduina del Neghev. Con i suoi 80mila abitanti è la più grande delle sette township (le altre sei sono Hura, Tel as-Sabi, Ararat an-Naqab, Lakiya, Kuseife e Shaqib al-Salam) costruite o riorganizzate per accogliere i beduini, in passato e anche in futuro, con l’attuazione del “Piano Prawer” volto, prima di ogni alra cosa, a far scomparire per sempre i piccoli insediamenti abitativi arabi nel Neghev non riconosciuti dallo Stato ma che, in non pochi casi, esistono da generazioni. In questa città-dormitorio sempre più affollata vivono i membri di diversi clan beduini: al-Qrenawi, Tarabin, al-Huzeil, al-Tayaha, AlAzazma, al-Jubur, al-Tawarah, Howeitat. I giovani sotto i 18 anni sono metà degli abitanti e per loro trovare una occupazione è possibile (e sempre di meno) solo nei parchi industriali alla periferia della città o vicino Bersheeva, dove non poche volte il salario per gli arabi è ai livelli minimi consentiti dalla legge. La manifestazione di ieri perciò non è stata solo contro la polizia dal grilletto. Ha rappresentato anche una protesta sociale da parte di una minoranza che vede sfuggirgli dei diritti e che allo stesso tempo, in molte aree, come a Rahat, si impoverisce. Sotto accusa ci sono anche i leader politici arabi, divisi tra di loro e incapaci di trovare un progetto comune per contrastare efficacemente la linea del governo di destra guidato da Benyamin Netanyahu. Del 21/01/2015, pag. 18 “IL BLITZ ITALIANO PER AIUTARE GLI ORFANI CONGOLESI” CASO DIPLOMATICO CON KINSHASA: I TRE INVIATI DELLA COMMISSIONE PER LE ADOZIONI CHE HANNO PRELEVATO 22 BAMBINI PER PROTEGGERLI 15 Il sollievo è in una rassicurazione che proviene da Palazzo Chigi: i 22 bambini trasferiti di notte, da un orfanotrofio di una Ong a una struttura internazionale di Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, stanno bene. E i familiari sono in contatto con la Commissione italiana per le adozioni (Cai). Quelli che non vengono svelati sono i motivi che hanno spinto la Cai, come riportato ieri dal Fatto Quotidiano e in Congo da Le Potentiel, a compiere un intervento notturno, a sorpresa, inviando tre emissari e caricando i 22 bambini su di un camioncino senza specificare la destinazione, ancora ignota, ma che il governo italiano conosce e definisce sicura. QUEST’EPISODIO ha agitato le autorità congolesi e la stessa Ong che, attraverso una relazione e piccate telefonate, hanno chiesto spiegazioni all’ambasciatore italiano a Kinshasa. Dopo diversi tentativi per ottenere una risposta sui 22 bambini, che va ricordato sono già assegnati a famiglie italiane e alcuni conoscono già i genitori, la Cai ha replicato con una nota sul proprio sito: “Le notizie sono false e calunniose strumentalmente fatte veicolare nel non mascherato tentativo di pregiudicare il positivo esito delle procedure pendenti in RDC e nel deprecabile intento di allarmare i genitori adottivi in attesa dei propri figli dal Congo’’. Ed è probabilmente in questa frase la chiave per comprendere quanto avvenuto all’orfanotrofio “Maison familiale Ange Gabrielle” di Kinshasa alle 22 del 29 dicembre scorso, quando tre uomini dall’accento francese si sono presentati all’istituto con un documento della Cai, sostenendo di essere stati inviati dall’organismo italiano che sovrintende alle adozioni internazionali. Se la relazione inviata dai responsabili dell’orfanotrofio gestito dalla fondazione Raphael all’ambasciatore italiano a Kinshasa, alla stessa Cai e al ministero congolese della Famiglia, che ha promesso di aprire un’inchiesta, racconta una storia diversa dalla smentita della Cai, in ambienti di palazzo Chigi la vicenda viene confermata, sia pure in un contesto di comprensibile riservatezza. La sensazione è che, come accaduto nel maggio scorso con l’arrivo in Congo di Maria Elena Boschi, l’operazione del 29 dicembre scorso con lo spostamento dei 22 bimbi, seppur non strettamente legata all’episodio accaduto, sia stata in qualche modo propedeutica a un analogo trasferimento in Italia. Operazione che ha creato apprensione nelle autorità congolesi (che dal 2013 hanno disposto il blocco delle azioni), provocando, di fatto, un vero e proprio caso diplomatico per ora sottotraccia tra Italia e Congo. FIN DA IERI MATTINA, la vicenda dei 22 bimbi è all’attenzione della Farnesina. E la stessa Cai, nella smentita pubblicata sul sito, non cita né commenta nel merito, ma sembra “bacchettare’’ gli enti operanti in Congo, richiamandoli alla propria “responsabilità” e ricordando “che hanno già manifestato la loro posizione di appoggio all’operato della Cai nei comunicati di novembre 2014, affinchè siano isolate inaccettabili e ingiustificate posizioni di pregiudizio degli interessi dei minori adottati dalle famiglie italiane’’. Non ha trovato conferme, invece, l’accusa lanciata da uno dei testimoni citati dal quotidiano congolese, secondo cui i bimbi sarebbero stati caricati di notte sul veicolo che attendeva fuori dell’orfanotrofio “dagli intermediari dei loro genitori adottivi’’. Ma l’ipotesi viene categoricamente esclusa. Restano molti, però, gli aspetti ancora da chiarire in questa storia che mescola il legittimo riserbo a un silenzio che preoccupa, come si è verificato in passato, le numerose famiglie e le ong che non sanno niente delle trattative in corso tra Cai e Congo, sulla natura dei contatti e, soprattutto, sugli sviluppi finali. Ma il silenzio lo interrompe la stessa Cai, che nella parte finale del comunicato, “conferma gli ottimi rapporti con le autorità del Congo nel perseguire la tutela dei diritti dei bambini e il massimo impegno e la massima fiducia nel positivo esito delle adozioni’’. L’unica notizia che attendono le 22 famiglie italiane dei 22 bambini. 16 del 21/01/15, pag. 31 QUEL CHE RESTA DELLA LIBIA HISHAM MATAR DELLA Libia non si parla pressoché più nei notiziari, benché quanto accade laggiù sia di importanza decisiva. L’esercito nazionale libico, ai comandi di Khalifa Haftar — ex generale che alla metà degli anni Ottanta disertò e passò all’opposizione in esilio, per poi ritornare nel 2011 a prendere parte alla rivolta contro Muammar Gheddafi — , sta combattendo contro Ansa al-Sharia, un gruppo di miliziani armati di stanza a Bengasi che ha espresso opinioni dispotiche e profondamente antidemocratiche. Seconda città più importante del Paese e capitale della turbolenta regione orientale, Bengasi è segnata da episodi di violenza estrema, più di quanti ne abbia visti dalla Seconda guerra mondiale in poi. Molti abitanti di questa città che ne conta 1,3 milioni ormai hanno abbandonato le loro case a favore di quartieri relativamente più sicuri. I prezzi dei beni ordinari sono schizzati alle stelle. Lunghe code alle stazioni di servizio, nelle panetterie, presso i venditori di carbone sono diventate la regola. Le croniche interruzioni di energia elettrica hanno reso indispensabile tornare al carbone. L’intera regione orientale, da Ajdabiya a Tobruk, è segnata da gravi blackout e da questo punto di vista Bengasi ha appena vissuto la sua settimana peggiore. In media, la città usufruisce delle forniture di energia elettrica per sole quattro ore al giorno. Anche l’acqua è disponicontro bile soltanto con discontinuità. «Questa crisi energetica ha soffocato ciò che restava del nostro spirito» mi ha confidato un abitante di Bengasi. La violenza ha fatto definitivamente piazza pulita dei media locali affermatisi con successo dopo la destituzione di Gheddafi. Dopo quarant’anni di censura, improvvisamente aveva iniziato a circolare oltre un centinaio tra quotidiani, riviste e giornali. Adesso quelle pubblicazioni sono scomparse e tutti i gruppi di attivisti stranieri che si battevano per il rispetto dei diritti umani hanno lasciato il Paese. In pratica, nessun giornalista straniero si reca in Libia. Questa settimana, in risposta al rapimento di due corrispondenti tunisini, un gruppo di associazioni libiche della società civile e alcuni attivisti hanno reso nota una dichiarazione sulla gravità delle violenze i giornalisti. «Soltanto nell’anno appena concluso sono stati assassinati quattordici giornalisti, decine di altri sono stati rapiti, di altri ancora non si sa più nulla» hanno detto. Simili aggressioni mirate sono entrate a far parte della quotidianità di Bengasi. «Qui ormai la morte è di casa» mi ha detto un attivista. «E non ci ferma neanche più. Quando vengo a sapere che qualcuno è stato ammazzato, faccio un respiro profondo e tiro avanti». L’anno scorso in città ci sono stati oltre duecento omicidi. Le vittime in buona parte erano militari, agenti di polizia, giornalisti, attivisti per i diritti umani e avvocati. Anche se è raro che gli episodi di violenza di questo tipo siano rivendicati, si ritengono opera di Ansar al-Sharia. Durante la rivoluzione libica — senza alcun dubbio la più completa di quelle esplose nella regione — , quasi tutte le strutture di potere sono state messe a dura prova o abbattute. Perfino gli insegnanti non hanno più la medesima autorità. Di conseguenza dal 2011 le scuole non hanno più operato con regolarità. Adesso che Bengasi sta crollando, l’insegnamento qui e in altre città e località è definitivamente paralizzato. Un docente che negli ultimi venti anni ha lavorato in parecchi istituti scolastici, accademie e università di Bengasi chiacchierando mi ha detto che «ogni singola struttura scolastica nella quale ho insegnato è stata bombardata, data alle fiamme o rasa al suolo». I genitori stanno cercano di far proseguire gli studi ai figli a casa. Sei settimane fa è entrata in servizio l’opzione online Beghazi-School.com e ha attirato un numero significativamente 17 alto di alunni. La Mezzaluna Rossa gestisce una scuola a Bengasi, nella quale offre insegnamento a livello di elementari, ma le iscrizioni sono state a tal punto numerose che l’organizzazione è in grado di seguire soltanto due delle sette sessioni quotidiane normali. Tra un blackout e l’altro, una studentessa che avrebbe dovuto finire il suo primo semestre all’Università di Bengasi (il campus è stato prima bombardato e infine dato alle fiamme), mi ha scritto una email. “Talvolta mi dico che dovrei partire, quanto meno per finire gli studi e prendere la laurea. Poi però mi chiedo come potrei lasciare davvero Bengasi…” ha scritto. Come molti altri libici della sua età, si trova a dover scegliere se abbandonare il suo Paese o rischiare di mettere in gioco il proprio futuro. È anche probabile che in futuro incomba un conflitto più grande e pericoloso. La milizia Misrata Dawn, che tiene sotto controllo la capitale, si è allineata con il governo di Tripoli, autoproclamatosi tale. Nessuno dei due accetta la legittimità del Parlamento eletto, che al momento si riunisce nell’estremo oriente del Paese, a Tobruk. Pare che il Qatar appoggi i nuovi governanti di Tripoli, mentre Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto sembrano sostenere Haftar e l’Esercito libico nazionale. Fino a questo momento Haftar ha accettato la legittimità del Parlamento e del governo democraticamente eletti e riconosciuti a livello internazionale. Questo avvelenato miscuglio di conflitti interni e di intromissioni dall’estero sta spingendo sempre più i governi di Tobruk e Tripoli verso lo scontro armato. Malgrado la situazione sia così cupa, i libici sono determinati a tener duro e a coronare le aspirazioni originarie della loro rivoluzione. Di sondaggio in sondaggio è stato confermato che la stragrande maggioranza della popolazione vuole che un governo laico e democratico faccia rispettare la legalità. La speranza, benché intaccata e agli stremi, persiste. Questa settimana Ginevra ospiterà un nuovo round di trattative della Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil, United Nations Support Mission in Libya), ed è stato reso noto che “la decisione di organizzare questi negoziati fa seguito ad ampie consultazioni con tutte le più importanti parti in causa libiche”. In ogni caso, il sedicente governo di Tripoli sta minacciando di boicottare le trattative. Molti credono che per la Libia questa sia l’ultima occasione. L’autore è uno scrittore libico il suo ultimo libro è “ Anatomia di una scomparsa” ( Einaudi) Traduzione di Anna Bissanti Del 21/01/2015, pag. 7 «Obama tace, Guantanamo forever» Usa. Omar Farah (Center for constitutional Rights), avvocato dei 137 condannati, prosciolti e in attesa di liberazione Patricia Lombroso, NEW YORK <<Avevo 17 anni quando sono arrivato a Guantanamo ed ora ne ho 31. Sono cresciuto in questo regime che incute soltanto paura. Qui a Guantanamo nessuno vuole ascoltarmi. In questi 13 anni di detenzione senza alcuna imputazione, né diritto ad un processo non ho mai avuto la facoltà di dire chi realmente sono. Per il governo americano sono soltanto il numero Isn026. Il mio nome è Fahd Abdullah Ahmed Ghazi. Sono un essere umano, un uomo. Vorrei avere l’abilità di descrivere questi 13 anni a Guantanamo. Ma la mia mente si chiude quando provo a pensarci. E non riesco ad avere parole adeguate che possano veramente farvi comprendere questa realtà». È questa l’apertura dell’appello di Fahd Ghazi, uno degli 86 detenuti yemeniti , prosciolti da ogni accusa dal Pentagono, dal presidente Obama, dal Review Board militare di Guantanamo ben cinque anni fa, in attesa di essere liberati o trasferiti da questo inferno vivente 18 verso Paesi disposti ad accoglierli. Il video «Waiting for Fahd» del «Center for constitutional rights» su youtube annovera oltre 20mila persone e presentazione a New York, Washington e Chicago durante le dimostrazioni per la «chiusura di Guantanamo» indette dalle organizzazioni in difesa dei diritti civili «The world can’t wait», Amnesty International, “Center for Constitutional rights”. Nel giro di vite della lotta al terrorismo a livello mondiale che si preannuncia dopo l’attacco a Parigi, che richiama l’attacco dell’11 settembre negli Usa, parliamo della speranza di chiudere la prigione di tortura di Guantanamo con il legale Omar Farah del «Center for constitutional Rights», che assiste il detenuto Fahd Ghazi e molti altri dei 137 condannati a «detenzione perpetua», anche se prosciolti da ogni impunità e in attesa dal 2006 di essere liberati appena rientrati da Guantanamo. Quali cambiamenti nel regime di Guantanamo ha potuto accertare, malgrado il trasferimento recente di alcuni detenuti in Uruguay, Slovakia, Kazakhstan e Usbekistan? Molti dei miei clienti detenuti continuano a subire la violenza delle celle di isolamento totale, la imposizione della nutrizione forzata già denunciata dal Comitato speciale contro la tortura delle Nazioni unite, la tortura psicologica della disperazione di non sapere se e quando tutto questo avrà un fine se non uscire in una bara da Guantanamo. Quanti detenuti continuano lo sciopero della fame, dopo la partecipazione collettiva della quasi totalità, spezzata con la punizione di trasferimento a celle di isolamento totale? Dal dicembre del 2013, il governo Americano, ha imposto il blackout a noi legali sul numero di detenuti che continuano a rifiutare il cibo e su quanti ancora subiscono la nutrizione forzata. Ritengo siano piu o meno 24 coloro che resistono, malgrado il sistema vendicativo del regime. Durante le visite ai suoi assistiti a Guantanamo esistono controlli sulle note di scambio fra lei e quanto rivelato dai suoi clienti? Posso liberamente parlare con loro, ma quanto mi vien detto viene considerato materiale «classified», cioè segreto. Per conseguenza tutto deve passare attraverso il controllo di revisione del governo statunitense. E questo come avviene? Quando esco dal colloquio con il detenuto tutto quello che ho annotato viene consegnato e poi vidimato da un gruppo militare speciale, quindi viene inviato a Washington per controllo, revisione e censura da apporre su quanto detto dal detenuto. Le vostre note legali vengono inviate alla Cia? A un dipartimento speciale per la sicurezza nazionale nelle vicinanze di Washington. Quanto tempo, dopo il colloquio deve attendere? Dipende. Generalmente, un corriere da Guantanamo, due volte a settimana, viene inviato a Washington. Se sono fortunato ricevo le annotazioni dopo due settimane. Il suo cliente assistito Fahd e altri detenuti già prosciolti da ogni accusa sono in attesa di essere liberati o trasferiti. Recentemente alcuni detenuti sono stati trasferiti in paesi che li hanno accolti, ma perché Obama non esercita il diritto di «executive order» per la chiusura di Guantanamo, promessa dal 2009 e sua prerogativa, approvata nel dicembre 2013 dal Defence security act, senza attendere l’approvazione del Congresso Americano? Senza alcun dubbio, Obama potrebbe esercitare la prerogativa dell’«executive order» e chiudere Guantanamo. Non è così complesso come si vuol far credere. Allora qual è la vera motivazione di Obama per non chiudere il regime di Guantanamo, come promesso dal 2009? Da tempo Obama ondeggia nella valutazione da fare per questa decisione, non trovando il 19 coraggio politico di chiudere Guantanamo. Così il contesto politico odierno indica «Guantanamo forever» Del 21/01/2015, pag. 5 Destra e sinistra contro Syriza Grecia. Clima di polarizzazione a quattro giorni dal voto decisivo, per il debito greco e per la Ue. Samaras minaccia, la destra evoca la guerra civile del 1944. E il Kke non collabora Pavlos Nerantzis, SALONICCO Quanto piú Syriza consolida il suo vantaggio elettorale in base a tutti i sondaggi, tanto piú aumentano le pressioni e le intimidazioni nei suoi confronti. Le dichiarazioni di lunedi da parte di Jean-Claude Junker, presidente della ommissione europea e di Christine Lagarde, a capo del Fondo monetario internazionale, che dichiarano che se Syriza va al governe deve comunque mantenere i patti, ovvero l’austerity, sembrano ingerenze soft di fronte agli attacchi e alle polemiche sollevate contro la sinistra radicale guidata da Tsipras dai suoi avversari greci, naturalmente la destra ma, purtroppo, anche i comunisti del Kke. «Tsipras vuole fare cose che nemmeno i leader nei paesi comunisti avevano mai fatto. Il Paese non sará trasformato in soviet, nemmeno accetterá un regime comunista… il voto non riguarda Nea Dimokratia e Syriza, ma in quale mondo vogliamo che i nostri figli vivano» ha detto ieri sera durante un comizio ad Atene il premier uscente Antonis Samaras. Makis Voridis, ministro della sanitá, giá capogruppo parlamentare di Nea Dimokratia, durante un suo discorso ad Aspropyrgos, vicino alla capitale, ha detto che «la nostra generazione non consegnerá il Paese alla sinistra. Non lo consentiremo, non importa cosa dovremo fare. Ciò che i nostri nonni difesero coraggiosamente con i fucili, noi lo difenderemo con il voto domenica. Così che si sappia di che cosa stiamo parlando… La sinistra non vincerà domenica» ha affermato minaccioso l’ esponente della Nea Dimokratia, che nel passato é stato leader della gioventú di Epen, partito di estrema destra durante la giunta dei colonnelli. Samaras e Voridis non sono gli unici a evocare frasi del passato. Anzi non sono pochi da ambedue le parti, destra e sinistra, che in questi giorni nei loro discorsi, in privato tra amici nelle caffetterie, raccontano come nel dicembre del 1944, poco dopo che l’Elas, l’ Esercito di Liberazione nazionale greco, guidato da membri del Kke, aveva liberato il paese dall’ occupazione nazista, le truppe brittaniche complottarono con l’ aiuto di greci, simpatizzanti dei nazisti, per aprire il fuoco contro una folla pacifista che manifestava ad Atene per contestare la decisione del governo di disarmare i partigiani. La Grecia, secondo i britannici della Guerra fredda, non poteva essere consegnata nelle mani dei comunisti e allinearsi con l’Unione sovietica. Perció chiesero al governo provvisorio di Yorgos Papandreou, padre di Andreas, fondatore del Pasok e nonno dell’ ex premier Yorgos Papandreou, di disarmare ad ogni costo i greci. Due anni dopo cominció una lunga guerra civile. Settanta anni dopo molte cose sono cambiate, ma dietro le quinte sembra quasi che le ferite di quella guerra civile restino ancora sulla pelle della societá greca. E l’incubo di uno scontro violento tra destra e sinistra in certi casi viene espresso pubblicamente. Preoccupazione per quello che Syriza ha intenzione di fare esprimono anche rappresentanti diplomatici ad Atene, che si chiedono fino che punto Alexis Tsipras é disposto a scontrarsi con i partner europei. Riconoscono che lo stesso leader si presenta piú moderato rispetto al passato, ma sempre secondo loro «bisogna capire 20 cosa ne pensano le varie correnti all’ interno del partito» e come il leader della sinistra radicale greca «si comporterá nei confronti di argomenti che riguardano gli equilibri geopolitici, la lotta al terrorismo, ecc». In questo ambito va letto anche un servizio pubblicato dal quotidiano Ta Nea su tentativi di intercettazioni telefoniche di cellulari in prossimitá di sedi dei maggiori partiti politici. Dai 193 tentativi di intercettazione, otto sarebbero stati segnalati a pochi metri dalla sede centrale di Nea Dimokratia, cinque in prossimitá del quartier generale di Syriza e altrettanti vicino agli uffici del Pasok. La massima registrazione comunque si é «registrata» al quartiere dove ha sede l’ambasciata statunitense. La procura di Atene sta indagando per violazione della privacy e danneggiamento a terzi. Dura per Syriza, da un diverso punto di vista, é la critica del Partito comunista di Grecia, Kke. Tradizionalmente euroscettico perché «l’Ue esprime i monopoli e il grande capitale», il Kke fin dal primo momento ha rifiutato ogni collaborazione. «Si autodefinisce di sinistra, ma non lo é affatto. Syriza é a favore del memorandum, collabora con gli industriali, viene sostenuto dalle grandi imprese e al suo interno ci sono dei corrotti», sottolinea durante i comizi Dimitris Koutsoubas, segretario generale del Kke. Per i comunisti una loro partecipazione o anche un voto di tolleranza ad un governo del Syriza sarebbe «un grosso sbaglio che danneggerebbe i lavoratori e il popolo» greco. Con l’ uso di un linguaggio che ricorda i tempi e i discorsi della leadership sovietica, il Kke si schiera a favore della cancellazione unilaterale del debito pubblico, del disimpegno dall’Ue e dalla Nato, notando che «i popoli non dovrebbero intrappolarsi e soffermarsi sulla concorrenza attorno alla moneta e alla gestione della crisi» del capitalismo. Di fatto l’ auto-isolamento dei comunisti e dell’Antarsya, un’ organizzazione della sinistra extraparlamentare, mette in difficoltá Syriza, perché erano le uniche forze politiche alle quali si era rivolto Alexis Tsipras per chiedere una collaborazione post-elettorale. «Non abbiamo paura di niente. Semplicemente tutti coloro che fanno delle polemiche semplicemente cercano di intimidirci», ha sottolineato ieri da Salonicco il leader della sinistra radicale greca. del 21/01/15, pag. 21 “Non è stato un suicidio” l’Argentina sotto shock in piazza per il procuratore che accusò la Kirchner ALESSANDRO OPPES MADRID . Un giallo sempre più intricato, com’è ormai nella tradizione — lunga e inquietante — degli intrecci politico-criminali irrisolti della trentennale storia democratica argentina. Sulle mani del procuratore Alberto Nisman, trovato morto lunedì nel bagno del suo lussuoso appartamento di Buenos Aires, non sono state trovate tracce di polvere da sparo. È il responso della perizia tecnica annunciato dal magistrato che indaga sulla vicenda, Viviana Fein. La quale, però, si è affrettata a precisare che questo risultato negativo potrebbe essere dovuto a un «problema tecnico», considerato il piccolo calibro della pistola ritrovata accanto al cadavere, «che non permette una completa rilevazione della polvere: molte volte lo scanning elettronico non dà risultato positivo». Insomma, per il magistrato, l’ipotesi del suicidio, seppure non ancora compiutamente provata, resta in piedi. Una tesi accolta con enorme scetticismo da un Paese in stato di shock, che già lunedì sera, tra marce e 21 “cacerolazos”, si è riversato nelle strade per chiedere giustizia. Da Buenos Aires (sull’emblematica Plaza de Mayo e davanti alla Quinta de Olivos, residenza del capo dello Stato) a Mendoza, da Córdoba a Santa Fe, a decine di migliaia hanno sfilato innalzando cartelli con la scritta «Yo soy Nisman» o anche, in versione francese, «Je suis Nisman», richiamando lo slogan che ha percorso il mondo dopo il massacro parigino nella redazione del Charlie Hebdo. Tra i tanti, c’è un nuovo elemento che si aggiunge alle perplessità di chi non crede che il procuratore si sia tolto la vita: secondo quanto ha rivelato uno dei dirigenti della comunità ebraica argentina, Jorge Kirszenbaum, nell’appartamento è stata trovata una nota con cui Nisman dava indicazioni alla domestica per la spesa che avrebbe dovuto fare nella giornata di lunedì. Nulla, anche a sentire i giornalisti e i colleghi che sono stati in contatto con lui nelle ultime ore prima della morte, fa pensare che il magistrato fosse depresso. È vero però che Nisman aveva compiuto una scelta estremamente rischiosa ed era cosciente delle conseguenze che avrebbe potuto comportare, anche per lo sviluppo della propria carriera: la decisione di sfidare in modo frontale la presidente Cristina Fernández de Kirchner, accusata di favoreggiamento nei confronti del regime iraniano (in cambio di petrolio) sospettato di essere il responsabile diretto della strage del 1994 nella sede dell’associazione ebraica Amia, in cui morirono 85 persone, aveva cominciato a provocargli problemi anche all’interno della magistratura. Nisman — professore universitario di diritto penale e processuale, specializzato in narcotraffico, terrorismo internazionale, riciclaggio, frode e traffico d’armi — era arrivato alla fama, può sembrare curioso, proprio per una decisione del marito di Cristina, Néstor Kirchner, che nel 2004, duranto il suo mandato presidenziale, lo incaricò del gravoso compito di resuscitare l’indagine sul più grave attentato terroristico della storia argentina, impantanato da un decennio. L’attuale “presidenta” all’epoca era la “primera dama”, ma anche una politica attiva che, come lei stessa ha ricordato ieri in un lungo articolo su questa vicenda, aveva fatto parte della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Amia. Ora Cristina, in un evidente sforzo di autodifesa, denuncia oscuri tentativi di «deviare, mentire, occultare, confondere». Non si riferisce in modo diretto al procuratore scomparso, ma lascia in qualche modo intendere che potrebbe essere stato vittima di una operazione di depistaggio. E del resto è lo stesso svolgersi tortuoso dell’inchiesta su quel massacro di vent’anni fa a suscitare enormi perplessità. Perché l’inchiesta di Nisman, mai arrivata a conclusioni definitive, si è mossa tra due filoni contrapposti. Prima che prendesse corpo la pista iraniana, per la quale il procuratore chiese nel 2006 l’incriminazione di diversi alti dirigenti del regime degli ayatollah, compreso l’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, si era affacciata anche una dubbia “pista siriana”. Che alla fine è stata scartata, però non senza strascichi: per un tentativo di insabbiamento delle indagini, lo stesso Nisman ha infatti chiesto il rinvio a giudizio dell’ex presidente Carlos Menem e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori. 22 INTERNI del 21/01/15, pag. 17 Misure antiterrorismo, scelta la strada del decreto Giovedì l’approvazione. Nuove sanzioni per chi si «autoaddestra» con armi o esplosivi ROMA Il governo cambia linea e decide di varare le misure antiterrorismo per decreto legge. Vuol dire che entrerà subito in vigore la norma per punire con la reclusione da tre a sei anni «l’organizzazione, il finanziamento e la propaganda di viaggi finalizzati al compimento di condotte con finalità terroristiche». E per «rendere punibile anche il soggetto che viene arruolato per le predette finalità». Il testo portato ieri in Consiglio dei ministri dal titolare dell’Interno Angelino Alfano slitta a domani e sarà integrato con il provvedimento per il finanziamento delle missioni all’estero. Lo conferma lo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi al termine della riunione. Tra i motivi del rinvio c’è anche la necessità di accorpare le misure urgenti in assenza del capo dello Stato, dovendo sottoporre i decreti alla firma del supplente Piero Grasso. L’articolato è composto da cinque articoli che hanno come obiettivo quello di integrare alcune norme già in vigore e snellire le procedure per le espulsioni dei «sospetti» nei confronti dei quali non ci siano i presupposti per intervenire giudiziariamente. Proprio come accaduto negli ultimi giorni con la decisione di mandare via dall’Italia nove stranieri ritenuti «pericolosi per la sicurezza» per i loro proclami in favore dei jihadisti oppure perché avevano deciso di partire per la Siria, oppure di mandare a combattere familiari e amici. Nel decreto ci sarà anche una nuova sanzione penale contro «il soggetto che si “autoaddestra” all’utilizzo di armi, esplosivi, sostanze chimiche o nocive ovvero alle tecniche e ai metodi per commettere atti di violenza o sabotaggio con finalità di terrorismo». Quello sugli esplosivi è un aspetto che si è deciso di perseguire in maniera più efficace prevedendo l’arresto fino a 18 mesi per «chiunque, senza averne titolo, introduce nel territorio dello Stato, detiene, usa o mette a disposizione di privati le sostanze o le miscele che le contengono indicate come precursori di esplosivi» e fino a 12 mesi per «chiunque omette di denunciare il furto o la sparizione delle materie indicate come precursori di esplosivi». Interventi più severi anche per la propaganda sulla Rete con la possibilità di intervenire sui siti internet e chiuderli in 48 ore quando non rimuovono contenuti ritenuti a rischio come video e testi che inneggiano al fondamentalismo. F. Sar. del 21/01/15, pag. 17 Minacce via mail alle ambasciate Espulso dottorando della Normale È un fisico turco 25enne. «Volevo solo studiare ma mi trattano da nemico» 23 «Voglio difendermi? Sono tornato alla ricerca scientifica, non ho tempo per queste cose». Furkan Semih Dündar, 25 anni, originario di Bursa, in Turchia, risponde così in una mail al Corriere alle accuse che hanno portato alla sua espulsione. È il dottorando in Fisica della Scuola Normale di Pisa accusato di offrirsi sui siti islamisti come kamikaze per attentati alle ambasciate a Roma di Israele, degli Stati Uniti e del Regno Unito e agli «odiati consolati dell’occidente» in Toscana e altre regioni. A novembre ha iniziato il perfezionamento nella migliore università italiana, il 24 dicembre è stato espulso dopo le indagini della questura e della procura pisane. Secondo la Digos, Dündar, una laurea in Fisica gravitazionale ad Ankara, la mattina studiava la teoria quantistica alla Normale, la sera, nel suo piccolo appartamento condiviso con altri due studenti in via Volturno, nei pressi del centro storico di Pisa, inviava messaggi minacciosi ai siti istituzionali e sui blog islamisti. La versione di Dündar è diversa e sembra quella di una persona convinta di essere perseguitata: «Visto che mi seguivano per strada e dappertutto (me ne sono accorto fin dal primo giorno del mio arrivo) — sostiene —, ho scritto alla Cia un messaggio del tipo: “Forse avete pensato che mi voglia far esplodere di fronte alla vostra ambasciata? Credete che non abbia niente di meglio da fare al mondo che pensare a voi giorno e notte?”. L’unica cosa che volevo è avere la tranquillità di studiare senza essere trattato come un nemico senza motivo», si giustifica. Poi ammette in parte le minacce: «All’inizio volevo aiutare la Cia, perché pensavo che volessero risolvere il problema. È stato dopo — spiega — che ho iniziato a scrivere messaggi provocatori in vari posti, in modo da essere arrestato e quindi mettere fine a questa situazione. Sono contento che adesso sia finita». Una spiegazione farneticante. Quando parla di religione, non usa i toni dei fondamentalisti: «Le tre religioni monoteiste sono religioni d’amore — scrive Dündar —. Nel 21esimo secolo il concetto d’amore è collassato, sostituito da quello di lussuria: è il motivo per cui sia il sistema dell’Occidente che quello dell’Oriente sono corrotti. La soluzione in cui entrambi troveranno la pace, nella mia umile opinione, è il paganesimo». Infine si dice «deluso dagli italiani (ma non pensate che lo sia altrettanto dei Turchi) per l’espulsione, ma grato per i buoni vini, il liquore ai mirtilli e il limoncello». Non certo predilezioni da musulmano osservante. Le minacce però restano. Gli inquirenti hanno sequestrato lo smartphone e un tablet con cui le avrebbe scritte, e Dündar non potrà tornare in Italia per cinque anni, che potrebbero diventare dieci se fosse riconosciuta l’aggravante terroristica. L’accusa formalizzata al momento è di procurato allarme. Alla Scuola Normale era arrivato agli inizi di novembre dopo essersi classificato al terzo posto (con 82, lo stesso punteggio del secondo classificato) alla sessione di luglio del concorso per sette posti al corso di perfezionamento in «Fisica». «Lo conoscevamo pochissimo — racconta il direttore della Normale, Fabio Beltram — perché ha frequentato i nostri corsi meno di un mese. Il suo curriculum e i colloqui erano ineccepibili. La Scuola non controlla i siti Internet degli studenti». I compagni di corso lo descrivono come un ragazzo introverso e tranquillo e qualcuno esprime perplessità per «quell’espulsione troppo affrettata». Sembra che il ragazzo soffrisse di depressione e avesse qualche fobia. Anche secondo uno dei coinquilini «non sembrava certo un jihadista». I poliziotti che il 24 dicembre lo hanno accompagnato a prendere degli effetti personali «si sono limitati a dire che era una “burlonata” — racconta il ragazzo — e anche Furkan, in inglese, mi ha detto di non preoccuparmi. Con me non ha mai parlato di politica o religione». Sul profilo di Dündar su Google+ rimane profetico un post del 20 novembre scorso: «Non posso godere della bellezza dell’Europa perché è una donna sposata di cui non ci si può innamorare. Per questo è meglio lasciarla». 24 Marco Gasperetti Elena Tebano del 21/01/15, pag. 2 Renzi blinda l’Italicum e il patto con Berlusconi “I frenatori si rassegnino” È rivolta dentro Pd e Fi Ma la fronda dem scende a 26. Romani: noi decisivi Slitta l’ok. L’ex premier: elezione diretta per il Colle SILVIO BUZZANCA ROMA . - Niente di fatto ieri al Senato sulla legge elettorale. I senatori, infatti, non hanno cominciato a votare gli emendamenti. E dunque niente resa dei conti nel Pd sulle proposte della minoranza contro i capilista bloccati. Scontro rinviato anche sul testo del democratico Stefano Esposito che “spianerebbe” la strada all’Italicum, spazzando via in un colpo solo migliaia di emendamenti. Questa proposta potrebbe essere votata oggi, ma è probabile che il suo esame slitti a domani. Con un calendario dei lavori, varato da una conferenza dei capigruppo riunita ieri sera, che ha spostato il sì definitivo all’Italicum alla settimana prossima. Senza specificare però il giorno. Dunque la giornata di Palazzo Madama si è conclusa con un “rivediamoci domani”. Ma era iniziata in pompa magna con l’incontro fra Renzi e Berlusconi. Subito dopo, il premier aveva riunito i senatori del Pd: «Dobbiamo fare la legge elettorale con Grillo e Berlusconi per non governare più con Berlusconi. Con buona pace dei frenatori noi andiamo avanti». Ma la minoranza non si è piegata. Miguel Gotor ha parlato di 29 senatori dem pronti a votare no. In realtà poi si sono ridotti a 26, perché 3 senatrici alla fine voteranno l’Italicum. In serata, a Davos, la replica di Renzi: «Bisogna avere il coraggio di togliere un po’ di polvere dal nostro paese e di superare qualche potere di veto». L’ex Cavaliere invece fa sapere che la legge è blindata e deve essere approvata a tutti i costi, votando a favore del testo Esposito. Facendo anche marcia indietro sul premio alla lista: l’ex Cavaliere adesso lo ritiene un incentivo verso il bipartitismo e la riunificazione del centrodestra. Passo che, dice Berlusconi, potrebbe servire «per introdurre l’elezione diretta del presidente della Repubblica». La decisione del leader viene spiegata in aula dal capogruppo Paolo Romani: «Renzi non ha più la maggioranza al Senato e noi riteniamo di sostituire i senatori che non concorrono all'approvazione della legge con i nostri». Posizione che Renato Brunetta traduce come la richiesta di una crisi e la nascita di un Renzi bis con dentro Forza Italia. Ma le scelte di Berlusconi spaccano Fi. Raffaele Fitto parla di «suicidio politico» di Forza Italia e venti senatori, 13 forzisti, più 7 di Gal, la pensano come lui. Stanno con il leader, invece, in 40. Renzi e Berlusconi devono fare i conti anche con il no di Lega e Fratelli d’Italia. E con quello dei grillini. Nel frattempo 12 dei fuoriusciti dal Movimento hanno creato un coordinamento: primo passo verso un nuovo gruppo. 25 Del 21/01/2015, pag. 2 I forzati dell’Italicum Senato. Il premier impone all’aula i tempi del voto con un trucco che strappa regolamenti e prassi: l’emendamento Esposito che annulla tutti gli altri Andrea Fabozzi Italicum o morte, al costo di votarlo un giorno prima dell’elezione del presidente della Repubblica. Berlusconi accetta tutto, anche il premio di maggioranza alla lista che secondo un pezzo del suo partito è, evidentemente, un suicidio. Renzi impone i tempi. Il parlamento si adegua. Dittatura, Aventino, colonnello Tejero… Si incattivisce la retorica d’aula quando alle otto di sera la maggioranza reale, rinverdita al mattino da un’ora di colloquio tra il premier e l’ex cavaliere, entrambi extra parlamentari, comincia a piegare la resistenza del senato. Impallidiscono i precedenti e la legge elettorale, figlia primogenita del patto del Nazareno, viene spinta avanti strappando regolamenti e prassi un pezzo dietro l’altro. Come fosse l’ultima delle leggine: «Colleghi, c’è il precedente della legge sui campi elettromagnetici», comunica algida la presidente vicaria Valeria Fedeli, salda nel posto di Pietro Grasso. Ma qui si parla della legge elettorale attesa dieci anni per sostituire l’incostituzionale Porcellum. Per farla passare entro la settimana il presidente del Consiglio che l’ha battezzata Italicum la affida a un trucco. Un emendamento «preliminare» che riassume il contenuto di tutta la legge e che dunque, una volta approvato, fa cadere in un colpo solo tutti gli emendamenti contrari (40mila). Anche quelli presentati dalla minoranza del Pd, anche quelli che la fronda di Forza Italia era pronta a sostenere. Si voterà oggi. In aula le opposizioni si organizzano, Lega, 5 stelle, forzisti tendenza Fitto, democratici tendenza Bersani e Sel sollevano obiezioni a raffica. Fedeli ignora tutto, toglie la parola, non si cura della gazzarra e non fa una piega quando una penna lanciata dal leghista Candiani la centra in petto. Il senatore che ha firmato il trucco resiste in silenzio a due ore di accuse, chino nel suo banco. Poi sbotta. E’ il senatore Esposito, ultras renziano noto per le campagne pro Tav, due fedi che hanno vacillato ma ora risplendono. «Questa volta ti ho battuto sulla tecnica parlamentare», rivendica in faccia all’esperto Calderoli. Ma ha un vantaggio: la maggioranza è con lui e la conduzione d’aula si adegua. Il suo non è un emendamento corretto nella forma, perché non ha quel contenuto «innovativo e precettivo» prescritto dal regolamento. E’ solo un riassuntone in nove punti dell’accordo del Nazareno. E’ però fondamentale, soprattutto perché le opposizioni per sette giorni sono corse dietro ai quattro emendamenti di maggioranza senza accorgersi del contropiede di Esposito. Secondo i leghisti, che sostengono di avere un video, il senatore è arrivato tardi, depositando il suo testo oltre il termine per gli emendamenti. Ma quel termine era stato riaperto da Grasso proprio su richiesta delle opposizioni. Calderoli le tenta tutte, conferma e ritira emendamenti a pacchi. La capogruppo di Sel De Petris, estenuata, sfida l’impassibile ministra Boschi a porre la questione di fiducia sulla legge elettorale. Sarebbe un’enormità, di fatto è già così. I forzisti richiamati all’ordine da Berlusconi siedono a testa bassa. Ogni tanto, bersagliati dagli insulti anche da destra, Verdini, Ghedini e Romani improvvisano un vertice tra i banchi, la senatrice Rossi telefona a raffica presumibilmente a Berlusconi. Cambia poco. Il Nazareno va ingoiato per intero. L’unica soddisfazione per i berlusconiani è poter dire che la maggioranza è platealmente cambiata. Ai dissidenti del Pd si sostituiscono gli obbedienti di Forza Italia. Eccezionalmente interviene anche Tremonti: «Dal momento che la legge elettorale era nel programma del governo, se cambia la maggio26 ranza che l’approva dovrebbe cambiare anche il governo». Non fa una piega, ma il patto del Nazareno procede un passo per volta. Intanto c’è l’elezione del presidente della Repubblica che da ieri è ufficialmente un affare a due. I nomi in voga sono ancora quelli di Mattarella e Amato. Ma c’è chi ha notato come nella gazzarra dell’aula sia rimasta impassibile la senatrice Anna Finocchiaro: mai una volta ha replicato agli attacchi del leghista Calderoli, ha tenuto a freno la sua abilità tecnica proprio all’apice della battaglia. Adesso in prima linea c’è Esposito, l’arma segreta contro i trenta — diventati nel frattempo ventisei — senatori della minoranza Pd. Eppure, malgrado l’incrocio con la fronda forzista, il potenziale offensivo dei bersaniani sull’Italicum è limitato. Non hanno i numeri per bloccarlo né per modificarlo. Testimoniano, però, nella maniera più evidente da un anno a questa parte, un dissenso forte. Per questo Renzi si è dato da fare con dedizione per sconfiggerli, con in testa evidentemente la partita successiva. Mettere ai margini chi non si allinea tra i suoi, tenere vivo e in sella Silvio Berlusconi: per il Quirinale la strategia è ancora quella. Al costo di trasformare l’aula del senato in un rodeo oggi, domani e per tutto il tempo necessario all’Italicum fino alla prossima settimana. Pagherà? Del 21/01/2015, pag. 3 “Il Nazareno vuole mettere a tacere la voce dei cittadini” Silvia Truzzi Distorce il voto” avevano scritto del Porcellum i giudici costituzionali, esattamente un anno fa. Dodici mesi dopo la proposta di modifica della legge elettorale non convince molti costituzionalisti. Tra loro c’è Lorenza Carlassare, professore emerito a Padova. Professoressa, Renzi dice: la questione dei capilista non è decisiva. Invece è assolutamente decisiva! A parte il partito che prende il premio di maggioranza, praticamente gli eletti degli altri partiti sarebbero tutti nominati. Soprattutto questo sistema va contro la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum. I giudici hanno insistito moltissimo sul tema della rappresentanza, del collegamento con gli elettori. E certo questo sistema dei “capilista bloccati” non corrisponde alle indicazioni della Consulta. Che pensa delle candidature plurime? Non c’è nessuna possibilità che il cittadino sappia chi verrà eletto. Se un candidato può presentarsi in otto collegi e, mettiamo, vince a Padova e opta per Milano, allora a Padova andrà un candidato che non è stato votato. Non è vero che con le liste corte il cittadino sa sempre chi vota, perché con le candidature plurime il risultato finale può essere diverso. Io voto lei, ma lei sceglie un altro collegio. Al suo posto verrà qualcun altro che io non ho scelto: il partito può avere un ruolo fondamentale in questo meccanismo. Si ripropongono i dubbi di costituzionalità del Porcellum? Molti, tutti incentrati sulla perdita di centralità del principio di rappresentanza. E non dimentichiamo la riforma del Senato… … ecco: l’esecutivo vuol proseguire speditamente anche sulla riforma costituzionale. Il che porterebbe da un lato una Camera eletta con questo sistema, dall’altra un Senato di nominati. È molto importante capire che non si può ragionare separatamente: la legge elettorale deve essere analizzata insieme alla riforma del Senato. La visione deve essere 27 complessiva, perché è dall’orizzonte unitario che si capisce dove il patto del Nazareno vuole arrivare. Non si tratta nemmeno di un’elezione di secondo grado, ma di una cooptazione: i grandi elettori sono di fatto molto pochi. È un partita che si gioca all’interno delle segreterie. L’obiettivo finale è tacitare completamente i cittadini, che nell’elezione del Senato non hanno voce. Nella formazione della Camera si trovano di fronte a un meccanismo elettorale che tende ad alterare il risultato del voto popolare. Non dimentichiamo quanto il premio di maggioranza modifichi il risultato. Il messaggio sembra essere: il prezzo della governabilità è un restringimento degli spazi di democrazia. Bisogna tener conto di entrambe le esigenze, ma non si può fare a scapito degli equilibri democratici. Mussolini, nel 1923, chiarì a cosa serviva il premio di maggioranza: che “l’Assemblea eletta sia la più capace a costituire un governo… atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le questioni… non impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di tendenze e di indirizzi”. Nessuno spazio per le opinioni diverse: l’elezione è intesa “più come atto di selezione del Ministero che come definizione della rappresentanza il cui ruolo è destinato a diventare del tutto secondario”. È una riforma che ha l’unico scopo di decidere velocemente: un argomento che dal 1923 si ripropone ancora oggi. Bisognerebbe ricordare anche che il Parlamento che procede alla riforma costituzionale è un parlamento fortemente delegittimato dalla sentenza del gennaio 2014. Non è un dettaglio. Questo Parlamento non dovrebbe fare nessuna riforma costituzionale, nessuna! La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la legge con cui è stato eletto, pur ammettendo che il Parlamento possa restare in carica fino alle nuove elezioni, in modo da non bloccare la vita dello Stato. Ma non si può andare avanti all’infinito, per di più facendo riforme costituzionali: le Camere hanno una legittimazione molto scarsa. In più la situazione politica è opaca: di questi accordi del Nazareno non si quasi nulla. Il nostro presidente del Consiglio si accorda, prima che con i suoi, sempre con Berlusconi. E lo fa segretamente: la democrazia è fatta di dibattiti, di discussioni, di pubblicità, di dibattiti in Parlamento. Non di accordi segreti, cui non assiste nessuno al di fuori di Verdini, che tra l’altro ha diversi problemi penali. Lei quale soluzione vedrebbe? Una legge elettorale il più possibile orientata al sistema proporzionale, che sarebbe in grado di ricomporre tutte le fratture che ci sono nel Paese. Un Parlamento così eletto rappresenterebbe davvero i cittadini: sarebbe legittimato a fare le riforme costituzionali. Del 21/01/2015, pag. 4 Renzi e l’Italicum 2.0 frantumano il Pd IN 29 FIRMANO UN DOCUMENTO CONTRO I CAPILISTA BLOCCATI, IL PREMIER NON FA PASSI INDIETRO. BERSANI OGGI RIUNISCE I SUOI Alla fine sul mio emendamento ci saranno 150 voti. E molti senatori staranno fuori. L ’ Italicum passerà”. A sera Stefano Esposito, l’autore del cosiddetto maxi canguro che farà decadere quasi tutte le altre modifiche alla legge elettorale azzarda il pronostico. LA GIORNATA è stata lunga e concitata, quella di oggi, con i voti dell’Aula di Palazzo 28 Madama sull’Italicum, si preannuncia altrettanto congestionata. Ma per come è andata, sul piatto, evidente, c’è soprattutto la polverizzazione del Pd. Spaccato al suo interno e marginalizzato dalla coppia Matteo-Silvio. Oggi infatti Pier Luigi Bersani riunisce le minoranze, nella sala Berlinguer di Montecitorio. Previste 150 persone: l’incontro tra lui e il premier per parlare del prossimo presidente della Repubblica non c’è ancora stato (e non è ancora neanche stata fissata una data sull’agenda). Al momento non c’è traccia di quella condivisione del percorso, promessa dal segretario, fatta eccezione per i colloqui di Lotti & co con i parlamentari per sondare l’aria. C’è sicuramente una minaccia sempre più pressante di caos e di battaglia sul voto per il Colle. I fatti. Matteo Renzi arriva in Senato in mattinata solo dopo l ’ incontro con Silvio Berlusconi, quello in cui gli ha chiesto i voti sulla riforma elettorale e ha fissato un altro faccia a faccia per parlare del Quirinale. “Ormai la trattativa è solo con lui”, commenta Miguel Gotor. Ecco, allora, il documento, con 29 firme in calce (da Chiti a Mineo, da Mucchetti a Tocci, alla Puppato), per dire no ai capolista bloccati. Il premier è preso di sorpresa. Non se l’aspettava. Tra i renziani si registrano momenti di nervosismo: “Se salta l’Italicum si va al voto.” E ancora: “Se il Pd fa così, la prossima volta vince ancora Berlusconi.” Ma i toni dell’assemblea sono tutto sommato pacati. Anche se non mancano le prese di posizione. Doris Lo Moro, dopo aver firmato l’emendamento di Gotor si dice pronta a lasciare il suo incarico di capogruppo in commissione. Renzi ascolta, poi trae le conclusioni, senza cambiare idea: i 100 capilista bloccati non equivalgono alle attuali liste bloccate, sostiene. “E se ci fosse stata questa legge elettorale Bersani sarebbe andato al ballottaggio e sarebbe diventato premier”. Il suo Pd, sottolinea il premier, “non caccia la minoranza” ma dopo il confronto “decide”. Dunque, niente libertà di coscienza per i senatori dem: Renzi mette ai voti la sua linea e con lui si schierano 71 su 102, uno si astiene e gli stessi 29 non partecipano al voto. “Spero che la minoranza si adegui”, commenta Maria Elena Boschi. Ma comunque “i numeri ci sono.” Come dire: in fondo sono ininfluenti, si farà senza di loro. In corso di giornata i 29 scendono. Tre senatrici (Donatella Albano, Josefa Idem e Laura Puppato) fanno sapere di essere pronte a schierarsi con la maggioranza alla prova del nove del voto in Aula. I renziani che tengono il pallottoliere a Palazzo Madama assicurano che i ribelli al dunque non saranno più di 20. Dalla maggioranza cominciano a schernirli: “Basta vedere com’è andata nel gruppo, per capire come andrà a finire”. “Non ci faremo fermare dai frenatori”, commenta Renzi nel suo perfetto stile. La vera strategia è sempre nei dettagli. Twitta la deputata di Forza Italia, Gabriella Giammanco: “No a decreto legge contro banche credito cooperativo. Renzi non distrugga sistema che ha salvaguardato famiglie / imprese da crisi”. Renzi risponde: Nessuno tocca le Bcc, Gabriella”. Eccolo qui, che comincia a rinsaldare rapporti con parlamentari e elettori del partito teoricamente avverso. IL SUO, di partito, va per conto suo. La minoranza si conterà in Senato sul voto all’Italicum. “Io dico no, anche se mi tagliano le mani”, commenta Mucchetti. Che poi chiarisce: “La minaccia di voto anticipato non ha senso. Non è certo per il bene del Paese.” E il Colle? “Con noi renzi non parla.” Spiega Civati: “Certo l’Italicum dovrà passare alla Camera. E con il voto segreto…..” Ma tutto succederà dopo la partita del Quirinale. E allora? Nella minoranza sostengono che i candidati che potrebbero andar bene sono molti di quelli teoricamente in campo, da Sergio Mattarella a Giuliano Amato. I renziani confidano che se Matteo potesse scegliere vorrebbe una figura non ingombrante: Graziano Delrio, Paolo Gentiloni, Pierluigi Castagnetti. Ma poi, il Pd, sarebbe disposto a mettersi d’accordo su un candidato apparentemente “suo”, Walter Veltroni, tanto per fare un nome? L’impressione è che ci sia una guerra di bande, che la tentazione più forte sia quella di mettere in difficoltà il leader, piuttosto che pesare davvero nella scelta del futuro presidente. Ancora un renziano: “Se si proponesse Bersani, magari si calmerebbero”. Riflette ancora Stefano Esposito: “La golden share ce l’ha ancora il Pd. Basta che Bersani 29 non avalli battaglie come quella di Gotor in Senato.” Insomma, consiglia, ci vorrebbe una strategia. del 21/01/15, pag. 9 “Tu ci porti al suicidio” Fitto attacca Berlusconi per il sì al premio di lista Il leader resiste: ora contiamo davvero e la partita non è finita I 40 voti della corrente dell’ex ministro un’incognita sul Colle CARMELO LOPAPA ROMA . «Si apre un nuovo scenario. Adesso siamo determinanti, da oggi è conclamato: Renzi senza di noi non può andare avanti e sul Quirinale gli equilibri sono cambiati». Silvio Berlusconi sembra voler convincere più se stesso che i fedelissimi che lo circondano e lo ascoltano nel salotto di Palazzo Grazioli, al termine di una delle giornate più nere per Forza Italia. Gli stessi concetti che ripete a Denis Verdini e Paolo Romani, appena rientrato dall’ora e mezza di faccia a faccia con Renzi a Palazzo Chigi. Con la clamorosa retromarcia sull’Italicum e l’ok al premio di lista finora detestato, l’ex Cavaliere sa che si è perso forse per sempre una quarantina di parlamentari, quelli vicini a Fitto e comunque tutti i nemici del patto del Nazareno. E addio a quei voti anche per l’imminente pertita per il Quirinale. Raffaele Fitto si precipita nel tardo pomeriggio nella residenza e lo affronta a muso duro dopo aver saputo dell’assemblea dei senatori alla quale Berlusconi nemmeno si presenta lasciando a Verdini e Romani l’onere di spiegare. «Dunque hai deciso che Forza Italia è morta? Ci siamo consegnati mani e piedi a Renzi? Cos’è, un suicidio?» alza la voce Fitto col capo. I toni sono aspri come già altre volte. «Spero almeno tu abbia ottenuto qualcosa di importante in cambio, in ogni caso, se ti suicidi tu, non dobbiamo farlo anche noi: voteremo contro l’Italicum». Invano il leader tenta di convincerlo: «Il testo ritorna alla Camera e lì riproporremo il premio alla coalizione». Che poi è l’argomento usato da Romani con i senatori convocati nel primo pomeriggio a Grazioli, col capogruppo che ha concluso così: «Berlusconi ci chiede un atto di fedeltà». Alla fine, dieci forzisti votano contro la nuova versione dell’Italicum, 45 a favore, un astenuto, stando alle fonti ufficiali. «Ma in aula saremo almeno 18 contro», si fa forte Fitto, che poi va a Montecitorio e rilascia dichiarazioni di fuoco: «Sta andando in onda il suicidio di Fi, non si può accettare il soccorso azzurro a Renzi, Berlusconi gli sta facendo da stampella, un errore madornale, una resa, relega il partito in una posizione marginare in sostegno a un governo di sinistra». E infierisce: «È un passaggio indecoroso, dobbiamo spiegare agli elettori che non ci siamo svenduti a Renzi». E comunque lui e i suoi non lasceranno il partito, niente scissione. Si faranno sentire già nella partita sul Quirinale. «Io non voto — precisa l’ex governatore — gli altri faranno le loro valutazioni». All’appuntamento del 29 sarà un partito nel partito, come la sinistra pd, del resto. I senatori forzisti rientrano a Palazzo Madama dopo l’assemblea a casa di Berlusconi (senza Berlusconi) scuri in volto. Augusto Minzolini ancora non ci crede: «Siamo passati dal tafazzismo della sinistra al pupazzismo di Forza Italia, ormai pupi in mano a Renzi. Sembrava che il problema fosse la “ditta” e invece erano le aziende», ammicca con riferimento alla sinistra pd, da un lato, e all’impero del capo, dall’altro. In serata Berlusconi prova a mettere una toppa spiegando con una nota la 30 svolta: l’opportunità del premio alla lista «per superare la frammentazione e unificare il centrodestra». Con Renzi torneranno a vedersi martedì, a due giorni dal Colle, già oggi rivedrà al Senato Alfano, stavolta coi capigruppo, l’intesa regge e non ci sarà più bisogno dello spumante con cui l’altra sera a Milano hanno festeggiato la rimpatriata. Subito dopo Berlusconi riunirà i deputati, in un tentativo ormai vano di tenere ancora insieme tutti. del 21/01/15, pag. 7 Il sì in cambio di garanzie sul Colle I tre obiettivi a cui punta il Cavaliere L’alleanza con Alfano alle Regionali per poi giocarsi tutto al ballottaggio in caso di voto Francesco Verderami ROMA Cosa cela la clamorosa svolta del Cavaliere sulla legge elettorale: un patto inconfessabile con Renzi o un patto politico con Alfano? È una «svendita» come sostiene la minoranza forzista, o un «investimento» come spiega l’area dei fedelissimi? E il punto non è quale sia la prospettiva a breve termine di Berlusconi, se il sostegno incondizionato all’Italicum lo porterà in maggioranza, come lascia intuire Romani quando dice che «da oggi siamo determinanti», o persino «al governo dopo il Quirinale», come prevede Fitto. Sullo sfondo sembra intravvedersi un disegno a lungo termine. Accettando il premio di maggioranza alla lista, il Cavaliere di fatto dà seguito al vertice di Milano con i dirigenti di Area popolare, a cui ne seguirà un altro oggi: c’è l’idea — come lui stesso ha detto — di «mettere insieme i partiti italiani del Ppe», prefigurando la nascita di un contenitore simile all’Ump, che in Francia è la somma di varie formazioni di centrodestra. E siccome — per effetto del ballottaggio — l’Italicum ricalca il modello elettorale francese, l’obiettivo è di arrivare al ballottaggio, quando si tornerà alle urne. E di vincere al secondo turno con i voti della Lega: «Perché vinceremmo. Vinceremmo anche con il Consultellum». Si vedrà se si tratta di un alibi per nascondere dell’altro, se la manovra «è dettata dal suo conflitto d’interessi», come denunciano gli esponenti della minoranza forzista. Di certo ieri Berlusconi ha preso tre piccioni con una fava: si è reso indispensabile alla maggioranza; ha acquisito un forte credito sulla scelta del successore di Napolitano, siccome «sta nei patti, perché su questo punto ho avuto precise garanzie da Renzi»; e si è riavvicinato ad Alfano per costruire già l’accordo alle Regionali, visto che — assicura — «ho già parlato con tutti quelli della Lega. E non esiste che si vada divisi». Per effetto del caso o di un disegno, ieri Berlusconi si è trovato a un bivio, mentre il premier gli spiegava che «non ho i voti per far approvare la legge elettorale»: avrebbe potuto agevolare l’operazione organizzata da una parte del Pd contro il suo segretario, o aiutare Renzi a emanciparsi dalla minoranza del suo partito. Sapeva che se avesse scelto la prima opzione, il leader del Pd gli avrebbe addebitato la rottura del Patto del Nazareno e si sarebbe accordato con il suo partito tanto sulle modifiche all’Italicum quanto sul Quirinale. Prima che il premier ultimasse il suo ragionamento, il Cavaliere ha deciso di dargli una mano. In realtà aveva già deciso, mettendo nel conto la rottura con Fitto, «perché vorrò vedere in quanti gli andranno dietro». Al bivio, Berlusconi ammicca ad Alfano senza impressionarsi degli attacchi di Salvini, e si muove d’intesa con Renzi per il Colle. Sul nome da candidare non sono arrivati in fondo: il premier — per natura diffidente 31 — vuole prima incassare la legge elettorale. Ma sui nomi da eliminare dalla corsa sembrano agire di conserva. Su Mattarella, per esempio, il Cavaliere pone il veto: «Brav’uomo per carità, ma mi ricorda Scalfaro». Raccontano che Renzi non si sia stracciato le vesti quando l’ha saputo. Semmai il premier è preoccupato per i tanti supporter — interni ed esteri — che puntano su Amato. Non è la sua prima scelta, per dirla così, lo accetterebbe infine se costretto, ma teme l’impatto che avrebbe nell’opinione pubblica e che gli verrebbe addebitato: «Nei sondaggi è ultimo per gradimento». Berlusconi, da buon samaritano, è pronto ad andare in suo soccorso. E chissà se ieri gli ha spiegato il motivo per cui l’ex braccio destro di Craxi è stato inserito nella terna messa a punto la sera prima dalle forze di centrodestra, e che comprende anche Casini e Martino. Il loro obiettivo è evitare che la partita del Quirinale inizi con un candidato del Pd: nessuna preclusione, ma è chiaro che se si partisse con un esponente di area democratica, sarebbe impossibile poi «cambiare verso», perché — quello sì — sarebbe uno smacco insopportabile per il partito di Renzi. Perciò c’è Amato nella lista, quello stesso Amato che nel 2001 — alla vigilia della vittoria berlusconiana — spense il sogno del centrodestra di avere al Colle un proprio rappresentante. Fu lui infatti, da presidente del Consiglio, a scegliere abilmente la data di scioglimento delle Camere che consigliò poi al presidente della Repubblica Ciampi: «Così il prossimo Parlamento non eleggerà il prossimo capo dello Stato...». E il Cavaliere non l’ha dimenticato . del 21/01/15, pag. 7 La scelta degli ex Cinque Stelle schierati con Gotor Al Senato voteranno gli emendamenti della sinistra. L’attacco di Grillo (poi corretto) agli elettori pd MILANO Mentre i fuoriusciti si schieravano in Senato con la minoranza pd, il Movimento entrava in un turbine di eventi e riunioni, che sfocerà nella partita per la scelta del successore di Napolitano: la giornata di ieri, per il Movimento 5 Stelle, è stata solo l’antipasto dei giorni a venire, che prevedono l’arrivo di Beppe Grillo a Roma e una doppia assemblea dei parlamentari. La giornata di ieri si è giocata tra Bruxelles e Milano: da una parte la riunione tra eurodeputati e direttorio, dall’altra il vertice alla Casaleggio associati con i capigruppo di Camera e Senato, Andrea Cecconi e Andrea Cioffi, e i responsabili della comunicazione, Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi. Al centro il toto-candidature. «Se ci viene presentato un nome che sia di alto profilo, indipendente dal governo, che abbia al primo posto del suo programma una legge anticorruzione lo valuteremo», dice Roberto Fico. Ma nessuno si sbottona: «Il silenzio è generale, non è nostro — commenta Cecconi —. Il silenzio in verità è di tutti, perché tutti i nomi che si stanno facendo sono completamente bruciati. E noi non vogliamo perdere tempo a giocare con dei bari sul nulla». Cioffi, invece, sposta l’attenzione su altri temi: «Non abbiamo parlato di Quirinale ma di reddito di cittadinanza». In realtà, il blitz è servito (anche) per delineare in modo chiaro la strategia e seguire gli sviluppi delle ultime ore. Il dialogo con la minoranza dem e la tattica dell’attendismo «iniziano a logorare gli altri partiti», confida un esponente pentastellato. E non è detto che nelle prossime ore questo gioco di specchi non prosegua e si rafforzi. A sentire alcuni fedelissimi, l’idea di Quirinarie 32 «bloccate» — ipotizzate anche su un asse diverso da quello della maggioranza — sembra ancora prevalere. Rimane la suggestione della candidatura del pm Nino Di Matteo, ma quello che ormai sembra certo è che i Cinque Stelle cercheranno di giocare le loro carte all’ultimo minuto. Incognita nei progetti e nelle strategie dei pentastellati sono gli ex, che si stanno compattando. Ieri dodici fuoriusciti al Senato hanno annunciato di condividere l’emendamento Gotor sull’Italicum e hanno creato un coordinamento tra loro: il primo passo verso la possibile creazione di un gruppo. Una pattuglia che potrebbe scompigliare gli equilibri qualora si aggregassero anche gli ex di stanza a Montecitorio. Intanto sul blog Grillo ieri è tornato ad attaccare i democratici: «L’elettore (poi corretto nel pomeriggio con “finanziatore”, ndr ) tipo del Pd è ormai un broker, un finanziere o un ex della banda della Magliana». Emanuele Buzzi del 21/01/15, pag. 1/6 LA CORSA AL QUIRINALE I tre forni del premier per il Colle e la tentazione del colpo a sorpresa CLAUDIO TITO MA ALLORA , al Quirinale chi vorresti? Si potrebbe fare Amato o Casini...». L’incontro tra Renzi e Berlusconi stava per finire. I due si stavano dando la mano proprio sulla soglia dell’ufficio del presidente del consiglio. Il commesso aveva già aperto le porte dell’ascensore di servizio che porta gli ospiti davanti allo scalone d’onore di Palazzo Chigi. E, proprio in quel momento, il leader di Forza Italia si è fermato un momento. Ha lanciato uno sguardo verso Gianni Letta, poi si è rivolto sorridendo al premier: «Chi vorresti al Quirinale? Amato o Casini?». Renzi non ha risposto. Ha continuato a camminare verso l’ascensore e ha tagliato corto: «Ne parliamo martedì» . LA“ partita” è dunque ufficialmente aperta. Fino a ieri la corsa al Colle era solo uno spettro, anche se aleggiava su ogni incontro e discussione. Soprattutto incombeva su tutte le votazioni per l’Italicum e per la riforma costituzionale. Ma da ieri quel sottile diaframma dietro il quale il capo del governo si era difeso per rinviare il più possibile il negoziato sulla successione di Napolitano, si è improvvisamente infranto. Le candidature si sono moltiplicate la scorsa settimana e ora si riducono come in un imbuto che seleziona e screma. Se il Cavaliere avanza i nomi di Amato e Casini, nel centrosinistra si rincorrono quelli di Sergio Mattarella, Anna Finocchiaro e praticamente ti tutti gli ex segretari di partito da Veltroni a Bersani. Più qualche ministro come Padoan. E infine quello che i renziani definiscono il «colpo a sorpresa ». Nei prossimi quindici giorni, il leader Pd si gioca buona parte del suo futuro. Di certo buona parte delle chance di concludere la legislatura. La legge elettorale, l’abolizione del Senato e l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Se uno solo di questi tasselli si rompe nel delicato mosaico di Palazzo Chigi, tutto salta. Renzi lo sa bene. E prepara la sua strategia: quella del «triplo forno». Con un obiettivo: «Portare alla presidenza una persona civile». La partita del Quirinale, però, è tutt’altro che semplice. I gruppi parlamentari sono sempre più “balcanizzati”. Il Pd è strattonato dalle correnti e da una gran parte di eletti che 33 rispondono alla vecchia segreteria, quella di Bersani, e non a quella attuale. L’aria che si respira tra i banchi democratici è quella del tutti contro tutti. Con in più la malattia contagiosa della sinistra: fare fuori il capo della corrente avversa. Renziani contro dalemiani, veltroniani contro ex popolari, bersaniani contro amatiani. Forza Italia poi è messa a soqquadro da un caos sistematico. E il M5S, paralizzato dalla diarchia GrilloCasaleggio, deve fare i conti con un esodo continuo di dissidenti. Nel Transatlantico di Montecitorio e in quello di Palazzo Madama, il clima è sempre più teso. Le previsioni dettate dall’incertezza Il capo del governo sperava di arrivare a questo appuntamento avendo allentato la tensione con l’approvazione delle riforme. L’obiettivo è svanito nelle ultime ore. «Ma io non mollo ripete prima di partire per Davos -. Io non sono uno che si tira indietro». Con i suoi fedelissimi allora sta mettendo a punto il suo piano. «Abbiamo tre forni cui rivolgerci - osserva -: il nostro partito con la minoranza in primo luogo. A Bersani l’ho detto: dobbiamo decidere insieme». Poi c’è il secondo fronte: quello dei «berlusconiani ». E infine i «dissidenti grillini». Il candidato, da ufficializzare al quarto scrutinio, sarà il risultato dell’accordo stretto con «uno o due» di questi forni. «Vedremo quale può essere la soluzione migliore in base a chi accetterà un’intesa ». Per l’inquilino di Palazzo Chigi, del resto, non c’è alternativa a questo schema. «Io resto comunque centrale». Il motivo è molto semplice: «Senza di me, non si elegge nessuno. Tutti gli altri dovrebbero coalizzarsi contro di me». Ma su chi? Appunto, su chi? Se in pubblico Renzi non fa nomi, con i suoi uomini in realtà le candidature sono state già vagliate e valutate. Amato? «È possibile - chiede ai suoi - che Bersani, Berlusconi e Vendola si mettano insieme per eleggere Amato contro di me? Sarebbe un’alleanza ben strana. E Grillo cosa fa? E la Lega cosa fa? Non mi pare siano sufficienti». Prodi? «La Lega, Berlusconi e i democristiani del Pd dovrebbero unirsi per sostenere Romano contro di me? Anche questo mi pare difficile. E poi Forza Italia accetta questa ipotesi e non fa con me una persona civile? Non credo. Per un semplice motivo: Berlusconi vuole stare al tavolo. Vota l’Italicum perché sa che altrimenti il Quirinale ce lo facciamo da soli». Il capo del governo, dunque, disegna una scacchiera con tre pedine e tre tappe. Eppure le variabili - in un Parlamento tanto anarchico e frammentato - sono infinite. Basti pensare, appunto, al partito democratico. Dove le faide sono profonde e quasi tutte puntano a far fuori l’avversario interno. Di certo, ai nastri di partenza, anche a Palazzo Chigi, più che Casini e Amato vedono Mattarella e Anna Finocchiaro. Sul primo Renzi da qualche giorno riferisce un episodio che gli è stato raccontato da De Mita: «Quando lo ha nominato commissario per la Dc in Sicilia, ha chiamato il questore e si è raccomandato: “Questo va preservato”». Anche Bersani parla dell’attuale giudice costituzionale. L’ex segretario segue da giorni una linea abbastanza definita: «Al Quirinale non deve andarci per forza uno della “ditta”», ossia un ex diessino. «L’importante - spiega - è che ci vada una persona autonoma e autorevole ». E con i suoi non nasconde che il suo “campione” è l’ex popolare. Un’opzione fondata sulla stima, ma anche determinata dallo scontro con i dalemiani. Bersani accusa l’ex premier di averlo tradito e si mette di traverso su tutto ciò che proviene da quell’area. A cominciare da Giuliano Amato. Il fronte favorevole all’ex socialista, infatti, è composto in primo luogo dai sostenitori del “lider massimo” e dagli esponenti della Fondazione ItalianiEuropei. Basta sentir parlare il capogruppo democratico alla Camera Speranza (che ascolta spesso i consigli dell’ex presidente della Repubblica Napolitano): «Giuliano è il migliore per quel ruolo». Sono poi dalla sua parte molti degli ex Psi, quelli di Nencini e quelli presenti nelle altre formazioni (ad esempio gli Ncd Cicchitto e Sacconi). Nel frattempo gli ex popolari ridanno vita al metodo delle cene di corrente. Fioroni li riunisce e lancia Mattarella, ma si tiene una carta di riserva: quella di Dario Franceschini. Così come Rosy Bindi che nel bel mezzo del Transatlantico di Montecitorio dice a chiare lettere: «Per 34 me c’è un solo candidato», ossia Romano Prodi. Mentre nel salone Garibaldi del Senato, un altro democratico come il lettiano Francesco Russo, dice a bassa voce: «Per me Matteo andrà su Pierluigi Castagnetti». Ma la “guerriglia” intestina non risparmia nemmeno Forza Italia. Anzi, lì è ancor più cruenta. «Berlusconi - si lamentava ieri Renzi a un certo punto mi dice: l’emendamento Esposito non lo posso votare perché ho un accordo con Boccia. Con Boccia? E che c’entra?». Boccia è il deputato pd, eletto in Puglia, vicino a Enrico Letta e Massimo D’Alema. Secondo il premier, in questa fase agisce di concerto con un altro pugliese: il forzista dissidente Raffaele Fitto. «Ed entrambi sono guidati - è l’avvertimento dato al Cavaliere - dal “Gran Pugliese”». Ossia, ancora Massimo D’Alema. Di sicuro Fitto si muove in opposizione al governo e soprattutto al Patto del Nazareno. «Io non mi tiro indietro - avvisa camminando nella Corea, il corridoio più nascosto della Camera né sull’Italicum né sul Quirinale. Non voto l’uomo di Renzi». Pure Berlusconi, quindi, deve fare i conti con la fronda interna. Lancia quindi i nomi di Casini e Amato per alzare la trattativa con palazzo Chigi. «Il mio obiettivo è tornare in pista a febbraio, quando la pena dei servizi sociali sarà finita - è il ragionamento del capo forzista -. Devo recuperare almeno 5 punti nei sondaggi e non mi voglio caricare del peso di mandare al Quirinale uno odiato dall’opinione pubblica ». Tutti, insomma, fanno il loro gioco. Bastava ascoltare cosa diceva ieri pomeriggio proprio Casini al Senato conversando con Renato Schifani: «Ho parlato le scorse settimane con Alfano e con Berlusconi e ho avuto buoni segnali. Ma altro non faccio. Gli ex ds, che comunque mi stimano, votano Amato. Poi certo bisogna vedere se Renzi non si inventa un colpo di teatro. Ma non lo vedo e in ogni caso il centrodestra muore se vota qualsiasi nome gli proponga il capo del governo». Ecco, la “sorpresa”. A Palazzo Chigi è un’idea che sta maturando. Le quotazioni del ministro Padoan, ad esempio, sono tornate a salire, anche se di poco. Ma nella road map renziana il punto di partenza è un altro: «Il nome dipende da chi farà l’accordo con me: Bersani, Berlusconi o gli ex grillini?». Del 21/01/2015, pag. 4 La Consulta salva la riforma Fornero sulle pensioni Welfare. Bocciata la proposta di referendum della lega contro la riforma dell’ex ministra. Nei quesiti respinti l’abolizione dello scandalo esodati e innalzamento età pensionabile Massimo Franchi A parte l’ira sguaiata di Matteo Salvini e le possibili conseguenze sulla partita Quirinale – i papabili Giuliano Amato e Sergio Mattarella si presume abbiano votato per l’incostituzionalità – la bocciatura del quesito referendario che di fatto abrogava la riforma delle pensioni Fornero un merito lo ha avuto. I sindacati e buona parte delle forze politiche tornano a chiedere con forza un sistema più flessibile e meno rigido, individuando nell’innalzamento repentino dell’età pensionabile una delle cause principali del mancato turn over lavorativo e dunque dell’insostenibile tasso di disoccupazione giovanile. Il quesito su cui la Lega aveva raccolto molto più delle canoniche 500mila firme e che è stato uno degli strumenti populistici che ha rilanciato il movimento e la figura di Matteo Salvini, chiedeva l’abrogazione dell’articolo 24 del decreto salva-Italia che fece piangere 35 Elsa Fornero mentre spiegava che cosa sarebbe successo agli anziani italiani: blocco della rivalutazione e innalzamento dell’età pensionabile di almeno cinque anni con sostanziale abolizione delle pensioni di anzianità. In più da quel giorno il sistema di calcolo dell’assegno è diventato contributivo, producendo un calo generalizzato con punte insostenibili per le giovani generazioni precarie. La sentenza, che sarà depositata nei prossimi giorni, quasi certamente poggerà sulla constatazione che quella riforma faceva parte di una manovra economica ed è quindi assimilabile a norme tributarie – la riforma ha prodotto risparmi per 80 miliardi tutti andati ad abbattere il debito pubblico negli anni a venire — per cui la Costituzione vieta la possibilità di referendum abrogativo. Appreso del verdetto della consulta, la stessa Fornero ha unito alla definizione di «decisione giusta per il paese» l’apertura a modifiche: «Il Parlamento se vuole esamini la riforma con pacatezza e lungimiranza». Dimenticandosi però di parlare della vergognosa vicenda degli esodati – le persone che con l’innalzamento dell’età sono rimaste senza lavoro, senza pensione e senza ammortizzatori sociali – che la stessa Fornero non è mai riuscita a risolvere e che si trascina a tre anni di distanza. Ancora oggi nessuno è in grado di dire quanti sono stati e sono gli esodati – una stima fu chiesta da Fornero all’Inps che certificò 400mila esodati potenziali, provocando l’ira del ministro che si rimangiò la richiesta – mentre i sei provvedimenti legislativi ad hoc lungo tre anni hanno «salvaguardato» 162mila persone. Se il governo ha sempre sostenuto che il capitolo «pensioni» non era una priorità, i sindacati invece – nel loro ultimo atto unitario che emendò le sole tre ore di sciopero generale fatte all’epoca – a settembre avevano lanciato una piattaforma unitaria per modificare completamente la riforma. E ieri sono tornati alla carica. «Il sindacato, tutto e unitariamente, deve mobilitarsi per portare il Parlamento a cambiare nel profondo la riforma della pensioni della Fornero che così tanti danni ha creato in questi anni — ha dichiarato il segretario generale dello Spi Cgil, Carla Cantone — serve una mobilitazione più forte perché si sta impedendo ad una intera generazione di andare in pensione chiudendo lo spazio per nuovi posti di lavoro, perché esistono ancora gli esodati e perché i giovani non hanno alcuna certezza sul loro futuro previdenziale». «L’inammissibilità del quesito referendario non vanifica la necessità di rivedere le regole del sistema pensionistico», ha sostenuto il segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan, chiedendo al governo di aprire il confronto con le parti sociali sulla materia. «Era prevedibile che la Consulta dichiarasse inammissibile il referendum sulla legge Fornero ma ora la battaglia diventa sindacale e politica, perché quel provvedimento va comunque cambiato», ha dichiarato il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo aggiungendo che la Uil avvierà con Cgil e Cisl una discussione sulle «iniziative per ottenere le modifiche possibili e necessarie a questo provvedimento». La proposta di legge che potrebbe mettere tutti d’accordo giace in parlamento da due anni. L’ha presentata l’ex ministro Cesare Damiano e propone di rendere flessibile l’età di pensionamento dai 62 anni con una penalizzazione del 2 per cento l’anno sull’assegno che si andrà a percepire. Da Monti in poi, nessun governo l’ha presa in considerazione. Chissà che il momento non sia finalmente arrivato. del 21/01/15, pag. 16 Lo scontro a Milano.. Avviato un procedimento disciplinare - La procura di Brescia aveva archiviato - Udienza al Csm il 5 febbraio Il Pg della Cassazione: «Trasferire Robledo» 36 L’accusa: avrebbe rivelato all’avvocato della Lega atti di indagine su consiglieri lombardi ROMA È un atto d’accusa «durissimo» quello inviato ieri dalla Procura generale della Cassazione al Csm nei confronti di Alfredo Robledo, Procuratore aggiunto di Milano noto alle cronache per il suo scontro con il Procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. «Durissimo» è il commento che si raccoglie a Palazzo dei Marescialli tra chi ha letto le pagine dell’atto di incolpazione firmato dal Pg Gianfranco Ciani, in cui il titolare dell’azione disciplinare chiede che, in attesa del verdetto definitivo, il Csm trasferisca altrove Robledo per il discredito gettato su Milano e gli tolga le funzioni di Pm. Le accuse, gravissime, sono: violazione dei doveri di imparzialità, correttezza e riserbo. Nel mirino, lo «scambio di favori» con l’avvocato della Lega Nord Domenico Aiello: quest’ultimo avrebbe appreso da Robledo notizie riservate, addirittura secretate, sull’inchiesta riguardante gli indebiti rimborsi dei consiglieri regionali della Lombardia (condotta dal pool guidato da Robledo) e in cambio gli avrebbe girato informazioni riservate contro il «nemico comune» Gabriele Albertini, rivale di Roberto Maroni alla presidenza della Regione e controparte di Robledo in un procedimento ai suoi danni per calunnia aggravata. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha fissato per il 5 febbraio l’udienza in cui la Sezione disciplinare dovrà pronunciarsi in via d’urgenza sulla misura cautelare. Nel frattempo, il procedimento aperto dalla I commissione per valutare l’eventuale trasferimento d’ufficio di Robledo e/o Bruti è stato sospeso. Ovviamente a questo punto salta ogni possibile mediazione del vicepresidente Legnini. I capi di incolpazione sono quattro e ruotano attorno a episodi noti, cioè quelli per i quali il 18 dicembre scorso il Gip di Brescia ha archiviato il procedimento a carico di Robledo per rivelazione del segreto d’ufficio, ritenendo che per questo reato fossero inutilizzabili le intercettazioni (legittimamente) acquisite dalla Dda di Reggio Calabria e trasmesse per competenza a Brescia. Ricevuto il decreto, Ciani ha chiesto l’intero fascicolo con gli atti e ha rilevato nei comportamenti di Robledo quattro illeciti disciplinari. Anzitutto violazione dei doveri di imparzialità e riserbo per aver divulgato notizie su atti coperti da segreto. Robledo (che qualche mese fa Bruti aveva trasferito al Dipartimento esecuzione penale ritenendo che non fosse adatto a dirigere quello sui reati contro la Pa) avrebbe rivelato ad Aiello gli indizi a carico degli indagati iniziali dell’inchiesta (Lega e Pdl) ma lo avrebbe anche informato, il 18 dicembre 2012, che il giorno dopo sarebbero finiti sotto indagine altri 7-8 consiglieri e che nella seconda decade di gennaio la Procura avrebbe proceduto anche contro consiglieri regionali dell’opposizione, ledendo così i diritti di chi ancora non era indagato e l’immagine dei rispettivi partiti (Pd, Idv, Movimento pensionati). Sapendo ovviamente che l’avvocato avrebbe girato (come fece) le informazioni alla Lega. «Uomo di parola! Grande magistrato!» scrive in un sms Aiello a Robledo. Che risponde: «Caro avvocato, promissio boni viri est obbligatio». Di più: quando Aiello venne a sapere che l’Espresso stava per pubblicare un servizio sull’indagine su Bossi padre e figlio e su Belsito, secondo l’accusa Robledo gli suggerì, quasi dettandogliela, un’istanza per ottenere copia di atti non ancora noti, procurando loro un indebito vantaggio. E quando l’istanza fu respinta, fece ricadere la responsabilità su Bruti e su altri colleghi. Un comportamento «gravemente scorretto» scrive Ciani. Secondo il quale, tutti questi “favori” ad Aiello servivano per potergli chiedere in cambio un aiuto nella vicenda Albertini. L’allora europarlamentare - preoccupato dell’inchiesta a suo carico per calunnia, nata da un esposto al ministro della Giustizia in cui aveva accusato Robledo di comportamenti scorretti - puntava a ottenere l’immunità dal Parlamento europeo e perciò aveva 37 presentato alcuni documenti riservati allla commissione competente. Robledo chiese con insistenza e ottenne da Aiello di procurargliene una copia per controbattere con una propria nota da mandare a Strasburgo per bloccare l’immunità. Un comportamento «grave», scrive Ciani, sia per il modo illegale utilizzato sia perché Robledo sapeva che Aiello, per procurarsi quelle carte, si sarebbe rivolto ai vertici della Lega, su cui stava indagando il suo ufficio. 38 LEGALITA’DEMOCRATICA del 21/01/15, pag. V (Roma) ‘Ndrangheta, ecco la filiale romana RORY CAPPELLI MARIA ELENA VINCENZI I tentacoli della maxi inchiesta Mondo di Mezzo che ha scoperchiato il vaso di Pandora della corruzione politico imprenditoriale romana e non solo, sono arrivati fino a qui. Fino all’operazione che ieri, con arresti eseguiti da 450 tra finanzieri e poliziotti fin dall’alba, ha tagliato le gambe a un’altra importante e pericolosa organizzazione criminale che stava incancrenendo il tessuto di questa città. Coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, i finanzieri del nucleo di polizia tributaria della Capitale, e i poliziotti della squadra mobile — dopo indagini minuziose e complesse — hanno infatti disarticolato un pericoloso gruppo criminale dai connotati mafiosi, responsabile di alcuni gravi fatti di sangue avvenuti di recente a Roma, e dedito al traffico internazionale di stupefacenti su larga scala: centinaia di chili di cocaina e hashish. L’organizzazione criminale era legata alle cosche calabrese Pelle, Nirta, Giorgi (alias Cicero) di San Luca e come queste ne seguiva i riti e le iniziazioni. Tanto che nell’abitazione del pentito — Gianni Cretarola, arrestato per il delitto del gennaio 2013 di Vincenzo Femia — che ha fatto partire le indagini e che ha permesso di unire le indagini seguite dalla squadra mobile diretta da Renato Cortese sull’assassinio di Femia con quelle seguite dalla guardia di Finanza sul traffico di droga, è stato ritrovato un quaderno rosso pieno di pagine redatte con un incomprensibile alfabeto poi decifrato dagli investigatori. Che hanno così scoperto le tre formule del rito di affiliazione durante le quali, come ha raccontato agli inquirenti Cretarola: «Si passa dapprima a contrasto onorato a picciotto fatto a voce, da picciotto fatto a voce a picciotto fatto e non fidelizzato e la terza è da picciotto fatto e non fidelizzato a picciotto abbracciato a questo corpo di società ». Il legame con l’inchiesta Mafia Capitale è la società “Edera” il cui presidente era Franco Cancelli, dove in due ‘ndranghetisti trasferiscono la residenza e dove vengono assunti, sempre secondo le dichiarazioni del collaboratore, alcuni affiliati. San Luca di Calabria, dunque, aveva messo radici in città: i quartieri Appio, San Giovanni, Centocelle, Primavalle, Aurelio erano diventati una ragnatela dove potevano sparire latitanti e centinaia di chili di droga, che da qui trovavano la strada anche per Genova, Milano, Torino, dove le ‘ndrine avevano importanti ramificazioni. Dei narcos nostrani, veri e propri cartelli con basi logistiche anche in Colombia, in Marocco, in Spagna, che monopolizzavano il mercato della droga della città e non solo, sbaragliando a colpi di arma da fuoco la concorrenza. Tanto che nel corso delle perquisizioni è stato trovato un vero e proprio arsenale di armi da fuoco: pistole, fucili da caccia, giubbotti antiproiettili, munizioni di vario calibro. Il delitto di Vincenzo Femia, infatti, che in un primo momento si riteneva fosse stato ucciso perché contrario all’apertura di un locale, era invece dovuto al traffico di droga. Trentuno le persone arrestate, tra carcere e domiciliari. Tra questi i Crisafi, i Pizzata, i Rollero, i Sestito, tutti affiliati a varie cosche. 39 del 21/01/15, pag. V (Roma) Da “er delibera” al “soldato” tutti i nickname del Mondo di mezzo FEDERICA ANGELI UN RUOLO, un soprannome. C’è una scelta oculata nell’assegnazione dei nomi di battaglia usati dalla gang di Carminati e Buzzi per quelli del “mondo di sopra”, ovvero coloro inseriti nel tessuto politico ed economico utili a favorire il mondo di sotto. In quel territorio fatto di criminali che fanno rispettare le regole dell’organizzazione sulla strada gli alias ricalcano nomignoli da romanzo criminale. Così oltre al pirata, Rom-mel e il caccola, troviamo pseudonimi altolocati. E la traduzione del battesimo si traduceva semanticamente in base all’utilità del componente “ai piani alti” della gang. ER “DELIBERA”. Claudio Caldarelli viene descritto dal gip come colui che «partecipa attivamente alle attività illecite commesse dall’associazione nell’ambito della pubblica amministrazione oltre a creare e veicolare flussi illegali». Ha un ruolo formale nelle cooperative riconducibili a Buzzi, tant’è che dal 2004 è consigliere nell’ambito della società cooperative Formula Sociale e nel 2013 ne diventa presidente. A lui Carinati & co si rivolgono per le sue competenze in materia di ambiente e per la sua capacità di infiltrarsi nella pubblica amministrazione proprio per gli incarichi pubblici rivestiti. Dal 2009 al 2003 ha infatti investito la carica di assessore all’ambiente, verde pubblico e protezione civile a Cerveteri, dal 2004 al 2006 assessore all’anagrafe e al verde pubblico di Ardea; dal 2008 al 2009 assessore alle politiche sociali dell’ex municipio Monte Mario di Roma. «Rilevante — scrivono i magistrati del Riesame — è la pressione esercitata da Caldarelli sull’amministrazione comunale per l’approvazione delle delibere relative al campo nomadi di Castel Romano». Da qui il nomignolo “er delibera”. IL SOLDATO. Matteo Calvio è colui che si occupa delle attività di estorsione e recupero crediti per conto dell’associazione nei confronti degli imprenditori. Quando tenta l’emancipazione, il salto di qualità, Carminati e i suoi stretti complici gli ricordano che lui è soltanto “il soldato”. «E’ il soldato della situazione », «è lobotomizzato, è scemo» dice l’ex Nar, e alle riunioni sulle decisioni importanti non può partecipare perché «dobbiamo parlare di cose da grandi», «lo utilizzeremo per piantonare» un debitore «mentre noi ci parliamo ». IL RAGIONIERE. Paolo Di Ninno, il commercialista di fiducia di Buzzi e direttore amministrativo della “29 giugno”, è colui che predispone e organizza quegli artifici contabili, attraverso anche l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, che consentono la presenza nella cassaforte della cooperativa di cospicui “fondi neri”, denaro contante indispensabile, secondo i magistrati, sia per ripartire tra i consociati i ricavi illeciti che per corrompere i funzionari infedeli. E’ “il ragioniere” che gestisce quel denaro, nascosto in una cassaforte esterna alla sede della cooperativa, e anche il “libro nero”, affidato alla segretaria di Buzzi, dove vengono annotate le uscite sporche, quelle che non possono essere contabilizzate in favore dei sodali e dei funzionari corrotti. L’UOMO EUR E IL SOTTOPOSTO. Carlo Pucci «è stabilmente asservito agli interessi dell’organizzazione criminale — si legge nelle motivazioni del Riesame — per le competenze che ha in qualità di dirigente e procuratore speciale di Eur spa». “L’uomo Eur”, così lo chiama la gang in codice, è in continuo contatto con Carminati al quale è legato da un comune passato criminale, avendo anche lui precedenti per banda armata, associazione sovversiva, lesioni personali, rapina e porto abusivo di armi, reati commessi 40 durante la sua militanza nella destra eversiva. Pucci è presente nei momenti di maggiore fibrillazione della vita dell’associazione come quello che segue l’arresto di Mancini, ex ad Eur spa. Ed è molto attivo nel fare pressioni all’amministratore delegato su ordine di Carminati. Il 14 dicembre del 2012 nel corso di una conversazione tra l’ex nar e “l’uomo Eur” il primo lo sollecita a fare pressioni e anche a minacciare esplicitamente Mancini di un proprio intervento affinchè risolvesse in tempi rapidi la questione dei pagamenti alle cooperative di Buzzi. Se non l’avesse fatto avrebbe Pucci dovuto dire «sennò viene qua il Re di Roma... tu sei un sottoposto... è il Re di Roma che viene qua, vado io, entro dalla porta principale, vede che gli combino, a me non mi rompesse il cazzo, me chiudesse subito la pratica là». E Mancini, il “sottoposto” eseguiva. 41 SOCIETA’ del 21/01/15, pag. 16 Risorse Umane. Federmanager al Governo: «I nostri pensionati come tutor dei giovani in apprendistato» Diciassette milioni di over 50 Nel 2033 saranno 22,5 - Analisi di Randstad: serve l’age management Le aziende italiane sono sempre più vecchie, o meglio i lavoratori italiani sono sempre più vecchi. Lo dicono i numeri elaborati dall’Osservatorio permanente sull'Active Ageing di Randstad Italia che spiegano come, se nel 2013 i lavoratori over 50 erano 17 milioni, nel 2033 toccheranno quota 22,5 milioni. Tanto basta a mettere in discussione non solo l’attuale modello previdenziale (gli occupati over 50 sono aumentati di 1,6 milioni tra il 2004 e il 2012) ma soprattutto l’attuale modello di organizzazione aziendale: le imprese sono così chiamate a progettare interventi per favorire l'invecchiamento attivo, garantendo una buona occupazione ai lavoratori in età adulta. Al punto da dover elaborare persino una nuova teoria di gestione manageriale come l’age management. Una sorta di manuale corredato di istruzioni d’uso. Il tutto per ottenere quattro risultati: potenziare la flessibilità interna, aumentare il clima di partecipazione, pianificazione del percorso di fuoriuscita, impostare nuove politiche retributivo, sviluppare la formazione continua. «I lavoratori over 50 in Italia oggi costituiscono un'importante risorsa non soltanto nella dimensione delle relazioni familiari e sociali, ma anche nel mondo produttivo. Eppure sono identificati spesso come un peso, perché non in grado di esprimere alto potenziale e volontà di partecipazione al lavoro - afferma Fabio Costantini, Chief Operations Officer di Randstad HR Solutions -. La gestione delle risorse più mature da parte delle aziende deve rinnovarsi profondamente e aprire la strada a una nuova cultura dell'invecchiamento attivo e a nuove pratiche di valorizzazione delle figure anziane. Un impegno che purtroppo non trova grande sostegno nella legislazione del lavoro, il nostro progetto vede invece, in questa seconda fase, un importante passaggio». Sulla stessa linea, l’appello lanciato da Federmanager: «Da tempo stiamo chiedendo al ministro Poletti di utilizzare i nostri pensionati per fare da tutor ai più giovani in percorsi di alto apprendistato», spiega Giorgio Ambrogioni, presidente di Federmanager, intervenendo a proposito della formazione necessaria per diventare un buon manager. Ambrogioni ricorda che sulla formazione manageriale in Italia «abbiamo un deficit di attenzione al tema dell'education e della formazione permanente». Noi non siamo, ad esempio, - sottolinea - soddisfatti per come funzionano gli enti bilaterali che finanziano la formazione continua. Ci sono troppe risorse inutilizzate o utilizzate solo per formazione di basso o bassissimo profilo. Ed è per questo che abbiamo proposto al ministro del Lavoro una nostra partecipazione diretta ai percorsi di formazione in alto apprendistato». 42 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 21/01/2015, pag. 4 Casa, un emendamento per lenire la guerra contro i poveri Roberto Ciccarelli Nuova giornata campale per i movimenti per il diritto all’abitare e i sindacati degli inquilini. A dieci giorni dal termine della proroga anti-sfratto per morosità incolpevole, qualcosa si muove dentro la maggioranza di governo tenuta in ostaggio dalla ferrea determinazione del ministro delle Infrastrutture Lupi di fare una politica favorevole alla proprietà, penalizzando gravemente l’inquilinato povero e gli occupanti. Il presidio organizzato ieri dall’Unione Inquilini e Action in piazza Montecitorio, presenti un centinaio di persone, ha ottenuto la disponibilità del Pd a presentare un emendamento al Milleproroghe a firma Umberto Marroni per andare incontro alle famiglie colpite da sfratto per finita locazione. Al presidio Roberto Morassut, ex assessore romano all’urbanistica, e Marco Miccoli, hanno parlato di «resistenze» nel loro governo, ma hanno riconosciuto la necessità di un «piano organico» per risolvere l’emergenza abitativa esplosiva nelle maggiori città italiane. «Entro un anno il governo dovrà presentarlo» sostengono. Emendamenti al Milleproroghe verranno presentati anche da Sel (ieri al presidio è intervenuta Marisa Nicchi, tra gli altri) e dal Movimento 5 Stelle (oggi avrà un incontro con la segreteria tecnica di Lupi). Il governo non sembra intenzionato a cedere su una battaglia che ritiene simbolica. La sua guerra ai poveri viene fatta truccando i numeri. Per Lupi, infatti, gli sfratti per finita locazione sarebbero 2 mila in tutta Italia. Gli inquilini, invece, sostengono che solo a Roma siano 2500. Cifre inquietanti sulla «morosità incolpevole» le ha fatte il prefetto di Roma Pecoraro in un’audizione alla commissione Affari Costituzionali e Bilancio alla Camera: le sentenze esecutive sono oltre 7 mila. Una cifra che trova riscontro in quella degli inquilini. Le risorse stanziate dureranno al massimo un anno, e non fino al 2020. Risorse che sono complessivamente inadeguate. Lupi sostiene che siano 800 milioni. In Gazzetta Ufficiale «ce ne sono 68 milioni complessivi per il recupero di case popolari oggi inutilizzate e 30 milioni l’anno per la ristrutturazione» sostengono invece gli inquilini. «Dal Pd ci aspettiamo un sussulto di eticità» ha aggiunto Guido Lanciano, segretario dell’Unione Inquilini RomaLazio. Il segretario dell’Unione Inquilini Walter De Cesaris (che ha presentato uno schema di emendamento) sostiene che «la partita non è chiusa come Lupi lascia intendere, visto che c’è la disponibilità di Pd, Movimento 5 Stelle, Prc, Sel». L’emergenza casa è un fenomeno complesso che si sviluppa su più fronti. Non è composto solo dalla finita locazione, o dagli sfratti per morosità incolpevole. Ci sono le occupazioni che solo a Roma ospitano decine di migliaia di persone, italiane e straniere. Realistica è la posizione del neo-assessore alla casa della Capitale, Francesca Danese: «C’è una legge, la legge Lupi, che non ho fatto io nè gli assessori delle altre aree metropolitane, il cui articolo 5 ci pone qualche problema» ha detto ieri. Contro questo articolo che nega la residenza agli occupanti, e taglia le utenze alle occupazioni, continua da martedì 13 gennaio l’occupazione dell’anagrafe dei Blocchi precari metropolitani e del Coordinamento di lotta per la casa. Tale emergenza va risolta alla base, sostiene il network delle Agenzie Diritti Municipali. Per questo «bisogna abrogare la legge 431/98 approvata dal centrosinistra». «Ha favorito la proprietà creando un mercato delle locazioni iniquo e permet43 tendo gli sfratti — ha detto Simona Panzino dell’Agenzia — Di fatto non ha permesso ai cittadini di accedere ad un affitto sostenibile». 44 ECONOMIA E LAVORO del 21/01/15, pag. 15 Fmi: Italia fanalino di coda nel G7 Dimezzata la stima della crescita: solo più 0,4% nel 2015. Bene Usa e Spagna. Domani la decisione della Bce sugli acquisti di titoli per ridare fiato all’economia. Si apre il forum a Davos tra eccezionali misure di sicurezza ELENA POLIDORI DAL NOSTRO INVIATO DAVOS . Sul vertice di Davos, già sconvolto dall’incubo terrorismo, piombano alcuni dati che spiegano meglio di tante parole quanto è urgente che la Bce faccia qualcosa per l’economia europea in panne. Mentre i leader del mondo giungono sulle nevi svizzere — tra loro anche il premier Matteo Renzi — protetti da eccezionali misure di sicurezza affidate a 5000 uomini, il Fondo monetario internazionale certifica la crisi del vecchio Continente e dell’Italia in particolare. Al tempo stesso l’Ilo fotografa il dramma del non lavoro: 212 milioni a spasso entro il 2019, 11 milioni in più rispetto al 2014. Secondo le stime del Fmi l’Europa soffre di stagnazione e bassa inflazione e l’Italia va al rallentatore: con una crescita dello 0,4 appena quest’anno, mezzo punto in meno rispetto alle previsioni di ottobre, il paese è fanalino di coda del G7. Frenano anche Germania e Francia, si salva la Spagna. Sul piano globale, va più piano la Cina (cresce del 7,4%, il più basso rialzo dal 90), rallenta la Russia. Al dunque l’economia Usa è l’unica che avanza con decisione: più 3,6% quest’anno. Nell’analisi di questi esperti la stagnazione del vecchio Continente, nonostante il calo del prezzo del petrolio, è vista come un pericolo per l’intera economia mondiale, le cui stime di crescita sono state riviste al ribasso. Christine Lagarde, attesa a Davos nelle prossime ore, lo ripeterà ai big. Recessione e deflazione, un mix micidiale; la disoccupazione un pericoloso detonatore. Non a caso, Olivier Blanchard, il capo economista del Fmi di origine francese, esorta la Bce a fare «quanto già anticipato dagli investitori». Spiega che i mercati hanno “preceduto” il tanto atteso e discusso quantitative easing che il presidente Mario Draghi sta preparando per domani, che poi significa la possibilità per la Bce di acquistare titoli di Stato per almeno 500 miliardi. Avverte: «Vorremmo assicurarci che quando ci sarà un annuncio, sarà dell’entità che il mercato si attende ». Le Borse Ue, in effetti, credono che la svolta sia vicina. Così, in vista dell’appuntamento del board dell’Eurotower e nonostante un nuovo calo del prezzo del greggio, mantengono un tono positivo come se — appunto — dessero già per fatto il risultato: Milano da sola guadagna lo 0,91%. Ma, si sa, il varo del quantitative easing, non è proprio semplice. Il board è diviso tra falchi e colombe. Il fronte dei duri, capeggiato dalla Germania, sembra intenzionato a dare battaglia. Ancora ieri, dall’India dove si trova in missione, il ministro Schaeuble, pur dicendo di voler rispettare l’indipendenza dell’Eurotower, ribadisce che non c’è traccia di deflazione in Europa e dunque, forse, il quantitative easing non serve. Draghi naturalmente tace e anzi quest’anno, per la prima volta, non sarà a Davos. Riuscirà a trattare? Il premier Renzi, giunto a Davos in tarda serata, assicura che c’è un totale rispetto per l’indipendenza della banca: «Io non metto bocca nelle vicende del board. Commenterò con la Merkel dopodomani, quando saremo insieme a Firenze. Non 45 so se commenteremo allo stesso modo». Gli esperti di politica monetaria non si sbilanciano, preferiscono immaginare diversi scenari. Per esempio che il rischio dei bond ricada sulle banche centrali. O che i pericoli siano suddivisi, metà sulle spalle delle autorità nazionali, metà sul bilancio della Bce. O anche che Draghi avvii un quantitative easing più classico, sfidando la Germania. Di sicuro non aiuta il caso Grecia, alle prese con un delicato appuntamento elettorale. Del 21/01/2015, pag. 1-5 Davos rimuove le diseguaglianze World Economic Forum. Uno studio preparato apposta per il meeting non sembra dare spazio a grandi entusiasmi. La ricerca mostra come gli eventi recenti abbiano fatto evaporare la fiducia nel mondo del business e in quello delle istituzioni pubbliche Vincenzo Comito Il World Economic Forum per il 2015 si apre a Davos in tono dimesso. Uno studio preparato apposta per il meeting non sembra dare spazio a grandi entusiasmi. La ricerca mostra come gli eventi recenti abbiano fatto evaporare nel mondo la fiducia nel mondo del business ed in quello delle istituzioni pubbliche. Il livello di tale fiducia sembra oggi aver raggiunto il punto più basso dopo lo scoppio della crisi. Questo porta, come commenta ad esempio il Financial Times, ad aumentare lo stato di angoscia degli attuali gruppi dirigenti dell’economia. Né li aiuta una dichiarazione fatta da uno dei protagonisti dell’incontro, secondo la quale il terrorismo e la geopolitica gettano la loro ombra su questa edizione del forum, rappresentando una minaccia per la stabilità mondiale. Infine non aiutano neanche le ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale, che riducono le precedenti stime sulla crescita economica mondiale per il 2015 e oltre. Ma chissà quanto, durante l’incontro, i partecipanti si preoccuperanno invece dei dati che sono stati appena pubblicati in tema di disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni in Italia e nel mondo. Quelli che riguardano il nostro paese, secondo un’analisi di Repubblica sulla base anche di dati forniti dalla Banca d’Italia, ci raccontano che nel 2008 le dieci famiglie più ricche controllavano più o meno la metà del patrimonio posseduto dal 30% più povero degli italiani. Ma nel 2013, appena cinque anni dopo, sempre le prime dieci famiglie avevano un patrimonio che era ormai superiore a quello del 30% più povero, avendo aumentato la loro ricchezza del 70%, mentre quella dei più poveri si riduceva e il pil si contraeva del 12%. Ancora più drammatici risultano essere i dati pubblicati da Oxfam a livello mondiale. Essi mostrano che nel 2013 una novantina di persone possedevano una ricchezza pari a quella del 50% più povero della popolazione mondiale. Di più, secondo le previsioni dello stesso ente, nel 2016 la ricchezza dell’1% della popolazione del globo supererà quella del restante 99%. La stessa Oxfam ha comunque dichiarato che essa domanderà al summit di Davos di intervenire in maniera urgente sulla questione. Va ricordato che negli ultimi decenni la politica si è occupata molto poco di lotta alle diseguaglianze, anzi numerosi fatti, come, ad esempio, la riduzione in alcuni importanti paesi del peso del fisco sulle grandi ricchezze e sui redditi più importanti, mostra che semmai essa tende a preoccuparsi soltanto di aumentarle e non certo di contrarle. Né se ne sono preoccupati molto di più, sino almeno allo scoppio della crisi, gli economisti neo-liberisti, cani di guardia del potere. 46 Semmai si sono sviluppate nel tempo diverse teorie consolatorie al riguardo. Ricordiamo così quella relativa alla curva di distribuzione del reddito, sviluppata da Kuznets ormai diversi decenni fa e molto apprezzata in giro; secondo tale impostazione, le diseguaglianze crescono nella prima fase dello sviluppo di un paese, per poi man mano ridursi al crescere del pil dello stesso. O quella del cosiddetto «gocciolamento» o «trickle-down», teoria parallela a quella precedente, secondo la quale la ricchezza si diffonde automaticamente e progressivamente dalle classi più ricche a quelle più povere. O possiamo citare, infine, la stessa ideologia meritocratica, in realtà anch’essa, nella sostanza, una giustificazione delle diseguaglianze. All’ombra di tali impostazioni intanto, ad esempio, gli stipendi dei manager statunitensi che ancora qualche decennio fa erano in media pari a 30–40 volte quelli dei loro operai, oggi sono cresciuti sino a 400–500 e anche mille volte. Poi è venuta la crisi a mostrare la vacuità delle concezioni sopra ricordate e a mettere in primo piano il problema della distribuzione. Più di recente, la pubblicazione del volume di Thomas Picketty «Il capitale del XXI secolo», libro pur per alcuni versi discutibile, ha molto contribuito a porre la questione sotto una luce molto forte. Esso ha incontrato un grande successo di vendite anche nel mondo anglosassone, segno che era stato toccato un nervo scoperto. Il Wall Street Journal ha perso le staffe ed accusato Piketty di essere un comunista, mentre anche il di solito più onesto ed equilibrato Financial Times ha cercato in modo scomposto, ma invano, di contestare le cifre dell’economista francese. Ma naturalmente, nonostante Piketty, non c’è da sperare molto nell’azione dei governi. Obama scopre il problema piuttosto tardi, probabilmente per tirare la volata al candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali, avendo proposto nei giorni scorsi di aumentare le tasse ai più ricchi e di ridistribuire il ricavato a favore del ceto medio. Intanto in Francia come in Italia gli attuali governi intonano degli inni d’amore verso i ceti più ricchi e di redistribuzione dei redditi non ne parlano affatto: sarebbe molto sconveniente. Né pensiamo, nonostante gli appelli di Oxfam, che faranno veramente qualcosa quelli di Davos. Preferiranno tenersi le loro angosce piuttosto che aprire il portafoglio. del 21/01/15, pag. 1/31 La trincea delle lobby LUIGI GUISO CON il progetto di riforma delle banche popolari approvato ieri dal Consiglio dei ministri (dieci di esse, le più grandi, dovranno diventare Spa entro un anno e mezzo) Renzi replica il modello di attacco frontale usato per l’articolo 18, questa volta contro una delle più forti e trasversali lobby finanziarie italiane. L’INIZIATIVA , se andrà a buon fine, può avere conseguenze rilevanti per la governance di una parte importante delle banche, migliorare il governo societario e accrescere il grado di concorrenza nel mercato del credito. Un aiuto ai correntisti, al risparmio e alla crescita. La parte centrale della riforma si riduce all’abolizione del voto capitario. Ovvero, della regola vigente per questa tipologia di banche per la quale il diritto di voto degli azionisti (soci) è indipendente dal numero di azioni (quote) detenute. Ogni socio ha diritto a un voto in assemblea, anche se possiede la metà del capitale. Quale è il problema di un simile assetto di governo? Principalmente la difficoltà del passaggio di mano del controllo. In una società per azioni è sufficiente comprare i titoli sul mercato per scalzare un gruppo di controllo. Chi è disposto a pagare in proprio per comprare azioni che gli consentano di assumere il controllo ha un fondato motivo per ritenere di poter gestire la società meglio di quanto non faccia il management in carica. Il 47 voto per azione garantisce che questo passaggio possa avvenire, quindi che si possa conseguire un vantaggio di efficienza. I potenziali guadagni possono essere notevoli ma saranno altrettanto grandi le perdite se il meccanismo di riallocazione del controllo funziona male. Nelle banche popolari (e in genere nelle società cooperative) il cambio di controllo richiede che qualcuno metta d’accordo la metà più uno dei soci per scalzare la gestione corrente, se questa non funziona. È semplice capire i limiti del meccanismo. Se un socio è insoddisfatto della gestione, per estromettere il gruppo dirigente deve prima riuscire a convincere la maggioranza dei soci e portarne in assemblea un numero sufficiente. È ragionevole pensare che questa capacità di mobilizzazione e di coordinamento esista se si tratta di piccole cooperative, dove bastano poche telefonate per spiegare le cose e convincere altri soci a partecipare a una azione collettiva contro la dirigenza in carica. Ma per cooperative con migliaia e migliaia di soci, come accade ad esempio nelle grosse banche popolari (la Popolare dell’Emilia ne ha 90mila), chi mai tra i singoli soci sarà disposto a spendere il proprio tempo (e i propri soldi) per radunare altri soci nella speranza di raggiungere una maggioranza che consenta di estromettere il management in carica? Il beneficio, in termini di maggior efficienza della banca, va a tutti i soci, mentre il costo di gestione del dissenso pesa solo sul coordinatore. Inoltre, la capacità di mobilizzazione del gruppo che esercita il controllo è molto maggiore di quella di qualunque socio, rendendo arduo qualsiasi piano per estromettere il vertice. Da questo punto di vista le vicende della Popolare di Milano sono emblematiche. Di fatto, nelle banche popolari la struttura cooperativa — e il voto capitario che la caratterizza — è servita ai gruppi di controllo di alcune per perseguire le loro ambizioni di costruzione di piccoli imperi, rimanendo al riparo dalla possibilità di un take over, come ad esempio nel caso del gruppo Banca Popolare dell’Emilia Romagna. L’abolizione da parte del governo del voto capitario è un passo da giudicare con estremo favore. Non si tratta di un attacco allo spirito mutualistico del movimento cooperativo, come i rappresentanti di queste banche si sono già affrettati a sostenere. Non lo è perché le grandi banche popolari di “mutualistico” hanno ben poco, mentre le piccole — che di cooperativo hanno ancora parecchio (soprattutto le Bcc) — conserveranno le loro caratteristiche. Di più: il provvedimento è una presa d’atto tardiva, perché nessun governo prima d’ora aveva osato opporsi al potere di influenza delle popolari più grandi. Se il governo riuscirà a portare a termine la riforma saremo di fronte a una svolta molto importante. Ma il fuoco di sbarramento della lobby è già cominciato e i cannoni spareranno dalle trincee di tutti gli schieramenti politici. A destra come a sinistra. La battaglia in Parlamento si annuncia durissima. Prepariamoci a vedere schierata tutta la potenza di interdizione di cui sono capaci le banche popolari, a riprova che di 'cooperativo' hanno poco, ma di politico moltissimo. Del 21/01/2015, pag. 10 Alitalia, ecco Montezemolo. Tra le proteste ARRIVA IL PIANO INDUSTRIALE MA I LICENZIATI ROVINANO LA FESTA. LE INCOGNITE: UTILI, FLOTTA E I 2. 250 LAVORATORI RIMASTI A TERRA 48 Pronti, via: ecco le proteste. Anzi, neanche il tempo di partire e i lavoratori licenziati provano a guastare il decollo del piano economico della nuova Alitalia targata Etihad. Roma, hotel Saint Regis, il parterre è al gran completo, a officiare il neo presidente Luca Cordero di Montezemolo, il vice (e ad della compagnia emiratina) James Hogan, e l’ad Silvano Cassano. Obiettivo: presentare il progetto industriale approvato lunedì dal nuovo cda. La cerimonia, però, slitta per un imprevisto: una ventina di lavoratori, aderenti alla Cub trasporti di Fiumicino – già alle prese con la vertenza groundcare (450 licenziati, altrettanti a rischio) – inscenano la protesta: “Brindano sulle macerie e annunciano obiettivi ambiziosi, ma intanto il costo di questa ennesima operazione è scaricato su lavoratori e cittadini”. Toni accesi, ma nessuna tensione. Pochi minuti e la presentazione inizia. A oggi Alitalia ha lasciato a terra 2. 251 lavoratori, una parte dei quali potrebbero rientrare. Quando? Non subito, spiega Cassano: “Prima risaniamo, poi assumeremo”. Non per forza tra gli ex lavoratori, ma “sul mercato”. Lo stesso che, nelle speranze dei vertici di AlitalaSai, (49 % Etihad, 51 la vecchia Alitalia Cai con Poste) dovrebbe premiare la nuova strategia: meno aerei e più rotte, con l’idea di rivedere utili fra tre anni: “Speriamo di arrivare a 100 milioni”, si lascia andare Cassano. Il piano, elaborato direttamente dai tecnici di Abu Dhabi parla però di 46 milioni netti nel 2017, dopo perdite di 200 nel 2015 e 44 il prossimo anno. La distanza è nel solco tracciato da Montezemolo: i progetti – spiega l’ex numero uno di Ferrari – “sono realisticamente solidi”. Ma c’è un però: “Non dobbiamo dimenticare che Alitalia perde risorse ogni giorno”. Nei primi nove mesi del 2014, siamo a 384 milioni di euro e una parte dell’esborso Etihad (560 milioni) andrà a rilevare quel che resta della polpa di Alitalia: il 75 % del programma Mille Miglia, e, nel 2016, 5 coppie di preziosi slot all’aeroporto di Londra Heathrow (60 milioni) che l’ex compagnia di bandiera dovrà poi affittare. Anche Hogan ostenta ottimismo: “Non siamo investitori mordi e fuggi”, spiega il manager australiano: “Alitalia sarà la compagnia più sexy, e deve assolutamente ritornare alla redditività”. Dettaglio non da poco, visto che Etihad finora ha divorato partecipazioni in diverse compagnie, da Ari Berlin a Ajet Airways, a oggi quasi tutte in perdita. L’obiettivo è collegare quanti più Hub ad Abu Dhabi. Gli investimenti non toccheranno la flotta, che anzi verrà ridimensionata, con tagli ai voli nazionali (-26 %) e internazionali (-5, 2 %): nel 2018 la nuova Alitalia avrà meno aerei della compagnia dei “capitani coraggiosi”. Un controsenso. Non così per Cassano: “Aumenteremo la frequenza e le rotte, non serve avere nuovi aerei”. “Alitalia non dovrà più dipendere dalle banche” chiude Montezemolo. E a chi gli chiede se arriverà un accordo con Ntv (di cui è stato presidente ed azionista), adombrando un conflitto d’interessi: “Non pensiamo sempre male, gli aeroporti devono essere collegati con l’Alta velocità: accordi ci saranno per forza, non si sa ancora con chi”. 49