Reportage dal Senegal: Saint-Louis e la Langue de

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Reportage dal Senegal: Saint-Louis e la Langue de
Francesco
Ricapito
Reportage dal Senegal: Saint-Louis e la Langue de Barbarie –
Parte 2
9 gennaio 2017
Giorno 2:
Ci svegliamo intorno alle otto, freschi come rose. Dormire qui, con solo il rumore dell’acqua, è
veramente un piacere.
La colazione è a base di pane e marmellate locali: tra queste quella di mango e pain de singe, pane
di scimmia, il frutto del baobab, l’albero simbolo del Senegal.
Il programma della mattinata prevede come prima attività un giro in piroga fino alla Langue de
Barbarie, la striscia di terra che si trova davanti al nostro campement. A guidare la piroga è
Abdulaye, un signore sulla cinquantina con un francese stentato e dai modi gentili. Risaliamo il
fiume verso nord, passando davanti ad un paio di villaggi e ad altre piroghe ormeggiate che
ondeggiano seguendo la corrente.
In breve tempo arriviamo nel punto in cui la striscia di terra termina e il fiume Senegal si unisce al
mare. Scendiamo dalla piroga e un nugolo di granchi scappa via impaurito. L’acqua è piuttosto
agitata e il vento vela di bianco le creste delle onde. Un luogo isolato e pacifico, ma dove allo stesso
tempo si avverte la possanza di madre natura.
Ritorniamo alla piroga, Abdoulaye gira la prua e cominciamo a tornare verso sud
e il campement. Ci fermiamo all’altezza di questo ma
sulla riva opposta. Abdoulaye ci dice che se gli diamo 1500 franchi in più ci lascia qui un’ora a
passeggiare e poi ritorna a prenderci, altrimenti ci riporta subito indietro. Questo non era negli
accordi, o almeno noi avevamo capito diversamente, decidiamo comunque di restare. Ci
allontaniamo dalla riva, attraversiamo una sottile striscia di vegetazione con qualche albero e poi
sbuchiamo sull’altro versante della Langue de Barbarie. Anche qui il paesaggio è desolato e la
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spiaggia molto vasta. Probabilmente siamo le prime persone della giornata a venire qui e per terra ci
sono solo le impronte dei vari animali notturni. Riconosco quelle di un varano, di un cane e anche di
qualche uccello. Il vento solleva la sabbia rendendo sfocato l’orizzonte in tutte le direzioni e creando
un’atmosfera eterea, quasi surreale. Anche qui ci sono moltissimi granchi che non appena ci
avviciniamo scappano oppure si rifugiano nelle loro piccole tane.
Mentre Giada e Lavinia camminano io mi siedo sulla sabbia. Dopo poco i granchi escono dalle loro
tane e cominciano timidamente ad avvicinarsi da ogni direzione. Non passa molto che me li ritrovo
quasi addosso. Probabilmente mi credono un animale ferito o morente. Sono costretto ad alzarmi per
fargli capire che sto bene e
mia ora.
che non è ancora giunta la
Aspettiamo Abdoulaye, il quale arriva con una calma molto senegalese e torniamo così al
campement. Paghiamo, chiediamo di chiamarci un taxi e poi partiamo. Il tassista è molto premuroso
e non fa che chiederci se abbiamo già un hotel dove stare, se sappiamo già dove mangiare e se
c’interessa uno spettacolo musicale per la sera. Non ci serve nulla di tutto ciò, quello di cui abbiamo
bisogno sono solo le indicazioni per arrivare all’hotel. La padrona, madame Marie, al telefono è una
persona molto ansiosa e nei giorni scorsi ci ha già chiamato varie volte per essere sicura che
venissimo davvero.
Ora siamo noi a chiamarla, passandole poi il tassista in modo che possa dare le indicazioni giuste. La
mancanza di punti di riferimento nelle città senegalesi è veramente tragica per noi poveri turisti.
Riusciamo a trovare il posto: una porta di ferro c’introduce in un bellissimo patio in stile coloniale
restaurato di fresco e abbellito da molte piante. Madame
Marie è una corpulenta signora africana dall’andatura
ondeggiante e dai vestiti sgargianti. Ci accoglie maternamente e ci mostra la camera al piano di
sopra. Più che un hotel questo è un bed&breakfast. La camera ha tre letti, una finestra e un
armadio, il bagno è in comune con la camera vicino alla nostra. Per il momento non c’è elettricità,
manca da circa tre ore e non si sa quando tornerà. Nulla di strano, qui capita spesso.
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Facciamo il punto della situazione e poi usciamo in direzione dell’isola di Saint-Louis, qui infatti
siamo ancora sulla terraferma, dove gli hotel ovviamente costano molto meno. Per portarci fino alla
strada principale viene con noi la nipote di Madame Marie che avrà al massimo dieci anni. La strada
è trafficata e affollata. Ci destreggiamo tra negozi e bancarelle all’aperto ed infine raggiungiamo il
Pont Faidherbe: un ponte lungo circa 500 metri che attraversa il fiume Senegal unendo la
terraferma all’isola dove si trova il vecchio centro urbano. Venne costruito nel 1897 e forse a causa
delle sue grandi arcate in ferro è stato per lungo tempo attribuito a Gustave Eiffel, notizia non vera.
Nel 2007 versava in condizioni talmente pessime che rischiava di crollare e così iniziò un restauro
che durò fino al 2011 e che venne finanziato dalla Francia. Dal 2000 il ponte è Patrimonio
dell’UNESCO, così come tutto il centro storico.
L’isola di Saint-Louis cominciò ad essere un importante crocevia commerciale dal XVII secolo grazie
alla sua posizione strategica. Da qui infatti partivano le spedizioni verso l’interno del continente e
pure i bastimenti carichi di beni come la gomma arabica e purtroppo anche gli schiavi. La città
raggiunse il suo massimo splendore verso la fine del XIX secolo, quando divenne la sede del governo
dell’Africa Occidentale Francese. Già dal 1902 questa fu trasferita a Dakar e il commercio della
gomma venne surclassato da quello delle arachidi. Di quell’epoca ci restano numerosi edifici in stile
coloniale, oggi molto spesso in rovina ma proprio per questo ancor più affascinanti. Negli ultimi anni
l’isola è diventata una delle mete più famose del Senegal, anche grazie alla sua animata vita
culturale che prevede numerosi festival ed un buon numero di gallerie d’arte.
Attraversiamo il ponte e c’infiliamo nella prima via a destra con l’unico obiettivo di cercare un
pranzo. Troviamo un ristorante consigliato dalla mia guida: piccolo, semplice e ragionevolmente
pulito. Prediamo del djebu djen: riso con pesce e verdure. Un piatto ricco e completo che all’inizio
della nostra esperienza non ci entusiasmava particolarmente, ma che ora ci siamo resi conto di voler
mangiare molto spesso.
Quando usciamo è pieno pomeriggio e il sole batte senza pietà. Camminiamo paralleli al mare verso
la zona nord dell’isola: Saint-Louis non è grande, lunga circa due chilometri e larga meno di uno, non
ci mettiamo quindi molto a raggiungerne l’estremità. Qui spira un vento salmastro, un paio di
ragazzi pescano con solo un filo di nylon e un cane dorme disteso sulla strada. Torniamo indietro e
costeggiamo alcuni vecchi edifici per cui la città è famosa. Anche se spesso abitati, le facciate sono
in genere lasciate a loro stesse. All’inizio provoca quasi rabbia vedere questo spettacolo, ma quando
se ne trovano alcuni di restaurati e si vede che hanno perso tutto il fascino, si capisce che forse è
meglio così. Mi ricordano un po’ i grandi palazzoni del centro di Napoli, se fossero tutti restaurati la
città perderebbe sicuramente molto del suo “colore”.
In breve arriviamo al Place Faidherbe, al cui centro svetta la statua dell’omonimo governatore che
qui intraprese molti progetti di miglioramento della città. Il suo vecchio palazzo oggi ospita la sede
del governo regionale e al suo fianco si trova la cattedrale, risalente al 1828. Superata la piazza
camminiamo fino alla punta sud dell’isola. Qui è più tranquillo e ci sono meno turisti. Giusto il tempo
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di una bibita fresca e poi ripartiamo alla volta di Guet N’Dar, il villaggio di pescatori situato sulla
terraferma, dalla parte opposta dalla quale siamo venuti. In questo fazzoletto di terra di circa 0,3
km2 vivono circa 20.000 persone e per la maggior parte si tratta di pescatori e delle loro famiglie.
Una densità degna delle aree urbane più affoll
pianeta.
ate del
Già dal ponte vediamo un numero incredibile di piroghe, le tipiche imbarcazioni da pesca senegalesi.
Le più piccole servono per le battute di solo un giorno, mentre quelle più grandi possono stare in
mare anche due settimane. Sono tutte decorate con motivi geometrici, bandiere di varie nazionalità,
scritte religiose e nomi di familiari, un vero spettacolo per gli occhi.
Ci troviamo di nuovo sulla Langue de Barbarie e continuando verso ovest, dopo qualche centinaia di
metri arriviamo in vista dell’Oceano. Qui veniamo subito abbordati da un signore che molto
gentilmente ci chiede da dove veniamo e si offre di farci scendere fino alla spiaggia. Conosco già il
giochetto: dopo una breve visita guidata non richiesta ci chiederà qualcosa in cambio. Passiamo per
un vicoletto tra le baracche dei pescator
i e arriviamo ad
una spiaggia quasi interamente coperta d’immondizia e pervasa da un odore di pesce e fogne. Le
piroghe sulla spiaggia danno un tocco di colore ad un paesaggio che altrimenti sarebbe desolante.
Alla nostra destra, verso nord, a pochi chilometri, c’è il confine con la Mauritania. Il nostro nuovo
amico ci spiega che negli ultimi anni i grandi pescherecci asiatici hanno pescato la maggior parte del
pesce e che questi sono tempi di magra per loro. Quando risaliamo, puntuale arriva la richiesta, che
però mi lascia spiazzato: ci chiede una busta di latte in polvere per i suoi figli. Ci avesse chiesto soldi
ce ne saremmo andati infastiditi, questa però mi pare una richiesta ragionevole e così lo
accompagniamo in una boutique e gli compriamo la bustina. Può anche darsi che appena ci giriamo
lui tornerà a recuperare i soldi e a restituire la busta, ma ogni tanto bisogna pur credere
nell’umanità.
Torniamo sull’altro versante della Langue de Barbarie e camminiamo lungo la strada costiera dove
sono parcheggiate la maggior parte delle piroghe e dove si concentrano i pescatori. La folla è
chiassosa: cani, capre, asini e cavalli pascolano in libertà tra i mucchi di plastica e resti di pesce. I
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rifiuti sono talmente tanti che quasi non si vede il terreno. Nugoli di mosche si concentrano dove c’è
più pesce e al nostro passaggio siamo spesso guardati storti male. Gruppi di bambini giocano tra le
piroghe fermandosi quando passiamo. Arriviamo alla fine della strada e torniamo indietro. Nessuno
ci avvicina ma mi pare di avvertire una certa ostilità nei nostri confronti. Mi sento un intruso:
l’ennesimo bianco ricco venuto in mezzo ai neri a vedere quanto sono poveri e quanto è affascinante
la loro povertà.
Ritorniamo al ponte, riattraversiamo la piazza e poi di nuovo il Pont Faidherbe. Una volta in hotel
l’elettricità non è ancora tornata e così siamo costretti a farci la doccia quasi al buio. Per fortuna che
almeno ci hanno procurato una candela per la camera. Madame Marie ci dice che a quanto pare il
blackout riguarda non solo tutta la regione, ma anche il Mali e la vicina Mauritania.
Verso le venti usciamo, troviamo un taxi che ci porta fino a Place Faidherbe, da qui raggiungiamo
Salvio, il nostro coordinatore ed alcuni degli altri ragazzi del servizio civile che lavorano qui a SaintLouis. Tutti insieme andiamo a mangiare in un ristorante là vicino. Il tutto a lume di candela visto
che l’elettricità non è ancora tornata. Sarà per questo che aspettiamo per circa un’ora i nostri piatti,
anche in cucina stanno lavorando con le sole candele. Dopo cena andiamo all’istituto di cultura
francese, dove si sta svolgendo un concerto. Uno dei motivi che ci ha spinto a venire a Saint-Louis
proprio in questi giorni è un festival musicale che si chiama Métissons: normalmente questo prevede
concerti e spettacoli in giro per la città, ma a causa della mancanza di elettricità il tutto è stato
spostato proprio all’istituto di cultura francese, dove hanno a disposizione un generatore
indipendente.
Grazie alla mancanza d’inquinamento luminoso possiamo godere di un bellissimo cielo stellato a cui
le affascinanti facciate in rovina delle vecchie case coloniali fanno degna cornice. Sembra quasi di
trovarsi sul set di un film western.
All’istituto francese troviamo un piccolo mercatino di Natale ma soprattutto un bel palco con una
nutrita band con ben sei donne che cantano. Il genere è una specie di jazz rivisitato in chiave
africana. Le sei cantanti si alternano sul palco e una in particolare si fa notare per la sua bravura:
una voce rauca, rugginosa, per certi versi simile a quella di Janis Joplin. Più di una volta ottiene una
standing ovation dal pubblico e a me fa venire i brividi.
Finito il concerto prendiamo un altro taxi per tornare in hotel. L’elettricità non è ancora tornata e
camminare per le strade deserte della periferia sotto un cielo pieno di stelle è magnifico.
Il giorno dopo ci alziamo verso le otto, consumiamo un’ottima e abbondante colazione e poi partiamo
alla volta della gare routière. Anche stavolta ci va bene e troviamo posto nella fila centrale del sept
place che va a Thiès. Questi sono delle vecchie Peugeot modificate per avere tre posti in più e che
vengono usate come trasporto tra una città e l’altra. La fila dietro si riempie abbastanza in fretta ma
ancora non partiamo. Stiamo aspettando che arrivi un pacco da consegnare. Nel frattempo arriva
pure un montone che dopo essere stato avvolto in un sacco fino al collo viene legato sul tetto. Il
poveretto esprime tutto il suo disappunto con un sonoro belato.
Per strada non c’è molto traffico, ma c’imbattiamo in un brutto incidente: un’auto si è scontrata con
un camion che trasportava vacche vive, il quale si è ribaltato fuori strada. Alcune delle vacche si
sono salvate ma alcune giacciono per terra in posizioni innaturali e anche piuttosto impressionanti. I
tre uomini vestiti di bianco che occupano la fila dietro la nostra chiedono di fermarsi per dare
un’occhiata e quando ripartiamo discutono animatamente, e anche piuttosto rumorosamente, con
l’autista dell’accaduto.
Arriviamo a Thiès dopo circa quattro ore, qui cambiamo e troviamo un altro sept place per Mbour.
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Stavolta ci va male: siamo gli ultimi e ci tocca la fila dietro. Io entro e capisco subito che non ci sto.
Quando quello davanti a me si siede devo sollevare le gambe per poterci stare e ciononostante tocco
ancora con la testa sul tettuccio. Sento già vampate di calore e di sudore e sono abbastanza sicuro
che vomiterò a breve.
Il viaggio dura un’ora ma mi sembra non finire mai: devo costantemente lottare per trovare una
posizione alle mie gambe, alla mia testa e alle mie braccia e nel frattempo devo mantenere lo
sguardo avanti in modo da rimandare il momento in cui vomiterò.
Non so come, arriviamo a Mbour senza che questo succeda. Esco con la sensazione di non aver mai
fatto un viaggio così scomodo e giurando a me stesso di non sedermi mai più nei posti dietro di un
sept place.
Un altro taxi ci porta fino a casa. Un viaggio breve nelle tempistiche ma non nei chilometri. Abbiamo
visitato un angolo di Senegal diverso da quello dove viviamo, imparando a conoscerne ed
apprezzarne altri aspetti che prima non conoscevamo.
Links:
https://it.wikipedia.org/wiki/Saint-Louis_(Senegal)
Francesco Ricapito
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Gennaio 2017