25.1 - Histmed.it

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MEDICINA NEI SECOLI
ARTE E SCIENZA
GIORNALE DI STORIA DELLA MEDICINA
JOURNAL OF HISTORY OF MEDICINE
Fondato da / Founded by Luigi Stroppiana
QUADRIMESTRALE / FOUR-MONTHly
NUOVA SERIE / NEW SERIES
VOL. 25 - No 1
ANNO / YEAR 2013
sommario
articoli
Introduzione
Gino Fornaciari ....................................................................................................................................... P. 5
CENNI DI STORIA DELLA PALEOPATOLOGIA IN ITALIA
GINO FORNACIARI ....................................................................................................................................... P. 13
I TUMORI IN PALEOPATOLOGIA: L’EVIDENZA DALLE MUMMIE
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari ............................................................................................. P. 35
DNA antico: principi e metodologie
FLAVIO De Angelis, GABRIELE Scorrano, OLGA Rickards ...................................................... P. 51
ASPETTI DI PALEOPATOLOGIA DELLA POPOLAZIONE DI ERCOLANO (79 d.C.)
Sciubba MARIANGELA, Paolucci Assunta, D’Anastasio Ruggero, Capasso Luigi ..... P. 85
IL CONTRIBUTO DELL’ANALISI TRAUMATOLOGICA NELLA
RICOSTRUZIONE DELLO STILE DI VITA DELLA COMUNITÀ DI CASTEL
MALNOME (ROMA, I-II SEC. D.C.).
PAOLA CATALANO, CARLA CALDARINI, ROMINA MOSTICONE, FEDERICA ZAVARONI ............. P. 101
SALUTE E MALATTIA NELLA ROMA IMPERIALE ATTRAVERSO
LE EVIDENZE SCHELETRICHE
Simona Minozzi, Paola Catalano, Stefania di Giannantonio e Gino Fornaciari ... P. 119
RICOGNIZIONI CANONICHE ED INDAGINI SCIENTIFICHE SULLE
MUMMIE DEI SANTI
Ezio Fulcheri ............................................................................................................................................. p. 139
corpi, mummie e testi per una storia dell’imbalsamazione
funebre in italia
Silvia marinozzi ....................................................................................................................................... P. 167
Scheletrizzare o mummificare: pratiche e strutture per
la sepoltura secondaria nell’Italia del Sud durante l’età
moderna e contemporanea
Antonio Fornaciari ............................................................................................................................... p. 205
LE MUMMIE EGIZIE COME MANUFATTI ANTROPOLOGICI
Giovanni Bergamini................................................................................................................................. P. 239
I reperti umani antichi nei musei: ricerca, conservazione e
comunicazione. Le esperienze del Museo di Antropologia ed
Etnografia dell’Università di Torino
Rosa Boano, Renato Grilletto, Emma Rabino Massa .......................................................... P. 251
LA RICERCA MEDICA ATTRAVERSO LA RICERCA STORICA: MOSTRI E
MOSTRUOSITÀ. DI UNA MOSTRUOSITÀ PARASSITARIA FELICEMENTE
RISOLTA CON OPERAZIONE CHIRURGICA
Laura Ottini, Annarita Franza, Piera Rizzolo, Mario Falchetti,
Raffaella Santi, Gabriella Nesi ..................................................................................................... P. 267
collezioni ANATOMICHE antiche per musei moderni:
il museo patologico dell’università di firenze
Gabriella Nesi, Raffaella Santi ..................................................................................................... P. 295
Recensioni ............................................................................................................................................. P. 307
libri ricevuti ..................................................................................................................................... P. 319
Notiziario .............................................................................................................................................. P. 325
contents
articles
Introduction
Gino Fornaciari ....................................................................................................................................... P. 5
BRIEF HISTORY OF PALEOPATHOLOGY IN ITALY
GINO FORNACIARI ....................................................................................................................................... P. 13
Tumors in paleopathology: evidences from mummies
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari ............................................................................................. P. 35
Ancient DNA: principles and methods
FLAVIO De Angelis, GABRIELE Scorrano, OLGA Rickards ...................................................... P. 51
Paleopathology of Herculaneum’s population (79 d.C.)
Sciubba MARIANGELA, Paolucci Assunta, D’Anastasio Ruggero, Capasso Luigi …..P. 85
THE CONTRIBUTE OF THE TRAUMA ANALYSIS TO RECONSTRUCT THE
LIFESTYLE OF CASTEL MALNOME COMMUNITY (ROME, I-II CENT. A.C.)
PAOLA CATALANO, CARLA CALDARINI, ROMINA MOSTICONE, FEDERICA ZAVARONI ............. P. 101
Palaeopathology in Roman Imperial Age
Simona Minozzi, Paola Catalano, Stefania di Giannantonio e Gino Fornaciari... P. 119
Canonic Recognitions and Scientific Investigations on the
Mummies of Saints
Ezio Fulcheri ............................................................................................................................................. p. 139
BODIES; MUMMIES AND TEXTS FOR AN HISTORY OF EMBALMING IN
ITALY
Silvia marinozzi ....................................................................................................................................... P. 167
SKELETON OR MUMMY: PRACTICES AND STRUCTURES FOR
SECONDARY BURIAL IN SOUTHERN ITALY IN MODERN AND
CONTEMPORARY AGE
Antonio Fornaciari ............................................................................................................................... p. 205
EGYPTIAN MUMMIES AS ANTHROPOLOGICAL ARTIFACTS
Giovanni Bergamini................................................................................................................................. P. 239
HUMAN REMAINS IN MUSEUMS: RESEARCH, PRESERVATION AND
COMMUNICATION. THE EXPERIENCE OF TURIN UNIVERSITY MUSEUM
OF ANTHROPOLOGY AND ETNOGRAPHY
Rosa Boano, Renato Grilletto, Emma Rabino Massa .......................................................... P. 251
MEDICAL RESEARCH THROUGH HISTORICAL RESOURCES.
TALKING OBJECTS: A CASE OF A PARASITIC PERINEAL MONSTROSITY
Laura Ottini, Annarita Franza, Piera Rizzolo, Mario Falchetti, Raffaella Santi,
Gabriella Nesi .......................................................................................................................................... P. 267
antique anatomical collections for contemporary
museums
Gabriella Nesi, Raffaella Santi ..................................................................................................... P. 295
Essay review ....................................................................................................................................... P. 307
books received ................................................................................................................................ P. 319
news ............................................................................................................................................................. P. 325
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 5-12
Journal of History of Medicine
Introduzione/Introduction
Gino Fornaciari
Università degli Studi di Pisa. I
Il presente volume è una miscellanea esemplificativa degli studi condotti nel campo della paleopatologia e dell’archeologia funeraria, e
delle nuove prospettive che queste discipline offrono per la museologia storico-medica, nell’ambito dei progetti di ricerca che nell’ultimo decennio si sono avvalsi di collaborazioni sinergiche tra professionalità diverse. I contributi raccolti sono quindi rappresentativi
delle ricerche effettuate, in un’ottica trasversale e interdisciplinare
che ha permesso di esaminare i diversi aspetti che i reperti umani
antichi offrono per la storia biologica e culturale dell’uomo.
La paleopatologia si può infatti inquadrare sotto i punti di vista più
diversi, dalle ricerche storiche alla biologia molecolare: il saggio
sulla sua storia in Italia rivela che i primi contributi scientifici datano
alla fine del XIX secolo, anche se gli esordi della disciplina si erano
avuti già prima, con alcuni studi sulle mummie, in seguito all’attenzione internazionale sulle mummie egizie suscitata in Europa dalla
Campagna di Napoleone in Egitto (1798-1801). Nella seconda metà
dello scorso secolo, la paleopatologia italiana ha avuto il merito di
focalizzare l’attenzione del mondo accademico antropologico ed
archeologico sullo studio paleopatologico dei resti scheletrici, diffondendo le ricerche paleopatologiche presso quasi tutti i gruppi
di ricerca interessati. I contributi fondamentali dell’Italia in questo
settore sono rappresentati da scoperte sia nel campo della patologia
scheletrica, come il più antico caso conosciuto di tubercolosi in uno
scheletro del Neolitico antico della Liguria, sia in quello dei tessuti
molli, come lo studio ultrastrutturale, immunologico e molecolare
di antichi virus, batteri, protozoi e tumori maligni. L’applicazione
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Gino Fornaciari
delle moderne tecnologie biomediche (TC, laparoscopia, istologia,
immunoistochimica, estrazione e sequenziamento del DNA antico e
isotopi stabili) allo studio delle mummie, iniziato in Italia sin dagli
anni ’80 in maniera pionieristica, è diventata attualmente una prassi
quasi di routine. Negli ultimi decenni i paleopatologi hanno ampliato il loro orizzonte di studio nel nostro paese, sviluppando un interesse crescente per le discipline archeologiche ed antropologiche,
oltre che mediche.
L’articolo di Giovanni Bergamini, prendendo lo spunto dalla accurata scheda ministeriale ICCD per le mummie egizie, giunge alla conclusione che, fra i materiali di studio conservati nei nostri musei, le
classiche mummie egizie costituiscono tuttora un fondamentale materiale di studio, che deve essere assimilato ad un’autentica “capsula
del tempo” comprendente non soltanto l’individuo inumato, le sue
caratteristiche fisiche, le sue eventuali patologie, il suo ruolo sociale,
ma anche l’ambiente naturale, le risorse, le tecniche di produzione,
le concezioni magico-religiose e le tradizioni del tempo in cui visse.
In sostanza, si tratta di uno straordinario insieme di dati da correlare
tra loro in un organico contesto, punto di partenza per ricerche interdisciplinari, finalizzate ad una conoscenza sempre più approfondita
di questo particolare “oggetto complesso”, che si rivela un vero e
proprio spaccato del mondo in cui ha vissuto e che l’ha prodotto.
Il contributo di Rosa Boano et al. puntualizza che in Italia, a partire
dal XVIII secolo, musei e altre istituzioni scientifiche raccolgono,
espongono e studiano i reperti umani antichi. Ancora oggi essi sono
oggetto di analisi multidisciplinare in cui l’archeologia, la storia, la
biologia, le scienze naturali, le scienze mediche e forensi, collaborano per affrontare problematiche molto complesse quali la variabilità, la microevoluzione, i meccanismi di adattamento ambientale
e la patocenosi. Recentemente, studi in campo istochimico, immunoistochimico e biomolecolare, hanno dato ulteriore dimostrazione delle molteplici possibilità di analisi di questi reperti in ambito
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Introduzione
paleogenetico. In ultimo, la diagnostica per immagini ha aperto un
nuovo settore di studio rappresentato dalle “autopsie virtuali” che
permettono esplorazioni dettagliate dei corpi antichi senza arrecare il minimo danno al reperto. Da queste premesse si evince che i
resti umani hanno un inestimabile valore scientifico e che le nostre
conoscenze sul passato possono venire continuamente riconsiderate
alla luce delle nuove tecniche di indagine applicate allo studio dei
resti fisici. Tuttavia, affinché i reperti umani continuino ad essere una
risorsa scientifica per la comunità, essi richiedono una considerazione “speciale” nella fase dello studio in laboratorio, di deposito nei
magazzini e di esposizione nei musei. In questa prospettiva di rivalorizzazione delle collezioni antropologiche, i musei di antropologia
oltre a rivestire il ruolo di enti preposti alla salvaguardia e alla tutela
dell’archivio antropologico devono assumere una funzione più dinamica diventando sedi di studio, di divulgazione culturale e luoghi
preposti alla raccolta dei reperti provenienti dal territorio.
I saggi di Gabriella Nesi e di Raffaella Santi dell’università di Firenze
e di Laura Ottini et al. dell’università di Roma “La Sapienza” ribadiscono che i musei di anatomia patologica, che conservano non solo
casi eccezionali della patologia umana, come il teratoma sacro-coccigeo del Pellizzari conservato a Firenze, ma anche il materiale chirurgico ed autoptico della pratica medica quotidiana, hanno svolto
un insostituibile ruolo didattico per generazioni di medici in formazione e costituiscono una testimonianza tangibile della ricerca medica che, quando queste istituzioni sono sorte, era strettamente legata
all’osservazione macroscopica anatomo-patologica. Pertanto, il museo deve essere considerato a tutti gli effetti un archivio biologico,
suscettibile di essere indagato mediante le moderne tecniche radiologiche, istopatologiche e biomolecolari. Infatti, i reperti anatomici del
passato documentano un’epoca profondamente diversa dalla nostra
e consentono di studiare malattie le cui caratteristiche epidemiologiche o la cui storia naturale sono state notevolmente modificate dai
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Gino Fornaciari
progressi diagnostici e terapeutici. Infine, molte delle collezioni anatomiche italiane comprendono reperti di indubbio valore artistico,
quali le riproduzioni in cera, in legno o in gesso di distretti anatomici
o di quadri anatomo-patologici. Tali opere rappresentano strumenti
educativi per il giovane medico, non solo degli aspetti tecnico-scientifici ma anche di quelli culturali ed umanistici della professione che
si accinge ad esercitare.
L’articolo di De Angelis et al. prende lo spunto dalla storia della
paleogenetica, la quale ha origini relativamente recenti. I primi tentativi, effettuati utilizzando cloni batterici, di amplificare tracce di
materiale genetico da frammenti tissutali mummificati non vanno
oltre gli inizi degli anni ‘80. Anche gli studi museologici evidenziano come il DNA antico possa esser considerato un utile strumento per l’analisi della variabilità genetica delle popolazioni passate.
Nonostante le numerose limitazioni imposte sia dal carattere estremamente labile del aDNA che dagli approcci metodologici di ultima generazione, è evidente come tale componente possegga delle
qualità intrinseche che possano esser tramutate in notevoli ambiti di
ricerca differenziali.
Passando al periodo romano, lo studio delle grandi necropoli suburbane della Roma imperiale ha fornito risultati insperati. Come risulta
dal contributo di Paola Catalano et al., la popolazione presentava
una elevata frequenza di fratture, con una lieve prevalenza maschile. Tra gli individui con fratture, una percentuale non trascurabile
mostra evidenze traumatiche su più di un distretto scheletrico, e ciò
potrebbe essere compatibile con un modello di vita logorante e probabilmente pericoloso. Nel campione studiato, la risposta dell’osso
alle infezioni sovrapposte è spesso visibile come periostite, ma non
si osservano esempi di vera osteomielite. In alcuni casi, sono stati
osservati dei vizi di consolidazione, e infatti l’artrosi secondaria risulta frequente proprio negli individui con fratture. In conclusione, i
dati ottenuti suggeriscono che la popolazione dell’antica Roma fosse
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Introduzione
soggetta a dure condizioni di vita e di lavoro, ma consentono anche
di ipotizzare che dovevano esistere trattamenti medici efficaci e un
buon grado di cooperazione sociale all’interno della comunità.
Lo studio paleopatologico dei resti scheletrici di età imperiale ha
permesso, come si evince dal contributo di Simona Minozzi, di ampliare grandemente la casistica delle malattie diffuse a Roma e nel
suburbio e, in alcuni casi, di documentare “biologicamente” le fonti
storiche che ne descrivevano la presenza. Alcune di queste malattie
possono essere messe in rapporto con il declino igienico-sanitario
di cui doveva soffrire la città di Roma, con le sue strade affollate e
sporche, dove la diffusione di infezioni e malattie doveva essere favorita. Infatti, se da una parte l’aumento di popolazione andò sicuramente di pari passo ad un’estesa pianificazione della città, con l’organizzazione delle risorse idriche e degli scarichi fognari, dall’altra
la pressione demografica e le scarse misure igieniche devono avere
messo in crisi la salute della popolazione, in particolare nelle classi
meno elevate. Benché sia difficile ricostruire un quadro epidemiologico esauriente, i numerosi casi osservati nel record archeologico
romano cominciano a farci comprendere le condizioni di salute e le
malattie maggiormente diffuse nella Roma antica.
Diversa, almeno in parte, è la situazione di Ercolano, come si può
rilevare dal saggio di Sciubba e coll., in quanto le osservazioni riguardano una popolazione di un piccolo municipio, e inoltre “vivente” nel 79 d.C. Le fonti paleopatologiche dirette, rappresentate
da resti scheletrici e da resti organici quali capelli e alimenti, hanno
consentito di delineare un quadro completo dell’assetto paleopatologico della comunità ercolanese in epoca romana. Come nel suburbio romano, anche ad Ercolano la patocenosi si presenta per lo più
dominata da patologie legate alle attività lavorative usuranti, come
artrosi, osteocondriti e soprattutto entesopatie. I bambini e gli adolescenti non erano esentati dai lavori usuranti, come dimostra l’elevata frequenza della sindesmosi costo-clavicolare nelle prime fasce
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Gino Fornaciari
di età. Inoltre, una parte consistente della popolazione era affetta da
patologie di natura infettiva, in particolare dalla brucellosi, che colpiva ben il 17% della popolazione, evidentemente a causa del largo
uso del latte ovino, sia fresco che trasformato in prodotti caseari. Da
segnalare anche la presenza di tubercolosi.
Passando al Medioevo e all’Età postmedievale, la paleopatologia
si interessa anche delle mummie dei Santi che, come mette bene
in evidenza Ezio Fulcheri, costituiscono un grande patrimonio storico ed artistico, stratificatosi nel corso dei secoli. Ogni volta che
si procede all’esame di un corpo mummificato si scoprono dettagli
e particolari sulla storia fisica e patologica del personaggio che si
integrano con il profilo storico e agiografico e ne completano alcuni tratti. Ovviamente l’indagine antropologica e paleopatologica di
questi materiali non può e non deve essere condotta con la metodologia abituale di studio propria della paleopatologia; infatti il primo
obiettivo è quello della conservazione del reperto. Per tale ragione
la ricognizione non può e non deve prevedere assolutamente indagini invasive o dissezioni che, anche se interessanti, danneggerebbero
l’integrità del corpo. Nel corso delle ricognizioni dei Santi vengono
comunque rilevati gli aspetti antropologici e le caratteristiche fisiche,
mentre le osservazioni di carattere paleopatologico devono basarsi
solo sull’ispezione delle parti esposte, sugli elementi forniti dalla
diagnostica per immagini e su minimi prelievi mirati. Oggi le tecnologie moderne permettono indagini non invasive o minimamente
invasive in analogia a quanto avviene nella diagnostica medica; tali
metodologie diagnostiche hanno soppiantato le procedure e le tecniche diagnostiche un tempo impiegate sui corpi mummificati.
Un capitolo a parte è quello costituito dalla paleopatologia oncologica. Come si evince dal contributo di Valentina Giuffra, i casi di
tumori fino ad ora diagnosticati nelle mummie e pubblicati in letteratura sono in totale 15, di cui solo 4 rappresentano neoplasie maligne.
In particolare, secondo la classificazione basata sul tipo di cellula e
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Introduzione
tessuto di origine, sono attestati 3 tumori maligni epiteliali e solo 1
di tipo connettivale (rabdomiosarcoma); anche tra i tumori benigni
la maggior parte sono di tipo epiteliale e solo 2 sono di origine connettivale. La scarsità di neoplasie nelle mummie indica certamente
una minore incidenza di queste patologie nelle società del passato.
L’alta aspettativa di vita delle popolazioni attuali spiega almeno in
parte l’elevata incidenza del cancro. Nelle società del passato in genere l’età media della vita era molto bassa e perciò la morte arrivava prima che i tumori potessero manifestarsi. D’altro canto, molti
fattori cancerogeni legati alla moderna società industriale, come il
fumo da sigaretta, l’inquinamento, i composti chimici e le radiazioni
artificiali, che non erano presenti in passato, hanno indubbiamente
accresciuto l’incidenza del cancro nei tempi attuali.
Il contributo di Silvia Marinozzi ripercorre la storia dell’imbalsamazione funebre in Italia, confrontando i risultati autoptici delle mummie artificiali riesumate dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa con la letteratura medica dei periodi coevi ai defunti
esaminati. L’integrazione tra fonti oggettive e fonti letterarie permette così di costruire un quadro piuttosto omogeneo e compiuto della
storia delle tecniche di conservazione dei cadaveri in una prospettiva
di confronto e interazione tra ritualità funebri e sviluppi dell’anatomia, laddove i progressi dei sistemi di preparazione anatomica a
scopo didattico e scientifico trovano applicazione anche nel campo
dell’imbalsamazione. Si evince infatti la forte valenza “igienica” che
a partire dalla fine del Settecento la pratica della mummificazione,
sino ad allora di appannaggio esclusivo di regnanti e personaggi di
rango, assume come sistema di prevenzione medica, quando ancora
le malattie di carattere epidemico e contagioso sono spiegate come
conseguenza di una corruzione dell’aria indotta dai miasmi morbiferi esalanti dalla materia organica putrefatta. E’ in tale prospettiva che
l’autrice spiega il grande incremento che la pratica dell’imbalsamazione ebbe nel corso del XIX secolo, in considerazione anche delle
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Gino Fornaciari
politiche di laicizzazione delle ritualità religiose, in cui quelle funerarie svolgono certamente un ruolo fondamentale nella costruzione
di un nuovo sentimento religioso che si abbini alla fede politica dei
risorgimentalisti nel nuovo stato unitario.
Come rivela il saggio di Antonio Fornaciari, è evidente il fatto che nel
meridione d’Italia in Età moderna si siano conservate alcune pratiche
tradizionali di manipolazione dei corpi, come la scheletrizzazione e
la mummificazione intenzionali ed inserite all’interno di una cornice
religiosa ufficiale, addirittura fino all’elaborazione di ambienti strutturali complessi adibiti a tale scopo. La conservazione all’interno del
mondo cattolico, nonostante gli indirizzi post tridentini, di spazi concessi a pratiche rituali strettamente connesse alla cosiddetta “seconda
sepoltura”, se da un lato possiamo postulare sia stata velata da altri
significati, come meditazione sulla morte, pratiche ascetiche monastiche, collettivizzazione dello spazio funebre in funzione del gruppo
religioso e sociale, dall’altro dimostra quanto la chiesa controriformata sia scesa a patti con istanze arcaiche estremamente persistenti. In
Sicilia, ed in altre aree del Sud, la nascita dei cimiteri pubblici suburbani ha segnato la fine di queste strutture ecclesiastiche, per quanto,
come è possibile constatare ancora oggi nel mondo napoletano, molte
pratiche abbiano seguito lo spostamento dei cadaveri e continuino ad
accompagnare, in sacche di resistenza popolare, il periodo prolungato
del lutto familiare nei moderni camposanti.
In conclusione si può affermare che il volume, spaziando dalla biologia molecolare alla museologia, dall’antropologia fisica alla paleopatologia, fino all’archeologia funeraria, è riuscito a rendere un
quadro esauriente della complessità e dell’ottimo livello raggiunto
da questo tipo studi nel nostro paese.
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MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 13-34
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
CENNI DI STORIA DELLA PALEOPATOLOGIA IN ITALIA
Gino Fornaciari
Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina
Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica
Università di Pisa, Pisa, I
SUMMARY
BRIEF HISTORY OF PALEOPATHOLOGY IN ITALY
In the last decades, paleopathologists have developed a growing interest
in archaeological, anthropological, and medical disciplines. However,
although there have been satisfactory results, which are reflected in
numerous publications at the international level and in academic credits
that, for example, have led to the establishment of an autonomous Division
of Paleopathology (unique in an Italian University) at the Faculty of
Medicine in Pisa, the future seems not so bright. Indeed, the lack of general
interest that Italian institutions have shown toward research and the
reduction of ministerial financial support, will result not only in a lack of
a generational turnover among research­ers, but also in the suspension or
closure of the few paleopathology courses that are now running, and in the
layoff of the small but excellent study groups currently working in the field.
La data d’inizio degli studi di paleopatologia nel nostro paese non
è chiara. I primi contributi alla disciplina datano alla fine del XIX
secolo ma, essendo in genere pubblicati su riviste italiane, furono
ignorati dalla comunità scientifica internazionale.
Stefano delle Chiaie (1794-1860), professore di anatomia patologica
presso la regia università di Napoli, fu il primo studioso italiano ad
Key words: Italy - History - 20th century - Ancient diseases
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Gino Fornaciari
occuparsi attivamente di paleopatologia. Infatti, esaminando i resti
scheletrici di Pompei, egli prestò
particolare attenzione alle alterazioni patologiche1. Questo studio, che ebbe un’ampia diffusione
in Europa, rappresenta il primo
esempio di indagine paleopatologica sistematica in Italia. Per
quanto pionieristico e privo di una
reale prospettiva paleoepidemiologica, si trattò di una prima indagine su una estesa serie di provenienza archeologica, in un’epoca
Fig. 1. Stefano delle Chiaie (1794-1860)
in cui la maggior parte dei patologi si occupava solo di casi singoli.
In realtà, la paleopatologia in Italia era già cominciata con alcuni
studi sulle mummie, in seguito all’attenzione internazionale sulle
mummie egizie suscitata in Europa dalla campagna di Napoleone in
Egitto (1798-1801). Gli studi datano alla prima metà del XIX secolo,
con un lavoro sulle mummie di Venzone in Friuli2, ma le pubblicazioni su queste mummie3, sulle mummie di Ferentillo in Umbria4,
come pure su mummie egizie conservate nei musei italiani, continuarono fino alla prima metà del XX secolo5.
Uno studio particolarmente innovativo di una mummia trovata
a Cagliari, in Sardegna6, fu condotto dal medico legale Gaetano
Corrado (1858-1934). Le indagini, di tipo forense, gli permisero di
trarre conclusioni significative sulle caratteristiche antropologiche,
sulla causa di morte e sull’inquadramento cronologico di questo individuo. Corrado poté stabilire che la mummia apparteneva ad un
individuo di sesso femminile deceduto a 50-60 anni di età, in contrasto con l’opinione diffusa che si trattasse di una donna assassinata in
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Cenni di storia della paleopatologia in Italia
gravidanza. Egli rilevò anche alcune lesioni cutanee ed elevati livelli
intestinali di antimonio, che pose in relazione con l’uso di sostanze
assorbenti e di tartaro emetico, in cura ad una supposta polmonite.
Questi reperti gli permisero di datare la mummia agli inizi del XIX
secolo. Il Corrado, negli analoghi studi delle mummie di Venzone in
Friuli e di Ferentillo in Umbria, richiamò l’attenzione sul ruolo degli
acari (Acarus sp.) nel processo di mummificazione.
A distanza di oltre mezzo secolo, gli scavi archeologici cominciarono a fornire abbondante materiale di studio scheletrico per i ricercatori. Veri e propri pionieri nello studio della paleopatologia dello
scheletro furono il radiologo Piero Messeri (1916-1991), professore di paleontologia umana a Firenze7, e Cleto Corrain (1921-2007),
ordinario di antropologia a Padova, che descrissero le caratteristiche paleopatologiche di numerosi casi studiati prevalentemente dal
punto di vista antropologico8.
Antonio Costa (1902-1983), professore di anatomia patologica a
Firenze, studiò, in collaborazione
con Giorgio Weber di Siena, i resti
scheletrici dei membri della famiglia Medici, sepolti nella basilica
fiorentina di San Lorenzo dal XV
al XVIII secolo9; questi importanti reperti sono stati riesaminati di
recente utilizzando le tecnologie
biomediche più moderne10.
La figura più importante della paleopatologia italiana fu certamente Antonio Ascenzi (1915-2000),
professore di anatomia patologica
a Pisa e a Roma. Le sue ricerche,
pubblicate in prestigiose riviste Fig. 2. Antonio Costa (1902-1983)
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Gino Fornaciari
italiane ed internazionali, spaziarono dalla biologia e dalla biomeccanica dell’osso, all’ematologia e alle cardiopatie congenite11.
Ascenzi non si dedicò solo all’anatomia patologica ma anche
all’antropologia, compresa la paleopatologia e la paleontologia
umana. Applicando le sue profonde conoscenze di fisiopatologia
ossea ai resti umani antichi, condusse ricerche di paleoantropologia, soprattutto sui resti fossili
dell’uomo di Neanderthal.
Il nome di Ascenzi rimarrà per
Fig. 3. Antonio Ascenzi (1915-2000)
sempre legato alla scoperta e allo
studio del più antico fossile umano in Italia, il cranio di Ceprano nel
Lazio, una forma arcaica di Homo erectus12. Inoltre, le sue ricerche
pionieristiche sulla mummia di Uan Muhugging in Libia13, datata al
neolitico antico, e sulla mummia romana di Grottarossa14, e i suoi
studi su molteplici aspetti e problemi riguardanti le malattie delle popolazioni umane antiche hanno reso Ascenzi il “moderno fondatore”
della paleopatologia e degli studi sulle mummie in Italia.
L’università di Torino
L’Università di Torino condusse studi di antropologia sulle popolazioni antiche fin dagli inizi del XX secolo, inclusa la paleopatologia.
Infatti, fra il 1911 e il 1935, fu costituita a Torino una grande collezione di antropologia egizia, comprendente scheletri e mummie,
che fu alla base delle ricerche di Giovanni Marro (1875-1952), indirizzate soprattutto alla paleobiologia umana del passato15; Marro fu
invitato nel 1911, dal grande egittologo torinese Ernesto Schiaparelli
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Cenni di storia della paleopatologia in Italia
(1856-1928), a partecipare come antropologo alle missioni archeologiche in Egitto allora in corso. Nel 1923 Marro ottenne la cattedra di
antropologia presso l’università di Torino e nel 1926 fondò e diresse
l’Istituto e Museo di Antropologia ed Etnografia.
All’inizio degli anni ’60 ebbe inizio, presso l’Istituto di Antropologia
dell’università di Torino, l’attività di ricerca di Brunetto Chiarelli e
di Emma Rabino Massa, che spaziò in un ampio raggio di settori,
compresa la paleodemografia e la paleopatologia. L’importanza della
collezione di resti umani egizi e il dinamismo del gruppo di studio di
Torino attrassero, nella seconda metà del XX secolo, alcuni celebri
ricercatori stranieri, fra cui gli inglesi M.I. Satinoff e A.T. Sandison.
Nel 1969 il 1st International Symposium on Population Biology of
the Ancient Egyptians organizzato a Torino, cui fece seguito la pubblicazione degli atti16, suscitò un grande interesse nel mondo accademico mondiale. In occasione di questo congresso la paleopatologia
fu introdotta ufficialmente in Italia, come disciplina autonoma strettamente interconnessa con l’antropologia, per lo studio delle popolazioni antiche. Il ruolo centrale di Torino per gli studi di paleopatologia in Italia fu ulteriormente ribadito nel 1978, con l’organizzazione
del 2nd European Meeting of the Paleopathology Association17.
I principali campi di interesse dei ricercatori torinesi riguardarono,
oltre a studi classici di paleopatologia, come le malformazioni congenite e le patologie dell’accrescimento, anche lo studio istologico
dei tessuti mummificati, con l’applicazione della paleoimmunologia.
La prima ricerca sui tessuti mummificati risale al 1967, quando furono identificati alcuni elementi figurati del sangue in campioni di
mummie della collezione Marro18. Gli studi istologici permisero di
identificare la presenza di anemia falciforme e di talassemia, di forme larvali di nematodi, come lo schistosoma e l’anchilostoma, e di
lesioni arteriosclerotiche19.
Le eccezionali opportunità per lo studio paleopatologico offerte dalle collezioni di Torino indussero i ricercatori torinesi ad affrontare
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Gino Fornaciari
anche i problemi relativi alla conservazione e al deterioramento dei
materiali mummificati conservati nei musei. Questi studi dimostrarono il ruolo fondamentale dell’esame istologico per pianificare la
conservazione di resti umani antichi e per promuovere aspetti nuovi
nella ricerca antropologica sulle collezioni museali20.
Successivamente, grazie ai progressi metodologici e all’introduzione
e all’ottimizzazione di tecniche innovative, la ricerca paleobiologica
si indirizzò verso nuovi campi di indagine chimica, immunologica
e molecolare21. Negli anni più recenti il gruppo di Torino ha condotto ricerche sulle malformazioni congenite e sulla patologia dell’accrescimento, argomenti di grande rilevanza sociale e che richiedono
un’accurata archiviazione dei dati biologici22.
Ezio Fulcheri, professore di anatomia patologica a Genova, fu il primo docente in Italia a tenere corsi ufficiali di paleopatologia agli
inizi degli anni’80, sempre presso l’università di Torino. Infatti,
Fulcheri aveva cominciato a collaborare con gli antropologi di
Torino fin dal 1980, producendo importanti lavori sull’applicazione
della paleopatologia e della immunoistochimica ai resti scheletrici e
mummificati23.
L’università di Pisa
La scuola di antropologia di Pisa, comprendente anche la paleoantropologia, si sviluppò negli anni ’60 dello scorso secolo con gli
studi pionieristici di Raffaello Parenti (1907-1977), ordinario di
antropologia dal 1968, il quale dette inizio alle prime ricerche sui
gruppi sanguigni nei resti scheletrici antichi, gettando le basi della
paleoserologia.
Nel decennio compreso fra il 1960 e il 1970, sotto la direzione di
Silvana Borgognini e di Giorgio Paoli, gli studi paleoserologici furono
al centro degli interessi della Scuola di Pisa. Furono effettuate ricerche immunologiche sui gruppi sanguigni della necropoli eneolitica di
Ponte S. Pietro nel Lazio (1850-1700 a.C.), sugli Egizi di età dinastica
18
Cenni di storia della paleopatologia in Italia
della collezione Marro di Torino,
sui peruviani precolombiani delle necropoli di Ancon e di Cuzco
e su campioni della popolazione
cristiana di epoca copta di Sayala,
nella bassa Nubia24. Seguirono
anche ricerche di immunoistochimica e di paleonutrizione, tramite
gli elementi in traccia e gli isotopi
stabili nell’osso umano antico25.
Infine, la scoperta e il perfezionamento della reazione a catena della
polimerasi (PCR) per l’amplificazione del DNA antico (aDNA)
permise di dare inizio anche a Pisa
Fig. 4. Raffaello Parenti (1907-1977)
alla disciplina nota attualmente
come antropologia molecolare.
La maggior parte delle ricerche svolte fra il 1980 e il 1990 si concentrò su collezioni scheletriche datate dal Paleolitico superiore all’Età
del bronzo, abbandonando gli studi di tipo tipologico e razziale e
indirizzando gli studi sugli aspetti paleopatologici e funzionali26.
Nel corso degli anni ’90, con le ricerche di Alessandro Canci e di
Vincenzo Formicola, la paleopatologia ha avuto un ruolo anche più determinante nel gruppo pisano, con lavori sulle malattie infettive e con
la scoperta del più antico caso conosciuto di tubercolosi vertebrale27.
Fra gli allievi di Raffaello Parenti, Francesco Mallegni è noto, anche
al grande pubblico, per le ricostruzioni fisiognomiche di personaggi
storici e per le discusse identificazioni dei resti scheletrici di Giotto
e del conte Ugolino28. Nel corso della sua lunga carriera ha avuto
modo di studiare anche reperti paleopatologici delle più diverse epoche, dal paleolitico al medioevo, e di effettuare studi di paleonutrizione con gli elementi in traccia29.
19
Gino Fornaciari
La maggior parte delle ricerche paleopatologiche a Pisa furono però
condotte, a decorrere dagli anni ’70, da ricercatori di estrazione medica e con una preparazione anatomopatologica, fra cui l’autore del
presente articolo. In quegli anni le ricerche furono influenzate dai
nuovi metodi di studio delle mummie da parte di studiosi anglosassoni30 e anche dalla presenza a Pisa dei paleopatologi americani
Arthur C. Aufderheide ed Enrique Gerstzen.
I principali settori di studio del gruppo pisano furono, oltre la paleopatologia in generale, lo studio delle mummie e la ricerca di antichi
agenti batterici e virali. A partire dagli anni ’80 fu possibile applicare
le moderne tecnologie biomediche allo studio dei tessuti molli delle
mummie (egizie, peruviane e italiane). Questi studi permisero per la
prima volta l’individuazione sicura di antichi agenti patogeni (virus,
batteri e protozoi) e dimostrarono la presenza di casi di cancro già
nel corso del Rinascimento.
Di grande importanza scientifica fu la scoperta, nel 1986, di particelle di virus del vaiolo umano in un corpo mummificato del XVI
secolo31 e, nel 1989, di treponemi sifilitici della stessa epoca32; nel
1992, fu possibile individuare al microscopio elettronico, in una
mummia precolombiana dell’ XI secolo con sindrome megaviscerale, il Trypanosoma cruzi, agente della malattia di Chagas33. Il reperto
fu utilizzato, come controllo positivo antico, in un ampio studio molecolare tramite DNA antico sulla diffusione della malattia di Chagas
nell’America precolombiana34.
Nel 1996 fu identificata la presenza di una mutazione genetica caratteristica, quella dell’oncogene K-ras, che anche oggi provoca il
cancro, nel tumore che uccise il re di Napoli Ferrante I di Aragona
alla fine del XV secolo35.
Nel 1997 fu effettuata la prima laparoscopia in una mummia rinascimentale del XVI secolo36. E’ recente anche l’identificazione di una
sequenza di DNA del virus del papilloma umano (HPV), un noto
virus cancerogeno, in una mummia rinascimentale italiana37.
20
Cenni di storia della paleopatologia in Italia
Infine, il gruppo di Pisa organizzò e rese operativo fra il 2004 e il
2007, il Progetto “Medici”, che ha permesso lo studio paleopatologico delle deposizioni funebri dei Granduchi dei Medici nella cripta
della Basilica di S. Lorenzo a Firenze38.
Fin dagli anni ’80 il gruppo di paleopatologi di Pisa si dedicò a studi pionieristici di paleonutrizione su serie scheletriche del bacino del
Mediterraneo, tramite gli elementi in traccia nell’osso umano antico con
la spettroscopia ad assorbimento atomico (AAS)39 e, più recentemente,
con gli isotopi stabili, sugli aristocratici del Rinascimento italiano40.
Dal 1994 al 1998 fu organizzato a Pisa il primo corso di paleopatologia post-laurea in Italia e nel 2004 fu creata la Divisione di
Paleopatologia, afferente al Dipartimento di Oncologia della Facoltà
di Medicina, che dette impulso a ricerche paleopatologiche sui resti mummificati e scheletrici adottando tutte le moderne tecnologie
biomediche disponibili per ricostruire il profilo biologico delle popolazioni del passato, come immunoistochimica, tomografia assiale
(TC), microscopia elettronica e paleobiologia molecolare.
L’università di Chieti
Fin dai primi anni ’80 un numero cospicuo di ricerche paleopatologiche fu condotto a Chieti da Luigi Capasso, professore di antropologia alla facoltà di Medicina. Spiccano fra questi studi quelli sulle
vittime di Ercolano dell’eruzione vesuviana del 79 d.C., le ricerche
epidemiologiche sull’antica Roma e anche alcune indagini su personaggi storici, come S. Rosa da Viterbo41.
Capasso si è interessato anche dello studio e della conservazione dei
resti mummificati antichi e, in particolare, dell’uomo del Similaun42.
Oltre a promuovere attivamente la paleopatologia in ambito accademico, contribuì ad istituire il Servizio Tecnico per le Ricerche
Antropologiche e Paleopatologiche del Ministero dei Beni Culturali,
servizio nazionale che coordinò fin dal 1992. I suoi interessi nel campo
della paleopatologia e dell’antropologia forense si riflettono nella fon21
Gino Fornaciari
dazione della Società Italiana di Paleopatologia, di cui divenne il primo presidente, e del Journal of Paleopathology, edito dal 1987. Luigi
Capasso è stato l’organizzatore, nell’anno 2000, dell’8th European
Meeting of the Paleopathology Association, che si tenne a Chieti.
Nel 2004, il Royal Anthropological Institute di Londra gli ha conferito la Biannual Medal for Medical Anthropology.
Anche Renato Mariani-Costantini, professore di patologia generale
alla Facoltà di Medicina di Chieti, ha dato il suo contributo agli studi paleopatologici. Nonostante che le sue ricerche riguardassero lo
studio genetico dei tumori mammari e colorettali, a partire dagli anni
’70, si è occupato di problemi riguardanti l’evoluzione umana e delle
malattie del passato.
Nel 1976 prese parte agli scavi di Castel di Guido nel Lazio, portando alla luce alcuni fossili umani preneandertaliani datati a 300.000
anni da oggi43.
Ha studiato dal punto di vista paleopatologico, in collaborazione
con le Soprintendenze Archeologiche di Roma e dell’Abruzzo, i resti scheletrici di numerosi siti, datati dalla preistoria al medioevo44.
Da 1996 al 2000 è stato responsabile del progetto “Paleopatologia”
del C.N.R., sullo stato di salute delle popolazioni dell’Italia antica a
partire dal periodo romano, descrivendo accuratamente una trapanazione del II secolo45.
L’università di Bologna
Fiorenzo Facchini, ordinario di antropologia all’università di Bologna
dal 1976 al 2005, si è occupato prevalentemente di evoluzione umana, dei polimorfismi genetici, di paleoantropologia e di studi sulle
popolazioni neolitiche e protostoriche, dando particolare rilievo anche alla paleopatologia. Molti di questi studi sono stati condotti in
collaborazione con Maria Giovanna Belcastro, professore associato
di antropologia sempre a Bologna, i cui studi più importanti hanno
riguardato l’ergonomia e i marcatori scheletrici di attività e gli indi22
Cenni di storia della paleopatologia in Italia
catori di stress dentari e scheletrici, ponendo l’accento sulle relazioni
intercorrenti fra condizioni di vita e malattie46.
Altri contributi
In questi ultimi anni è andato crescendo in Italia l’interesse per la
paleopatologia da parte di ricercatori di differente estrazione, che
hanno dedicato la loro attività agli studi paleopatologici.
In Sardegna, a Sassari, lo studio della paleopatologia ebbe inizio negli anni ’70, con le ricerche di Franco Germanà, allievo di Ascenzi
ed autore del libro Trapanazioni, craniotomie e traumi cranici nell’Italia antica, che rappresentò la prima monografia sulle trapanazioni
antiche nel nostro paese47.
A decorrere dagli anni ’80, un gruppo di studio dell’Università di
Camerino nelle Marche, diretto da Franco Rollo, professore di antropologia nello stesso ateneo, ha condotto studi sulla conservazione
e sulla tipizzazione molecolare del DNA antico nei resti scheletrici
umani e nelle mummie, in particolare nella mummia neolitica del
Similaun, nota come Oetzi48.
Sempre a Padova, a partire dagli anni ’80, il radiologo Andrea
Drusini, in seguito ordinario di antropologia presso la facoltà di
Medicina, dette inizio a studi antropologici, in particolare sulle popolazioni precolombiane, soprattutto del Messico, del Cile e del Perù,
partecipando anche a numerose missioni archeologiche49. Drusini si
è occupato anche di studi paleopatologici su resti scheletrici e mummificati italiani50.
Alla fine degli anni ’90 Luca Ventura, anatomopatologo all’Aquila,
si è occupato di studi sui resti umani mummificati dell’Abruzzo interno, con particolare attenzione alle tecniche istologiche ed immunoistochimiche51. Egli è stato presidente e socio fondatore dell’Associazione di Paleopatologia dell’Aquila ed è attualmente segretario
del Gruppo Italiano di Paleopatologia (GIPaleo). Dopo la sua fondazione da parte di Gino Fornaciari nel 2007, il Gruppo ha ribadito la
23
Gino Fornaciari
necessità di creare una rete informativa fra i ricercatori italiani più
esperti nel settore della paleopatologia e di promuoverne la diffusione fra i colleghi più giovani.
Anche l’oncologa Laura Ottini, professore associato di storia della
medicina all’università di Roma, si è interessata attivamente di studi paleopatologici52; i suoi lavori più recenti hanno riguardato l’analisi molecolare dei tumori maligni antichi, diagnosticati in resti
mummificati53.
Come riconoscimento alla crescente visibilità della paleopatologia
in Italia, la maggior parte degli attuali studi antropologici comprende anche l’analisi paleopatologica e, oltre ai corsi specialistici
tenuti presso le università di Pisa, Torino e Venezia e in altri atenei, la paleopatologia è stata inserita nei corsi di antropologia e di
altre discipline. Infine, nel 2009, grazie alla collaborazione fra le
università di Bologna, Milano e Pisa, è stato istituito nel nostro
paese il master postlaurea in Bioarcheologia, Paleopatologia ed
Antropologia forense.
In conclusione, la paleopatologia italiana ha avuto il merito di
focalizzare l’attenzione del mondo accademico antropologico ed
archeologico sullo studio paleopatologico dei resti scheletrici, diffondendo le ricerche paleopatologiche presso quasi tutti i gruppi
di ricerca interessati. I contributi fondamentali dell’Italia in questo
settore sono rappresentati da scoperte sia nel campo della patologia
dello scheletro, come il più antico caso conosciuto di tubercolosi
in uno scheletro neolitico della Liguria, sia in quello dei tessuti
molli, come lo studio ultrastrutturale, immunologico e molecolare
di antichi virus, batteri, protozoi e tumori maligni. L’applicazione
delle moderne tecnologie biomediche (TC, laparascopia, istologia,
immunoistochimica, estrazione e sequenziamento del DNA antico
e isotopi stabili) allo studio delle mummie, iniziato in Italia sin
dagli anni ’80 in maniera pionieristica, è diventata attualmente una
prassi quasi di routine.
24
Cenni di storia della paleopatologia in Italia
Il futuro della paleopatologia in Italia
Negli ultimi decenni i paleopatologi hanno ampliato il loro orizzonte
di studio nel nostro paese, sviluppando un interesse crescente per le
discipline archeologiche ed antropologiche, oltre che mediche.
Sebbene i risultati siano stati molto soddisfacenti, e siano confluiti in
numerose pubblicazioni di livello internazionale, con una buona affermazione anche in ambito accademico, testimoniata dalla costituzione di una Divisione autonoma di paleopatologia presso la Facoltà
di Medicina di Pisa, al momento ancora unica in Italia, il futuro della
disciplina nel nostro Paese non è così roseo.
Infatti, la mancanza di interesse da parte delle istituzioni pubbliche
italiane e la riduzione del supporto finanziario da parte del Ministero,
comporterà non solo la mancanza del necessario ricambio generazionale dei ricercatori, ma anche la sospensione o la chiusura dei corsi
di paleopatologia presenti nelle università italiane e la dissoluzione
dei piccoli ma eccellenti gruppi di lavoro ancora attivi.
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Correspondence should be addressed to:
[email protected]
34
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 35-50
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
I TUMORI IN PALEOPATOLOGIA:
L’EVIDENZA DALLE MUMMIE
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari
Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina,
Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica
Università di Pisa, Pisa, I
SUMMARY
Tumors in paleopathology: evidences from mummies
The relative abundance of neoplastic lesions documented so far in
paleopathological literature, distributed over a wide lapse of time and
in different geographic areas, demonstrates that a number of tumours
affected past populations. Nevertheless, if dozens of cases of tumors
affecting the skeleton are reported, only a few records are documented in
soft tissues. The rarity of tumors in mummies is a debated problem; short
life span of past populations, scarcity of mummified remains arrived
to us in comparison with skeletal remains and technical difficulties to
detect neoplastic lesions in ancient tissues seem to be the main reasons
of the rarity of findings.
It is important to pay maximum attention to any little sign of neoplastic
lesion in ancient human remains, in order to increase our limited knowledge
about the type of tumours and relative incidence afflicting our ancestors.
Comparison with modern data could help understand the evolution patterns
of cancer in the history of Mankind.
Il problema dell’esistenza dei tumori maligni nelle popolazioni antiche è stato a lungo oggetto di dibattito in campo paleopatologico.
Key words: Cancro - Paleopatologia - Mummie
35
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari
Se alcuni studiosi hanno ritenuto che l’incidenza dei tumori maligni
in passato fosse molto rara o addirittura inesistente1, l’abbondanza
di casi pubblicati in letteratura e distribuiti in un arco temporale e
in un ambito geografico molto ampi2 smentisce oltre ogni dubbio
questa visione.
Va tuttavia precisato che se attualmente i tumori rappresentano la
prima causa di morte seguiti dalle malattie cardiovascolari3, ciò non
può essere ritenuto valido per i tempi antichi. Infatti, secondo gli
studi più recenti, questa patologia era certamente presente, ma la sua
incidenza era meno elevata per una serie di ragioni.
Innanzitutto occorre tenere presente che l’età media della vita nel
passato era inferiore rispetto ai tempi attuali; ciò implica che un
individuo generalmente moriva prima di raggiungere la quarta o
la quinta decade di vita, che costituiscono appunto le fasce d’età
dopo le quali si concentra la più alta probabilità di sviluppare una
patologia tumorale4.
Inoltre, non sussistevano in passato molti dei fattori ambientali che
attualmente sembrano giocare un ruolo di rilievo nella trasformazione neoplastica, come l’inquinamento, il fumo di sigaretta, alcuni farmaci, ecc. Questa considerazione tuttavia non deve far dimenticare
che erano comunque presenti agenti cancerogeni, quali ad esempio
le radiazioni ultraviolette, alcune sostanze chimiche presenti in natura e i virus oncogeni5.
Occorre poi considerare che solo recentemente l’attenzione degli
studiosi si è rivolta alla ricerca di patologie neoplastiche nei resti
umani antichi. In passato, in campo antropologico, prevalevano le
analisi di tipo metrico e l’interesse era rivolto piuttosto agli studi
craniologici e razziali che a quelli paleopatologici; inoltre, gli antropologi non avevano la preparazione necessaria per individuare
le manifestazioni macroscopiche delle patologie tumorali. È dunque probabile che molti casi non siano stati identificati e registrati
correttamente.
36
I tumori nelle mummie
Infine, lo studio dei tumori antichi è condizionato dallo stato di conservazione in cui ci sono pervenuti i reperti. Fattori naturali e interventi umani possono danneggiare i resti umani antichi, tanto da non
rendere possibile il riconoscimento delle condizioni patologiche; le
alterazioni neoplastiche stesse li rendono più fragili e più soggetti ad
un rapido deterioramento.
Terminologia e cancerogenesi
Una neoplasia è una massa anomala di tessuto, la cui proliferazione
cellulare non è soggetta ai normali meccanismi di crescita, si comporta in modo afinalistico ed è virtualmente autonoma.
Le neoplasie possono essere classificate in diversi modi6.
Uno dei criteri di classificazione più utile si basa sul tipo di cellula e
di tessuto da cui il tumore prende origine. Si distinguono infatti i tumori di tipo epiteliale, se insorgono da un epitelio di rivestimento, da
quelli di tipo mesenchimale o connettivale, se insorgono dai tessuti
connettivali, come i muscoli o le ossa.
Un’altra fondamentale classificazione si basa sul comportamento
biologico delle neoplasie, che possono essere così suddivise in due
gruppi principali: tumori benigni e tumori maligni. Si definiscono benigne quelle neoplasie caratterizzate da una bassa velocità di
accrescimento, da assenza di invasione del tessuto circostante e di
diffusione in sedi lontane (metastasi) e da un elevato grado di differenziazione cellulare, ossia da una buona somiglianza tra le cellule
neoplastiche e le corrispondenti cellule normali.
Al contrario si definiscono maligni i tumori caratterizzati da una più
alta velocità di accrescimento, da una progressiva invasione e distruzione dei tessuti circostanti e dalla capacità di originare tumori
secondari in sedi lontane dal punto di origine (metastasi).
Anche se la maggior parte delle sostanze che promuovono le trasformazioni tumorali sono prodotti artificiali del progresso moderno, esistono molti agenti cancerogeni naturali, a cui erano esposte
37
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari
anche le popolazioni del passato7. Ad esempio gli idrocarburi policiclici, il cui potere cancerogeno è molto elevato, sono presenti
nelle carni e nei pesci affumicati, e si liberano dai grassi animali
in seguito alla cottura a fuoco vivo o alla brace. Considerando che
nell’Antichità si faceva spesso ricorso all’affumicatura come metodo di preparazione e conservazione dei cibi e che le carni venivano
normalmente cotte a fuoco vivo o alla brace, si comprende come
l’esposizione a tali condizioni costituisse un evento quotidiano.
Oltre al processo stesso di cottura, l’utilizzo di fuochi per l’illuminazione degli ambienti e per il riscaldamento costituiva un ulteriore
fattore di rischio, dal momento che l’inalazione dei fumi derivanti
dalla combustione ha un potere oncogeno.
L’asbesto o amianto è un minerale naturale che si può trovare naturalmente nell’ambiente, le cui fibre risultano potenzialmente inalabili e possono provocare il mesotelioma e il tumore dei polmoni.
Anche il radon, un gas radioattivo naturale prodotto dal decadimento
del radio, la cui principale fonte di immissione nell’ambiente è il
suolo, è implicato nell’insorgenza del cancro polmonare.
Diverse piante e microrganismi producono sostanze chimiche cancerogene. Fra queste il gruppo più importante è rappresentato dalle
aflatossine, tossine prodotte da alcuni ceppi di Aspergillus flavus,
un fungo microscopico che cresce su granaglie e noccioline mal
conservate. Gli studi tossicologici hanno dimostrato che questa sostanza è un potente cancerogeno epatico8. Se si considera che molte popolazioni del passato avevano un’economia prevalentemente
agricola basata sulla produzione di cereali, si può ipotizzare che la
contaminazione dei raccolti da parte di queste muffe non doveva
essere un evento infrequente e si può dunque mettere in relazione la
dieta con l’insorgenza del tumore.
Le radiazioni ultraviolette di origine solare, in particolare le UVB,
sono implicate nell’insorgenza di tumori cutanei, in particolare pres38
I tumori nelle mummie
so le popolazioni di pelle chiara a basso contenuto di melanina che
funge da filtro naturale ai raggi solari.
Va inoltre considerato il potere oncogeno di alcuni virus, che fanno
presupporre un’origine virale di alcune neoplasie umane. Tra i virus
a DNA implicati nell’insorgenza di tumori maligni si annoverano i
papilloma virus (HPV), di cui sono conosciuti ben 70 tipi geneticamente diversi, che inducono la genesi di carcinomi delle regioni
genitali e del cavo orale; il virus di Epstein-Barr, un membro della
famiglia degli Herpesvirus, correlato ad alcuni tipi di tumori del sistema linfatico (linfomi) e ai carcinomi nasofaringei; i virus dell’epatite B e C, associati alla patogenesi dell’epatocarcinoma.
È stata dimostrata anche una stretta relazione tra l’infezione gastrica
da parte del batterio Helicobacter pylori e l’insorgenza di linfomi e
carcinomi dello stomaco.
È infine accertato che l’insorgenza dei tumori può anche dipendere da una predisposizione ereditaria, anche se talora risulta difficile
stabilire in che misura intervenga questo fattore. Si stima che circa
il 5-10% dei tumori maligni appartenga ad una specifica forma ereditaria, ma in generale si ritiene che l’ereditarietà giochi un qualche
ruolo in una più alta percentuale di casi9; la genetica potrà offrire in
futuro maggiori risposte a questo proposito.
Da quanto detto emerge chiaramente che a giocare un ruolo fondamentale nell’insorgenza dei tumori nell’Antichità dovevano essere soprattutto i fattori ambientali e culturali. Questi sono legati
alle condizioni climatiche, ai modi di sussistenza e alle particolari
abitudini dei gruppi umani, fattori che contribuiscono ad una diversa
distribuzione dell’incidenza delle forme di tumori per aree geografiche e per periodi storici.
In ogni caso, mentre i casi di tumori documentati in resti scheletrici
sono diverse decine, sono pochi i casi di tumori diagnosticati fino ad
ora nelle mummie.
39
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari
Evidenza di tumori nelle mummie
Tumori maligni
Le mummie rappresentano un eccezionale archivio di dati biologici, dal quale si possono ottenere preziose informazioni sullo stato
di salute delle popolazioni del passato. Come si è detto, tuttavia, le
testimonianze di tumori, in particolare maligni, attestate in reperti
mummificati sono molto rare.
Tra le centinaia di mummie egizie esaminate fino ad ora è emerso un
solo caso di malattia neoplastica maligna. Si tratta di un uomo adulto
proveniente dall’oasi di Dakleh e vissuto durante l’Epoca Romana,
nel quale è stata osservata una massa anomala di tessuto localizzata nel retto. L’analisi istologica ha dimostrato che l’uomo aveva
sviluppato un carcinoma rettale con invasione e infiltrazione della
sottomucosa10.
Anche le numerose mummie sudamericane hanno fornito scarsa evidenza di tumori maligni. Un bambino di 12-18 mesi, ritrovato nel
Cile settentrionale e appartenente ad una cultura sviluppatasi tra il
300 e il 600 d.C., presentava una lesione sulla guancia destra, appena
sotto l’occhio, che risultava forzatamente chiuso. Approfonditi studi
hanno permesso di diagnosticare un caso di rabdomiosarcoma, il più
frequente sarcoma delle parti molli in età pediatrica11.
Dalle mummie conservate sul territorio italiano, grazie a condizioni microclimatiche favorevoli, provengono due interessanti casi
di tumori maligni osservati in personaggi della nobiltà napoletana
rinascimentale. Tra le mummie naturali e artificiali di principi e nobili aragonesi custodite nella Basilica di S. Domenico Maggiore in
Napoli il corpo di Ferrante I di Aragona (1431-1494), re di Napoli
(fig. 1A), ha restituito un caso di carcinoma del colon-retto (figg.
1B-C). Oltre all’indagine istologica, l’eccellente stato di conservazione dei tessuti molli ha permesso di effettuare un’indagine
molecolare, volta ad identificare l’origine della massa neoplastica.
40
I tumori nelle mummie
Fig. 1 La mummia del re Ferrante d’Aragona (A); aspetto macroscopico del tumore a
livello del colon-retto (B); aspetto microscopico del carcinoma (C).
L’analisi del DNA ha rivelato la presenza di una mutazione di un
gene, il K-ras, associabile all’esposizione a carcinogeni chimici,
probabilmente presenti nella dieta. Lo studio paleonutrizionale
tramite gli isotopi stabili del carbonio e dell’azoto ha confermato
infatti che il re Ferrante aveva un’alimentazione largamente basata
sul consumo di carne, che ha probabilmente favorito l’insorgere
dell’adenocarcinoma12.
Sempre nella Basilica di S. Domenico Maggiore il corpo di
Ferdinando Orsini, Duca di Gravina in Puglia (fig. 2A), ha rivelato
un caso di neoplasia maligna periorbitale. Al momento del ritrovamento il volto del duca era coperto da un velo (fig. 2B) che, una
volta rimosso, ha mostrato una lesione ampiamente distruttiva che si
estendeva dall’angolo interno dell’orbita destra alla radice del naso,
per arrivare alla glabella e al seno frontale (fig. 2C).
41
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari
Fig 2. La mummia di Ferdinando Orsini (A); il volto della mummia ancora coperto dal velo
al momento dell’esumazione (B); il volto del Duca in stato di scheletrizzazione con lesioni
litiche evidenti in corrispondenza della radice del naso e dell’angolo interiore dell’orbita
destra (C).
Le caratteristiche osteolitiche della lesione e l’aspetto istologico
hanno suggerito una diagnosi di carcinoma cutaneo, verosimilmente
a cellule basali. La neoplasia provocò la distruzione del bulbo oculare di destra con conseguente cecità, e probabilmente si estese anche
42
I tumori nelle mummie
all’occhio sinistro per invasione diretta. Il coinvolgimento del naso
e delle orbite aveva sfigurato il volto del duca, rendendo necessario
l’uso di un velo al momento della sepoltura13.
Tumori benigni
I tumori benigni diagnosticati in reperti mummificati sono di poco
più numerosi rispetto a quelli maligni.
Il primo caso fu osservato nel 1821 da Augustus Granville (17831872) durante un’autopsia effettuata su una mummia egizia trovata
a Gurna e appartenente ad una donna di circa 50-55 anni. L’utero
risultava allargato in maniera abnorme, mentre l’ovaio di destra era
racchiuso in una massa patologica. Lo studioso ipotizzò un cistadenoma o cistadenocarcinoma dell’ovaio. Tuttavia, i disegni lasciati da
Granville, per quanto accurati, non possono chiarire se la neoplasia
fosse di carattere maligno o benigno14.
Da una tomba dell’Alto Egitto datata tra il 1290 a.C. e il 200 d.C.
provengono resti mummificati isolati o non in connessione, tra cui
una spalla sinistra recante una lesione cutanea. La localizzazione, le
caratteristiche e i risultati degli studi isto-chimici suggeriscono una
diagnosi di istiocitoma, un tumore del derma a carattere benigno15.
Un’altra lesione cutanea è stata riscontrata sulla mano di una mummia femminile, sempre dall’Egitto dinastico; si tratta di un papilloma squamoso16.
Ancora una neoplasia cutanea è stata riscontrata su una mummia egizia della collezione Marro (Torino): una piccola lesione rotondeggiante di 0,7 cm localizzata sul collo è stata interpretata come una
verruca volgare, una formazione cutanea benigna indotta dal virus
del papilloma umano17.
La mummia egizia nota come PUM III, appartenente ad una donna
di circa 35 anni e datata all’835 a.C., presentava un piccolo nodulo
di circa 1 cm di diametro della mammella sinistra. Le caratteristiche
43
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari
della lesione e i risultati dell’analisi istologica depongono per una
diagnosi di fibroadenoma, un tumore benigno della mammella18.
Ancora dall’Egitto, l’autopsia effettuata su una mummia trovata
nell’oasi di Dakleh e datata al Periodo Romano ha rivelato un’escrescenza papillare a livello della vescica, interpretata come un papilloma vescicale, o carcinoma di basso grado, un tumore vescicale poco
aggressivo19.
Tra le mummie sudamericane, quella di un adolescente di circa 14
anni proveniente dal Cile settentrionale e datata tra il 1100 e il 1200
d.C. mostrava una massa subcutanea di circa 6 cm sotto l’ascella destra. Le caratteristiche macroscopiche e istologiche hanno permesso
di identificare questa formazione come un lipoma, un tumore benigno del tessuto adiposo20.
Il cosiddetto “Principe di El Plomo”, un bambino di 9 anni che fu
oggetto di sacrificio umano sulla cima della montagna andina Cerro
El Plomo, presentava lesioni ulcerate alle gambe variabili tra 0,5
e 1 cm di diametro. Lo studio istologico ha dimostrato trattarsi di
un angiocheratoma, un tumore benigno della cute che si manifesta
principalmente negli arti inferiori e nel tronco. Nella stessa mummia sono state osservate due piccole lesioni alla base del pollice e
dell’indice della mano sinistra, diagnosticate come verruche volgari,
nelle quali l’esame ultrastrutturale ha evidenziato la presenza di particelle simil-virali, evidentemente il papillomavirus21.
Tra le mummie conservate nel Convento di S. Giorgio degli
Osservanti a Goriano Valli (L’Aquila), il corpo di una donna di circa 43-50 anni risalente alla seconda metà del XIX secolo (Fig. 3A)
ha rivelato una neoformazione a livello della cavità addominale, osservata tramite esame TAC (figg. 3B-C), in quanto l’autopsia non è
stata eseguita per ragioni conservative.
La neoformazione è stata interpretata come un cistadenoma o un teratoma, anche se non è possibile determinare il grado di malignità
senza un esame istologico22.
44
I tumori nelle mummie
Fig. 3. La mummia di Goriano Valli (A); immagini TAC che evidenziano una neoformazione di carattere tumorale a livello della cavità addominale (B-C).
Infine, la mummia di Maria d’Aragona (1503-1548), Marchesa del
Vasto (fig. 4A), conservata nella Basilica di S. Domenico Maggiore a
Napoli, presentava una piccola formazione cutanea peduncolata alla
radice della coscia destra di 2 x 7 mm (fig. 4B). L’esame istologico
ha rivelato un caso di condiloma acuminato, una lesione squamosa
causata dal papillomavirus umano (HPV) (fig. 4C). L’eccellente stato di conservazione dei tessuti ha incoraggiato le analisi molecolari, grazie alle quali è stata identificata la presenza dell’HPV 18, un
virus a trasmissione sessuale ad alto potenziale oncogeno, in particolare per le neoplasie epiteliali del tratto genitale femminile (fig.
4D); inoltre è stata verificata anche la presenza del virus JC9813,
45
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari
Fig. 4. La mummia di Maria d’Aragona (A); neoformazione peduncolata (3x12 mm) sulla
radice della coscia destra, vista allo stereomicroscopio (X 7) (B); sezione istologica del
condyloma acuminatum (X 10 Masson) (C); sequenziamento dell’HPV. Linea 1: prodotto
dell’amplificazione PCR di HPV (141 bp). Linea 2: campione arricchito PCR di HPV; linea
3: controllo positivo; linea 4: campione in bianco (D).
un altro papillomavirus con basso potenziale oncogeno23. Questo ritrovamento rappresenta la prima diagnosi molecolare di HPV nelle
mummie e può aprire la strada ad ulteriori ricerche sull’evoluzione
biologica di questi virus, molto importanti in oncologia umana.
Conclusioni
I casi di tumori fino ad ora diagnosticati nelle mummie e pubblicati
in letteratura sono in totale 15, di cui solo 4 rappresentano neoplasie
maligne. In particolare, secondo la classificazione basata sul tipo di
cellula e tessuto di origine, sono attestati 3 tumori maligni epiteliali
(1 carcinoma colo-rettale, 1 carcinoma rettale e 1 carcinoma cutaneo) e solo 1 di tipo connettivale (rabdomiosarcoma); anche tra i
tumori benigni la maggior parte sono di tipo epiteliale (2 adenomi,
46
I tumori nelle mummie
2 verruche volgari, 2 papillomi, 1 angiocheratoma e 1 condiloma
acuminato), mentre i restanti sono di tipo connettivale (1 istiocitoma
e 1 lipoma).
La rarità dei tumori diagnosticati nelle mummie, in particolare quelli maligni, è un problema controverso in paleopatologia24, soprattutto se si considera la totale assenza di neoplasie degli organi interni,
quali i polmoni, il fegato, la prostata, lo stomaco, la tiroide, che
risultano molto frequenti nelle casistiche cliniche attuali e che non
sono stati osservati in nessuna delle centinaia di mummie esaminate
in diverse parti del mondo.
Tuttavia occorre fare una serie di considerazioni che, in parte, spiegano questa rarità.
Innanzitutto alcune categorie di mummie, come quelle egizie di epoca dinastica, venivano sottoposte a trattamenti conservativi che includevano la rimozione della maggior parte degli organi interni, che
ne ha impedito l’osservazione agli studiosi moderni.
In ogni caso, la scarsità di evidenza di neoplasie nelle mummie indica certamente una minore incidenza di queste patologie nelle società del passato. Come già sottolineato, l’alta aspettativa di vita delle
popolazioni attuali spiega l’elevata incidenza del cancro; infatti il
cancro è la prima causa di morte nei paesi sviluppati e la seconda
causa di morte nei paesi in via di sviluppo25. Nelle società del passato l’età media della vita era molto inferiore, nonostante differenze significative si riscontrino a seconda dell’area geografica o del
periodo cronologico considerato, e dunque la morte arrivava prima
che i tumori potessero manifestarsi.
D’altro canto, molti fattori cancerogeni legati alla moderna società industriale, come il fumo da sigaretta, l’inquinamento, i composti chimici e le radiazioni artificiali, che non erano presenti in passato, hanno
indubbiamente accresciuto l’incidenza del cancro nei tempi attuali.
Oltre al fatto che i resti mummificati rappresentano reperti molto più
rari rispetto ai resti scheletrizzati, le centinaia di mummie scoperte
47
Valentina Giuffra, Gino Fornaciari
nel corso del XIX secolo sono state gravemente danneggiate dai metodi di studio invasivi in uso in quell’epoca, rivolti più a recuperare
oggetti del corredo o a soddisfare la curiosità suscitata dalle mummie che non allo studio delle patologie che le affliggevano. Tuttavia,
se gli studi più recenti si sono orientati all’uso di metodologie meno
invasive, come l’osservazione macroscopica esterna e le indagini radiologiche, è anche vero che queste tecniche non sono sufficienti
per poter fare diagnosi di neoplasie; infatti solo l’esame autoptico
associato alle indagini istologiche può assicurare l’osservazione di
lesioni suggestive di tumori, anche se negli ultimi decenni questi
metodi di indagine sono stati evitati per il loro carattere distruttivo.
In conclusione, nello studio delle mummie è importante prestare
la massima attenzione a ogni piccolo segno di lesione neoplastica,
al fine di accrescere le nostre conoscenze, fino ad ora limitate di
paleo-oncologia.
BIBLIOGRAFIA E NOTE
Ringraziamenti
Questo lavoro è stato supportato da una borsa di studio della Fondazione Arpa
(www.fondazionearpa.it).
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Correspondence should be addressed to:
Giuffra Valentina, Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica,
Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina
Via Roma 57, 56126 Pisa
E-mail: [email protected]
50
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 51-84
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
DNA antico: principi e metodologie
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
Centro di Antropologia Molecolare per lo Studio
del DNA Antico- Dipartimento di Biologia
Università degli studi di Roma Tor Vergata, Roma, I
SUMMARY
Ancient Dna: Principles and methodologies
Paleogenetics is providing increasing evidence about the biological
characteristics of ancient populations. This paper examines the guiding
principles and methodologies to the study of ancient DNA with constant
references to the state of the art in this fascinating disciplin.
La storia della paleogenetica, seppur affascinante, ha origini relativamente recenti. I primi tentativi, effettuati utilizzando cloni batterici, di amplificare tracce di materiale genetico da frammenti tissutali
mummificati non vanno oltre gli inizi degli anni 801,2,3. Da questi
primi esperimenti, molti risultati sono venuti alla luce evidenziando
molteplici aspetti dell’analisi molecolare: infatti attraverso lo studio del DNA recuperato da materiale biologico di campioni antichi
è possibile indagare in profondità la variabilità genetica umana e i
processi che la sottendono. Cospicue infatti sono le pubblicazioni
relative alle relazioni filogenetiche tra Homo neandertalensis e la
nostra specie4,5 così come alle analisi delle dinamiche popolazionistiche e alla struttura sociale di nuclei arcaici6,7. Ma lo studio della paleogenetica è un utile strumento anche per indagare processi
Key words: aDna – Paleogenetics – Molecular anthropology
51
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
evoluzionistici8 e per ricostruire le caratteristiche fenotipiche di
popolazioni antiche9,10,11. Inoltre, notevoli sono stati, negli anni, gli
sviluppi della Paleogenomica, cioè la ricostruzione degli interi genomi di specie estinte12. Oggetto delle ricerche molecolari è il DNA
antico (ancient DNA, aDNA), residui di materiale genetico che possono essere recuperati da una grande varietà di materiali biologici,
di diversa origine, stato di conservazione ed età, come ossa, denti,
coproliti13, corpi mummificati, sangue coagulato, frammenti vegetali
e microrganismi. Anche tessuti molli possono comunque essere una
fonte di aDNA in cui analizzare notevoli porzioni di genoma14; e
persino elementi cheratinici come le unghie15 possono essere utilizzati come fonte primaria di aDNA. Diverse sono le fonti cellulari di
tale materiale genetico, essendo il genoma costituito da varie frazioni compartimentalizzate. Se da una parte la genomica generalmente
descrive la variabilità del genoma nucleare di un dato organismo,
la paleo-genetica utilizza un secondo marcatore di elezione per lo
studio della variabilità eucariotica, il DNA contenuto in organelli
intracellulari quali i mitocondri16 e, seppur meno frequentemente,
i plastidi delle cellule vegetali17. Infatti, il DNA mitocondriale, essendo presente in numerose copie (da centinaia a migliaia di copie
per cellula18 rispetto alle sole due copie di genoma nucleare, risulta facilmente analizzabile in reperti antichi19. Tuttavia, lo studio del
aDNA, soprattutto per quanto riguarda la specie umana, è soggetto
a sostanziali limitazioni dovute alla presenza di materiale genetico
moderno. Il DNA moderno, infatti, è presente in un più elevato numero di copie rispetto al materiale genetico endogeno del campione
in esame, essendo quest’ultimo esposto a deterioramento diagenetico. Tale condizione rende quindi gli studi del aDNA estremamente
impegnativi a causa della contaminazione da materiale moderno. La
natura del campione biologico riflette in parte la qualità del materiale
genetico ricavabile: infatti, se ossa e denti sono tessuti facilmente
preservati per la loro natura calcificata, essi appaiono maggiormente
52
Dna antico: principi e metodologie
contaminabili rispetto ai capelli, che tuttavia sono meno presenti nel
record archeologico20. Il rinvenimento di falsi positivi rimane ancora
oggi una delle maggiori problematiche della ricerca basata sull’analisi del aDNA. Non pochi sono gli studi che storicamente hanno evidenziato risultati a dir poco sorprendenti come frammenti genetici
ricavati da elementi scheletrici fossilizzati pertinenti a dinosauri21 o
a partire da insetti inclusi in materiale organico22,23. Tuttavia, molto
spesso la rianalisi di tali dati24 ha permesso di correggere sostanziali
errori che hanno reso, perciò, gli albori della paleogenetica antica,
come uno dei terreni più fertili per le stravaganze scientifiche.
Non meno importante è il problema della conservazione del reperto.
Infatti, l’estrazione di DNA comporta la distruzione, seppur minima,
di materiale biologico per cui è bene scegliere parti, per esempio,
dello scheletro, di scarsa importanza per lo studio antropometrico
oppure ricavare la quantità necessaria operando carotaggi di pochi
millimetri di diametro in zone tali da non compromettere la successiva analisi morfologica25. Nonostante queste precauzioni nel campionamento, alcuni ricercatori sono restii ad applicare analisi genetiche su esemplari antichi per non compromettere l’integrità delle
collezioni. La tematica in questione viene ad assumere importanza
anche nei casi in cui la comunità odierna presso la quale un reperto
è conservato riconosca al record archeologico una relazione culturale, come nel caso di discendenza biologica: difficilmente quindi
permetterà l’analisi distruttiva di frammenti appartenenti ai loro
antenati26,27. Per tali ragioni sarebbe estremamente utile riuscire a
estrarre aDNA attraverso processi mini-invasivi ovvero utilizzando
metodiche che non comportino la distruzione del materiale biologico. Attualmente si stanno elaborando dei protocolli che prevedono
l’estrazione del DNA in fase liquida28. Questi metodi non compromettono l’integrità del reperto in quanto possono produrre alterazioni chimiche con conseguenti modificazioni fisiche che non sono però
rilevabili macroscopicamente.
53
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
Nelle cellule l’integrità delle molecole di acido nucleico è mantenuta da complessi sistemi enzimatici che dopo la morte non garantiscono ulteriormente la loro attività funzionale29. In tal modo, il
DNA è soggetto a danneggiamenti da parte di fattori esogeni quali
attacchi batterici o fungini che ne limitano la preservazione30. Da
qui è comprensibile la notevole difficoltà di reperire materiale genetico endogeno da campioni antichi, seppure tale scopo possa essere
raggiunto in modo relativamente agevole nei rari casi in cui il materiale biologico risulti essere stato soggetto a rapido disseccamento
o a fenomeni di assorbimento su matrici mineralizzate31. Un altro
fattore che sembra influenzare positivamente la conservazione del
aDNA è la bassa temperatura32. Infatti, le analisi dei reperti più antichi si riferiscono a campioni biologici non umani provenienti da
regioni sub-artiche; in particolare, le ossa preservate nel permafrost
si sono dimostrate idonee al recupero di aDNA permettendo l’amplificazione di frammenti lunghi dalle 100 alle 900 bp33,34. Diversi
studi hanno altresì proposto come le dimensioni medie dei frammenti non possano eccedere le 100-500 bp e che non possa essere
recuperato DNA da reperti che eccedano il milione di anni, anche in
condizioni climatiche tra le più favorevoli35.
Fondamentale per gli studi del aDNA è stata l’invenzione della metodica della polimerizzazione a catena (Polymerase Chain Reaction,
PCR)36, mediante la quale è possibile amplificare selettivamente
tratti di DNA. Tecnicamente, la PCR è un metodo di clonaggio di
DNA che non prevede l’utilizzo di vettori, cosa precedentemente
indispensabile per amplificare tratti di materiale genetico37. Questo
metodo permette la selezione rapida, l’isolamento e l’amplificazione in vitro di qualsiasi tratto di DNA di cui siano note le estremità
al 5’ ed al 3’ della molecola: ciò avviene grazie all’utilizzo di una
DNA polimerasi termostabile (Taq polimerasi), isolata dal batterio
termofilo Thermus aquaticus, e di due sequenze oligonucleotidiche
lunghe 18-25 paia di basi (base pairs o bp), dette primers, com54
Dna antico: principi e metodologie
plementari alle regioni fiancheggianti il segmento di interesse. La
metodica prevede la ripetizione ciclica di temperature in 3 fasi principali: denaturazione del DNA originale, appaiamento dei primers
alle regioni fiancheggianti e allungamento del filamento a partire
dai primers sullo stampo fornito dal DNA originale. Nello specifico, la denaturazione prevede una temperatura elevata (in genere
94°C-96°C) per far avvenire la separazione dei due filamenti della
doppia elica del genoma che si intende analizzare; a questa segue la
fase di allineamento in cui la temperatura viene diminuita al fine di
permettere l’appaiamento tra gli oligonucleotidi e il template secondo la regola che una purina sarà complementare a una pirimidina (la
guanina alla citosina; mentre l’adenina alla timina). La fase finale di
estensione avviene a un temperatura di 72°C-74°C, in cui l’enzima
raggiunge la massima efficienza. E’ stato provato che a questa temperatura la polimerasi lega da 35 a 100 nucleotidi al secondo, perciò,
in un minuto si possono amplificare almeno 2000 basi. Il numero
di cicli varia tra i 25 e 40, in relazione alle molecole di DNA bersaglio iniziali38. Il risultato finale è un accumulo esponenziale di copie
del DNA stampo dell’ordine di 2n (con n uguale al numero di cicli
eseguiti). L’ottenimento di numerose copie di uno stesso segmento
genetico di per sé non consente l’analisi della variabilità genetica.
Infatti, tale processo è solo la prima fase dell’esperimento: le molecole ottenute devono essere quindi processate al fine di identificare
l’esatta sequenza delle basi costituenti il filamento di DNA39. Inoltre,
nello studio del aDNA è sicuramente consigliabile non fermarsi al
sequenziamento diretto dei prodotti di PCR ma è fondamentale procedere al clonaggio dei vari amplificati e sequenziare più ampliconi.
L’analisi di questi permette di discriminare tra le mutazioni presenti
in tutte le sequenze da quelle che si verificano solo occasionalmente
in uno o pochi cloni. Tale presupposto consente di distinguere la
contaminazione da DNA esogeno umano, artefatti derivanti da lesioni al DNA e anche errori della Taq polimerasi. Il clonaggio permette
55
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
di ottenere numerose copie identiche di un frammento specifico di
DNA sfruttando il meccanismo di replicazione del materiale genetico all’interno di cellule batteriche, solitamente di Escherichia coli, il
cui ciclo riproduttivo di pochi minuti garantisce di ottenere in poche
ore un numero elevato di cellule procariote. Per effettuare un clonaggio si deve inserire il tratto a doppia elica di interesse, ottenuto tramite PCR, all’interno di batteri, grazie all’utilizzo di plasmidi capaci
di attraversare facilmente la membrana plasmatica della cellula. Il
plasmide utilizzato come vettore di clonaggio deve possedere almeno un gene che conferisca resistenza agli antibiotici e un sito di inserzione per il frammento di DNA esogeno all’interno di un gene la
cui espressione fenotipica possa essere monitorata. Uno dei sistemi
maggiormente utilizzati prevede l’utilizzo di un vettore contenente il sito di inserzione dei frammenti localizzato sul gene LacZ che
codifica per l’enzima β-Galattosidasi, in modo tale che l’inserzione
del DNA amplificato tramite PCR impedisca, per frameshift, la sintesi di quella particolare proteina. Le cellule batteriche trasformate
vengono quindi fatte crescere su un terreno di coltura contenente
galattosio, il cui metabolismo può essere identificato. L’utilizzo di
galattosio da parte della cellula procariota provocherà un viraggio
cromatico delle colonie batteriche: lo stato metabolizzato conferirà
alla colonia un cromatismo blu, mentre il mancato metabolismo del
substrato potrà essere identificato da una colonia incolore. Al termine
della crescita avverrà lo screening per riconoscere le colonie cellulari contenenti il plasmide ricombinante (quindi che ha il frammento di
DNA internalizzato) che appariranno bianche rispetto a quelle prive
di plasmide o con il plasmide non coniugato all’inserto, che saranno di colore blu. Almeno 15 cloni devono essere successivamente
analizzati e sequenziati in modo da ottenere una sequenza consenso
significativa. L’analisi della sequenza è l’ultimo passaggio e permette la discriminazione della successione delle basi di un frammento
di DNA amplificato: in particolare è possibile discriminare tutti i tipi
56
Dna antico: principi e metodologie
di polimorfismi puntiformi (che equivalgono alla sostituzione delle
basi azotate nella molecola di DNA), ma anche inserzioni e delezioni di basi. La reazione di sequenza consiste in una PCR asimmetrica,
dove viene utilizzato un solo primer che consente l’amplificazione
di un singolo filamento, che tramite interpolazione con software specifici, permette di delineare la sequenza delle singole basi azotate
nel filamento amplificato. Sebbene tale metodica rimanga alla base
di molte ricerche relative al DNA di campioni antichi, oggi le nuove
frontiere tecnologiche hanno permesso di aumentare la specificità e
la sensibilità dei procedimenti per la valutazione delle sequenze di
DNA endogene, permettendo di sequenziare ampi tratti dei genomi
antichi. Come precedentemente esposto, le tecniche di analisi del
aDNA prevedono la polverizzazione di frammenti ossei o di denti
per il successivo recupero del materiale genetico40. E’ bene precisare
che il prodotto di estrazione è costituito non solo dal DNA endogeno
del reperto, ma è in realtà una complessa miscela contenente DNA
di batteri, funghi, e contaminanti presumibilmente presenti sulla superficie del campione biologico. Se per l’amplificazione di sequenze
note, specialmente quelle mitocondriali, la PCR rimane la metodica
elettiva, per l’analisi genomica si preferirà coprire stocasticamente l’insieme del genoma totale seguendo due metodi: la costruzione di una libreria di DNA; oppure il processamento con il “Next
Generation Sequencing” (NGS). Per la costruzione della libreria il
DNA è frammentato enzimaticamente e inserito in plasmidi che saranno impiegati per la trasformazione di cellule batteriche. Quindi
il clonaggio consiste nella moltiplicazione di un segmento di DNA
appartenente al genoma del reperto antico. Il clonaggio, prevede l’utilizzo di endonucleasi di restrizione che tagliano sia la totalità dei
genomi estratti che i vettori, secondo specifiche sequenze nucleotidiche. Dalle colonie formatesi si potrà quindi sequenziare il frammento clonato che varierà in funzione del segmento inserito, che sarà una
frazione casuale derivante dalla digestione del DNA totale estratto
57
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
dal reperto. Tuttavia tale tecnica non risulta facilmente percorribile,
infatti per ottenere sequenze endogene è necessario sequenziare un
gran numero di cloni: le percentuali di successo nel clonare sequenze
endogene del reperto variano da 1% a 6%41. Inoltre, attraverso tale
metodologia, è impossibile sequenziare una regione specifica del genoma, perché i frammenti ottenuti rappresentano frazioni randomizzate del genoma stesso.
I procedimenti noti come NGS permettono di analizzare un enorme dataset di sequenze mediante una particolare tecnologia. Il DNA
estratto dal campione, costituito da frammenti di dimensioni variabili, è unito a due linkers oligonucleotidici al 3’ e al 5’ della molecola
template. Tali frammenti sono poi amplificati mediante una PCR a
emulsione, dove ogni goccia di soluzione acquosa rappresenta un
micro reattore in cui si verifica l’amplificazione utilizzando primers complementari ai linkers. Inoltre, l’amplificazione è condotta
in modo tale che il nuovo filamento possa legarsi covalentemente a
delle micro-sfere: così, dopo l’amplificazione in emulsione, saranno
prodotte centinaia di migliaia di microsfere, ognuna delle quali sarà
legata a un frammento di DNA a singolo filamento originato da una
molecola stampo. Le sfere saranno poi inserite in una piastra contenente più di un milione di pozzetti entro i quali si localizzeranno, e
quindi verranno sequenziate le frazioni di DNA tramite pirosequenziamento in loco. Questa tecnica sfrutta la produzione di pirofosfato
(PPi) che si evidenzia quando si aggiunge un nucleotide alla catena polinucleotidica. La sequenza da analizzare, dopo essere stata
amplificata con la PCR, viene incubata come singola elica insieme
agli enzimi DNA polimerasi, ATP solforilasi, luciferasi e apirasi e
ai substrati adenosinsolfofosfato (ASP) e luciferina. Uno dei quattro deossi-nucleotide-tri-fosfato (dNTP) è aggiunto alla reazione. La
DNA polimerasi catalizza l’aggiunta di tale base solo se è complementare al residuo del templato. In tal caso si ha la concomitante
liberazione di pirofosfato inorganico PPi. Il PPi così prodotto viene
58
Dna antico: principi e metodologie
trasformato in ATP per opera della solforilasi mediante l’utilizzo di
ASP come substrato. L’ATP ottenuto consente la conversione della
luciferina a ossiluciferina grazie alla luciferasi con produzione di
un segnale luminoso che viene rilevato da un’apposita camera fotosensibile (CCD). L’enzima apirasi degrada il dNTP che non è stato
incorporato e l’ATP prodotto dalla solforilasi. Solo quando la degradazione è terminata si aggiunge un secondo dNTP per far progredire
la reazione di polimerizzazione. Si aggiungono ciclicamente tutti e
4 i dNTP fino a ottenere la sequenza completa. Il segnale luminoso
prodotto dalla luciferina, viene registrato in un apposito “pirogramma” in modo proporzionale all’ATP prodotto e quindi al nucleotide
inglobato: un picco di intensità doppia, per esempio, rileva che nello
stesso ciclo sono stati inglobati 2 dNTP (se presente una ripetizione
della stessa base sul templato). Viceversa un segnale nullo indica
che il dNTP aggiunto in quel ciclo non è complementare. In questo
modo è possibile raggiungere frammenti di sequenze che sovrapponendosi parzialmente (costituendo un contig) consentono di avere
sequenze consenso lunghe fino a 20-30 milioni di nucleotidi42, ed è
quindi evidente il potenziale applicativo di questa tecnica allo studio
dei genomi antichi.
Proprio la natura antica del campione tuttavia aumenta le difficoltà
di analisi: infatti, le molecole di aDNA sono contenute in cellule
non più pertinenti a tessuti vivi, quindi sono sottoposte a una serie molteplice di fattori esogeni che tendono a provocare danni non
più riparabili dai sistemi cellulari. Infatti, come conseguenza della
morte, il DNA contenuto nell’organismo va incontro a una serie di
processi degradativi che ne modificano le proprietà chimico-fisiche.
I fattori che contribuiscono alla degradazione della molecola sono
principalmente: idrolisi (che porta alla perdita delle basi azotate);
azione ossidativa delle radiazioni ionizzanti (con la produzione di
radicali liberi); modificazioni del pH (che rompe i legami idrogeno, reagisce con i gruppi ossidrili o provoca la depurinazione), ra59
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
diazioni UV (che causano interazioni intermolecolari denominate
crosslink) e la presenza di acidi umici nel terreno. Il principale danno
a carico degli acidi nucleici estratti a partire da reperti antichi è in
prima istanza identificabile relativamente alle esigue dimensioni dei
prodotti di amplificazione (tra 100 e 500 bp43). Questi frammenti di
piccole dimensioni possono essere il risultato di diverse reazioni a
carico della molecola di DNA. Per esempio, possono essere prodotti
per un blocco della DNA polimerasi: l’enzima presenta un’attività
polimerasica principale in direzione 5’->3’ del filamento, con la formazione del legame fosfodiesterico fra un terminale 3’-OH di un nucleotide di innesco e il fosfato alfa sul 5’-trifosfato di un nucleotide
libero (dATP, dGTP, dCTP, dTTP), con rilascio di pirofosfato (PPi).
L’enzima segue le regole di complementarità fra le basi (A-T/C-G)
imposte dal templato, inoltre un terminale 3’-OH è sempre richiesto,
come per tutte le DNA polimerasi, ed è sempre necessario un primer
per iniziare la sintesi. Danni indotti da radicali presenti durante i
processi decompositivi possono essere facilmente arrecati ai doppi
legami delle molecole organiche delle purine e delle pirimidine, provocando rottura degli anelli eterociclici ovvero causare la rottura degli zuccheri che conseguentemente non consentono alla polimerasi
di esplicare la sua funzione44. Altri danni a carico del aDNA possono
essere provocati da reazioni, enzimatiche e non, di rottura della catena fosfodiesterica: ciò può quindi provocare una frammentazione del
singolo filamento interessato45. Altre frammentazioni possono occorrere nel legame tra le basi azotate e la catena fosfodiesterica, con
la conseguente formazione di siti privi della base azotata46 che può
quindi provocare scissione del filamento47. Infine il DNA può anche
essere danneggiato quando i gruppi amminici della citosina, adenina
e guanina (la timina non possiede un gruppo amminico) vengono eliminati a seguito di reazioni di idrolisi (deaminazione idrolitica). Le
basi deaminate vengono rimosse in vivo da particolari meccanismi
di riparazione enzimatica, con le DNA-glicosilasi che idrolizzano i
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Dna antico: principi e metodologie
legami glicosidici tra basi deaminate e desossiribosio. L’idrolisi del
legame glicosidico di una purina deaminata produce un sito apurinico, mentre quello di una pirimidina deaminata un sito apirimidinico.
Il tratto di DNA alterato (cioè contenente un sito apurinico o apirimidinico) viene riconosciuto da una endonucleasi che taglia il filamento di DNA a una distanza di circa 4-8 nucleotidi a monte e a valle del
nucleotide danneggiato. Delle elicasi e delle esonucleasi rimuovono
e degradano il filamento singolo danneggiato48. E’ evidente che, nel
caso di reperti antichi, tale complesso enzimatico non può riparare
l’alterazione che così provocherà la sostituzione di basi nelle molecole neo formate dalla PCR. Tale fenomeno è stato ampiamente
studiato e due metodiche permettono di identificarlo: l’utilizzo del
uracil-DNA-glicosilasi, in quanto l’uracile presente nel aDNA a causa di deaminazione della citosina viene rimosso da tale enzima49; e la
comparazione delle mutazioni riscontrate con eccesso di mutazioni
C-T e G-A in cloni ottenuti da sequenze antiche deaminate50: infatti
la citosina deaminata è un uracile che porta all’incorporazione nel
filamento complementare di una adenina piuttosto che una guanina.
Anche la Taq polimerasi può incorporare nucleotidi erronei nei nuovi filamenti e per questo risulta importante il clonaggio dei prodotti
amplificati utilizzando vettori batterici51. Purtroppo, le attuali conoscenze sui danni a carico del aDNA sono tutt’altro che complete e
necessitano di ulteriori ricerche circa le possibilità di incorporare
nucleotidi errati o di analizzare molecole ampiamente danneggiate
dal tempo e da fattori esogeni.
Associato a queste problematiche vi è anche il problema della contaminazione. Fonte primaria di contaminazione sono i microrganismi
che crescono a spese del materiale cellulare, degradandolo, impoverendolo del DNA originale e arricchendolo del loro. Nel caso di resti
umani tuttavia è possibile, attraverso l’analisi di marcatori specifici,
discriminare tra componente primaria (endogena) degli acidi nucleici
e quella secondaria (batterica o fungina). Problema ben più oneroso è
61
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
rappresentato dalla contaminazione del campione con DNA moderno
umano che, necessariamente più integro del residuo, tende a venire
amplificato preferenzialmente durante la PCR. Questo tipo di contaminazione può facilmente avvenire con le manipolazioni dei resti
umani compiute, in successione, dall’archeologo, dal personale del
museo, dall’antropologo e infine dal biologo molecolare. Per evitare
questo problema sarebbe meglio analizzare anche il DNA degli operatori che sono entrati in contatto con i reperti. Al rischio d’inquinamento da manipolazione va aggiunto quello causato dall’ambiente e
dagli strumenti: la polvere è un potente veicolo di contaminazione
perché contiene peli e cellule desquamate oltre a microbi, acari e altri
organismi. Nei laboratori di antropologia molecolare i prodotti stessi
della reazione di amplificazione enzimatica, veicolati sotto forma di
aerosol, diventano la principale causa di inquinamento dell’aria, delle
apparecchiature e dei reagenti usati per le analisi. Esiste poi la contaminazione dovuta alla presenza di DNA umano nelle plastiche da
laboratorio52. I controlli negativi (ovvero miscele formate dagli stessi
costituenti della miscela per la PCR in cui manca DNA) costituiscono
in questi casi un efficace sistema per identificare la contaminazione.
Un tipo particolare di contaminazione è quello dovuto alla presenza di sostanze che inibiscono l’azione della polimerasi e che possono provenire da trattamenti di imbalsamazione o dal restauro subito
dopo il recupero, ma anche dall’interramento del reperto: può trattarsi
di composti del suolo come acidi umici, acidi fulvici e altre sostanze53. Esistono, tuttavia, sistemi di purificazione del DNA estratto che
consentono di ridurre efficacemente l’effetto inibitorio di queste sostanze. Infine, la contaminazione da DNA eterologo umano può aver
avuto origine anche in momenti precedenti al recupero e può essere
dovuta, per esempio, a gesti funerari quali la preparazione o il trattamento del cadavere, o a pratiche post-sepolcrali, quali l’apertura della
tomba, la manipolazione dei reperti, la riesumazione. Oltre ai riti funebri, fonti di contaminazione sono costituite da sepolture multiple e da
62
Dna antico: principi e metodologie
agenti patogeni. E’ importante, quindi, una documentazione accurata
sul reperto e sulla sua storia post-mortem, necessaria per prevedere
la possibilità di recuperare DNA originale dal reperto. Risulta quindi
necessario che, durante il recupero nel corso dello scavo archeologico e in tutte le fasi successive di immagazzinamento temporaneo, di
trasporto, fino alla consegna ai vari laboratori di analisi e di restauro,
siano seguite tutte le procedure e siano usati accorgimenti atti a tutelare la materia organica residua per ottenere il maggior numero possibile di informazioni54. Come norma generale, i reperti dovrebbero
sempre essere manipolati, durante il recupero, con guanti e mascherina; anche nel laboratorio di antropologia molecolare il reperto non
deve venire a contatto con DNA amplificato o con altro DNA più recente: è quindi indispensabile l’uso di guanti chirurgici, camice, cuffia e mascherina sterili e monouso. È di grande importanza la pulizia
giornaliera dell’area di lavoro e la sua decontaminazione per mezzo
di ipoclorito di sodio, la sterilizzazione degli strumenti e l’utilizzo
di reagenti monouso sterilizzati55. Obiettivo primario diviene dunque
la riduzione al minimo degli agenti contaminanti, per esempio lavorando con la massima sterilità durante tutte le varie fasi della ricerca.
Sono stati inizialmente redatti i seguenti criteri di autenticità56: (a)
eseguire degli estratti di controllo in parallelo con quelli dei campioni
antichi per rilevare la presenza di contaminazione all’interno dei reagenti utilizzati durante questa procedura; (b) su ogni campione deve
essere eseguito più di un estratto e tutti gli estratti devono restituire
sequenze di DNA identiche; (c) ci deve essere una correlazione inversa tra efficienza di amplificazione e dimensione del prodotto amplificato, che riflette la contaminazione, la degradazione e il danno nel
aDNA. Infatti, è stato dimostrato che amplificando frammenti lunghi
al massimo 100 bp aumenta la probabilità di amplificare il DNA endogeno riducendo quindi la contaminazione esogena57.
Tali criteri sono stati costantemente ampliati e aggiornati: oggi vi è
una lista di procedure a cui attenersi rigorosamente per azzerare il
63
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
rischio di contaminazione nei laboratori di indagine genetica58,59: a)
clonare gli amplificati nel caso di contaminazioni avvenute nel tempo
sulle quali non è più possibile intervenire (permette di determinare il
rapporto tra le sequenze endogene/esogene: l’ideale sarebbe trovare
frammenti sovrapponibili per accertarsi che l’eventuale variazione
della sequenza è reale e non il prodotto di errori); b) determinare attraverso Real-Time PCR la quantità di molecole di DNA amplificabili presenti in un estratto; la quantificazione deve essere eseguita
per ciascun coppia di primers che vengono utilizzati per poter ottimizzare l’esperimento60,61 c) indagare lo stato di conservazione del
reperto osseo. Tale analisi preventiva merita un approfondimento. In
primo luogo, perché è uno screening rapido per identificare i reperti
che potrebbero contenere DNA, in secondo luogo perché permette di
confermare l’esperimento in quanto in un esemplare ben conservato
è più probabile che il DNA sia preservato. Per questa indagine sono
state proposte diverse tecniche: l’analisi dei cristalli di idrossiapatite dell’osso tramite spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier
(FT-IR)62 e l’analisi degli amminoacidi presenti nella componente
organica. Metodi alternativi comprendono la stima del rapporto tra
i frammenti peptidici a singoli amminoacidi tramite spettrometria di
massa63, l’analisi istologica64,65,66,67, la determinazione dei danni del
DNA tramite gas cromatografia/spettrometria di massa68, la misurazione della porosità e densità ossea69 e la microscopia elettronica a
trasmissione70. L’analisi all’FT-IR deve essere eseguita secondo la
procedura standard che utilizza la pasticca di Bromuro di Potassio
(KBr)71. Andando ad analizzare gli spettri ottenuti con questa tecnica si ottengono molte informazioni sull’idrossiapatite, uno dei costituenti principali del tessuto osseo, e in generale sul suo stato di
preservazione; per esempio si può evidenziare se l’osso ha assorbito
carbonato di calcio proveniente dall’ambiente circostante la sepoltura
attraverso la presenza del picco a 713 cm-1 72; oppure se il cristallo di
idrossiapatite ha subìto ricristallizazione, incorporando ioni come il
64
Dna antico: principi e metodologie
fluoro (F) e quindi portando alla formazione della francolite, attraverso la presenza del picco a 1098 cm-1 73. Tramite questa indagine è
possibile anche calcolare il rapporto tra carbonato e fosfato (C/P), stimato a partire dalle altezze dei picchi, prese in riferimento a una linea
di base tra le altezze dei picchi a 1435 cm-1 (per C) e 875 cm-1 (per P),
che evidenzia contatti tra l’osso e l’ambiente circostante e possibili
incorporazioni diagenetiche, del carbonato nel cristallo74.
Infine, si può calcolare lo splitting factor (SF) o indice di cristallinità (CI), parametro fondamentale per determinare la diagenesi della
matrice ossea mediante il quale è possibile riflettere la reale dimensione del cristallo e l’estensione del reticolo degli atomi costituenti
il tessuto osseo. Con questa tecnica si evidenziano i segnali relativi
ai moti vibrazionali (di tipo torsionale) dell’orto-fosfato che assorbe
tra 500 e 600 cm-1 sia per il fosfato di calcio amorfo che per l’apatite
cristallina (Fig. 1).
Fig.1 Esempio di spettro, in assorbanza, ottenuto tramite l’FT-IR per un campione osseo
65
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
Fig. 2: Assorbanze utilizzate per il calcolo dello SF (cfr testo).
L’apatite ha un assorbimento ben definito in due bande e attraverso
lo SF si può misurare l’ammontare di questa separazione75; più aumenta, più l’apatite è stata diageneticamente deteriorata, secondo la
seguente formula:
A+ B
SF =
C
dove A e B sono le altezze dei picchi a 563 cm-1 e 603 cm-1, mentre C
è quella relativa al picco tra A e B. Tutte le assorbanze sono riferite
a partire dalla linea di base76.
Per completare l’analisi dello stato di preservazione osseo si deve
analizzare anche la componente organica valutando il tasso di racemizzazione degli amminoacidi D-amminoacidi/L-amminoacidi
tramite gas cromatografia-spettrometria di massa (GC-MS). Esso
rappresenta un importante strumento di indagine nelle analisi del
66
Dna antico: principi e metodologie
aDNA77 perché tutti gli amminoacidi, a eccezione della glicina (Gly),
otticamente inattiva, presentano due isomeri ottici (enantiomeri): D
(destro giro) e L (levo giro). Dei due, solamente l’enantiomero L viene utilizzato in natura nella biosintesi delle proteine. Dopo la morte
di un individuo, gli L-aminoacidi si trasformano in D-enantiomeri
fino a che le due forme sono presenti in egual misura (D/L=1) secondo un processo influenzato da vari fattori tra i quali temperatura,
umidità e presenza di ioni metallici. In teoria gli L-aminoacidi prodotti dagli organismi viventi impiegherebbero un tempo di 105-106
anni per racemizzare completamente78, ma tra loro l’acido aspartico
(Asp) presenta uno dei tassi di racemizzazione più veloci, ed è simile
al tasso di depurinazione del DNA79,80,81. Quindi la racemizzazione
dell’Asp può essere utilizzata come indicatore della degradazione
del DNA. Dato che l’Asp presenta una velocità di racemizzazione
maggiore degli altri amminoacidi quali l’alanina (Ala) e la valina
(Val), ci si aspetterebbe a parità d’età di trovare un valore D/L più
alto per l’Asp rispetto agli altri due (D/L Asp > D/L Ala > D/L Val)82.
Al contrario, un rapporto D/L di Val o Ala maggiore di quello di Asp
è prova di contaminazione esogena da amminoacidi83. Negli ultimi
anni84 è stato messo in evidenza che non vi è una diretta correlazione tra preservazione organica e conservazione del DNA antico,
ma sicuramente tale approccio costituisce un ulteriore strumento per
comprendere la storia biomolecolare del campione oggetto di studio. Ulteriori criteri per il controllo della contaminazione sono: d)
mantenere le aree di lavoro prePCR e postPCR fisicamente isolate
e dedicate solo allo studio del aDNA per diminuire contaminazione
da aerosol di prodotti amplificati; e) indossare sempre tute protettive
e guanti per eliminare il contatto con il materiale oggetto d’analisi;
f) tutte le plastiche e gli ambienti adibiti allo studio del aDNA devono essere regolarmente decontaminati con irradiazione di luce UV a
254nm; g) far riprodurre l’intera fase sperimentale ad altri operatori
e in laboratori diversi per individuare un contaminante in laborato67
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
rio: la replica in un secondo laboratorio è pertanto un’ulteriore precauzione per escludere la presenza di contaminati.
Le applicazioni dello studio del aDNA sono molto variegate. Sebbene
inferenze sulla filogenesi delle popolazioni umane sono ampiamente
sviluppate tramite l’analisi delle popolazioni viventi85, le relazioni tra
le popolazioni moderne possono essere confrontate anche con gruppi
umani estinti attraverso lo studio dell’aDNA. Per esempio, sono diverse le analisi svolte sul genoma mitocondriale neandertaliano, ottenuto
sia tramite sequenziamento Sanger che NGS86. Tali analisi hanno spesso evidenziato una variabilità del genoma neandertaliano non paragonabile a quella presente nella nostra specie, escludendo, per lo meno a
livelli significativi, il mescolamento tra H. neanderthalensis e
H.sapiens87,88. Tuttavia, ulteriori analisi condotte sul genoma nucleare
sembrerebbero evidenziare un certo grado, anche se minimo, di commistione89,90. Un’altra applicazione dello studio del aDNA è tesa a
esplorare le affinità e le interazioni tra popolazioni conspecifiche, andando a integrare evidenze di tipo linguistico-culturale. Infatti, attraverso lo studio del aDNA si può ricostruire l’evoluzione diacronica di
una popolazione, correlando i cambiamenti genetici a modificazioni
demiche o culturali. Tale approccio è stato ampiamente utilizzato per
indagare la continuità genetica delle popolazioni mesoamericane precolombiane91 o per spiegare le dinamiche del processo di neolitizzazione in Europa92,93. Se da una parte le ricerche menzionate analizzano il DNA antico a livello popolazionistico, approcci maggiormente
selettivi possono essere valutati conoscendo specifiche regioni genomiche. Attualmente si stanno sempre più diffondendo ricerche tese a
identificare marcatori genetici nei genomi antichi, tali da essere considerati buoni indicatori fenotipici grazie a studi di comparazione
funzionale con genomi moderni. Infatti l’identificazione di polimorfismi nei genomi antichi, può essere indicativo nel delineare caratteristiche fenotipiche delle popolazioni passate, intese come insieme di
singoli individui, tali da poter essere relazionate a fenomeni di adat68
Dna antico: principi e metodologie
tamento94. Uno dei polimorfismi più studiati è quello relativo alla capacità anche in età adulta di digerire il lattosio, uno zucchero presente
nel latte che ne costituisce circa il 2-8%. E’ un disaccaride costituito
da glucosio e galattosio, digerito nell’intestino tenue dall’enzima
β-D-galactosidasi (lattasi) e trasformato in zuccheri semplici che
possono essere assorbiti. La principale fonte naturale di lattosio è il
latte, che spesso è l’unica fonte di alimento per i neonati. Nella maggior parte dei mammiferi la produzione dell’enzima lattasi diminuisce con l’età quando il latte non è più consumato ed è la ragione per
la condizione nota come “intolleranza al lattosio”. Se il latte o un altro
prodotto lattiero-caseario continuano a essere assunti nella dieta dopo
che la produzione dell’enzima è stata ridotta a livelli insufficienti, il
lattosio che non è assorbito passa nel colon dove è metabolizzato dai
batteri con il processo della fermentazione, creando una miscela di
diossido di carbonio, idrogeno e metano. E’ questa produzione di gas
che causa i sintomi addominali dell’intolleranza al lattosio: crampi
addominali, gonfiore e flatulenza. Tale caratteristica sembra essersi
originata in eventi indipendenti come forme di evoluzione convergente in diverse popolazioni95. Studi sul aDNA hanno mostrato come
nella popolazione europea la persistenza è un’acquisizione relativamente recente, che non riguarda le popolazioni neolitiche che occupavano i territori europei96. Tali indicazioni quindi suggeriscono come
la persistenza in Europa si sia sviluppata solo dopo che il consumo di
latte è andato crescendo con l’adozione della pastorizia: circa 7500
anni fa una mutazione è avvenuta nell’Europa centrale in una zona di
allevamento da latte, risultante nella produzione continua dell’enzima lattasi anche negli adulti. È probabile che la mutazione, nel gene
LCT97, sia stata sottoposta ad una pressione selettiva in quanto il latte
è un’importante fonte di calcio e vitamina D (soprattutto nelle regioni
del nord dove il clima è più freddo e poco soleggiato). Caratteristiche
molecolari con riflessi fenotipici sono state identificate anche nel genoma neandertaliano: i geni FOXP298 e il gene MCR199 sono stati
69
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
recentemente identificati nel materiale genetico di H. neandertalensis. Nello specifico è stato possibile identificare come il gene FOXP2
sia condiviso tra H. neandertalensis e H. sapiens, e poiché tale gene
è stato relazionato alla nascita del linguaggio articolato nella nostra
specie, sono evidenti le implicazioni culturali che da tale condivisione possano essere generate100. Anche il gene che codifica per il recettore della melanocortina (MCR1) è stato analizzato in due reperti
neandertaliani provenienti dalla Spagna (El Sidrón 1252) e dall’Italia
(Monti Lessini) in quanto correlato a funzionalità regolatorie dei pigmenti della pelle e dei capelli. I reperti neandertaliani evidenziarono
come la sequenza genica del recettore era caratterizzata da una mutazione responsabile di minor efficienza (loss of function): la mutazione
provocherebbe un cambiamento amminoacidico che risulterebbe in
pelle di colore chiaro e capelli tendenti al rosso. La mutazione neandertaliana è a oggi assente nelle popolazioni umane, suggerendo
come le diverse varianti geniche possano essere derivate da eventi
mutazionali disgiunti. Sebbene tali approcci siano stati ampiamente
utilizzati negli ultimi anni, la potenzialità informativa degli SNP
identificati nei genomi antichi è tuttora limitata, in quanto le variazioni fenotipiche prodotte sono spesso riferite e comparate alle variazioni fenotipiche prodotte da mutazioni in genomi moderni101. Altra applicazione degli studi di aDNA è la ricostruzione dei rapporti di
parentela tra gli individui di un sito: è il caso in cui il rinvenimento di
piccoli gruppi umani consenta di ipotizzare rapporti di parentela da
districare attraverso l’analisi molecolare, che di norma permette anche di determinare il sesso, a livello molecolare, degli individui. Tale
applicazione è stata eseguita su molteplici campioni, che vanno da
gruppi neandertaliani102; fino a necropoli mongole103 e dell’età imperiale romana (Catalano et al., comunicazione personale). Infine il
DNA antico può essere utilizzato anche per caratterizzare patologie
presenti in reperti antichi. Diverse sono le tipologia patologiche riscontrabili su materiale antico, e spesso riguardano non direttamente
70
Dna antico: principi e metodologie
il aDNA umano quanto piuttosto il materiale genetico di parassiti. Il
primo DNA patogeno rinvenuto in campioni antichi è stato quello del
batterio Mycobacterium tuberculosis104, rapidamente seguito dal
Mycobacterium leprae105. Tali ricerche spesso sono andate caratterizzando casi documentati di epidemie, in cui tali microrganismi patogeni potevano aver avuto un ruolo chiave nella patogenesi106. La preservazione e la persistenza di DNA batterico antico, se da una parte può
apparire controversa107, è stata dimostrata da diverse ricerche che indicano come i microrganismi possano attuare una serie di meccanismi che permettano di sopravvivere in condizioni sub-ottimali, mantenendo la stabilità del loro materiale genetico108. Diverse sono le
ricerche incentrate su tali assunti, tra le quali l’analisi di una tomba
israeliana datata al I sec. d.C.109, che rappresenta la prima sepoltura a
datazione certa di un individuo sofferente di tubercolosi e lebbra,
identificate a livello molecolare. Altro caso di utilità dello studio molecolare dei reperti antichi è quello che prevede l’identificazione molecolare di patogeni in reperti archeologici con diagnosi paleopatologiche indefinite. Nella cittadina albanese di Butrint (X-XIII secolo
d.C) l’analisi antropologica aveva infatti evidenziato lesioni osteolitiche circolari sulle vertebre toraciche e lombari conformi a diverse
patologie come tubercolosi o brucellosi, altra patologia di origine batterica da Brucella sp. Lo screening genetico incentrato su tali agenti
eziologici ha permesso di identificare il materiale genetico di Brucella
sp., batterio facilmente trasmissibile attraverso contatti tra uomo e
bovini. Tale osservazione ha confermato come la Brucellosi fosse endemica dell’area a partire dal Medio Evo110. Recentemente, infine, è
stato analizzato il genoma completo del batterio Yersinia pestis isolato da reperti scheletrici pertinenti ad individui deceduti durante la
Peste del 1300111. Tale ricerca ha permesso di accertare come non
sussistano sostanziali modificazioni della sequenza batterica rispetto
al patogeno moderno, non consentendo quindi di identificare la motivazione per la quale la Morte Nera del 1300 fosse stata particolar71
Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards
mente aggressiva e virulenta. Tale epidemia sorse in Europa dal 1347,
forse proveniente dall’Asia, e velocemente si diffuse su tutto il continente europeo obbligando i governi a predisporre aree cimiteriali dedicate, per accogliere i numerosi decessi. Proprio da una di queste
aree cimiteriali sono stati campionati gli elementi dentari per estrarre
il aDNA. Attraverso una metodologia di selezione dei genomi batterici si è riuscito a trascurare il materiale genetico umano e di contaminanti ambientali (ad esempio altre forme batteriche presenti nel suolo) per sequenziare, attraverso metodiche NGS, l’intero genoma di
Y. pestis. L’analisi del genoma ha quindi dimostrato come, non essendoci sostanziali differenze tra ceppi batterici, la estrema gravità della
Morte Nera poteva essere ascritta alle condizioni epidemiologicoambientali caratteristiche del periodo112.
Parimenti ai batteri, anche alcuni parassiti possono essere identificati tramite il loro materiale genetico conservato nel tempo. Infatti,
spesso, l’interesse non è solo quello di identificare gli effetti di alcune parassitosi su corpi mummificati, ma il recupero di materiale
genetico pertinente agli agenti parassitari e la possibilità di analizzare
tale materiale genetico. Uno degli articoli pioneristici sulla presenza
di patologie causate da parassiti era relativo al Chagas, causata da
Trypanosoma sp., identificato in mummie provenienti dal deserto di
Atacama113 attraverso l’analisi delle lesioni cardiache. A partire dalla
fine degli anni ’90 sono iniziate una serie di ricerche atte ad identificare ed isolare, a partire da mummie peruviane datate 4000 anni fa,
il DNA del Trypanosoma cruzi114. Ricerche successive portarono alla
pubblicazione di diversi lavori circa l’isolamento del aDNA pertinente il parassita anche in mummie Chinchorro datate 9000 anni fa115,
che permise di identificare come il morbo di Chagas fosse presente
nelle società pre-Colombiane e che i gruppi umani preistorici probabilmente ebbero contatti con il parassita in diverse modalità116. Infine
un’altra classe di patologie possono esser evidenziate tramite lo studio del aDNA: i tumori. Esempio di questa applicazione è stata l’ana72
Dna antico: principi e metodologie
lisi dei resti mummificati appartenenti al Re Ferrante I d’Aragona117.
In questo caso la dissezione del corpo mummificato aveva evidenziato una massa neoplasica nella pelvi. Le analisi molecolari dei tumori
antichi offre la preziosa possibilità di valutare la storia delle neoplasie
e porle in relazione alle alterazioni genetiche, allo stile di vita ed ai
fattori di rischio ambientali. Data la esigua numerosità campionaria
disponibile per tumori dei tessuti molli, è evidente come il caso di un
Re, con la sua vita dettagliatamente vivisezionata da cronache coeve,
possa rappresentare un ottimo campione per investigare il ruolo di
fattori esogeni allo sviluppo della cancerogenesi. A livello molecolare lo sviluppo di un tumore è legato all’insorgere di mutazioni in geni
denominati proto-oncogeni, spesso legati a funzioni del ciclo cellulare118. Nello specifico sono stati analizzati il proto-oncogene K-ras,
particolarmente correlato, se “attivato” da mutazioni, a tumori colorettali119 , e il gene BRAF, mutato in un ampio ventaglio di espressioni
tumorali120. I risultati ottenuti concordarono con un pattern mutazionale nel gene K-Ras, che comporta anche una mutuale esclusione delle mutazioni in BRAF nei tumori colo-rettali, rappresentando fattori
indipendenti nella carcinogenesi del colon121.
Le molteplici applicazioni menzionate evidenziano come il DNA antico possa esser senza dubbio considerato un utile strumento per l’analisi della variabilità genetica delle popolazioni passate. Nonostante
le numerose limitazioni imposte sia dal carattere estremamente labile del aDNA che dagli approcci metodologici di ultima generazione,
di cui progressivamente si perfezionano le applicazioni, è evidente
come tale componente possegga delle qualità intrinseche che possano esser tramutate in notevoli ambiti di ricerca differenziali. Tali
ambiti, se da una parte non permetteranno ai dinosauri di tornare
sulla Terra, né ai neandertaliani di ricolonizzare l’Europa, tuttavia
possono essere una ricchissima fonte di conoscenza sulla biologia e
sull’evoluzione delle specie del nostro Pianeta.
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19. Cfr. op. cit. nota 3.
20. GILBERT M.T., TOMSHO L.P., RENDULIC S., PACKARD M., DRAUTZ
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37. Cfr op. cit. nota 1
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42. Cfr op. cit. nota 16.
43. HOFREITER M., JAENICKE V., SERRE D., HAESELER A.V.A., PÄÄBO
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by cytosine deamination in ancient DNA. Nucleic Acids Res. 2001; 29:
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44. FRIEDBERG E.C., WALKER G.C., SIEDE W., DNA Repair and Mutagenesis. Washington D.C ASM Press, 1995.
45. Cfr. op. cit. nota 28.
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47. Cfr. op. cit. nota 41.
48. MAITI A., NOON M.S., MACKERELL A.D. JR, POZHARSKI E., DROHAT A.C., Lesion processing by a repair enzyme is severely curtailed by
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Cfr op. cit. nota 3.
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Cfr. op. cit. nota 40.
SCHMIDT T., HUMMEL S., HERRMANN B., Evidence of contamination
in PCR laboratory disposables. Naturwissenschaften 1995; 82: 423-431.
Cfr. op. cit. nota 24.
Cfr. op. cit. nota 24.
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Cfr. op. cit. nota 3.
Cfr. op. cit. nota 5.
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74. Cfr. op. cit. nota 60.
75. Cfr. op. cit. nota 50.
76. Cfr. op. cit. nota 59.
77. Cfr. op. cit. nota 34.
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83
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 85-100
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
ASPETTI DI PALEOPATOLOGIA DELLA POPOLAZIONE DI
ERCOLANO (79 d.C.)
Sciubba Mariangela°, Paolucci Assunta °,
D’anastasio Ruggero*, Capasso Luigi*
* Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti – Pescara, Facoltà di Medicina
e Chirurgia, Chieti, I
°Museo Universitario di Chieti, I
Summary
Paleopathology of Herculaneum’s population (79 d.C.)
In 1982, some occasional excavations in the area corresponding to the
ancient beach of Ercolano brought to light the rests of around 250
individuals, victims of the eruption of the Vesuvius.
This exceptional recovery constitutes an essential patrimony for the
reconstruction of the paleobiology and the paleopathology of the human
populations in Roman epoch, in relationship not only to the style of life
but also to the social and economic status. Notwithstanding the bone
alterations due to the exposition to high temperature, the human remains
present traces of illness. Among these we find rheumatic pathologies and
arthrosis of the vertebral column. The high frequency of occupational
markers (enthesopaties and sindesmopaties) suggests that the most part
of the population (juveniles included) exercised hand work. Among the
infectious pathologies we report cases of the tuberculosis and brucellosis.
Introduzione
Nella notte tra il 24 e il 25 agosto del 79 d.C., durante l’eruzione del
Vesuvio, la città di Ercolano fu seppellita da quasi trenta metri di materiali vulcanici. Dell’antica città si perse la memoria fino a quando
Key words: Herculaneum – Paleopathology – Tuberculosis - Pott’s disease Brucellosis
85
Sciubba Mariangela et al.
nel 1738, durante lavori occasionali, ebbero inizio i primi ritrovamenti archeologici. Da oltre due secoli ormai, scavi sistematici hanno permesso il rinvenimento di quasi un terzo dell’antica estensione
della città e della sua periferia, con strade, edifici pubblici e privati,
oggetti, suppellettili di ogni tipo, persino mobili in legno ben conservati, ma anche resti di cibo e tessuti; tuttavia, all’interno della città
furono rinvenuti i resti di sei individui soltanto. Per questo motivo,
si era fatta largo l’ipotesi di un’efficace evacuazione, che aveva permesso di mettere in salvo la quasi totalità degli abitanti, a differenza
di quanto accaduto nella vicina Pompei. Nel 1982, giunge la smentita, quando gli scavi vennero estesi all’area che corrispondeva all’antica spiaggia di Ercolano: infatti, tanto all’interno dei ricoveri per le
barche, quanto sulla spiaggia aperta, furono rinvenuti ammassati i
resti di oltre 250 persone, sorprese mentre erano in attesa di mettersi
in salvo per l’unica via di fuga possibile: il mare (Figg. 1 e 2).
Il materiale preso in esame per lo studio paleopatologico è costituito
dai resti prevalentemente scheletrici, appartenenti a 163 individui,
diversi per età, sesso e stato di salute. Per quanto concerne lo stato di
conservazione, questo risulta essere generalmente eccellente, grazie
al particolare processo di seppellimento e, soprattutto, alla granulometria fine del sedimento. Infatti, il processo di disidratazione dei
corpi si completò al di sotto della spessa coltre di deposito piroclastico (di circa 600°-800°C)1, che favorì al tempo stesso una vera e
proprio sterilizzazione, dovuta alle elevate temperature, e fenomeni
di impregnazione da parte di sali minerali prodotti all’interno delle
ceneri per azione degli acidi presenti nel materiale eruttivo2.
Pertanto tali condizioni hanno consentito da un lato la perfetta conservazione delle strutture scheletriche, perfino le più delicate, anche
se talune ossa si presentano allo stato frammentario e alcuni scheletri
sono incompleti, dall’altro, invece, la straordinaria conservazione di
tessuti molli (dando origine a fenomeni di mummificazione minore). Complessivamente sono stati esaminati circa 30.000 segmenti
86
Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.)
Fig. 1 - Ricostruzione della spiaggia di Ercolano al momento dell’emissione del primo
surge nella notte fra il 24 e il 25 agosto del 79 d.C.; è messo in evidenza il percorso compiuto dai fuggiaschi per raggiungere la linea di costa. (Disegno di Nicola Di Nardo)
scheletrici, mediante l’utilizzo di radiografie, analisi istologiche e
chimiche, talvolta anche in microscopia elettronica.
Di questo cospicuo campione sono stati analizzati diversi aspetti:
quello antropometrico, valutando i principali parametri metrici dello
scheletro, paleodemografico, fornendo una stima del sesso e dell’età,
diagenetico, studiando le alterazioni subite post–mortem, chimico,
eseguendo analisi microelementari per la ricostruzione della dieta, e
soprattutto paleopatologico, analizzando le numerose tracce lasciate
sulle ossa dalle malattie.
Nel presente lavoro queste alterazioni scheletriche (peraltro già oggetto di separate pubblicazioni specialistiche) sono state prese in
87
Sciubba Mariangela et al.
Fig. 2 - Mappa della distribuzione dei morti sull’antica spiaggia di Ercolano. (Disegno di
Nicola Di Nardo)
considerazione con lo scopo di proporre una ricostruzione sintetica
dello stato di salute della popolazione, anche in relazione allo stile di
vita e di lavoro ed in relazione all’ambiente sociale ed economico3.
Paleodemografia
Il campione oggetto di studio del nostro lavoro costituisce un caso
particolare, poiché trattandosi di un gruppo di persone vittime di un
unico evento catastrofico, esso rappresenta un campione di popolazione “viva”, e pertanto riflette la stessa composizione esistente nella
città (campione “sincrono”)4.
Per questa ragione la sua analisi non può affidarsi a modelli statistici
propri della paleodemografia, ma si deve avvalere dei metodi specifici delle popolazioni vive e quindi dei dati relativi ai censimenti.
Da un’attenta stima dell’età alla morte effettuata mediante analisi
macroscopiche (valutazione del grado di usura dentaria (Lovejoy,
88
Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.)
1985; Miles, 1963), stato di riassorbimento delle suture craniche,
alterazione della sinfisi pubica (Katz and Suchey, 1986), ossificazione delle coste cartilaginee), radiografiche ed istologiche dei reperti,
è stato possibile costruire una piramide delle età, dalla quale risulta
evidente che i 163 individui rappresentino tutte le classi di età comprese fra 0 e 60 anni (Fig. 3). La piramide, inoltre, dimostra la presenza consistente di bambini al di sotto dei 5 anni di età che, insieme
alle fasce di età compresa fra 20 e 25 anni, e fra 25 e 30 anni (tutte
con una percentuale dell’11,9%), risultano essere le più rappresentative della popolazione. Un dato significativo è la bassa percentuale
degli individui compresi fra i 15 e i 19 anni (Fig. 3). Tale anomalia
potrebbe essere dovuta ad una crisi di natalità verificatasi in seguito
al terremoto del 62 d.C.
Aspetti di Paleopatologia
I segni ossei lasciati dalle differenti patologie sul nostro
campione ci hanno permesso
di ipotizzare un quadro globale sullo stato di salute della
popolazione di Ercolano. Da
un’analisi attenta e approfondita è possibile dedurre che,
accanto a malattie di tipo occasionale, quali i tumori, pur
attestati nel campione di riferimento, le patologie riscontrate con maggiore frequenza
sono quelle strettamente connesse con le attività lavorative
e con le abitudini ed i comportamenti particolari (tab. 1).
Fig. 3 - Piramide della distribuzione della popolazione di Ercolano per classi di età, a sessi
unificati.
89
Sciubba Mariangela et al.
Difetti di prima
formazione e tratti
epigenetici
Tratti paleoergonomici da sovraccarico
Tratti legati a comportamenti o abitudini peculiari
Sofferenze generalizzate aspecifiche
Patologia dentaria
collegata alla composizione della dieta
Epizoonosi, parassitosi, patologia da
inquinamento
patologia
Apofisi lemuroide della mandibola
Forame parietale agenetico
Ossa wormiane lambdoidee
Schisi archi vertebrali
Ponticula atlantis versus forame arcuate
Anomalie costali
Anomalie sternali
Perforazione olecranica
Articolazione sacro – iliaca accessoria
Piccolo trocantere duplicato di Burman
Rotula emarginata
Processus posterior dell’astragalo
Os tibialis laterale
Agenesie dentarie
Parastilo nei molaretti
Trema
Artrosi (tutte le localizzazioni)
Artrosi (colonna vertebrale)
Osteocondriti
Ernie intraspongiose
Fossa romboide (maschi)
Fossa romboide (femmine)
Faccette del Poirier
Bursite di Wells
Lesioni post – traumatiche da calzatura
Periostite da stasi
Fratture scheletriche
Usura extramasticatoria denti anteriori
Cribra orbitalia
Linee ipoplastiche dello smalto
Linee di Harris
Tartaro
Carie
Denti deiscenti
Usura dentaria extramasticatori degli incisivi
Tubercolosi
Brucellosi
Depressione sovra - iniaca
Pleurite pregressa (?)
Tab. 1 Morbilità delle principali patologie (patocenosi)
90
%
4,4
6,3
13,8
8,8
17,2
8,6
6,9
16,3
6,5
3,2
7,5
2,5
4,4
16,5
11,1
4,4
74,2
63,4
21,3
50,5
41,3
6,5
16,1
6,5
25,8
15,1
10,6
18,4
7,5
70,0
16,9
30,2
40,3
37,4
18,4
2,2
17,2
21,9
11,9
Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.)
Appartengono proprio a questo ambito alcuni esempi selezionati che
riportiamo di seguito.
Traumi e attività lavorative
Le malattie riscontrate con più frequenza derivano da traumi connessi soprattutto ad attività lavorative, prime tra tutte quelle di
carattere reumatico come l’artrosi della colonna vertebrale, che
colpiva più della metà della popolazione adulta. Pertanto si può
supporre uno stile di vita che sottoponeva la colonna vertebrale a sforzi ripetuti e gravosi, e quindi ad un sovraccarico di tipo
cronico. L’ipotesi di un’esposizione della popolazione a fattori di
rischio correlati a lavori usuranti sembra essere confermata dallo
studio delle enteso- e sindesmopatie. E’ possibile riscontrare nel
41,3% dei maschi adulti e nel 6,5% delle femmine adulte tracce
di sindesmopatia del legamento costo-clavicolare, sottoposto a sovraccarichi dall’azione congiunta dei muscoli degli arti superiori e
del capo. Si evince, pertanto, che la popolazione di Ercolano svolgeva attività lavorative pesanti e continuative nel tempo ed erano
soprattutto i maschi adulti le persone più esposte a questo tipo di
patologia. Accanto alla percentuale degli individui adulti, però,
troviamo anche un 11,5% di fanciulli (anche bambini fra i 5 e gli
8 anni di età), con lesioni sindesmopatiche. Pertanto non risulta
difficile ipotizzare che il lavoro minorile doveva essere una prassi
abituale nella società romana di Ercolano5.
Fratture o malattie traumatiche
Nel nostro campione, le fratture e i loro esiti si presentano con aspetti
differenti da quelli solitamente riscontrabili in paleopatologia; questo perché, come già accennato, la morte istantanea degli individui
ha “cristallizzato” anche le patologie traumatiche dello scheletro che
ci appaiono pertanto in tutti i loro stadi di riparazione, e ciò costituisce un ulteriore e importante motivo di interesse del campione.
91
Sciubba Mariangela et al.
Sono 17 i soggetti portatori di fratture e loro esiti, si tratta in prevalenza di soggetti maschili. In molti casi, inoltre, il meccanismo di
insorgenza della lesione ossea rivela la dinamica del trauma e, accanto a traumi sicuramente di natura accidentale, come caduta a terra
sull’avambraccio (E 8) o sul mento (E 109), sono dimostrati anche
meccanismi connessi a comportamenti violenti (E 14).
I resti scheletrici, al tempo stesso, rappresentano per noi una preziosa testimonianza dei trattamenti medici e dell’assistenza nei confronti dei malati, documentata anche dal rinvenimento di strumentaria chirurgica. Ad Ercolano sono numerosi i casi di intervento a
scopo terapeutico; in particolare ricordiamo il caso di un fanciullo di 8
anni di età (E 8), al quale, in seguito
ad una frattura dell’avambraccio, fu
applicato un mezzo di contenzione
esterno, sottoforma di un’asticella
di legno di vite, peraltro descritta
da Aulo Cornelio Celso come “ferula”6 (Fig. 4)
Altrettanto ricorrenti nei soggetti
adulti sono le neoformazioni ossee
subperiostali a carico della faccia
superiore e mediale del I metatarsale e di quelle superiore e laterale del V metatarsale. Queste ossificazioni corrispondono ai punti
di contatto fra il dorso del piede
e parti della tomaia delle calzature. Infatti alcune calzature tipiche
Fig. 4 - Scheletro dell’avambraccio dell’epoca erano rappresentate da
destro con frammenti di ferulae di le- sandali e calcei, in entrambi i casi
gno di vite, componenti del canalis.
una parte della tomaia prevedeva il
92
Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.)
Fig. 5 - Calzature tipiche del I sec. d.C. e lesioni a carico del navicolare – II cuneiforme e dei metatarsi I e V. (Disegno dell’articolazione di Nicola Di Nardo)
contatto con il primo e l’ultimo metatarsale. Inoltre anche la parte
più elevata del dorso del piede poteva subire le sollecitazioni dirette provocate dal contatto. E’ stato dimostrato che tendono a sviluppare una malacia del navicolare i piedi nei quali il navicolare
non si presenta esattamente allineato alla curva che le altre ossa del
tarso disegnano sul dorso del piede7. Questa patologia si manifesta
con la comparsa di piccole cavità geodiche a livello dell’angolo
antero-superiore del navicolare e dell’angolo postero-posteriore
del II cuneiforme; inoltre, compaiono anche irregolarità dei margini ossei e metaplasia ossea del legamento dorsale fra navicolare e
II cuneiforme (Fig. 5)8.
Malattie infiammatorie
Gran parte delle lesioni ossee, inoltre, sono dovute a reazioni di
tipo infiammatorio, come nei numerosi casi riscontrati di affezione
dell’albero respiratorio (20,4 % della popolazione adulta), dimostrate sia sottoforma di sinusiti mascellari che di aderenze pleuroparietali con periostite costale (Fig. 6). Queste forme senza dubbio
sono da collegare al possibile inquinamento casalingo prodotto dalla combustione domestica di materiali organici a scopo di illuminazione, di riscaldamento e di cucina9.
93
Sciubba Mariangela et al.
Fig. 6 - Neoformazioni ossee e docce sulla faccia pleurica sulle coste.
Malattie infettive
Tra le patologie più ricorrenti troviamo quelle di natura infettiva.
Sicuramente di derivazione epizoonotica è la tubercolosi, provocata
dall’infezione da parte del Mycobacterium tubercolosis. Nei casi in
cui l’infezione colpisce lo scheletro, le ossa più colpite risultano essere quelle a struttura spongiosa, in particolar modo le epifisi delle
ossa lunghe, le ossa corte, come vertebre, ossa del tarso e del carpo
e le coste. Una forma particolare di tubercolosi, denominata morbo
di Pott, colpisce prevalentemente i corpi vertebrali delle vertebre
toraciche causandone, a volte, il collasso, con conseguente formazione di un gibbo. Tale patologia risulta essere attestata anche ad
Ercolano (Fig. 7).
Causa del contagio potrebbe essere stata l’impiego alimentare di carne bovina, viscere e interiora, nel corso di riti sacrificali, piuttosto
che il consumo di latte vaccino a scopo alimentare, che non risulta
essere attestato in questo periodo10.
Oltre alla tubercolosi ossea, molto frequente era la brucellosi, causata dall’infezione da parte delle brucelle. La brucellosi umana
94
Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.)
è una polisierosite cui fanno seguito
localizzazioni articolari che lasciano
segni ossei. La localizzazione alla
colonna vertebrale comporta una caratteristica epifisite vertebrale anteriore, prevalentemente a carico della
4ª e 5ª vertebra lombare, con distruzione dell’angolo vertebrale anteriore superiore (senza lesioni sul corpo
vertebrale affrontato) e con sottostante reazione endostale di addensamento (Fig. 8). Ad Ercolano almeno
il 16% della popolazione presenta
lesioni della colonna vertebrale compatibili con quelle provocate dalla
Fig. 7 - Lesioni tipiche da tubercospondilite brucellare. La ragione di losi alla colonna vertebrale.
questa elevata frequenza è da ricercare nella grande diffusione di ovini nel mondo romano. Proprio
la pecora, infatti, è l’animale più allevato dai Romani per la carne
(soprattutto quella di agnello) ed il latte, sia fresco che sottoforma
di derivati, come le molte varietà di formaggi. Lo studio microbiologico del formaggio caprino conservatosi carbonizzato (Fig.
9) nel nostro sito ha dimostrato la presenza di brucelle quali fonti
dell’infezione umana11.
Infine, tra le malattie infettive più diffuse nella popolazione troviamo l’infestione da pidocchi del capo (pediculosi). Infatti, in molti
dei soggetti analizzati, risultano essere frequenti i fenomeni di alterazione erosiva del tavolato cranico esterno (depressione al disopra dell’inion), dovuti all’attivazione del periostio locale, quando
questo viene coinvolto in infezioni a provenienza transcutanea. Si
tratta di lesioni da grattamento del cuoio capelluto, associate proprio a pediculosi del capo, e rappresentano la causa più ricorrente
95
Sciubba Mariangela et al.
Fig. 8 - Vertebra lombare colpita da epifisite anteriore brucellare. E’ possibile riconoscere
la caratteristica distruzione dell’angolo vertebrale anteriore superiore limitatamente alla
zona di impronta dell’anulus fibrosus; la stessa vertebra radiografata in proiezione latero–
laterale dimostra un addensamento al di sotto dell’angolo distrutto dall’osteolisi (segno di
PEDRO-Y-PONS); la sezione sagittale della stessa vertebra dimostra che l’aumento della
radio-opacità visibile radiograficamente è dovuto ad un addensamento e ad un ingrossamento delle trabecole al di sotto dell’area di osteolisi (sclerosi endostale).
Fig. 9 - Resti carbonizzati di formaggio caprino; Brucellae melitensis osservate al microscopio elettronico a scansione.
dei rimodellamenti del tavolato esterno della volta cranica, nella
regione al disopra dell’inion. Quasi il 22% della popolazione presa
in esame presenta alterazioni di questo tipo. Un caso particolare è
rappresentato da un soggetto di sesso femminile (E 52). In esso a
seguito di un processo di impregnazione di sali di ferro, derivanti
dall’ossidazione di un fermaglio per capelli, si sono conservati non
solo i capelli della donna ma anche uova di pidocchi carbonizzate,
ma perfettamente riconoscibili (Fig. 10)12.
96
Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.)
Fig. 10 - La vasta incrostazione a destra del vertex è il risultato dell’ossidazione di un
fermaglio; i sali derivati hanno impregnato i capelli circostanti ed il sottostante cuoio
capelluto preservandoli fino ad oggi con un vero e proprio processo di fossilizzazione;
evidente sviluppo della linea nucale superiore con presenza di una depressione al di sopra
dell’inion; frammento di capello con adeso il lendine osservato al microscopio elettronico
a scansione (101x).
Conclusioni
Le fonti paleopatologiche dirette (rappresentate da resti scheletriche da resti organici quali capelli e alimenti) ci hanno consentito di
delineare un quadro complessivo dell’assetto paleopatologico della
comunità ercolanense in epoca romana. Ad Ercolano la patocenosi
si presenta per lo più dominata da patologie legate alle attività lavo97
Sciubba Mariangela et al.
rative usuranti, come artrosi, osteocondriti e soprattutto entesopatie
e sindesmopatie. I bambini e gli adolescenti non erano esentati dai
lavori usuranti, come dimostra l’elevata frequenza della sindesmosi
costo-clavicolare nelle prime fasce di età. Inoltre, una parte consistente della popolazione era affetta da patologie di natura infettiva,
in particolare dalla brucellosi, che colpisce il 17% della popolazione
di derivazione epizoonotica attraverso il largo uso del latte ovino, sia
fresco che trasformato in formaggi. Si segnala, inoltre, la presenza di
tubercolosi ossea di possibile derivazione epizoonotica attribuibile
all’uso alimentare di carne bovina usata nel corso di sacrifici religiosi. Risultano, inoltre, essere piuttosto frequenti le lesioni ossee
dovute a grattamento del cuoio capelluto, causato da pediculosi.
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Correspondence should be addressed to:
Dott.ssa Mariangela Sciubba, Università degli Studi “G. d’Annunzio”, Museo
Universitario, Piazza Trento e Trieste 1, 66100 Chieti
99
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 101-118
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
IL CONTRIBUTO DELL’ANALISI TRAUMATOLOGICA
NELLA RICOSTRUZIONE DELLO STILE DI VITA DELLA
COMUNITÀ DI CASTEL MALNOME (ROMA, I-II SEC. D.C.).
Paola Catalano*, Carla Caldarini§, Romina Mosticone§,
Federica Zavaroni§
* Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma
§
Collaboratore del Servizio di Antropologia della Soprintendenza Speciale per i
Beni Archeologici di Roma
SUMMARY
the contribute of the trauma analysis to reconstruct the
lifestyle of castel malnome community (rome, i-ii cent. a.c.)
The relations between fractures and living conditions of a population are
important to reconstruct the biological status of a population.
This work is focused on the description and interpretation of trauma in
the skeletal remains: the sample consist of 218 individuals, coming from
Roman imperial necropolis of Castel Malnome (I-II century AD).
The trauma incidence has been considered by the calculation of frequencies
per individual and per bone. The examination of the pattern of fractures in
the skeleton for this site indicates that the individuals are characterized by
high level of trauma and reveals that ulna and ribs were the most frequently
affected bones.
The evidence of trauma in this population may reflect many factors about
the lifestyle of individuals, for example their occupation and environmental
conditions, moreover the state of healing of the injuries may also indicate
the availability of treatments.
Key words: Roman Imperial Age – Fractures – Population - Life conditions
101
Paola Catalano et al.
Introduzione
Lo studio popolazionistico può avvalersi dell’esame delle lesioni
traumatiche per ottenere informazioni, anche se indirette, sulle attività lavorative e sui rischi ad esse connesse; le modalità di guarigione possono inoltre chiarire il grado di assistenza medica e di
cooperazione sociale all’interno di una comunità1.
Un campione di 218 individui, afferenti al complesso cimiteriale di
via di Castel Malnome2, all’estremo Suburbio occidentale di Roma,
ha evidenziato un interessante modello traumatologico.
Lo studio antropologico ha fatto registrare un’elevata frequenza di
entesopatie e traumi che suggerisce l’impiego della popolazione in
lavori gravosi.
La necropoli è adiacente alla via Portuense, importante asse di collegamento tra Roma ed Ostia. La preponderanza di maschi e la presenza limitata di subadulti in associazione al quadro fornito dagli
indicatori di attività biomeccanica, suggeriscono l’impiego della popolazione nel duro lavoro delle saline, rinvenute nel corso di recenti
scavi effettuati nelle immediate vicinanze del sepolcreto.
La lesione traumatica rappresenta un’alterazione dello stato anatomico e funzionale di un organismo, prodotta dall’azione violenta di
una causa esterna. I traumi sono classificabili in: accidentali (legati
allo stile di vita), intenzionali (causati da atti violenti), rituali, punitivi (amputazioni) e terapeutici (chirurgici).
In questo lavoro sono state esaminate soltanto le lesioni del primo
tipo ed in particolare le fratture, descrivendone morfologia e gravità
e tentando, ove possibile, di identificarne la causa e l’azione; sono
state poi analizzate: l’incidenza, la tipologia e la distribuzione, al
fine di ottenere indicazioni sull’ambiente e lo stile di vita della popolazione di riferimento.
La frattura è un’interruzione, parziale o totale, nella continuità
dell’osso, della cartilagine o di entrambi ed è quasi sempre associata
102
Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome
ad un danno dei tessuti molli circostanti; generalmente è determinata
da una sollecitazione esterna di intensità superiore alla resistenza
meccanica del segmento osseo.
Sulla base dell’eziologia, le fratture possono essere distinte in:
traumatiche, patologiche e da stress o fatica. Le fratture traumatiche sono le più comuni e derivano dall’applicazione di una forza improvvisa ed anomala in una regione delimitata dell’osso. Le
patologiche occorrono secondariamente a disfunzioni preesistenti
che rendono l’osso più vulnerabile a fratture spontanee o a stress
biomeccanici relativamente ordinari. Malattie sistemiche, disturbi
metabolici e deficienze nutrizionali possono condurre ad un indebolimento osseo; ad esempio, gli individui affetti da osteoporosi
(come donne in post menopausa e persone anziane), sono maggiormente predisposti.
Le fratture da fatica o da stress, infine, sono causate dall’esposizione
di un segmento osseo ad una costante e prolungata sollecitazione
biomeccanica. Di solito, le aree maggiormente colpite sono quelle
degli arti inferiori: ad esempio, le fratture a livello del collo dei metatarsali sono frequenti nelle giovani reclute militari alle quali sono
imposte delle lunghe marce; quelle relative alla diafisi tibiale possono riscontrarsi negli sportivi, in seguito ad un sovra-allenamento (es.
fratture delle danzatrici e dei corridori)3,4,5,6.
L’entità, la sede, il decorso della rima, il numero e la posizione dei
frammenti, rappresentano altrettanti criteri di orientamento nella valutazione di una lesione traumatica dello scheletro.
L’analisi degli eventi traumatici è stata indirizzata al rilevamento del numero di fratture, distinte per distretto scheletrico e sesso
(Fig.1); si è inoltre tentata una possibile classificazione, in base
alla morfologia e all’eziologia, cercando di ricostruire uno specifico modello traumatologico degli individui adulti e giovanili della
popolazione in esame.
103
Paola Catalano et al.
Risultati
Cranio
Particolarmente interessante è l’alterazione rilevata a
carico dello splancnocranio
dell’individuo T.132, identificata come anchilosi temporo-mandibolare bilaterale:
fusione ossea o fibrosa delle componenti anatomiche
dei capi articolari7,8 (Fig.2). I
traumi sono la causa predominante della anchilosi “vera” o
“intracapsulare”. La formazione di tale blocco determina
una limitazione funzionale di
tutti i movimenti della bocca,
che si manifesta, nei casi più
gravi, con un’apertura quasi
assente, dovuta al progressivo
impedimento dei normali processi di rotazione e di traslazione della testa condilare.
La presenza di una edentulia
del settore anteriore, superiore ed inferiore, è da riferirsi
ad un intervento di estrazione
dentaria volontario, necessario probabilmente per consentire la nutrizione del soggetto,
rivelando un particolare interesse, da parte della comunità di appartenenza, alla sua
sopravvivenza.
Fig. 1 Elenco degli individui con fratture
104
Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome
Fig. 2 Anchilosi temporo-mandibolare bilaterale, Tomba 132
Clavicola e Scapola
Le fratture clavicolari sono spesso causate da cadute sulla spalla o
sulla mano aperta (trauma indiretto) e interessano prevalentemente la porzione intermedia o quella distale dell’osso. Otto individui
mostrano fratture clavicolari: quattro (tombe: 141, 151, 219, 257) di
esse riguardano l’estremità acromiale, una quella sternale (T.301) e
tre la metà diafisi (tombe: 137, 194, 263) (Fig.3).
Le fratture della scapola sono poco comuni e di solito sono il risultato di un trauma diretto. Un solo individuo (T.295) presenta una
frattura del corpo della scapola destra risaldato in deformità (Fig. 4).
Omero
Le fratture omerali sono più frequenti in corrispondenza: del collo,
della grande tuberosità e della diafisi. Le fratture diafisarie interessano di solito la terza porzione intermedia e possono essere dovute
105
Paola Catalano et al.
a traumi diretti o indiretti; quelle condilari, al contrario, sono piuttosto rare e possono derivare da una caduta.
Fig. 3 Frattura diafisaria scomposta della clavicola sinistra, Tomba 194
Fig. 4 Frattura scomposta della scapola destra, Tomba 295
106
Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome
Nei traumi indiretti, nei quali la diafisi omerale è sollecitata a flettersi o torcersi su se stessa, la rima di frattura presenta un decorso
spiroide o obliquo, come nel caso della lesione che ha interessato la
terza porzione intermedia dell’osso dell’inumato T.72. Nella frattura alta riscontrata sull’omero dell’individuo 97a si osserva una
deformità angolare, con apice all’esterno e in avanti, probabilmente da ricondursi ad una scomposizione dei frammenti per azione
delle masse muscolari (frattura trasversa). Una caduta sul gomito o
sulla mano potrebbe essere la causa della frattura diretta riscontrata sull’epicondilo laterale (T.150) e di quelle indirette a carico del
collo (T.236) e della regione sovracondiloidea (T.132). In quest’ultima la rima compie un decorso a spirale lungo il segmento interessato, e sul piano frontale il frammento distale è angolato rispetto
alla diafisi (Fig.5).
Radio e Ulna
Le fratture biossee della diafisi del radio e dell’ulna, definite convenzionalmente “fratture di antibraccio”, sono riferibili prevalentemente a traumi diretti. Tre individui (tombe: 47, 86, 117) presentano
lesioni, con rima spiroide, localizzate sulla porzione intermedia e
prossimale della diafisi. Un individuo (T.131) mostra la frattura di
Colles9, una tra le più frequenti lesioni traumatiche dello scheletro; la
rima di frattura ha sede circa 2 cm al di sopra della superficie articolare distale radiale, ed è associata all’avulsione dell’apofisi stiloide
ulnare (Fig.6). Tale frattura è attribuibile a traumi indiretti come una
caduta sul palmo della mano.
Tra le fratture che hanno coinvolto unicamente il radio si riscontrano: una frattura diafisaria, con rima spiroide riparata in deformità, e
due fratture di Colles (tombe: 26, 97a, 115).
Quattro individui presentano fratture isolate sulla porzione distale
della diafisi ulnare, tutte con rima a decorso spiroide/obliqua (tombe:
71, 148, 189, 278). Un caso, invece, di frattura con rima a decorso
107
Paola Catalano et al.
Fig. 5 Frattura sovracondiloidea
dell’omero destro, Tomba 132.
Fig. 6 Frattura di Colles del radio sinistro, Tomba 131
trasversale interessa l’individuo T.225. L’interruzione individuata
sulla porzione prossimale è complicata dalla non unione delle due
estremità (pseudoartrosi)10(Fig.7a; 7b). La mancata immobilizzazione, l’interposizione di tessuti molli, adiposi e/o muscolari, l’eccessiva distanza tra i due segmenti fratturati sono la causa della non
unione dei monconi ossei. Le estremità delle ossa possono essere,
in questo caso, avvolte esclusivamente da tessuto fibroso che forma
una pseudoarticolazione.
Femore
Le fratture femorali sono state osservate in quattro individui. Uno
(T.277) presenta una frattura mediale destra che ha interessato la zona
immediatamente adiacente alla testa femorale, o la porzione inter108
Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome
Fig. 7a-7b Pseudoartrosi dell’ulna destra, Tomba 225
media del collo anatomico. Non si osservano extrarotazione e accorciamento significativo dell’arto, ma si assiste ad una complicazione
rappresentata dalla necrosi ossea della testa femorale, dovuta a danneggiamenti alla vascolarizzazione dell’articolazione. La conseguente
anchilosi dell’articolazione coxo-femorale (Fig.8) avrebbe comportato una rigidità articolare, con diminuzione delle capacità motorie.
In un individuo (T.130) si osserva una frattura spiroide, con formazione di spicole ossee sulla terza porzione prossimale della diafisi
sinistra, causata da forze torsionali o da forze applicate indirettamente. La porzione intermedia della diafisi di un altro femore sinistro
(T.141) mostra gli esiti di una frattura scomposta, saldata in deformità, con slittamento e sovrapposizione dei due monconi e conseguente
accorciamento staturale.
L’ultimo caso (T.148) è quello di una frattura sopracondilare di un
femore sinistro, con neoformazione ossea sulla superficie mediale.
109
Paola Catalano et al.
Tibia e fibula
Le fratture della gamba possono essere distinte in: fratture isolate della
tibia, del perone, o biossee (vere e proprie fratture della gamba). Sono
causate più spesso da traumi ad alta energia, sia diretti che indiretti.
Le fratture del piatto tibiale sono fratture articolari dell’estremità
prossimale, che possono interessare entrambi i condili o, più frequentemente, solo quello esterno. L’individuo della tomba 152 presenta una frattura comminuta dell’emipiatto laterale della tibia sinistra (Fig. 9), anche se l’incompleta conservazione della porzione
prossimale non consente di escludere che l’evento traumatico avesse
coinvolto entrambi i condili. La frattura è riconducibile ad infossamento della spongiosa subcondrale, con conseguente slivellamento
della superficie articolare.
Fig. 8 Frattura del femore destro ed
anchilosi coxo-femorale, Tomba 277
Fig. 9 Frattura del condilo laterale della tibia sinistra, Tomba 152
110
Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome
Fig. 10a-10b Frattura con distorsione/dislocazione della caviglia destra, Tomba 80
Un trauma indiretto, dovuto ad una sollecitazione del piede sottocarico in iperflessione plantare, ha provocato in un individuo
(T.271) una frattura del malleolo tibiale destro. Alla stessa tipologia traumatica può essere ricondotta la frattura osservata sulla
terza porzione distale delle diafisi di tibia e fibula dell’individuo
T.159 (Fig.10a; 10b). In quest’ultimo caso, si osservano neoformazioni con aspetto mammillare nella zona d’inserzione del legamento tibio-fibulare, dovute ad un principio di sindesmosi interossea.
Fratture sulla caviglia sono state riscontrate su altri due individui
(tombe: 20a, 118): nel primo è interessata la superficie dorsale
dell’epifisi distale della tibia destra, nel secondo la superficie mediale della fibula sinistra.
Le fratture diafisarie conseguono solitamente a traumi ad elevata
energia, per caduta dall’alto o per iperflessione dorsale o plantare
dell’articolazione tibio-tarsica. Due individui (tombe: 150, 155) mostrano lesioni a carico delle superfici ventrali, sia della tibia che della
fibula; uno solo sulla superficie mediale della tibia (T.262).
111
Paola Catalano et al.
Mani e piedi
Nel nostro campione le ossa delle mani e dei piedi sono scarsamente interessate da forme traumatiche. Due quinti metacarpali destri
(tombe: 163, 227) ed una terza falange prossimale destra (T.146)
mostrano fratture diafisarie. Solo 3 individui (tombe: 49, 130, 281)
presentano fratture sui piedi: terzo metatarsale destro, prima falange
destra e seconda falange sinistra.
Coxale e sacro
Lesioni traumatiche a carico del coxale e del sacro sono state rilevate in due casi: in uno (T.238) si osserva un’alterazione dell’articolazione sacro-iliaca, con incuneamento di un frammento dell’ala
sacrale nella superficie auricolare del coxale; nell’altro (T.142) si ha
la fusione della seconda, terza e quarta vertebra coccigea, dovuta a
probabile frattura.
Coste e vertebre
Le fratture vertebrali si verificano generalmente nei movimenti in
accentuata flessione anteriore (compressione), o estensione posteriore (schiacciamento) della colonna. Cinque individui (tombe: 98, 204,
255, 281, 289) presentano fratture somatiche: il trauma si è estrinsecato esclusivamente a livello della spongiosa equatoriale delle vertebre toraco-lombari, schiacciando a cuneo il corpo vertebrale11.
Un individuo (T.260) mostra la fusione delle vertebre cervicali, comprese nel tratto C3-C7, possibile complicazione di una frattura di
uno o più corpi vertebrali. Il danno subito dal disco intervertebrale
sarebbe stato compensato da osteofitosi marginale che, saldando a
ponte (sinostosi) il corpo vertebrale leso con quelli adiacenti, avrebbe escluso da ulteriori sollecitazioni meccaniche il disco danneggiato, arrestandone la progressiva degenerazione. Tre individui (tombe:
172, 179, 273) evidenziano invece spondilolisi della quinta vertebra
112
Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome
Fig. 11 Spondilolisi della quinta vertebra lombare, Tomba 273
lombare: una separazione, uni- o bilaterale, dell’arco vertebrale dal
corpo (Fig.11), riconducibile a movimenti di flessione, iperestensione, inclinazione sotto sforzo e rotazione del distretto lombare del
rachide12,13.
In nove individui (tombe: 46, 128, 146, 152, 159, 163, 178, 203, 295)
si sono riscontrate fratture costali localizzate, nella maggior parte dei
casi, in prossimità dell’estremità sternale, provocando in due di essi
l’ossificazione delle cartilagini con anchilosi del manubrio.
Conclusioni
L’analisi degli eventi traumatici, distinti per distretto scheletrico e sesso
(Fig.12), mostra come ad essere maggiormente colpiti siano lo schele113
Paola Catalano et al.
Fig. 12 Distribuzione delle fratture per
distretto scheletrico e sesso
Fig. 13 Frequenze percentuali delle lesioni
traumatiche distinte per sesso
tro appendicolare superiore e lo scheletro assile. Il maggior numero di
fratture si osserva a carico di ulne, coste e vertebre. Per quanto riguarda
lo scheletro appendicolare inferiore, la tibia è l’osso più coinvolto.
Complessivamente, la popolazione presenta una frequenza di fratture pari al 24,3%. L’esame dei dati a sessi distinti evidenzia una lieve
prevalenza di lesioni nella porzione maschile del campione (Fig.13).
Le scarse differenze sesso-specifiche potrebbero riflettere un coinvolgimento della frazione femminile in attività lavorative stressanti,
ma bisogna tener conto che nelle donne in età post-menopausale,
discretamente rappresentate, l’osteoporosi14 potrebbe aver determinato una maggiore fragilità delle ossa, rendendole più suscettibili a
lesioni traumatiche. Infine, è da non sottovalutare l’influenza della
componente ambientale: terreni irregolari, accidentati o scoscesi,
aumenterebbero il rischio di fratture, soprattutto a carico degli arti
inferiori ed, in particolare, delle caviglie.
Un limite all’interpretazione dei dati sulle fratture nelle serie scheletriche archeologiche è l’impossibilità di considerarne la distribuzione dell’occorrenza e della suscettibilità in base all’età: in presenza
di una frattura guarita non è infatti possibile stabilire l’età in cui
l’evento traumatico si è verificato15.
114
Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome
Un’ulteriore difficoltà risiede nell’identificare le fratture peri-mortem: queste potrebbero essere confuse con quelle post-mortem, nei
casi in cui non si osservino ancora processi riparativi dell’osso16.
Tra gli individui con fratture, una percentuale non trascurabile
(22,6%) mostra evidenze traumatiche su più di un elemento e/o distretto scheletrico; sebbene alcune lesioni potrebbero essere riconducibili ad un unico evento, non si può escludere che altre si siano
verificate in tempi diversi: ciò potrebbe essere compatibile con un
modello di vita logorante e probabilmente pericoloso.
Una delle complicazioni a cui si può assistere, nel caso di fratture
esposte, è l’inquinamento del focolaio da parte di germi patogeni (generalmente stafilococchi). Nel nostro campione, la risposta dell’osso
è frequentemente visibile come infiammazione acuta o cronica del
periostio (periostite), ma non si osservano infezioni severe che abbiano coinvolto la cavità midollare (osteomielite)17.
In alcuni casi, sono stati osservati dei vizi di consolidazione, come:
sovrapposizione, angolazione o rotazione (Fig.14). La formazione di
calli ossei invalidanti, con conseguente incongruenza meccanica dei
capi articolari, ha probabilmente causato delle alterazioni nella funzionalità degli elementi scheletrici interessati. Nei casi in cui il trauma
ha coinvolto i fasci muscolari, provocando un ematoma, si è osservata la calcificazione del tessuto muscolare strappato, sotto forma di
miosite ossificante18 (Fig.15). Degenerazioni artrosiche sono piuttosto
diffuse negli individui con fratture. Sebbene l’età sia un fatto predisponente, non si può escludere che tali alterazioni possano, almeno in
parte, rappresentare complicazioni tardive post-traumatiche19.
Le indicazioni restituiteci dal campione di Castel Malnome suggeriscono quindi che la popolazione fosse probabilmente soggetta a dure
condizioni di vita e di lavoro, ma consentono anche di ipotizzare che
dovessero esistere trattamenti medici efficaci e un buon grado di cooperazione sociale all’interno della comunità di riferimento.
115
Paola Catalano et al.
FIG. 14 Frattura diafisaria del femore sinistro, tomba 130
FIG.15 Miosite ossificante sul femore destro, tomba 273
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19. FORNACIARI G., GIUFFRA V., op. cit. nota 4.
Correspondance should be addressed to:
Paola Catalano, Servizio di Antropologia, Soprintendenza Speciale per i Beni
Archeologici di Roma, Sede di Palazzo Altemps, Via di S. Apollinare 8- 00186
Roma, I.
117
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 119-138
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
SALUTE E MALATTIA NELLA ROMA IMPERIALE
ATTRAVERSO LE EVIDENZE SCHELETRICHE
Simona Minozzi*, Paola Catalano**,
Stefania di Giannantonio** e Gino Fornaciari*
*Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica, Dipartimento di
Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina, Università di
Pisa, Pisa,I.
**Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Palazzo Altemps,
Roma, I.
SUMMARY
Palaeopathology in Roman Imperial Age
The increasing attention of archaeological and anthropological research
towards palaepathological studies has allowed to focus the examination of
many skeletal samples on this aspect and to evaluate the presence of many
diseases afflicting ancient populations. This paper describes the most
interesting diseases observed in skeletal samples from some necropoles
found in urban and suburban areas of Rome during archaeological
excavations in the last decades, and dating back to the Imperial Age.
The diseases observed were grouped into the following categories:
articular diseases, traumas, infections, metabolic or nutritional diseases,
congenital diseases and tumours, and some examples are reported for
each group.
Although extensive epidemiological investigation in ancient skeletal
records is impossible, the palaeopathological study allowed to highlight
the spread of numerous illnesses, many of which can be related to the life
and health conditions of the Roman population.
Key words: Palaeopathology - Roman Imperial Age - Bone diseases
119
Simona Minozzi et al.
Introduzione
La documentazione letteraria di storici e medici che descrivono nei
loro trattati malattie e rimedi illustra spesso con dovizia di particolari
i malanni che affliggevano gli antichi romani. Talvolta, attraverso la
descrizione di sintomatologia e cura è possibile individuare il tipo di
malattia a cui veniva fatto riferimento, in altri casi l’eziologia resta
confusa. In particolare, sembra difficile su base letteraria conoscere il
reale stato di salute della popolazione romana, mentre un valido aiuto
può essere rappresentato dall’interpretazione dei dati antropologici e
paleopatologici ottenuti attraverso lo studio dei resti scheletrici umani.
Grazie alle indagini antropologiche condotte negli ultimi anni da parte del sevizio di Antropologia della Soprintendenza Speciale ai Beni
Archeologici di Roma, disponiamo di un ampio database antropologico relativo a centinaia di sepolture di Età Imperiale (tra il I ed il III
sec. d.C.) provenienti dal territorio romano, che costituisce un’occasione unica per indagare le condizioni di vita e di salute ed arricchire
le fonti di conoscenza relative alle malattie presenti all’epoca.
Naturalmente, il principale limite di questo approccio è legato al fatto che non tutte le malattie lasciano le loro tracce sulle ossa, e che
la maggior parte delle infezioni acute portano alla morte un individuo prima che i loro effetti raggiungano lo scheletro. Inoltre, alcune
malattie colpiscono l’osso indebolendolo o demineralizzandolo, rendendo così i resti meno resistenti al trascorrere del tempo.
In ogni caso, diverse malattie lasciano tracce indelebili sull’osso permettendo il riconoscimento dell’agente eziologico che le ha provocate, mentre altre inducono risposte monotone ed alterazioni simili
sullo scheletro fornendo comunque indicazioni generali sulle condizioni di vita e di salute della popolazione.
Le malattie riscontrate nel record archeologico romano possono essere raggruppate nelle seguenti categorie: malattie infettive, malattie
metaboliche o nutrizionali, artropatie, lesioni traumatiche, malattie
120
Paleopatologia nella Roma Imperiale
congenite e neoplasie. Alcune di queste patologie sono legate alla
disponibilità delle risorse o allo stile di vita e quindi possono contribuire alla ricostruzione del quadro socio-economico e della qualità
di vita della popolazione.
La maggior parte delle osservazioni sono state fatte sui resti scheletrici provenienti da una tra le più vaste necropoli di età imperiale del
territorio romano: la necropoli Collatina, datata tra il I ed il III sec.
d.C., e situata a pochi chilometri dal centro di Roma1.
Malattie infettive
Le malattie infettive sono causate da un’ampia gamma di microrganismi (soprattutto virus e batteri) che entrano in contatto con l’uomo
in diversi modi, ad esempio attraverso l’ingestione di acqua e cibo
contaminati, il contatto con animali domestici o il contagio interpersonale. Le condizioni igienico sanitarie sono perciò molto importanti per la diffusione delle infezioni, in particolare in insediamenti
abitativi a forte pressione demografica, come poteva essere la Roma
imperiale con il suo milione di abitanti, dove il contagio tra persone
era favorito dalla forte densità umana; oppure con l’allevamento e lo
stretto contatto uomo-animale, condizione che poteva invece verificarsi nelle campagne del suburbio romano.
La maggior parte degli eventi infettivi causano nell’osso risposte simili, come la periostite e l’osteomielite, piuttosto comuni nel record
archeologico, e possono essere causate da infezioni di diverso tipo,
ad esempio batteriche, oppure possono essere l’esito di eventi traumatici (colpi inflitti, ematomi, ecc.). Molte di queste infezioni sono
aspecifiche, nel senso che non è possibile risalire al microrganismo
scatenante l’infezione sulla base della risposta ossea, in altri casi
è invece possibile effettuare una diagnosi differenziale. In questo
gruppo sono comprese malattie quali la tubercolosi, la sifilide, la
lebbra e la brucellosi o infezioni virali come la poliomielite.
121
Simona Minozzi et al.
Nei campioni romani sono stati osservati diversi casi di malattie infettive, per lo più riferibili a brucellosi e tubercolosi ossea.
Attualmente, la tubercolosi colpisce le classi più povere delle grandi
città, soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove è correlata alla forte urbanizzazione ed al degrado sociale2, e così doveva essere anche
nel passato in una città come Roma.
Un caso di possibile tubercolosi è stato osservato nella necropoli
Collatina nei resti scheletrici di una giovane donna (18-30 anni) il
cui cranio presentava alterazioni della superficie interna dell’osso
frontale conosciute come serpens endocrania symmetrica (Fig. 1).
Si tratta di modifiche della superficie endocranica con porosità associata a canalicoli serpentiformi che da diversi autori sono state attribuite ad infezioni polmonari non specifiche3, mentre altri le hanno
collegate a meningite tubercolare4.
Il resto dello scheletro purtroppo è in cattivo stato di conservazione
e solo pochi frammenti ossei si sono preservati, pertanto non sono
osservabili altre alterazioni legate all’infezione.
Nella necropoli Collatina sono
stati osservati almeno cinque
casi sospetti di tubercolosi ed
un caso di morbo di Pott è stato
descritto nella necropoli di Via
Nomentana (I-II sec. d.C.)5.
Considerando il fatto che la
tubercolosi colpisce il tessuto
osseo nel 10-20% dei casi6, le
evidenze scheletriche osservate nel record archeologico ro- Fig.1. Tavolato interno dell’osso fronmano suggeriscono che doveva tale caratterizzato da un fitto reticolo di
essere una malattia piuttosto piccoli solchi ad andamento vermicolare
(serpens endocrania symmetrica), in una
diffusa nella Roma imperiale e donna adulta proveniente dalla necropoli
nel suburbio; e come testimo- Collatina.
122
Paleopatologia nella Roma Imperiale
nia Ippocrate negli Aforismi, la tisi era già nel V sec. a.C. una malattia che causava febbre ed emottisi e che mieteva più vittime di altre.
Malattie metaboliche
Le malattie metaboliche sono legate a disturbi del metabolismo di
elementi indispensabili all’organismo, come proteine e vitamine, ed
in alcuni casi colpiscono lo scheletro come l’osteoporosi, lo scorbuto, il rachitismo e l’osteomalacia. L’esito di queste malattie è stato
registrato in diversi casi nel record archeologico romano; due casi
gravi di rachitismo, ad esempio, sono stati osservati nella necropoli Collatina7, mentre testimonianze della sua presenza nella Roma
Imperiale provengono dalle fonti storiche. Sorano di Efeso, nel primo secolo d.C. descrisse per primo le conseguenze del rachitismo
nei bambini8.
Il rachitismo è causato da carenza di vitamina D durante la crescita
che, nella maggior parte dei casi, è dovuta a scarsa esposizione al
sole poiché essa viene sintetizzata nell’epidermide durante l’irraggiamento solare. Altri fattori di rischio sono rappresentati da dieta
inadeguata, patologie intestinali croniche, disfunzioni renali e difetti
genetici di sintesi9,10,11. La vitamina D regola l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo, elementi essenziali alla costruzione della
matrice organica dell’osso, pertanto la sua assenza causa, durante i
primi anni di vita, una caratteristica deformazione delle ossa lunghe,
con appiattimento delle metafisi ed ispessimento della corticale; tipiche sono le curvature delle tibie e dei femori. Si osservano pure
anomalie nella curvatura della colonna vertebrale, come cifosi e scoliosi, assottigliamento della volta cranica ed ispessimento delle ossa
frontali12. Nel caso in cui l’avitaminosi colpisca un soggetto adulto,
si parla di osteomalacia, che colpisce prevalentemente le donne con
gravidanze ripetute ed allattamento.
Il caso di rachitismo proveniente dalla necropoli Collatina riguarda
una donna adulta (tra i 27 ed i 37 anni di età) di piccola statura (144
123
Simona Minozzi et al.
Fig. 2 - Anchilosi, collasso e forte distorsione a sinistra del tratto toracico della
colonna vertebrale in una donna adulta affetta da rachitismo, proveniente dalla
necropoli Collatina. A: norma anteriore; B: norma posteriore.
cm), il cui scheletro mostra i segni tipici del rachitismo. Le alterazioni più evidenti riguardano la colonna vertebrale, dove il tratto
toracico superiore (T3-T7) presenta fusione dei corpi vertebrali e
dell’arco neurale, con collasso di T3, T4 e T5 ed una forte torsione e
flessione a sinistra del tratto toracico (Fig. 2).
Altri segni tipici del rachitismo, dovuti a perdita di mineralizzazione
nelle cartilagini di accrescimento, sono i femori leggermente curvati
e le tibie che invece sono marcatamente ricurve (Fig.3).
Benché la letteratura paleopatologica non riporti altri casi di rachitismo a Roma, questo disturbo doveva essere piuttosto diffuso, in particolare nei quartieri dell’Urbe a più forte densità abitativa, dove tra
alte costruzioni e insulae l’esposizione solare doveva essere scarsa.
Come riporta Galeno: “Le donne, e in particolare le madri, restavano
in casa, non eseguivano lavori pesanti e non si esponevano alla luce
diretta del sole13”.
Un’altra malattia metabolica riscontrata nelle serie romane è lo scorbuto, disturbo causato da un mancato apporto alimentare di vitamina
C, elemento importante per il normale sviluppo dei tessuti, come ad
esempio il collagene, componente fondamentale della matrice ossea
e cartilaginea14,15.
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Paleopatologia nella Roma Imperiale
L’organismo umano non può sintetizzare la vitamina C, che quindi
deve essere assunta con la dieta. La
vitamina C è presente in una grande
varietà di cibi, principalmente nella frutta fresca e nei vegetali crudi.
Quindi la mancanza di vitamina C
determina una formazione ossea difettosa o assente con effetti disastrosi
sulla crescita scheletrica, in particolare nei bambini.
Le alterazioni scheletriche indotte
dallo scorbuto sono state osservate
nei resti ossei appartenenti a un bambino di 3-5 anni proveniente dalla
necropoli Collatina. Lo scheletro,
incompleto e in mediocre stato di
conservazione, presenta evidenti alterazioni: la superficie cranica inter- Fig.3 - Lo stesso individuo di
na ed esterna è caratterizzata da forte Fig.2 mostra un tipico aspetto del
periostite (Fig. 4A), mentre nel tetto rachitismo con entrambe le tibie
ricurve
di entrambe le orbite si osservano
gravi cribra orbitalia con apposizione di tessuto osseo neoformato
(Fig. 4B). Il processo di reazione periostale era attivo al momento
della morte perché non vi sono segni di riparazione. L’osso sfenoide mostra un’anormale mineralizzazione e porosità della superficie
interna, mentre le ossa zigomatiche, la mascella e la mandibola presentano i segni di ampie reazioni periostitiche con apposizione di
osso neoformato e sviluppo di piccole spicole. La mandibola, in particolare, presenta rigonfiamento e riassorbimento degli alveoli con
perdita di alcuni denti decidui. Infine, reazioni periostitiche evidenti
e diffuse sono osservabili anche lungo le diafisi di femore e tibia.
125
Simona Minozzi et al.
Fig. 4 A e B. - Bambino di 3-5 anni, proveniente dalla necropoli Collatina, affetto da
scorbuto. A: area a forte porosità sul parietale sinistro esterno B: orbita destra colpita da
grave cribra orbitalia.
Le alterazioni osservate sono tipiche dello scorbuto, infatti, la principale manifestazione di questa malattia è rappresentata da emorragie
sottoperiostali dovute a rottura dei capillari che causano periostiti
diffuse, inoltre, la formazione dell’osso viene inibita con perdita di
mineralizzazione, osteopenia e fratture, parodontopatia e perdite
dentarie 16,17.
Malattie articolari
Colpiscono le articolazioni ossee causando la degenerazione delle
capsule articolari. L’artrosi è l’artropatia più diffusa poiché strettamente legata agli stress biomeccanici a cui è sottoposta un’articolazione e all’avanzare dell’età (molto comune a partire dai 40 anni).
E’ una malattia ad andamento cronico ed interessa principalmente la
cartilagine articolare, che degenera fino a scomparire, manifestando sulla superficie articolare porosità ed eburneazione, mentre neoproduzioni ossee (osteofiti) proliferano attorno ai margini articolari.
Le articolazioni soggette a maggior stress meccanico, come colonna vertebrale, anca, ginocchio, mani e piedi sono le più colpite18,19.
Poiché l’artrosi è comunemente diffusa nei materiali scheletrici e
facilmente correlabile ad attività occupazionali, viene considerata un
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Paleopatologia nella Roma Imperiale
indicatore di stress biomeccanico, assieme ad altre alterazioni vertebrali, come ernie di Schmorl e schiacciamenti vertebrali.
Altre malattie articolari, che presentano spesso un esito osseo simile
all’artrosi o che possono essere accompagnate da fenomeni osteolitici, sono state osservate sporadicamente nei resti scheletrici esaminati. I casi più interessanti osservati sono rappresentati dall’Iperostosi
Scheletrica Idiopatica Diffusa (DISH), dalla spondilite anchilosante
e dalla gotta. Quest’ultima in particolare rappresenta un evento raramente descritto tra i romani.
La gotta è una malattia metabolica caratterizzata da iperuricemia,
ossia elevati livelli di acido urico nel sangue, che si deposita sottoforma di cristalli di urato di sodio nei tessuti molli periarticolari,
causando erosioni nell’osso e nelle cartilagini articolari. La gotta
colpisce prevalentemente le articolazioni dei piedi, meno frequentemente si manifesta presso la testa del femore e nell’articolazione
del ginocchio20.
Un caso di particolare interesse è stato osservato nello scheletro ben
conservato di una donna adulta di 35-45 anni d’età, rinvenuta nella
necropoli Collatina. Lo scheletro è caratterizzato da dimensioni corporee molto ridotte, ai limiti del patologico, infatti, la statura stimata mediante le formule di regressione di Sjovold21 è intorno ai 143
cm. Sono state osservate diverse alterazioni scheletriche, legate a
fenomeni degenerativi dovuti a stress fisico ed all’età, come artrosi
vertebrale ed osteocondrite dissecante sulle superfici articolari dei
condili femorali, ma le alterazioni più evidenti, e riconducibili ad
un processo patologico di una certa entità, riguardano mani e piedi,
e soprattutto questi ultimi dove è possibile osservare lesioni litiche
delimitate da lievi osteofiti nelle ossa tarsali e metatarsali (Fig. 5).
Piccole lesioni simili, ma meno evidenti sono state osservate in alcune ossa carpali e metacarpali.
La diagnosi differenziale ha preso in considerazione le diverse
malattie che possono provocare un quadro simile alla gotta, come
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Simona Minozzi et al.
Fig. 5 - Alterazioni nelle ossa dei piedi imputabili a gotta in una donna adulta proveniente dalla necropoli Collatina
l’artrite reumatoide, le micosi ed alcuni tipi di tumore come
l’encondroma ed il mieloma multiplo. La valutazione del quadro
patologico corredato anche dall’analisi radiologica ha portato ad una
diagnosi di gotta. Questa malattia, che raramente insorge prima della
quarta decade di vita e colpisce prevalentemente gli uomini rispetto
alle donne ha un’eziologia ancora sconosciuta, anche se ormai è
accertata una componente genetica influenzata da fattori dietetici,
soprattutto una dieta ricca in carne e consumo eccessivo di alcool. La
gotta può anche essere associata ad ipotiroidismo22,23 che può causare
128
Paleopatologia nella Roma Imperiale
un ritardo nella crescita; questa associazione potrebbe spiegare la
bassa statura rilevata in questo soggetto.
Traumi
Le lesioni traumatiche, assieme alle artropatie, rappresentano le alterazioni patologiche più diffuse nei resti esaminati, in virtù del fatto che è piuttosto comune procurarseli durante il corso della vita e
che spesso interessano direttamente le ossa con fratture e fenomeni
riparativi. Lo studio dei traumi e dei modelli traumatologici di una
popolazione fornisce utili indicazioni sui rischi connessi all’attività lavorativa quotidiana o all’intensità con la quale il lavoro veniva
svolto. Oppure, documentano il grado di violenza interpersonale nel
gruppo o al di fuori di esso. In quest’ultima categoria rientra il caso
di traumatologia inflitta e ripetuta osservata in resti scheletrici provenienti dalla necropoli Collatina.
Lo scheletro appartiene ad una donna di età superiore ai 50 anni, di
media statura (153 cm), con costituzione gracile, ma con forti inserzioni muscolari ed indicatori di stress funzionali che indicano una
considerevole attività lavorativa.
Le ossa mostrano le tracce di diversi eventi traumatici, molti dei quali
ben riparati. I danni maggiori sono a carico del cranio, dove si osservano sei larghe e profonde depressioni sulle ossa parietali e sull’occipitale (Fig. 6A), ed una profonda sul frontale vicino al bregma.
Queste lesioni testimoniano un traumatismo ripetuto e non contemporaneo: infatti, le depressioni sono delimitate da margini circolari
che in alcuni casi si sovrappongono. Inoltre, se fossero il risultato di
solo uno o due eventi non avrebbero probabilmente avuto la possibilità di guarire, con una così ampia estensione, suggerendo differenti
atti di violenza ripetuti nel tempo. La superficie endocranica ha un
aspetto alterato lungo il solco dell’arteria meningea che appare più
largo e profondo. Numerosi canali vascolari e porosità circondano
l’area, caratterizzata da piccoli solchi interconnessi e circonvoluti.
129
Simona Minozzi et al.
Queste lesioni endocraniche possono essere l’esito di reazioni infiammatorie dovute ad emorragie meningee causate dai ripetuti traumi.
La mandibola mostra gli esiti della frattura di entrambi i rami mandibolari: a destra la frattura è riparata mentre a sinistra la mancata
saldatura dei due monconi fratturati ha dato origine ad una pseudoartrosi (Fig.6B). Segni di traumatismo da difesa sono stati osservati
nell’avambraccio destro con una “frattura da parata”, una tipica frattura ossea causata dal sollevare il braccio nel tentativo di parare un
colpo durante un’aggressione.
L’esame radiografico conferma l’origine traumatica della lesione,
che risulta comunque completamente riparata nel radio. Anche le
clavicole mostrano gli esiti di strappi muscolari e di una possibile
lussazione della clavicola destra. Nell’osso coxale si osservano marcatori di parti ripetuti, in particolare, un solco preauricolare molto
profondo ed allargato24.
I segni dei numerosi eventi traumatici evidenziati sullo scheletro
di questa anziana donna rivelano una vita caratterizzata da diver-
Fig. 6 A e B. - Resti scheletrici di un’anziana donna proveniente dalla necropoli Collatina
con segni di numerosi traumi subiti. A: esiti di traumi ripetuti sulla volta cranica. B: ramo
mandibolare di sinistra non riparato con pseudoartrosi.
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Paleopatologia nella Roma Imperiale
si episodi di violenza, suggerendo che sia stata vittima di ripetuti
maltrattamenti. Non conosciamo il ruolo sociale della donna, benché l’assenza di oggetti di corredo e la semplicità della fossa in cui
era sepolta suggeriscano umili origini, oppure che si trattasse di
una schiava.
Nella maggior parte delle culture l’uomo rappresenta la figura dominante, mentre la donna rappresenta la vittima più comune di abusi.
La legge romana non permetteva gli abusi domestici da parte del
marito, ma sappiamo che il ruolo della donna era scarsamente riconosciuto, tanto da non essere neppure considerata civis romanus.
Le fonti storiche non descrivono a sufficienza la vita femminile tra i
ceti popolari25 ed i pochi esempi di mariti violenti o di abusi domestici riguardano le classi sociali facoltose o importanti. Se da un lato
abbiamo quindi alcune descrizioni degli scarsi diritti costituzionali
delle donne ed il loro ruolo nell’antica Roma, dall’altro conosciamo
molto poco sulle reali condizioni di vita e sulla violenza domestica.
Questo caso rappresenta un esempio di come la paleopatologia può
aiutarci a ricostruire aspetti della vita sociale e della condizione femminile nella popolazione romana.
Malattie congenite
Si tratta di anomalie di sviluppo o malformazioni che vengono trasmesse per via ereditaria, e consistono in un anormale sviluppo
dell’osso a causa di alterazioni genetiche di vario tipo. Sono patologie piuttosto rare nel record archeologico, anche perché spesso
causano la morte in età infantile o prima dell’età riproduttiva. Nei
campioni romani sono state più frequentemente osservate anomalie
congenite di scarsa gravità come la fusione dell’ultima vertebra lombare al sacro (sacralizzazione) oppure la più rara disgiunzione dal
sacro della prima vertebra sacrale (lombarizzazione), la perforazione
del corpo dello sterno, e la spina bifida occulta.
131
Simona Minozzi et al.
Fig. 7. Resti scheletrici appartenenti ad un individuo affetto da nanismo acondroplasico,
si può osservare l’accorciamento delle ossa lunghe e la deformazione degli arti superiori.
Tra le anomalie più rare è il caso di nanismo acondroplasico osservato in resti scheletrici incompleti e scarsamente conservati provenienti
dalla necropoli Collatina ed appartenenti ad un giovane adulto (20-25
anni) di sesso non determinabile. Le ossa lunghe degli arti sono decisamente più corte del normale e in parte deformate (Fig.7), la statura
calcolata in base alla lunghezza degli arti doveva essere tra i 131 ed
i 134 cm. Benché il cranio non sia conservato, le alterazioni osservate suggeriscono che si tratti di nanismo acondroplasico, una malattia congenita caratterizzata da accorciamento degli arti e tronco quasi
normale. Attualmente colpisce 1 persona su 10.000, lasciando un’aspettativa di vita quasi normale, senza alterare le capacità intellettive26.
La presenza ed il ruolo dei nani nella Roma imperiale è ben documentata nella letteratura e nell’iconografia poiché i nani erano particolarmente apprezzati tra i membri dell’alta società come intrattenitori, giocolieri e buffoni. Sembra che gli imperatori Marco Antonio,
Tiberio e Alessandro Severo avessero un nano come consigliere
personale 27,28. L‘interesse per i nani è testimoniato anche da alcuni
reperti, come un pupazzo a forma di nano, rinvenuto nella tomba di
un bambino ad Osteria del Curato (I-II sec. d.C.).
132
Paleopatologia nella Roma Imperiale
Neoplasie
I tumori sono anormali produzioni di tessuto che possono avere origine direttamente dall’osso o diffondersi nello scheletro da altri organi del corpo; questi ultimi sono detti anche maligni perché hanno
un’alta velocità di accrescimento, si infiltrano nei tessuti circostanti
e si diffondono dando origine a tumori secondari in altre parti del
corpo (metastasi), portando poi alla morte l’individuo colpito. I tumori maligni che coinvolgono l’apparato scheletrico sono quelli primitivi dell’osso, come l’osteosarcoma, ed il mieloma multiplo che
origina nel midollo emopoietico e si diffonde poi al tessuto osseo e
tumori secondari come il carcinoma metastatico29. Molte neoplasie
sono invece di tipo benigno perché non si diffondono e solitamente creano pochi disturbi. I tumori benigni più diffusi nei materiali
scheletrici sono quelli che originano nelle cartilagini (condromi ed
osteocondromi) e nel tessuto osseo (osteomi).
Nei resti scheletrici romani, i tumori sono piuttosto rari perché in
genere colpiscono in età avanzata, mentre l’età media della popolazione romana si aggirava attorno ai 35 anni. Inoltre, molti agenti
cancerogeni, alquanto diffusi ai nostri giorni (inquinamento, additivi alimentari, pesticidi, fumo di sigaretta, ecc.), non erano presenti. Un caso di tumore maligno è stato osservato in resti scheletrici
appartenenti ad un uomo adulto rinvenuto nella necropoli di Castel
Malnome. La neoplasia è localizzata lungo il terzo prossimale della
diafisi della tibia sinistra dove un’abbondante neoproduzione ossea
con osteofiti disposti a raggiera, avvolge la diafisi (Fig.8). La neoplasia è dovuta ad un osteosarcoma, il più comune tumore maligno
che colpisce l’osso negli adolescenti e nei giovani adulti, più spesso
tra gli uomini rispetto alle donne. Colpisce le zone dell’osso dove
la crescita endocondrale è più attiva come la porzione distale del
femore, quella prossimale dell’omero o la prossimale della tibia,
come in questo caso.
133
Simona Minozzi et al.
Fig. 8 - Tibia sinistra con osteosarcoma che interessa il terzo prossimale della
diafisi di un uomo adulto proveniente dalla necropoli di Castel Malnome. La reazione periostale di osso neoformato ha un’apparenza a raggio di sole. A: norma
anteriore; B: norma posteriore.
I tumori benigni sono invece più comuni, come ad esempio gli osteomi, osservati in quattro casi nella necropoli Collatina e cinque casi in
quella di Castel Malnome.
Conclusioni
Lo studio paleopatologico dei resti scheletrici di età imperiale ha
permesso di ampliare la casistica delle malattie diffuse a Roma e nel
suburbio, e per alcuni casi documentare “biologicamente” le fonti
storiche che ne descrivevano la presenza.
134
Paleopatologia nella Roma Imperiale
Alcune di queste malattie possono essere messe in rapporto con il
declino igienico-sanitario di cui doveva soffrire la città di Roma,
con le sue strade affollate e sporche, dove la diffusione di infezioni
e malattie doveva essere favorita. Perché se da una parte l’aumento
di popolazione è andato di pari passo ad un’estesa pianificazione
della città, con l’organizzazione delle risorse idriche e degli scarichi fognari, dall’altra la pressione demografica e le scarse misure
igieniche devono avere messo in crisi la salute della popolazione, in
particolare nei ceti socioeconomici più bassi.
Benché sia difficile ricostruire un quadro epidemiologico esauriente,
i numerosi casi osservati nel record archeologico romano possono
aiutarci a comprendere le condizioni di salute e le malattie maggiormente diffuse nella Roma antica.
Bibliografia e Note
Ringraziamenti
Desideriamo ringraziare Carla Caldarini, Walter Pantano, Stefania Di
Giannantonio, (Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma), Agata
Lunardini e Federica Bianchi (Università di Pisa) per il loro aiuto nello studio
del materiale scheletrico; il Prof. Davide Caramella e il Dott. Davide Giustini
(Università di Pisa) per le indagini radiologiche.
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of hypothyroidism in gout. Am J Phys Anthropol; 1994; 97:23-34.
24. KELLEY M.A., Parturition and Pelvic Changes. Am. J. Phys. Anthropol.
1979; 51:541-546; cfr. anche op. cit. nota 15
25. FRIER B.W., Mc GINN T.A.J., A casebook on Roman Family Law. Oxford,
Oxford University Press, 2004.
26. WYNNE-DAVIES R., HALL C.M., APLEY A.G. Atlas of skeletal dysplasias. Edinburgh, London, Churchill Livingstone, 1985, pp.181-183.
27. JOHNSTON FE., Some observations on the roles of the achondroplastic
dwarfs through history. Clin. Pediatr. Philadelphia. 1963; 2(12):703-708.
28. DASEN V. Dwarfs in Ancient Egypt and Greece. Oxford Monographs on
Classical Archaeology, Clarendon Press, 1993.
29. Cfr. op cit. nota 18.
Correspondence should be addressed to:
[email protected]
137
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 139-166
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
RICOGNIZIONI CANONICHE ED INDAGINI SCIENTIFICHE
SULLE MUMMIE DEI SANTI
Ezio Fulcheri*
Sezione Anatomia Patologica, Dipartimento DISC,
Scuola Medica e Farmaceutica dell’Università degli Studi di Genova, Genova, I
SUMMARY
Canonic Recognitions and Scientific Investigations on the
Mummies of Saints
The Mummies of Saints represent a peculiar category in Italian scene; they
are very different for each type of mummification, suffer from numerous
environmental interference and rituals, from conservation work or handling
repeated over time. An analytical and critical review of all known cases
and an inventory is presented. In the present work the topics of canonic
recognitions is briefly considered. The study of the bodies of the Saints is
characterized by particular techniques and by very close bonds that first
puts the conservation of the venerable rest to analytical study of them.
However, these investigations are of particular interest not only in the
anthropological, paleopathological and biological profile but also from an
historical, cultural, religious, literary and artistic point of view.
Premessa
Interessandoci da molto tempo delle reliquie insigni rappresentate
dai corpi dei Santi, dei Beati, Servi di Dio o Venerabili personaggi
della Chiesa Cattolica, spesso siamo stati richiesti di un parere specifico, da paleopatologo e da patologo, relativo al mai risolto problema
della loro conservazione e più in generale dal presupposto conflitto
Key words: Mummies - Saints- Catalogues - Investigations – Paleopathology
139
Ezio Fulcheri
che si viene ineluttabilmente a creare tra fede e scienza, in un territorio di confine tanto fragile e a margini sfumati. In questo campo,
più che in altri, la poesia della mistica, il fascino delle tradizioni ed
il profumo della nostalgia del Santo e dell’uomo Beato, si stemperano facilmente nella superstizione, nel senso del magico e nell’eccezionale, nell’evento tinto di imperscrutabile mistero. Molte persone,
e spesso tanto più se agnostici o dichiaratamente atei, subiscono il
fascino di una parola quasi magica – “gli incorruttibili” e, più che i
devoti credenti, sono attenti e curiosi di scoprire le radici e cercare le
evidenze di questo fenomeno1. Si sentono voci contrastanti e dissonanti spesso ispirate dal desiderio di far prevalere una o l’altra ipotesi ma quasi mai serenamente aderenti alle evidenze scientifiche ed
alla fiduciosa consapevolezza che la verità possa arricchire sempre.
In alcuni nostri lavori, dove era stato richiesto di esprimere un parere
sul problema della conservazione mirabile ed eccezionale dei corpi,
avevamo ricordato, come premessa, che la santità di un notabile personaggio della Chiesa non si misura dal fatto che siano stati conservati
o meno i suoi resti mortali, in modo naturale o in modo non naturale;
o ancora che questi resti mortali siano o non siano affatto conservati.
Si annoverano infatti grandi figure di Santi il cui corpo non è giunto a
noi, ma questo, come ovvio, nulla toglie alla loro grandezza2.
In un momento storico in cui i mass media esercitano una forte
pressione alla ricerca del sensazionale e di tutto ciò che fa notizia e
internet, quale macchina prodigiosa e splendida espressione di una
sistema che sta diventando filosofia di vita, trasmette tutto ed il contrario di tutto senza controlli di qualità, si rende necessaria una riflessione su questo tema e questa riflessione deve essere proposta anche
e soprattutto su una rivista scientifica.
Presupposti teologici
In molti punti delle Sacre Scritture si parla esplicitamente del ritorno
dell’uomo, dopo la morte, alla polvere dalla quale era venuto. “Col
140
Le mummie dei Santi
sudore della tua fronte mangerai il pane, finché non ritornerai nella terra dalla quale fosti tratto; perché tu sei polvere ed in polvere
ritornerai” (Genesi 3,19 ) ed ancora “Dio formò l’uomo dalla terra, Lo creò a sua immagine, E di nuovo lo fa ritornare alla terra”.
(Ecclesiastico 17,1)
Alla condizione umana di caducità e di fragilità la morte pone un
sigillo ineluttabile e realizza questa tremenda realtà con la polverizzazione del corpo. Tale evento viene più volte ricordato a monito.
“Ricordando che son carne, Un soffio senza ritorno” (Salmi 77, 39)
ed ancora, “Perché Egli sa bene come siamo fatti, E ricorda che siamo polvere”. (Salmi 102,14) o sempre più esplicitamente “E torni
la polvere alla sua terra da cui ebbe origine E lo spirito torni a Dio
che l’aveva dato”. (Ecclesiaste 12, 7)
È proprio in questa ultima proposizione che si trova, per il credente,
la chiave di tutto il mistero dell’uomo che si dissolve nella terra per
lasciare libera l’anima di tornare a Dio.
L’imbalsamazione dei corpi
L’imbalsamazione dei defunti sembra contrapporsi nettamente alla
tradizione biblica. In effetti in Egitto nei primi secoli del cristianesimo l’imbalsamazione dei cadaveri ed i riti funerari ad essa correlati vennero assolutamente proibiti. La proibizione per i cristiani
di Egitto era motivata dalla necessità di differenziare nettamente le
pratiche religiose dei cristiani da quelle ispirate alla vecchia religione egizia. Per tale motivo, proibire l’imbalsamazione era segno di
frattura netta e di cambiamento radicale nei confronti della religione
di stato, di qualsiasi forma di religiosità tradizionale popolare ma
anche di qualsiasi forma di superstizione.
Tuttavia se venne abbandonato il rituale della imbalsamazione non
venne del tutto trascurata una certa pratica di conservazione dei cadaveri. Molto più semplicemente ed in modo artigianale, (un pragmatismo che comunque lasciava spazio ad ogni eventuale possibilità
141
Ezio Fulcheri
e nulla precludeva nella remota ipotesi che quella dei Cristiani non
fosse proprio una verità così assoluta tale da escludere ogni aspetto del
precedente impianto teologico) i corpi venivano cosparsi in una mistura naturale di Sali, il natron, e successivamente coperti nel sepolcro.
In questo modo si praticava una imbalsamazione semplice e ridotta
all’essenziale, che escludeva manipolazioni dei corpi ed eviscerazioni
ma nel contempo evitava la dissoluzione delle carni (la fase putrefattiva dei fenomeni post mortali – distinta in cromatica, gassosa e colliquativa) e consentiva la conservazione del corpo grazie all’azione del
sale ed alle condizioni climatiche estremamente favorenti.
Tuttavia questa osservazione potrebbe dimostrarsi estremamente
confondente nello studio delle radici giudaiche dell’imbalsamazione.
Per comprendere come nella tradizione giudaico-cristiana la pratica
della imbalsamazione fosse invece profondamente radicata occorre
andare molto più indietro nel tempo; occorre ritornare al momento della fuga dall’Egitto dopo la lunga schiavitù. Gli Ebrei usciti
dall’Egitto portarono con loro, oltre a svariati usi e costumi, la pratica dell’imbalsamazione e questa si radicò nelle più profonde tradizioni del popolo.
La tradizione giudaica della imbalsamazione la possiamo chiaramente trovare documentata proprio a proposito della morte di Gesù.
Nel Vangelo di San Giovanni si può leggere:
Venit autem et Nicodemus, qui venerat ad Iesum nocte primum, ferens
mixturam myrrhae et aloes, quasi libras centum. Acceperunt ergo corpus
Iesu, et ligaverunt illud linteis cum aromatibus, sicut mos est iudaeis sepelire (Jo.19,39-40).
Inoltre, nel Vangelo di San Marco leggiamo “Et cum transisset sabbatum, Maria Magdalene, et Maria Iacobi, et Salome emerunt aromata ut venientes ungerent Iesum (Mrc,16,1)”, e nel Vangelo di San
Luca “Et revertentes paraverunt aromata et unguenta: et sabbato
quidem siluerunt secundum mandatum (Lu, 23, 56)”.
142
Le mummie dei Santi
Nella basilica del Santo Sepolcro in Gerusalemme la tradizione ha
fatto riconoscere e conservare la cosiddetta “pietra dell’unzione”
(erroneamente detta anche “pietra dell’unione”).
Appare immediatamente il rapporto di tali usanze ebraiche con le
tradizioni egiziane di imbalsamazione probabilmente assimilate dagli ebrei durante il lungo periodo di prigionia; comunque sia derivata, l’usanza di ungere con balsami i corpi dei defunti si consolidò
presso gli Ebrei: sicut mos est iudaeis sepelire (Jo.19,40).
Con tale autorevole tradizione è ovvio che i corpi di persone Sante
o “in odore di santità”, venissero, nei secoli successivi, per devozione e rispetto, lavati ed unti con balsami ed aromi e pertanto
“imbalsamati”.
I cristiani di Roma iniziarono a conservare i corpi dei fedeli nelle
catacombe e a venerare le reliquie dei martiri raccolte dopo il martirio. Tuttavia dobbiamo attendere che il cristianesimo si radichi pienamente nella popolazione per iniziare il culto pubblico dei defunti e,
con questo, il culto diversificato dei defunti di eccezionale e straordinaria calibratura e statura come appunto quei personaggi della Chiesa
morti in odore di santità.
Questi corpi venivano lavati e trattati con cura e le spoglie deposte in
sepolcri privilegiati in chiese, basiliche o cattedrali. In queste condizioni molto caratteristiche la mummificazione poteva instaurarsi abbastanza facilmente. Proprio il concorso dei balsami, degli aromi e
degli incensi con le condizioni di un microclima particolare, fecero sì
che in Europa, ed in Italia soprattutto, venissero a conservarsi un gran
numero di corpi; Santi, Beati o semplicemente Religiosi notabili divennero, e sono tutt’ora, silenziose presenze in svariati luoghi di culto.
Evidenze speciali in Italia
Dal 1990 stiamo raccogliendo i dati per un catalogo importante relativo alle reliquie insigni dei Santi e dei Beati. In questo “corpus”
cerchiamo ogni notizia relativa alle precedenti ricognizioni e ogni
143
Ezio Fulcheri
possibile traccia o documentazione relativa allo stato di conservazione dei corpi. Questo catalogo e la sistematizzazione di esso verrà descritto in seguito; ora preme, per rendere più lineare il ragionamento,
estrapolare dal tema solo alcuni concetti.
L’elenco dei corpi mummificati conservati in Italia evidenzia come
su quarantadue mummie in nove casi siano stati documentati sicuramente interventi complessi di imbalsamazione. Per due di questi,
Santa Margherita da Cortona e la Beata Margherita Vergine di Città
di Castello potemmo addirittura ritrovare i segni delle incisioni e
studiare la tipologia dell’intervento di imbalsamazione.
Nella regione addominale si ritrovarono le incisure a tutto spessore, necessarie per la rimozione dei visceri, chiuse con punti di
sutura a sopraggitto. Per la Beata Margherita Vergine di Città di
Castello si trattava di un’incisura a croce con due tagli, l’uno sulla
linea xifo – pubica ed il secondo dal fianco destro a quello sinistro. Santa Margherita da Cortona presentava invece anche tagli
longitudinali sulle gambe e sulle cosce, sempre accuratamente suturati, che dovettero servire per una mummificazione molto più
complessa che prevedeva anche la rimozione del pannicolo adiposo sottocutaneo3.
L’incorruttibilità dei corpi
La tradizione dell’incorruttibilità dei corpi santi si basa invece su una
frase molto nota del Salmo 15 che viene spesso riproposta nella liturgia ed in particolare l’ottava di Pasqua, nel lunedì santo. “Anche il
mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita nel
sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione” (Salmo 15)
In effetti il patriarca Davide parlava della profezia e del giuramento
fatto da Dio di far sedere sul suo trono (il trono di Davide) un suo
discendente prevedendo anche la risurrezione di Cristo e ne parlò
chiaramente affermando che la carne del suo santo (cioè Cristo) non
avrebbe conosciuto la corruzione.
144
Le mummie dei Santi
Su questa base si fonda la tradizione dell’incorruttibilità dei corpi dei
Santi che, proprio in virtù della loro santità non devono seguire le vie
naturali della decomposizione ma possono preservarsi inalterati ed
incorrotti sfidando le leggi della natura per volere e disegno superiore.
Nel nostro catalogo abbiamo evidenziato che alcuni corpi vennero sicuramente imbalsamati mentre in una gran parte dei casi vi è
una notevole variabilità di situazioni e di caratteristiche del corpo
mummificato. Dunque se nove corpi vennero imbalsamati i restanti
trentatre come si conservarono?
Dopo tale riflessione occorre ragionare serenamente sulla base di alcuni elementi scientifici. La mummificazione naturale è ampiamente documentata in tutte le epoche storiche e in tutte le regioni del
mondo. È un evento inusuale che necessita di condizioni ambientali
particolari, di speciali caratteristiche del luogo in cui si trova il corpo
ed ancora di specifiche caratteristiche del corpo stesso4.
Una lunga serie di “pseudo scienziati” ha preteso di poter ragionare,
un po’ speciosamente, sul problema dei cosiddetti “incorruttibili”,
corpi di Santi o Beati che si sono conservati miracolosamente incorrotti. Il tema dell’incorruttibilità tuttavia viene da questi affrontato
con un senso di sfida intellettuale, nella contrapposizione cercata e
compiaciuta tra fede e scienza, oppure nella ricerca del sensazionale.
Molte volte siamo stati chiamati a intervenire su questo tema e costantemente abbiamo potuto constatare il senso di delusione negli
interlocutori e negli intervistatori allorquando si sviluppava il ragionamento con serenità e logica attenzione alle evidenze scientifiche.
La nostra riflessione era già stata pubblicata sulla rivista Alba
Pompeja in occasione della ricognizione canonica sul Beato Corpo
di Margherita di Savoia5. La Ricognizione avvenne ad Alba dove
Margherita aveva fondato il monastero di clausura delle suore domenicane. Si tratta di un corpo naturalmente mummificato.
Brevemente ricordiamo che la mummificazione naturale, per instaurarsi, necessita di condizioni ambientali e di microclima particolari.
145
Ezio Fulcheri
Abbiamo accennato che proprio l’uso di lavare i cadaveri ed ungerli con balsami favorisce enormemente la mummificazione. La
sepoltura poi in ambienti chiusi ed a temperatura costante e bassa
può costituire l’elemento determinante e la chiave di volta di tutto
il sistema. Se dunque la conservazione dei corpi può essere favorita
da particolari condizioni di sepoltura, abbiamo ragione di ritenere
che per moltissimi casi questa sia la spiegazione della conservazione
del loro corpo. Non infrequentemente abbiamo ritrovato, nella fase
documentaristica della ricognizione, elementi importanti relativi al
rituale di seppellimento, agli aromi o le sostanze chimiche impiegate
nella lavanda del corpo, alle caratteristiche del sepolcro e dei materiali con cui erano state costruite le casse (spesso più di una, poste a
costituire multistrati) o del sepolcro stesso in pietra o marmo.
Differente il caso di quando il corpo venne tumulato in ambienti
privi di protezioni (ampie camere umide, contatto con altri soggetti
deposti) e dove, come nel casi di sepolture multiple, i restanti corpi
andavano regolarmente incontro ai naturali processi di decomposizione. È proprio il caso della Beata Margherita di Savoia conservato
nel Monastero delle Suore Domenicane in Alba (Cuneo)6, e della
Beata Giovanna Scopelli, carmelitana, conservato nella Cattedrale
di Reggio dell’Emilia.
In questi casi l’agnostico cercherà sempre le cause di tale particolare
conservazione mentre il credente potrà vedere un particolare e provvidenziale percorso intrapreso dal Beato corpo. Nessuno tuttavia potrà immaginare una poderosa sfida alle leggi della natura e nessuno
immaginerà di trovarsi di fronte a soggetti incorruttibili.
Proprio per contrastare definitivamente le illazioni pesanti e fantasiose sui cosiddetti “incorruttibili” basti pensare alle numerose ricognizioni che vengono effettuate per stabilire lo stato di conservazione del corpo, monitorarne l’eventuale degrado e in ultima analisi
porre in atto tutti i procedimenti che la scienza moderna offre per
garantirne una conservazione lunga e protratta nel tempo.
146
Le mummie dei Santi
La scienza dunque interviene pesantemente per conservare il corpo
di coloro che, qualora fosse veramente incorruttibili secondo quella
fantasiosa accezione del termine, non avrebbe bisogno di alcun aiuto.
Alcuni anni or sono venimmo definiti medici dei Santi per il gran
numero di corpi esaminati e proprio questa definizione ci pare ora,
come allora, estremamente calzante per spiegare la conservazione
eccezionale dei corpi.
Solo tre anni or sono un importante canale televisivo statunitense (Sleeping Beauties. The incorruptibles. National Geographic
Channels) realizzò un documentario sulla eccezionale conservazione di alcuni corpi di Santi; il documentario venne realizzato con una
base scientifico-tecnica di elevata qualità presso centri specializzati
statunitensi e con riprese documentaristiche in Europa ed in Italia
in particolare. Tra i santi italiani largo spazio venne dedicato a Don
Orione come esempio di una conservazione eccezionale che dovette essere consolidata e rafforzata mediante tecniche e procedimenti
chimici di elevata raffinatezza e specificità7,8.
Il documentario venne trasmesso poi ripetutamente sulle reti televisive internazionali per via satellitare suscitando grande interesse e
molte persone contattarono i responsabili per chiedere se veramente
le immagini fossero reali piuttosto che frutto di abili montaggi e ritocchi al computer.
Al comitato scientifico che realizzò il documentario, per quanto riguarda il caso di San Luigi Orione, vennero in effetti fornite tutte le
documentazioni scientifiche ed in particolare i verbali delle precedenti due visite ispettive, l’ultima delle quali effettuata in modo complesso con l’estrazione del Santo corpo dall’urna ed una visita medicotecnica complessa e completa, corredata anche di prelievi istologici.
Occorre infatti spiegare che il Santo corpo viene sottoposto periodicamente ad ispezioni al fine di ottenere una serie di informazioni
idonee a monitorarne ogni seppur minima variazione o modificazione strutturale. Va tenuto infatti sempre presente con chiarezza
147
Ezio Fulcheri
che trattandosi di un corpo naturale, questo continua, seppur molto
lentamente, a subire ed instaurare una serie di processi biologici di
adattamento all’ambiente come solo le strutture biologiche possono
fare a differenza dei metalli o dei minerali.
Queste ultime considerazioni verranno riprese più oltre quando verrà
affrontato il tema specifico delle ricognizioni canoniche. Prima però
si ritiene utile presentare il lavoro di catalogazione dei corpi di Santi
o Beati conservati sino ai nostro giorni ed un particolare criterio catalogativo di essi.
Introduzione alla catalogazione dei reperti
Un primo catalogo relativo alle Reliquie insigni dei corpi dei Santi,
dei Beati, dei Venerabili o dei Servi di Dio venne pubblicato da
noi nel 1990 nel corso del XVIII International Congress of The
International Academy of Pathology9. Il numero di casi a cui pervenimmo, grazie ad una indagine capillare condotta sui principali testi
(Bibliotheca Sanctorum ed Analecta Bollandiniana), portava ad un
valore importante ma certamente di sottostima del reale10.
Infatti avevamo identificato in Italia 238 luoghi di culto con reliquie
notevoli e 25 mummie di Santi o di Beati.
Il tentativo era quello di dimostrare come in Italia, unico esempio in
tutt’Europa, ci fosse un patrimonio biologico eccezionale. In analogia a quanto accadde nell’antico Egitto, anche qui, per motivazioni
religiose, erano stati raccolti e custoditi i corpi dei defunti in un
modo particolare11.
Il fenomeno si sviluppò in Italia, più che in altri Paesi d’Europa, perché la ricerca mistica e spirituale della santità e conseguentemente
il culto dei Santi, dei Beati e del Servi di Dio fu molto sentito dalle
autorità ecclesiastiche e dalla popolazione. Supportati dalla tradizione e dalle pratiche di culto della Chiesa Cattolica, vennero riproposti
differenti modelli di conservazione dei corpi che contribuirono, nel
corso dei secoli, a costituire una realtà unica. Per loro ed attorno a
148
Le mummie dei Santi
loro si costruì progressivamente un patrimonio ingente di fede, cultura ed arte12.
Oggi il catalogo generale conta 403 segnalazioni e altrettante schede
sono allestite nell’ambito di un complesso database che sostiene un
programma di ricerca.
Sotto un profilo strettamente biologico tuttavia l’importanza delle
segnalazioni raccolte divenne via via sempre più rilevante poiché
accanto a molti corpi scheletriti, o parti di essi, emergeva un numero
sempre maggiore di mummie.
Altri studiosi (Terribile, Fornaciari, Ventura) stavano parallelamente portando evidenze delle pratiche imbalsamatorie su di un altra
importante categoria sociale e su altre fasce di popolazione rappresentate dai potenti, notabili, nobili o signori. Anche per essi, attorno
al cadavere o al corpo mummificato, si era stratificato nel corso dei
secoli un patrimonio ingente di cultura, storia ed arte.
Prima categoria
Ad Innsbruch, durante il convegno di consenso per la mummia del
Similaun riprendemmo il tema delle reliquie insigni meglio focalizzandolo sulle mummie dei Santi e Beati13.
Lo studio delle mummie dei Santi portò a distinguere le mummie naturali da quelle artificiali documentando con sicurezza, per la prima
volta, casi di mummificazione intenzionale.
I punti essenziali della nostra disamina furono infatti due.
In primo luogo venne presentato il primo catalogo relativo alle mummie dei Santi. Si trattava di un elenco di 25 soggetti distribuiti in un
arco di tempo che andava dal 304 DC al 1923.
In secondo luogo venne documentata una mummificazione artificiale
(imbalsamazione) per alcuni di essi. Una ricerca bibliografica accurata, svolta in specie su antichi testi relativi ai Santi di due regioni particolari quali la Toscana e l’Umbria, portò alla raccolta di testimonianze
molto particolari e specifiche relative alle pratiche imbalsamatorie.
149
Ezio Fulcheri
In fine venne presentato il caso di Santa Margherita da Cortona che,
come risultava anche dai documenti storici, venne imbalsamata con
grande concorso di gente. Vennero mostrati i segni inequivocabili
delle incisioni e successivamente lo splendido stato di conservazione di essa mediante esame istologico su prelievi di cute. Oltre alle
convenzionali metodiche istochimiche vennero presentati i risultati
eccezionali delle colorazioni con anticorpi anti citocheratine volte a
dimostrare la conservazione delle caratteristiche immunofenotipiche
dell’epitelio malpighiano14,15.
Quelle immagini ed il catalogo restarono impressi nella mente dei
presenti e vennero riprese in trattati importanti sulle mummie editi
poco dopo16,17,18.
Oggi il catalogo delle mummie naturali ed artificiali dei Santi e Beati
d‘Italia conta 42 casi19,20,21,22,23 di questi 9 con sicure dimostrazioni di
imbalsamazione (Tab. 1)24.
Seconda categoria
Caratterizza tutto il settecento e gran parte dell’ottocento la cura e
l’istituzione dei “Corpi Santi”. Dobbiamo alla accurata e meticolosa
indagine condotta sui Corpi Santi della Chiesa di Monselice, effettuati dal Professore Cleto Corrain con il Professor Vito Terribile Wiel
Marin la puntualizzazione di un terzo e particolarissimo esempio di
mummificazione anzi, potremmo dire, di “pseudo imbalsamazione”25.
In effetti, nell’impossibilità di possedere il Santo corpo mummificato, veniva costruita artificialmente una massa corporis attorno alle
reliquie costituite essenzialmente dalle parti scheletriche. Si tratta
spesso di rozze ricostruzioni anatomiche con imbottiture pesanti di
bambagia e garze attorno a sostegni di legno o tralicciature metalliche. In questi casi, come già detto, la reliquia insigne è costituita dai
soli resti scheletrici ma l’immagine che ne deriva per l’esposizione
alla venerazione dei fedeli è quella di una vera e propria mummia,
vestita degli abiti ecclesiastici o dei paramenti.
150
Le mummie dei Santi
Si potrebbe parlare di falsi ma la mente ancora una volta torna
all’antico Egitto quando la mummificazione veniva effettuata anche
su parti di corpi o, in caso di mummificazioni mal riuscite, su parti
scheletrite. Sorprese queste, oggi, per gli antropologi ed i paleopatologi quando rinvengono miseri resti umani ornati e preparati in
sontuose pseudo- mummie. Tuttavia allora, come oggi, il desiderio
di possedere il corpo a tutti i costi era la molla che spingeva a queste
ardite invenzioni di materialità.
Si parla infatti di “Corpi Santi” per sottolineare che il corpo è il reliquiario del Santo. Al contrario, il corpo di un Santo è detto Santo
Corpo per indicare che in quel corpo, vero, albergava l’anima del
personaggio Santo e che quindi santo è anche il corpo.
Nel catalogo di Monselice vengono registrati ventisette “Corpi
Santi” ma molti altri vennero costruiti in ogni luogo d’Italia per raccogliere le reliquie e presentarle alla venerazione dei fedeli in una
forma più diretta e immediata che non nella lontana e fredda urna o
nella tomba chiusa. Nei reliquiari e nelle tombe chiuse ma esposte
alla venerazione, l’immagine del santo veniva riproposta oltre che
con scritte anche con bassorilievi o dipinti proprio per ricordarne
la presenza vera e reale nella chiesa. Indubbiamente il corpo è un
tramite più diretto ed efficace per ricordare l’umanità di un Santo e
tenerlo “vivo” in mezzo ai suoi devoti fedeli.
Noi abbiamo direttamente effettuato la ricognizione su uno dei più
affascinanti “Corpi Santi”, quello di Santa Chiara d’Assisi26 ed il
restauro ha in parte mantenuto le caratteristiche della presentazione
antica dei Santi Resti. “Exuviae Santae Clarae” si legge oggi nel carteggio appoggiato al Corpo Santo che ne racchiude i resti scheletrici.
Sotto un profilo strettamente tecnico e considerando il problema della
conservazione dobbiamo necessariamente sottolineare che questi resti
sono, più che altri, a rischio. La grande quantità di ovatta e stoffa che
avvolge i segmenti ossei, con il tempo accumula umidità, muffe e colonie di artropodi che con le loro larve intaccano la materia organica.
151
Ezio Fulcheri
In molti casi è in atto una vistosa polverizzazione.
In un catalogo che solo ora abbiamo iniziato a comporre, contiamo
altri 5 oltre a quelli di Monselice ma crediamo che il numero sia desinato certamente ad aumentare (Tab. 2). Riteniamo infatti che molte mummie, esposte alla venerazioni nelle chiese, ed in particolare
quelle il cui volto è ricoperto da una maschera, in effetti siano dei
“Corpi Santi”.
Terza categoria
È noto come l’imbalsamazione dei corpi di personaggi insigni della
vita civile sia sempre rimasta come prassi estremamente ben consolidata a partire da Medio Evo sino ai nostri giorni. Uomini politici,
sovrani, principi, letterati e scrittori vennero imbalsamati dopo la
loro morte. Tuttavia per i personaggi illustri della Chiesa si tratta di
una vicenda più articolata e per certi versi molto più complessa.
A partire dalla seconda metà dell’ottocento si assiste ad un nuovo
fenomeno relativo alla conservazione dei corpi. Un notevole gruppo
di sacerdoti, vescovi o laici particolarmente impegnati nella vita della Chiesa vennero tumulati in sepolcri di particolare struttura. In tali
condizioni, all’interno delle chiese e protetti da molteplici strati ed
involucri, confinati in un particolare microclima, si determinarono le
condizioni più favorevoli per la loro conservazione. Questo evento
era stato già da noi osservato e studiato per tipizzare le caratteristiche del microclima in ambiente confinato.
Dopo alcuni decenni, nel corso di ricognizioni effettuate nell’ambito dei processi di canonizzazione, molti corpi vennero trovati in
eccellenti condizioni e pertanto, per migliorare o stabilizzare il risultato ottenuto, vennero sottoposti a specifici interventi conservativi; delle vere e proprie imbalsamazioni differite nel tempo, a distanza dalla morte che, parafrasando la terminologia propria delle
tappe della guarigione delle ferite, potremmo definire “per seconda
intenzione”27,28,29,30.
152
Le mummie dei Santi
Come si può vedere nella tabella allegata (Tab. 3) che elenca i dati
dei primi 27 casi raccolti, molti di questi corpi si trovano a Roma
poiché si tratta di pontefici o di sacerdoti e religiosi deceduti nella
Casa Generalizia dell’Ordine da loro fondato.
Lo studio delle tecniche di imbalsamazione differita è di notevole
interesse e apre un nuovo ed interessante capitolo sulla conservazione dei corpi.
Grande impulso allo sviluppo delle metodologie per la conservazione dei corpi di soggetti parzialmente trattati, si deve all’appassionato
e competente lavoro del Dott. Gabrielli, già direttore del gabinetto
Scientifico dei Musei Vaticani31.
I metodi di studio
In passato avevamo affrontato il tema delle ricognizioni canoniche
sulle reliquie insigni dei Santi, Beati e Servi di Dio32 ponendoci il problema di quale fosse il ruolo del patologo in tali circostanze e quali
fossero gli interventi richiesti. Da allora abbiamo avuto l’occasione di
intervenire in un gran numero di casi e poco alla volta abbiamo maturato un’esperienza particolare che è andata sviluppandosi parallelamente allo sviluppo delle tecnologie e delle metodiche d’indagine.
Ora, a distanza di vent’anni riprendiamo brevemente il tema meglio
specificando l’iter che è necessario seguire allorquando si intraprenda una ricognizione su una reliquia insigne e sul corpo di un Santo in
particolare che, per l’appunto, rappresenta il grado più elevato delle
reliquie insigni.
Le ricognizioni canoniche possono essere distinte in tre principali
categorie: la ricognizione storico-documentaristica; la ricognizione
ispettiva, la ricognizione conservativa.
Nel primo caso viene costituita una commissione storica che si affianca a quella canonica e vengono prese in esame tutte le documentazioni relative al caso mediante ricerche di archivio, diocesano o
vaticano, o ancora con la ricerca delle fonti minori. Mediante questa
153
Ezio Fulcheri
indagine vengono confermati o meno gli aspetti storici ed agiografici
relativi alla vita del personaggio ed alla conservazione del corpo.
Altri elementi di novità possono emergere dalla reinterpretazione
delle fonti o dall’esame di fonti fino ad ora ignorate. Parallelamente
vengono riesaminati e valutati i testi delle precedenti ricognizioni.
Nel secondo caso viene effettuata una ricognizione volta alla verifica dell’integrità dei contenitori (urne e reliquiari) e della resistenza
degli stessi. È noto che la Chiesa è custode delle reliquie dei Santi e
con complessi procedimenti canonici certifica e documenta questo
ruolo e la sua funzione. In questo modo l’autenticità del reperto viene progressivamente certificata ed attestata nei secoli.
Nel corso di tale procedimento di regola viene effettuato anche un
esame ispettivo del corpo che non prevede vestizione, rimozione o
spostamenti del corpo ma semplicemente consiste in un esame esterno (per l’appunto ispettivo) che spesso viene effettuato senza togliere il corpo dall’urna che lo contiene.
Solo nel caso in cui siano evidenziate anomalie della superficie corporea, alterazioni degli abiti o infiltrazioni di agenti esterni di qual
si voglia natura (siano essi chimici o biologici) viene ipotizzato un
secondo intervento più importante e radicale, viene cioè proposta
una ricognizione a carattere conservativo.
La ricognizione a carattere conservativo oggi viene svolta con una
procedura del tutto particolare ed aderente ai progressi della scienza
e della tecnologia.
Mentre un tempo questa veniva effettuata di regola da una o due persone (per lo più un medico di chiara fama – clinico medico o medico
legale - ed un chimico, naturalista o biologo) che si affiancavano alla
commissione canonica, oggi occorre che, a condurre i lavori, sia un
vero e proprio gruppo di esperti guidati da un responsabile.
Il principio fondamentale che deve caratterizzare la ricognizione si
basa sulla necessità di conservare ed in quest’ottica occorre tener
presente altri due concetti che guidano le operazioni.
154
Le mummie dei Santi
In primo luogo, si tratta di interventi che si ripetono solo a distanza di
centinaia di anni e quindi occorre documentare tutte le operazioni per
consegnare ai posteri evidenze documentaristiche complete ed esaustive.
In secondo luogo, proprio la rarità ed eccezionalità dell’intervento obbligano alla ricerca di tutti i segni e le tracce delle precedenti
operazioni per documentare (sotto un profilo storico) anche queste
ma, nel contempo, trarre informazioni su eventuali altri interventi
conservativi effettuati in passato. Proprio questo secondo aspetto si
rivela di estrema importanza per impostare i trattamenti conservativi
futuri con sostanze che non interagiscano o contrastino con quelle
precedentemente impiegate ma semmai con esse siano sinergiche.
Effettuata dunque la scelta e la conseguente nomina del coordinatore
responsabile della parte scientifica della ricognizione, questi deve
costituire il gruppo (Comitato Scientifico) scegliendo accuratamente
gli esperti cui affidare le specifiche indagini.
Questo gruppo deve essere attentamente calibrato e soprattutto coordinato con una logistica e un piano operativo molto rigido.
Preliminarmente devono essere identificati i responsabili delle operazioni documentaristiche sia con immagini statiche che in movimento. Le tecniche di ripresa e fotografia digitale offrono ora eccezionali strumenti di straordinaria duttilità e perfezione. È possibile
così effettuare riprese dirette di grande qualità che documentano
ogni fase delle operazioni e nel contempo registrano le impressioni
ed i commenti vocali degli operatori.
Al momento dell’apertura del reliquiario è necessario documentare
le caratteristiche del microclima venutosi a creare all’interno dello
stesso e iniziarne lo studio.
Il microbiologo e il perito chimico potranno effettuare prelievi per
le indagini sui contaminanti di natura organica (microorganismi) ed
inorganica (polveri).
Teniamo a ribadire che le condizioni che hanno garantito la conservazione dei reperti per centinaia di anni sono ora drasticamente e
155
Ezio Fulcheri
tumultuosamente mutate in epoca post industriale a causa dell’inquinamento fisico (calore, vibrazioni e fonti luminose) e chimico
(inquinanti ambientali e smog).
Prima di effettuare qualsivoglia intervento sul corpo o sugli abiti
(spesso paramenti o divise d’epoca) è necessario sottoporre il corpo
ad una completo esame radiologico. Ancora una volta, la tecnica offre
meravigliose soluzioni al problema e rende non più necessaria quella
gran quantità di radiogrammi che dovevano essere effettuati un tempo.
Con una sola indagine TAC possono essere infatti acquisite informazioni innumerevoli sul corpo e sugli indumenti. La possibilità poi di
poter analizzare e scomporre le immagini, ricalibrarle e ricomporle
tridimensionalmente sui piani desiderati consente di effettuare quella
che oggi viene comunemente definita come “autopsia virtuale”. Mai
come in questo caso l’autopsia virtuale consente di evitare inutili e devastanti svestizioni o dissezioni del corpo mummificato. Tramite essa
vengono non solo identificate eventuali aree di minor consistenza e di
degrado dei tessuti ma anche eventuali lesioni patologiche.
Un antropologo avrà poi il compito di effettuare, a completamento,
un esame morfologico e fisico del soggetto.
Se richiesta la svestizione, questa dovrà prevedere la presenza, oltre
ai tecnici esperti in restauro dei tessuti, nuovamente del microbiologo e del chimico per effettuare prelievi nelle cavità e sui piani che
mano a mano vengono alla luce.
Effettuata la svestizione dovranno essere effettuati prelievi istologici
per definire lo stato di conservazione della cute e dei tessuti33,34. Tali
prelievi consentiranno altresì di evidenziare eventuali precedenti
procedimenti conservativi posti in atto sul corpo o ancora sostanze
impiegate per un’eventuale imbalsamazione.
Una serie di prelievi dovrà, anche in questo caso, essere sottoposta
ad analisi chimico - fisiche per la tipizzazione delle eventuali sostanze estranee ai tessuti presenti o ancora per evidenziare sostanze
presenti nei tessuti sia di natura esogena che endogena.
156
Le mummie dei Santi
I prelievi per l’esame istologico vanno effettuati in aree esposte,
precendentemente fratturate o in contesti degradati tenendo a mente
di campionare comunque sempre anche un lembo di tessuto macroscopicamente indenne che documenti la parte meglio preservata del
soggetto.
Personalmente abbiamo, nel corso degli anni, adottato la tecnica di
inclusione in resina che offre importanti vantaggi35,36. In primo luogo
è possibile operare con prelievi minimi, standardizzati nell’ordine di
alcuni millimetri. Tali prelievi potranno essere pertanto molto numerosi e condotti in aree di particolare criticità senza alterare il corpo.
L’inclusione in resina consente poi di non dover sottoporre i prelievi
ai procedimenti di reidratazione37 ed in tal modo preserva sulla superficie ogni traccia di contaminazione batterica o di sostanze estranee organiche o inorganiche38,39.
Tutti i risultati delle indagini, discussi collegialmente, potranno integrare le relazioni peritali dei singoli in un ragionamento epicritico
completo.
Un gruppo di esperti coordinati in questo modo consente di effettuare veramente un’indagine esaustiva a tutto tondo e soprattutto, con
la raccolta dei campioni, consente di poter in ogni momento riesaminare ed approfondire le indagini.
Solo a questo punto ed alla luce di quanto emerso dalla commissione
scientifica potrà essere pianificato l’intervento conservativo che sarà
ovviamente di entità e complessità proporzionali alla tipologia del
soggetto ed alla entità del danno.
Con tali metodi abbiamo potuto effettuare le ricognizioni canoniche
sui corpi di Santa Margherita da Cortona, della Beata Margherita
Vergine di Città di Castello, del Beato Giovanni Gueruli di Verucchio,
di Sant’Odorico da Pordenone, della Beata Margherita di Savoia,
della Beata Giovanna Scopelli di Reggio Emilia e del Venerabile
Giovanni di Gesù Maria di Montecompatri.
157
Ezio Fulcheri
Conclusioni
La Paleopatologia non poteva non interessarsi delle mummie dei
Santi40.
Abbiamo detto all’inizio che un grande patrimonio storico e artistico
si è stratificato nel corso dei secoli su questi personaggi e ne consegue che molte sono le domande storiche che ancora oggi non hanno
trovato piena risposta41.
Ogni volta che si procede all’esame di una mummia si scoprono
dettagli e particolari sulla storia fisica e patologica del personaggio;
questi si integrano con il profilo storico e agiografico e ne completano alcuni tratti. L’esperienza è sempre affascinante e stimolante42.
Tuttavia non va mai dimenticato che l’indagine antropologica e paleopatologica non può e non deve essere condotta con la metodologia abituale di studio propria della nostra disciplina. In questo caso il
primo obiettivo è quello di conservare il soggetto. Per tale ragione la
ricognizione non può e non deve prevedere assolutamente indagini
invasive o dissezioni che, ancorché estremamente interessanti, danneggino l’integrità del corpo. Tutto ciò che si può studiare deve essere
prelevato con cautela e rispetto.
Oggi le tecnologie moderne permettono indagini non invasive o minimamente invasive in analogia a quanto avviene nella diagnostica medica; tali metodologie diagnostiche hanno soppiantato le procedure e
le tecniche diagnostiche un tempo impiegate sui corpi mummificati.
Una gran quantità di osservazioni viene effettuata per determinare
lo stato di conservazione dei tessuti e quindi impostare i successivi trattamenti conservativi. Nel corso di queste operazioni vengono
rilevati aspetti antropologici e caratteristiche fisiche del soggetto in
esame mentre le osservazioni di carattere paleopatologico vengono
effettuate basandosi sull’ispezione delle parti esposte, sugli elementi
forniti dalla diagnostica per immagini e su minimi prelievi mirati.
Ancora una volta, in chiusura di questo breve excursus, la mente
corre all’antico Egitto ed al tema della profanazione delle tombe; le
158
Le mummie dei Santi
mummie dei faraoni sono ora rispettate con la dignità regale che loro
è propria. Altrettanto dobbiamo fare noi con le mummie dei Santi
per la sacralità che le pervade.
1
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3
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Santi , Beati
e Venerabili d’Italia
Santa Lucia
San Ciriaco
Sant’Anselmo da Baggio
Sant’Ubaldo da Gubbio
Beata Beatrice d’Este
Beata Elena Enselmini
Beato Giordano Forzatè
Santa Rosa da Viterbo
Santa Zita
Santa Margherita da Cortona
Santa Chiara da Montefalco
Sant’Agnese da Montepulciano
Beata Margherita Vergine
Beato Giovanni Gueruli
Beata Diana Giuntini
Sant Odorico da Pordenone
San Corrado Confalonieri
Santa Caterina da Siena
Santa Francesca Romana
San Bernardino da Siena
Beato Giovanni Bassando
Santa Rita da Cascia
San Giovanni da Capestrano
Beata Cristina da Spoleto
Sant’Antonino da Firenze
Beata Margherita di Savoia
Santa Caterina da Bologna
Beata Antonia da Firenze
Beato Pacifico Ramati
Beato Damiano Fulcheri
Santa Eustochia Calafato
Sede
Anno del- Mummifila morte
cato
Venezia
304
*
Ancona
363
*
Mantova
1086
*
Gubbio
1160
*
Este
1226
*
Padova
1231
*
Padova
1248
*
Viterbo
1252
*
Lucca
1278
*
Cortona
1297
Montefalco
1308
Montepulciano 1317
*
Città di Castello 1320
Verucchio
1320
*
Pisa
1321
*
Udine
1331
*
Noto
1351
*
Siena
1380
Roma
1440
*
L’Aquila
1444
L’Aquila
1445
*
Cascia
1447
Capestrano
1456
*
Spoleto
1458
Firenze
1459
*
Alba
1464
*
Bologna
1465
*
L’Aquila
1472
*
Cerano
1482
Reggio Emilia 1484
*
Messina
1485
*
159
Imbalsamato
*
*
*
*
*
*
*
*
Ezio Fulcheri
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41
42
Santi , Beati
e Venerabili d’Italia
Beata Giovanna Scopelli
Beata Marina da Spoleto
Beato Vincenzo da L’Aquila
Ven Gacobba Pollicino
Santa Caterina Fieschi Adorno
San Lorenzo da Villamagna
Beata Angela Merici
Beato Mansueto da Comiso
Ven Giovanni di Gesù e Maria
San Gregorio Barbarigo
Beata Centurione Bracelli
Sede
Anno del- Mummifila morte
cato
Reggio Emilia 1491
*
Spoleto
1503
L’Aquila
1504
*
Messina
1509
*
Genova
1510
*
Villamagna
1535
*
Brescia
1540
*
Comiso
1600
*
Montecompatri 1615
*
Padova
1627
*
Genova
1651
*
Imbalsamato
Tab. 1 Mummie dei Santi e Beati d’Italia
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2
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6
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9
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17
18
19
20
Santi e Beati
San Martino
San Celestino
San Teodoro
Santa Liberata
San Fruttuoso
San Gregorio
San Rusticiano
Santa Felicita
San Pio
San Bovo
San Rusticiano
Santa Faustina V,M,
San Valentino
Sant Alessandro
Sant Elite
San Costantino
Santa Faustina M.
Sant Emiliano
San Clemente
Santa Chiara
Anno della morte
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
160
Sede
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
*
Le mummie dei Santi
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30
31
32
33
34
Santi e Beati
Santa Febronia
San Bonifacio
San Venanzio
Sant Iloco
Santa Veneranda
San Benedetto
San Giustino
Santa Colomba
Santa Vittoria
Beato Giacomo Solomani
Santa Chiara
Beato Battista da Firenze
San Josaphat
Beata Antonia Mesina
Anno della morte
~
~
~
~
~
~
~
~
~
1231
1253
1510
1623
1935
Sede
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Monselice
Bari
Sassari
Venezia
Assisi
Campli
Roma
Orgosolo
Tab. 2 Corpi Santi
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
SECOLO XIX e XX
Corpi di Santi,
Beati e Servi di Dio
Giuseppe Benedetto Cottolengo
San Pio IX
Beato Gaetano Catanoso
San Giovanni Bosco
Beato Vescovo Scalabrini
San Pio X
Santa Francesca Saverio Cabrini
Beato Luigi Tezza
Santa Savina Petrilli
Pier Giorgio Frassati
Giuseppe Allamano
Sant Annibale Maria di Francia
Servo di Dio Atistide Leonori
Santa Orsola Ledochowska
Beata Gabriella Sagheddu
San Luigi Orione
Sede
Torino
Roma
Reggio Calabria
Torino
Roma
Roma
Siena
Torino
Torino
Messina
Roma
Roma
Grottaferrata
Tortona
161
Anno del
Anno
trattamento
della morte
conservativo
1842
//
1878
//
1879
1963
1888
//
1905
1996
1914
//
1917
1985
1923
2000
1923
1987
1925
2008
1926
//
1927
//
1928
1987
1939
1980
1939
//
1940
1980
Ezio Fulcheri
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
Beata Maria Teresa Fasce
Beato Luigi Beltrame Quattrocchi
Beato Card Shuster
Beata Maria Crocifissa Curcio
Servo di Dio Padre Felice Cappello
Beato Giovanni XXIII
Beata Maria Corsini
San Padre Pio da Pietrelcina
San Giacomo Alberione
Ven Padre Pio Delle Piane
Cardinale Josyf Slipyj
Cascia
Vitorchiano
Milano
Roma
Roma
1947
1951
1954
1957
1962
1997
1994
1994
2004
//
Roma
Vitorchiano
S. Giovanni Rotondo
Alba
1963
1965
1968
1971
1976
2001
1994
2008
//
2000
Roma
1984
1986
Tab. 3 Corpi dei Santi, beati e servi di Dio conservati per seconda intenzione
BIBLIOGRAFIA E NOTE
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Le mummie dei Santi
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mummie e l’arte medica nell’evo moderno. Medicina nei Secoli 2005; Supplemento n°1.
13. cfr. op. cit. nota 3.
14. Cfr. op. cit. nota 3.
15. Cfr. op. cit. nota 4.
16. BRIAR B.. The Encyclopedia of mummies. New York, Checkmark Books.
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20. CAPASSO L.. La mummia di Santa Rosa da Viterbo. Teramo, Edigrafital,
2000.
21. Cfr. op. cit. nota 6.
163
Ezio Fulcheri
22. FULCHERI E., GUALCO FULCHERI M.. Margherita di Savoia Acaja: la
ricognizione del beato corpo. In: Ricognizione Canonica del venerato corpo
della Beata Margherita di Savoia. Il Cervo 2004, pp. 30-35.
23. FULCHERI E., BOANO R.. Analisi istologica per la valutazione dello stato
di conservazione dei tessuti. Atti della Ricognizione scientifica del corpo del
beato Odorico da Pordenone. Il Santo 2004; XLIV: 501-506.
24. Cfr. op. cit. nota 5.
25. CORRAIN C., TERRIBILE WIEL MARIN V., MAYELLARO F.. Ricognizione dei “Corpi Santi ” della Chiesa di San Giorgio in Monselice (Padova).
Monselice, Grafiche Manoli, 1989.
26. Cfr. op. cit. nota 2.
27. Cfr. op. cit. nota 7.
28. FULCHERI E., Seconda relazione medica. In: NOLLI G., Cardinale Josyf
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Elettrongraf, 1987.
29. FULCHERI E., Il Santo Corpo di Don Orione. Testimone autentico e diretto.
Messaggi di Don Orione 2007; 124: 29-46.
30. FULCHERI E.. Cura e conservazione del corpo di Don Orione. In: MATRICARDI C., Villa Santa Clotilde a Sanremo. Una storia di Santità. Opera Don
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esperienze. Pavia, Seminari ANMS 2001. Atti in: Museologia Scientifica
Memorie 2008; 3: 107-111.
164
Le mummie dei Santi
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Danish Polar Center, 2003, pp. 89-92.
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Biol. Res. 1999; 7-8, Vol LXXV: 39-45.
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38. Cfr. op. cit. nota 35.
39. Cfr. op. cit. nota 36.
40. GRILLETTO R., CARDESI E., BOANO R., FULCHERI E.. Il vaso di Pandora. Torino, Ananke, 2004.
41. FULCHERI E., GRILLO F., Caterina Fieschi Adorno. Il suo ritratto ed
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42. FULCHERI E., Saints and illnesses in faith and paleopathological evidences.
Journal of History of Medicine 2006; 18/3: 815-830.
Correspondence should be addressed to:
Ezio Fulcheri, Anatomia Patologica dell’Università di Genova, Via De Toni n°14,
16132, Genova – Italy.
165
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 167-204
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
Corpi, mummie e testi per una storia
dell’imbalsamazione funebre in italia
Silvia Marinozzi
Dip. Medicina Molecolare, “Sapienza” Università di Roma
Unità di Storia della Medicina e Bioetica, Roma, I
Summary
BODIES, MUMMIES AND TEXTS FOR AN HISTORY OF EMBALMING IN ITALY
In the early 80’s, a systematic investigation was started of the series of
mummies from Central and Southern Italy, in particular from important
Renaissance depositions.
Radiological exams were carried out on each individual, not only to
determine the age at death of those subjects lacking any indication of age,
but also to detect possible pathological findings. Furthermore, X-rays
allow greater understanding of the techniques and the substances used
for embalming, including the type of craniotomy, the partial or complete
evisceration, and the identification of the embalming substances used to
fill the body cavities. The great number of artificial mummies, examined
by G. Fornaciari and his equipe, allowed the study of human embalming
techniques, related to methods and procedures described by medical
and non-medical authors in Early Modern age. The history of the art of
mummification has been here reconstructed, from the ‘clyster’ techniques
to the partial or total evisceration of the corpses, to the introvascular
injection of drying and preserving liquors.
A partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso, l’équipe di paleopatologia dell’Università di Pisa, diretta da Gino Fornaciari, ha avviato una lavoro di ricerca di archeologia funeraria, riesumando corpi e
Key words: Mummies- Embalming history- Italian funerary customs
167
Silvia Marinozzi
mummie in diversi cimiteri e sepolcri dell’Italia centro-meridionale
di evo moderno. Il primo importante step di questo progetto avvenne nel 1983, con la riesumazione delle salme di nobili e principi napoletani e aragonesi conservate nella Sacrestia della Basilica di San
Domenico Maggiore in Napoli, che datano tra il XV ed il XIX secolo1.
Lo scopo principale era essenzialmente di interesse paleopatologico,
ossia la ricerca di lesioni e di agenti patogeni che potesse servire alla
storia delle malattie e delle terapie. Per questo, ogni individuo venne
sottoposto ad esami diagnostici, radiologici, istologici, immunologici
ed immunoistochimici, con risultati molto importanti2. Ma la quantità
delle deposizioni analizzate ha reso possibile avviare anche lo studio
della pratica funeraria dell’imbalsamazione, confrontando le mummie
con le tecniche descritte e tramandate nei testi medici. Escludendo le
salme di santi e beati, sono state analizzate trentotto mummie artificiali
riesumate dall’équipe della Divisione di Paleopatologia dell’Università
di Pisa, riferibili ad un periodo storico compreso tra il XVI ed il XIX
secolo, che rappresentano pertanto esempi oggettivi tanto della diffusione dell’imbalsamazione chirurgica come rituale funerario per i sovrani quanto delle tecniche a tal fine utilizzate in questi secoli in Italia3.
Dalla letteratura medica, sappiamo che sistemi di conservazione dei
corpi erano già largamente diffusi nell’alto medioevo.
In generale, con la trascrizione e traduzione dei testi medici arabi, si
diffonde il sistema di imbalsamazione di Rhazes che, vietando ogni
forma di mutilazione come profanazione del defunto, non prevede
alcuna mutilazione del cadavere. Questa procedura, ancora usata in
Europa sino al periodo rinascimentale, consisteva in lavaggi interni
ed esterni del corpo, mediante unzioni e iniezioni di liquori corrosivi
ed antisettici effettuati con clisteri, per liquefare gli organi interni e
pulire le cavità.
Si compone un suppositorio a base di coloquintide e baurach (i.e. nitro) rosso da iniettare, attraverso l’ano, negli intestini; una volta riempitone il ventre, si effettuano pressioni sull’addome, in modo da far
168
L’imbalsamazione funebre in Italia
fuoriuscire tutti gli escrementi e le impurità. Si prepara poi un’altra
soluzione a base di aloe, mirra, acacia, ramisch (i.e. galla moscata),
canfora, sumach (i.e. sommacco), allume e sale disciolti in aceto e
acqua rosata, da iniettare nuovamente negli intestini sino a riempire
completamente gli organi, avendo cura di chiudere, al termine dell’operazione, l’orifizio anale con stoppe o cotone, in modo che il liquore non fuoriesca; nelle narici, nelle orecchie e nella bocca si versa
dell’argento vivo, in modo da prevenire la putrefazione e la fuoriuscita dei liquami del cervello; l’intero corpo viene cosparso del liquore
preparato e di alkitran, che gli autori medievali identificano con il
liquore cedria, ovvero la pece nera4. Il sistema della clisterizzazione
per la conservazione funebre dei corpi viene descritto ancora da medici e chirurghi di primo evo moderno, con indicazioni variegate sulle
sostanze da impiegare sugli ingredienti per le soluzioni con cui praticare i clisteri, la cui composizione prevede sempre, comunque, le sostanze sopraindicate e soprattutto su ulteriori operazioni da effettuare.
Un accento particolare si pone infatti sul trattamento successivo del
cadavere, che deve esser cosparso di polveri e balsami conservativi
e impermeabilizzanti ed avvolto in uno sparadrappo, ossia in tele incerate, variamente composte, che isolino definitivamente il corpo dai
fattori esterni, impedendo, al tempo stesso, che le esalazioni indotte
dalla putrefazione possano infestare l’aria e l’ambiente circostante.
Tale pratica diviene nota con il termine di “conditura” dei corpi morti, ossia di condimento dei cadaveri, termine lungamente usato dagli
autori medievali e di primo evo moderno per indicare il trattamento
dell’imbalsamazione dei cadaveri anche con la procedura chirurgica
dell’eviscerazione dei corpi, cui seguiva comunque il lavaggio del
cadavere con liquori antisettici, come aceto e vino, e il riempimento
delle cavità e l’aspersione del corpo con sostanze assorbenti e disidratanti, come il sale, e polveri aromatiche, per contrastare gli effluvi
putrefattivi dell’aria, anche nell’imbalsamazione chirurgica.
169
Silvia Marinozzi
Già nel periodo carolingio si era affermato in Francia un sistema di
imbalsamazione chirurgica come trattamento funebre dei cadaveri
dei re sovrani deceduti lontano dal regno o, più semplicemente, dai
luoghi di sepoltura prescelti, per garantire una maggiore conservazione del corpo attraverso l’asportazione delle parti più prontamente
putrescibili, ossia degli organi interni; il corpo e le cavità eviscerate venivano poi aspersi di vino o aceto, sale e polveri aromatiche.
A differenza di quanto tradizionalmente tramandato, A. ErlandeBrandenbourg ha sottolineato come tale pratica sembri diffondersi
tanto in Occidente quanto in Oriente già a cavallo tra l’XI e il XII
secolo, divenendo semplicemente più frequente con l’inizio delle
Crociate5. A partire dal XII secolo, infatti, vi sono esempi di trattamento chirurgico dei cadaveri dei re deceduti fuori dalla propria
terra sia nel regno francese che in quello inglese, ma è soprattutto
in Inghilterra che l’imbalsamazione diviene un costume abbastanza frequente, poiché numerose sono le morti dei sovrani avvenute
in terra straniera: il corpo di Enrico I, morto nel 1135 nei pressi di
Rouen, fu completamente eviscerato, così come successivamente si
effettuò nel 1199 per il corpo Riccardo I, e nel 1216 per Giovanni
senza Terra. In Francia, è soprattutto a partire dal XIII secolo che si
afferma la pratica dell’eviscerazione del cadavere, quando più frequenti diventano i decessi dei re fuori dal regno.
Ma questo sistema di imbalsamazione funebre comporta un tempo di
esecuzione prolungato e strumenti e sostanze specifici. Per questo, durante le Crociate si afferma un altro sistema di trattamento del corpo
del re, noto con il termine di “bollitura”, in quanto consiste nel cuocere
i cadaveri in acqua salata e condita con sostanze aromatiche e antisettiche, per smembrarli e agevolarne la conservazione ed il trasporto
delle reliquie nei luoghi di sepoltura; in genere, le parti molli, separate
dallo scheletro, venivano sepolte nel luogo di morte del re o principe
defunto, mentre le ossa venivano riportate nel regno per ricevere degni funerali ed esser conservate nelle cappelle o nelle terre sante delle
170
L’imbalsamazione funebre in Italia
cattedrali. Questa pratica viene proibita nel 1300, con l’emanazione
della bolla papale “De sepolturis” nota come Detestandae feritatis
abusum con cui Bonifacio VIII scomunica la bollitura dei corpi come
artefatto crudele e contro natura atto a disintegrare i corpi per trasportarli nei luoghi di sepoltura scelti senza aspettare il naturale processo
di putrefazione e scomposizione dei cadaveri, che ne permetterebbe
comunque la raccolta e il trasporto dei resti6. Ma J. Huizinga, nel suo
“Le décline du Moyen-Age” ricorda che i successori di Bonifacio VIII
accordarono dispense per poter smembrare e cuocere i cadaveri di sovrani deceduti nelle zone di guerra nel periodo delle crociate, e che
ancora nel XV secolo tale pratica era usata in Francia e in Inghilterra:
Les cadavres d’Edouard d’York, de Michel de la Pole, comte de Suffolk,
morts à Azincourt, furent encore traités de cette manière. Il en est de même
pour Henri V lui-même, pour Guillaume Glasdale qui périt à Orléans au
temps de la délivrance de la ville par Jeanne d’Arc, pour un neveu de sir
John Fastolfe tué en 1435 au siège de Saint-Denis7.
In questo modo sono stati trattati anche i corpi di Luigi IX Re di
Francia, deceduto nel 1270 a Tunisi, di Carlo d’Angiò, Re di Napoli e
Sicilia (1226-1285), e di Filippo III l’Ardito di Francia (1245-1285).
L’uso di fare a pezzi e cuocere i cadaveri, seppellendo i resti in luoghi diversi, si sarebbe affermato in Francia a partire dal XII secolo,
in particolare con Luigi VIII, deceduto nel 1226 a Montpensier, il cui
scheletro venne sepolto a Saint-Denis, mentre il cuore e le altre viscere restarono ad Auvergne8. La bollitura del cadavere sarebbe stata eseguita nel 1313 per conservare il corpo dell’imperatore Arrigo
VII, morto a Suvereto, in Tosacana, e sui cadaveri di Francesco della
Faggiola e del principe Carlo, nipote di Re Roberto di Napoli, entrambi deceduti nella battaglia di Montecatini nel 13159.
La scomunica della pratica della bollitura incrementa comunque sempre più l’imbalsamazione chirurgica, che prevede l’eviscerazione delle cavità toraco-addominali e l’estrazione delle parti carnose. Non è
171
Silvia Marinozzi
un caso che l’imbalsamazione si diffonda soprattutto nei Paesi cattolici che partecipano alle crociate: i corpi di sovrani e principi deceduti
in territorio asiatico o africano vengono sottoposti a trattamenti che,
sebbene rudimentali e distruttivi, tendono a conservarne quanto più
possibile le spoglie, perché possano ricevere degno funerale in patria.
Soprattutto in seguito alla bolla papale di Bonifacio VIII, che interdice la bollitura e la macerazione in acqua dei cadaveri, l’imbalsamazione chirurgica trova un più ampio riscontro, sino a divenire parte
integrante delle ritualità funebri dei regnanti: l’istituzionalizzazione
del Cattolicesimo comporta l’ufficializzazione di cerimonie funerarie
che prevedono una prolungata esposizione pubblica della salma, che
l’imbalsamazione chirurgica garantisce con l’eliminazione di quelle
parti del corpo più velocemente soggette alla putrefazione.
Intorno alla seconda metà del XX secolo sono stati effettuati importanti studi storici sulle cerimonie funebri nel primo evo moderno nei
Regni cattolici, in cui sono state analizzate le valenze simboliche,
culturali e sociali dei “due corpi del Re”, ossia sul valore e significato dell’effige reale, come “corpo politico” o “corpo mistico” del
sovrano defunto, esposta nel corso dei rituali funerari come simbolo
del potere monarchico e delle virtù spirituali che sopravvivono alla
morte ed al disfacimento del corpo. Fondata presumibilmente sulla christomimesis, regola di condotta per i re nella teologia politica
medievale, la distinzione tra corpus verum, ossia le spoglie mortali, ed il corpus mysticum, l’anima immortale, assume una valenza
politica, soprattutto in seguito alla proclamazione del dogma della
transustanziazione, nel 1215, che risolve definitivamente il dualismo
della natura del corpo di Cristo. L’effige reale, maschera mortuaria
che riproduce le sembianze del corpo del re, diviene rappresentazione del corpus politicum, intangibile ed incorruttibile, in antitesi allo
stato cadaverico del corpus verum.10
L’imbalsamazione religiosa dei corpi dei sovrani rientra, quindi, in
questa valenza simbolica di conservazione, attraverso il corpo reale,
172
L’imbalsamazione funebre in Italia
del corpo politico o mistico. Per questo motivo sin dall’Alto Medioevo
i grandi trattati di chirurgia forniscono indicazioni per imbalsamare i
corpi dei papi e dei re, per i quali si deve garantire la conservazione
almeno di quelle parti del cadavere pubblicamente esposte, ossia il
viso, le mani ed i piedi, durante i riti funebri.
Guy de Chauliac11 e Henry de Mondeville12 raccomandano infatti
l’imbalsamazione chirurgica per il trattamento dei corpi di re e principi, dal momento che i rituali funebri dei personaggi pubblici prevedevano un lungo tempo di esposizione del corpo e l’eviscerazione
del corpo permetteva di eliminare le parti più putrescibili, impedendo
così l’esalazione di quei miasmi morbiferi che, contaminando l’aria,
potevano provocare l’insorgenza di malattie tra quanti partecipavano
alle esequie. Il sistema della clisterizzazione di Rhazes, raccomandato per le esequie di nobili e personaggi di alto rango, viene perfezionato praticando piccole incisioni nella regione addominale, in modo
da far evacuare i gas prodotti dalla putrefazione degli organi interni,
liquefacendoli con la soluzione corrosiva iniettata nel ventre in modo
da poterli poi far fuoriuscire più facilmente, e rendere più permeabile
il corpo all’azione antisettica e conservativa dei balsami e delle polveri con cui si asperge il cadavere; il corpo viene completamente avvolto con bende intrise di un balsamo composto con resine, gomme e
polveri aromatiche e antiputride, e qualora si volesse lasciare il volto
scoperto per tutto il tempo delle esequie, si riempiranno le narici, la
bocca e le orecchie di argento vivo e il viso viene più volte imbibito
con una soluzione a base di acqua rosata e sale in modo che la salma
così imbalsamata possa restare esposta sino a otto giorni dal decesso.
L’imbalsamazione diviene una vera e propria procedura medicochirurgica nel Rinascimento, soprattutto in Francia, dove quella del
corpo del re era un fattore essenziale per il rito funerario e per la sua
valenza politica e sociale. Abbondano così capitoli dedicati al modo
di imbalsamare i corpi nei trattati redatti dai chirurghi alla corte francese, come Ambroise Paré13, Pierre Pigray (1532 ?-1613)14 o Jacques
173
Silvia Marinozzi
Guillemeau (1550-1613)15, che descrivono le procedure da loro stessi
eseguite per l’imbalsamazione funebre dei sovrani. Dalla lettura dei
testi, emerge chiaramente l’influenza dell’anatomia e delle tecniche
dissettive: infatti, per eviscerare le cavità cranica e toraco-addominale,
gli autori prescrivono una craniotomia circolare, come si usava per lo
scalottamento del cranio nelle dimostrazioni pubbliche, e l’esecuzione di un’unica incisione longitudinale giugulo-pubica, per estrarre gli
organi interni e, talvolta, lo sterno. Se necessario, ossia in presenza di
un corpo grasso, si esegue la scarnificazione e l’estrazione di muscoli
e carni; si praticano lavaggi interni ed esterni con distillati alcolici, per
lo più lo spirito di vino, la trementina, l’acquavite, usati anche come
antiputrefattivi durante le dimostrazioni pubbliche; le cavità eviscerate
vengono riempite con resine, gomme, balsami e sostanze aromatiche
ritenute antisettiche; il cadavere viene cosparso di balsami e resine;
ogni singola parte del corpo viene fasciata separatamente con bende
di lino o di cotone; la salma viene cosparsa di bitume, o altre gomme
e resine, vestita dei suoi abiti abituali, avvolta in uno sparadrappo e
deposta in un sarcofago di piombo, riempito di balsami, o bitume, ed
erbe aromatiche. In genere, sino ai primi decenni del XIX secolo la
maggior parte degli autori di testi inerenti l’imbalsamazione funebre
descrive questa procedura chirurgica, forse perché considerata la più
sicura per una conservazione duratura del corpo. Importante anche il
riempimento del sarcofago in cui viene deposta la salma di porzioni
di vegetali fortemente odoriferi, disposti in modo da circondare interamente il corpo sino a riempire tutti gli spazi interni della bara, al
fine di contrastare con gli effluvi profumati delle piante le esalazioni
cadaveriche putride, considerate contaminanti e patogene, e di isolare
e proteggere al contempo anche la stessa mummia dal potere fermentativo e putrefattivo dell’aria.
Le stesse operazioni descritte dai chirurghi della corte francese sono
riportate anche da autori di altri paesi, tra cui medici, chirurghi, apotecari e eruditi italiani16.
174
L’imbalsamazione funebre in Italia
Già nel 1410 Pietro d’Argelata († 1423) esegue l’imbalsamazione
del corpo del pontefice Alessandro V mediante l’eviscerazione della cavità toraco-addominale, che poi lava ed asperge di acquavite
e riempie di bombace, stoppe e una miscela di polvere aromatiche
considerate antisettiche; avvolge poi il corpo in uno sparadrappo,
composto di pece nera, colofonia, mastice, gomma arabica, dragante
e la stessa polvere utilizzata per la composizione del suppositorio
usato per la clisterizzazione e il lavaggio del corpo17.
Giovanni da Vigo (1450?-1525), nella sua Practica copiosa in arte
chirurgica, trascrive le due procedure da eseguire a secondo della
dimensione del corpo da imbalsamare: per gli individui di minuta
costituzione riprende infatti la tradizione di matrice araba, ossia il
lavaggio interno ed esterno mediante clisteri ed iniezioni di soluzioni
a base di vino aromatizzato nelle cavità interne, mentre per i cadaveri
più grossi consiglia l’eviscerazione, mediante un’incisione longitudinale giugulo-pubica, ed il riempimento delle cavità con stoppe e
polveri aromatiche. Il corpo viene poi cosparso di pece nera e coperto
con un lenzuolo preparato con pece nera, resina di pino, colofonia, incensi, mastice, storace, gomma arabica. Il cadavere così imbalsamato
viene riposto in una cassa di legno odorifero, sigillata con stoppa e
pece, all’interno della quale vengono sparse sostanze aromatiche18.
L’Italia è ricca di esemplari di mummie di evo moderno ottenute mediante questo sistema d’imbalsamazione chirurgica, alcune
delle quali sono state oggetto di studio archeo-funerario. In particolare, si esporranno in questo contesto alcuni esempi particolarmente suggestivi di mummie, per la maggior parte di sovrani e
principi, riesumate dall’equipe della Divisione di Paleopatologia
dell’Università di Pisa, come fonti oggettive per la ricostruzione
delle tecniche impiegate per l’imbalsamazione funebre in Italia.
Nello specifico, si sono analizzate le mummie artificiali dei re aragonesi e dei principi napoletani conservati nella Basilica di San
Domenico Maggiore a Napoli, la serie più importante sia per la
175
Silvia Marinozzi
quantità che per lo stato di conservazione delle salme, di alcuni
membri della famiglia Gonzaga Colonna a Mantova e dei Della
Rovere ad Urbino, e altre mummie di individui meno noti ma altrettanto importanti per la definizione delle ritualità e delle procedure della mummificazione. Segni di imbalsamazione, come esiti
di craniotomia ed incisione dello sterno, sono riscontrabili anche
su undici dei venti individui della famiglia granducale Medici riesumati ed analizzati nel corso dei lavori di ricognizione e scavo
delle quarantanove deposizioni funebri conservate nelle cappelle
medicee della Chiesa di San Lorenzo a Firenze; ma le manipolazioni delle mummie avvenute nel corso delle riesumazioni precedenti,
che hanno comportato anche la scarnificazione e lo smembramento
dello scheletro per condurre studi antropologici ed antropomorfici
dei crani e delle ossa, non permettono di ricostruire completamente i sistemi d’imbalsamazione usati. Eccetto che per i tre corpi
mummificati ancora integri, due bambini non identificati e la salma del Granduca Giangastone (1671-1737), gli altri otto individui
presentano esiti di tagli ed incisioni scheletriche riferibili ad esami
autoptici o/e trattamento imbalsamatorio19.
Segni di craniotomia circolare orizzontale sono osservabili sui resti
di Cosimo I (1519-1574), Ferdinando I (1549-1609) e Don Filippino
(1577-1582), mentre una sezione obliqua venne praticata per l’eviscerazione della cavità cranica sul Principe Francesco (1594-1614);
sezioni dello sterno e/o delle vertebre, per l’autopsia e l’imbalsamazione, sono inoltre osservabili sulle ossa di Francesco I (1541-1587),
Giovanna d’Austria (1548-1578), del principe Francesco, di Cristina
di Lorena (1565-1637) e del Cardinale Carlo (1596-1666). I corpi
dei due bambini non ancora identificati presentano segni di eviscerazione della cavità toraco-addominale e riempimento con materiale
vegetale; in particolare, la mummia più integra, di un individuo di
cinque anni, è stata ottenuta mediante un’incisione xifo-pubica congiunta ad altra ombelicale traversa.
176
L’imbalsamazione funebre in Italia
Fig. 1. Cranio di Cosimo I (a e b) e di Ferdinando I (c e d)
Se l’eseguità del numero degli individui riesumati e la non integrità
dei corpi non ha permesso un esame compiuto delle tecniche
imbalsamatorie, le fonti storiche forniscono invece elementi
importanti per comprendere il valore sacrale dell’imbalsamazione
come parte integrante delle ritualità funebri dei sovrani. I funerali
di Cosimo I sembrano infatti analoghi alle cerimonie funebri dei re
177
Silvia Marinozzi
francesi, con l’allestimento del carro, del corteo e del baldacchino
recante l’effige reale:
Il suo cadavere fu esposto alla pubblica vista in una sala del Palazzo con
abito e corona Regale, e tumulato poi privatamente nel Sepolcro gentilizio
de’ Medici. Volle però il successore onorare la memoria di sì gran Padre
con una magnifica Pompa funebre appuntata per il dì diciassette di Maggio,
e a tale effetto oltre al fastoso apparato nel Tempio di San Lorenzo furono
intimati tutti i Prelati e Feudatari del dominio, e invitati tutti i parenti della
Casa Medici e i principali Signori d’Italia a intervenire preferenzialmente
alle Esequie. I Cleri, la Corte, i Magistrati e tutti gli Ordini della Città, le
Milizie a piedi e a cavallo, e i Cavalieri di S. Stefano con gran cerimonia
componevano il treno funebre, che dal Palazzo alla Chiesa percorrendo le
principali contrade risvegliava l’ammirazione dell’universale. L’effige del
Defunto G. Duca era trasportata sotto un baldacchino e accompagnata
dalla presenza del Successore, del Cardinale, e di Don Pietro de’ Medici, e
dei parenti più prossimi… 20
Descrizioni analoghe si ritrovano anche per i funerali degli altri
membri della famiglia granducale medicea, e per le famiglie reali
di altri regni italiani21. Lo stesso tipo di celebrazione funebre si esegue infatti per i defunti della dinastia reale aragonese nel Regno di
Napoli22, che presentano segni di imbalsamazione analoghi a quelli
riscontrabili sulle altre mummie riesumate in diverse località italiane, ad indicare l’esistenza di una procedura sommariamente messa a
punto nei diversi regni italiani a partire dal primo evo moderno.
La maggior parte delle mummie artificiali esaminate presenta infatti
esiti di craniotomia per l’estrazione della materia cerebrale: su ventiquattro individui recanti segni di eviscerazione della cavità cranica,
dodici di loro presentano una craniotomia circolare mediante lo scalottamento completo della sfera cranica, come nelle autopsie e nelle dimostrazioni anatomiche; in questo tipo di craniotomia vi può esser una
sezione circolare orizzontale, come effettuata per Cosimo I de’ Medici,
circolare verticale, come la mummia rinascimentale di un bambino,
tradizionalmente identificato con Vincenzo Milano (1792-1793), o
178
L’imbalsamazione funebre in Italia
circolare obliqua, come quella della mummia di Vespasiano Gonzaga
Colonna, conservata nella Chiesa dell’Incoronata di Sabbioneta
(Mantova). Altre otto mummie, di cui sette appartengono alla serie
di San Domenico Maggiore, presentano una craniotomia posteriore,
spesso non ben eseguita, a volte grossolana, come quella riscontrabile
sulla salma di Antonio d’Aragona (1540-1584), o dell’individuo storiograficamente identificato con Giovanni d’Avalos, sebbene gli esami
di datazione abbiano rivelato un’età di morte diversa da quella che
avrebbe dovuto avere; particolari, la craniotomia eseguita su Giacomo
Francesco Milano d’Aragona (1699-1780) a forma di V e quella praticata sul principe Francesco Branciforte (1575-1621), conservato nella
Chiesa di San Benedetto a Militello, con sezioni laterali verticali lungo
le bozze parietali ed una orizzontale nella regione del bregma, che
formano un angolo retto.
Fig 2. Craniotomia posteriore a
V di Giacomo Francesco Milano
Fig 3. Craniotomia posteriore di Francesco
Branciforte
179
Silvia Marinozzi
Molto suggestiva, e unica, la craniotomia quadrangolare eseguita
sul cranio di Luigi di Gonzaga
(1565-1580), figlio di Vespasiano,
Duca di Sabbioneta.
Per l’eviscerazione della cavità
toraco-addominale, la maggior
parte delle mummie complete
presentano un’incisione longitudinale giugulo-pubica, come
indicato nei testi medici. Ma tra
le sedici mummie artificiali napoletane ancora intatte, undici
presentano questo tipo di incisio- Fig. 4. Craniotomia di Luigi Gonzaga di
Sabbioneta
ne, mentre altre cinque mostrano
un’incisione longitudinale xifopubica, congiunta, su quattro individui, ad un’altra incisione ombelicale traversa, come osservato anche sulla salma del bambino di
cinque anni sepolto nelle cappelle medicee di Firenze. Questo sistema di eviscerazione dei corpi è stato descritto da autori italiani del
XVII secolo, come Cinzio d’Amato (XVII sec.), barbiere chirurgo,
e Marco Aurelio Severino (1580-1656), che ha spiegato il modo in
cui si pratica l’imbalsamazione a Napoli in un manoscritto di argomento chirurgico, conservato alla Biblioteca Lancisiana a Roma.
Nel fornire le istruzioni per imbalsamare i cadaveri, D’Amato raccomanda infatti di praticare due incisioni distinte per la cavità toracica
e per quella addominale, la prima a croce, tagliando “primieramente
il ventre prima per lungo, e poi per largo, cioè pertraverso”, per
asportare le viscere; la seconda per aprire “il petto dall’una e l’altra
parte, dove le coste si terminano in cartilagine”. Il corpo, lavato
prima con acqua fredda, poi con aceto ed infine con acquavite, viene
riempito di una polvere a base di sostanze aromatiche e stoppe intri180
L’imbalsamazione funebre in Italia
se di acquavite. Ricucite le cavità eviscerate e riempite, si procede
all’estrazione del cervello “perforato il cranio o seccato (come dir
vogliamo) con una ferra”, ed al lavaggio e riempimento del cranio.
Il corpo imbalsamato viene infine avvolto in un lenzuolo cerato, intinto di pece navale23. Anche Severino propone un’analoga procedura d’imbalsamazione dei corpi:
essendosi tagliato il ventre prima di lungo, et poi di largo cioè pertraverso, si esprimono l’intestina staccate con lo stomaco, i reni, il fegato, et
la milsa. Di poi aperto il petto dall’una et dall’altra parte, dove le coste si
terminano in cartilagine; si cacciano fuora i membri spiritali, qual sono il
cuore, il pulmone, l’esofago, tagliati infino all’epiglottide.
Eseguita anche l’estrazione del cervello, le cavità vengono lavate
prima con acqua fredda, poi con aceto ed infine con acquavite, in
ultimo cosparse di una polvere appositamente preparata e riempite
di “faldelle di stoppa o di bombace bagnate d’acqua vite”. Il cadavere viene poi avvolto in un lenzuolo incerato, “di maniera però,
che ogn’un deto resti separato dall’altro”, e cosparso di pece navale. Per garantire risultati ottimali, Severino consiglia di praticare
anche la scarnificazione completa, asportando i muscoli24.
Dell’affermazione dell’imbalsamazione chirurgica come il sistema
più sicuro per la conservazione dei corpi in Italia offre testimonianza
un altro celebre autore napoletano del XVII secolo, Giuseppe
Donzelli (1596-1670), che nel suo Petitorio Napolitano riferisce che
Frà le Provincie di Europa la Campagna, che s’intende il felicissimo
Regno di Napoli, abbonda di Spiriti grandi Emulatori degli Antichi, e in
conseguenza imitatori delle più Nobili usanze, havendo ricevuto per familiare quella della preservazione de i cadaveri de i Grandi, alla quale io
procurerò di accordare le mie osservazioni in questa materia, acciò nelli
bisogni, massimamente improvisi, possano farsi servire da i Chirurghi,
senza gl’instrumenti de’ i quali pare che tale operatione non si possa debitamente effettuare.
181
Silvia Marinozzi
Fig. 5. Particolare della mummia di Maria d’Aragona con incisione longitudinale xifo-pubica ed altra ombelicale-traversa
Raccomanda che si proceda all’imbalsamazione il giorno dopo il
decesso, iniziando con un bagno di vino per detergere il cadavere
e proseguendo poi con l’estrazione degli organi interni, l’incisione
dei grandi vasi e la scarnificazione. Le cavità vengono poi lavate
con acquavite e aceto ed asperse della polvere e del balsamo di cui
fornisce la ricetta25.
Sempre tra le mummie conservate a San Domenico Maggiore, ve
ne è una naturale, acefala, che la storiografia aveva identificato con
Cesare d’Avalos, figlio di Alfonso (1502-1546), Marchese del Vasto,
e di Maria d’Aragona (1503-1568), sebbene gli esami antropologici
abbiano indicato discordanza tra l’età anagrafica e quella antropologica, ossia un’età di morte di molto antecedente a quella che avrebbe
dovuto avere. La mummia esaminata era stata conservata in posizio182
L’imbalsamazione funebre in Italia
ne da seduta; collo, polsi e vita presentano solchi da legatura, e nella
regione interscapolare, alla base del collo, sono stati trovati porzioni
di canna appuntite; questi elementi fecero supporre che si trattasse
di una mummificazione ottenuta con il sistema della scolatura, una
pratica funeraria largamente diffusa tra la popolazione napoletana,
che consisteva nel deporre il cadavere in appositi locali, detti “cantarelle”, in genere collocati sotto le sacrestie delle chiese; le pareti di
questi locali erano scavate in modo da formare tante piccole nicchie,
in cui venivano disposti i corpi, in piedi o seduti, e fissati alla parete,
con chiodi e lacci. Ma studi recenti hanno evidenziato che i colatoi
fossero strumenti per la doppia sepoltura dei defunti, ossia luoghi in
cui deporre e nascondere il cadavere per tutto il tempo della putrefazione, per poi recuperare e seppellirne lo scheletro, inteso come la
parte integra e non corruttibile del corpo, simbolo dell’avvenuto processo della morte fisica e della purificazione di quanto di putrescibile
esiste per il definitivo passaggio dei defunti alla vita eterna. I corpi
venivano sepolti coperti di poca terra e nel momento in cui i meccanismi putrefattivi erano così avanzati da render visibili le ossa, si
collocavano nelle apposite nicchie per permettere la scarnificazione
del cadavere, ossia l’asportazione delle carni ad opera dei familiari,
dei parenti26. Questa ritualità è connessa al culto delle anime purganti, fortemente radicato nel Regno di Napoli, ossia all’idea di agevolare il passaggio dell’anima del defunto alla dimensione finale della
morte, alla vita eterna. La lunga durata della morte, intesa non come
momento di cessazione delle funzioni vitali, rapido e immediato, ma
come trasformazione dello stato identitario materiale quanto spirituale dell’individuo, nelle sembianze corporee con la disgregazione
del corpo e nell’anima con il percorso di purificazione, si fenomenizza in una ritualità funebre religiosa che da una parte accelera concretamente i tempi naturali della disintegrazione delle carni e dall’altra
rafforza il suffragio per il passaggio dal purgatorio al paradiso con
i lamenti, i pianti e le preghiere di quanti del defunto si occupano.
183
Silvia Marinozzi
L’idea di fondo è che il tempo
necessario alla purificazione
dell’anima sia tangibilmente
misurabile in corrispondenza a
quello della trasformazione del
corpo indotta dalla putrefazione, terminato il quale, il corpo ormai scheletrizzato è pulito della materia corrotta così
come l’anima lo è dalla corruzioni avute nella vita terrena.
Solo al termine di questo periodo le spoglie trovano la loro
sepoltura definitiva, all’interno
delle terre sante prescelte, con
una sorta di secondo funerale.
Tale rito funebre non è certamente stato utilizzato per il
presunto corpo di Cesare d’A- Fig. 6 Pucara (SA), cripta del monastero dei
Santi Giuseppe e Teresa
valos, per il quale si può solo
quindi ipotizzare che la temporanea deposizione del cadavere in una cantarella abbia provocato, casualmente o strumentalmente, un processo di mummificazione, reso possibile da condizioni ambientali e climatiche favorevoli.
Tale ipotesi può esser confortata dal ritrovamento delle porzioni di
legno debitamente levigate a punta e dai solchi presenti nei tessuti
della regione dei polsi, riferibili a lacci o corde con cui il cadavere
sarebbe stato contenuto. Ma si tratterebbe comunque di un’induzione
artificiale di una mummificazione naturale, senza scarnificazione ed
asportazione dei tessuti molli, una pratica, questa, del resto diffusa
in vari territori italiani, soprattutto nel meridione, sin dal primo evo
moderno. Esempi analoghi si ritrovano infatti in diversi siti sepolcrali
184
L’imbalsamazione funebre in Italia
Fig. 7. Napoli, Santa Maria del Purgatorio, la Terrasanta
della penisola, con particolare frequenza nel meridione. Già dai primi
del XVII secolo, per esempio, i frati cappuccini del famoso convento
di Palermo notarono che i corpi dei confratelli defunti sepolti nelle
cripte sotterranee si erano preservati dalla putrefazione, e continuarono ad utilizzare questi luoghi per la sepoltura dei frati, sino ad adibire,
nel tempo, specifici locali per la scolatura dei corpi anche per famiglie nobiliari e uomini di rango.
Il rito della doppia sepoltura prevede in questo caso l’immediata deposizione del cadavere su un colatoio, che può esser a forma di sedile, come le cantarelle napoletane, o orizzontale, ossia una sorta di
lettiga, composta da assi di legno disposte a reticolo, per agevolare la
185
Silvia Marinozzi
colatura dei liquami cadaverici. I cadaveri venivano lasciati in questi luoghi per tutto il tempo necessario a disidratare e disseccare le
carni sino alla completa mummificazione; il corpo veniva poi lavato
con aceto o altro liquore alcolico, vestito e esposto lungo le pareti
delle catacombe o deposto in una bara27. I recenti studi condotti sulle
mummie conservate nelle cripte e nei conventi in Sicilia hanno dimostrato che questa pratica funeraria ha continuato ad esser eseguita
sino ai primi del XX secolo28.
Dunque, l’imbalsamazione chirurgica è semplicemente uno dei tanti sistemi di conservazione del corpo, ed i metodi usati per mummificare variano in base ai costumi, alle credenze religiose ed alla
cultura dei popoli.
Nel XVII secolo iniziano a circolare in Europa veri e propri trattati
monografici sull’imbalsamazione funebre, in cui ne viene tracciata
la storia a partire dalle tecniche usate nell’antico Egitto e descritte da
Erodoto e Diodoro Siculo sino alle diverse procedure sviluppate in
evo moderno, come dimostrano i testi di Antonio Santorelli (15831653)29, Giuseppe Lanzoni (1663-1730)30, G.W. Wedel (1645-1721),
Philibert Guybert (1579?-1633)31, Andreas Rivinus (1600-1656)32,
Théophile Raynaud (1583-1663)33, Gregor Horst (1578-1636)34, e di
Louis Penicher (fl. 1698)35, che testimoniano la larga diffusione e la
forte valenza sociale e culturale che questa pratica assume sia come
ritualità religiosa che come disciplina medica.
Dalla fine del XVII secolo, nei paesi fiamminghi e tedeschi si era
diffuso un tipo di imbalsamazione che usava i metodi delle preparazioni anatomiche, e che gli autori distinguono in humida e sicca
balsamatio. La prima, detta anche balsamatio sine effusione sanguinis, prevede due fasi: l’immersione del cadavere in una soluzione
disseccante ed antisettica, per un mese o più, e l’esposizione del cadavere a sorgenti di calore per essiccarlo. Sul corpo vengono praticate solo piccole incisioni, ossia fori, per permettere la penetrazione
del liquore conservativo, che, dalle formule indicate nei testi, risul186
L’imbalsamazione funebre in Italia
terebbe composto da un distillato di soluzioni alcoliche ed alcaline,
come la salamoia, l’acquavite, la lisciva di calce viva e l’aceto, con
spirito di vino, trementina, sale o zolfo, ed essenze varie. Terminata
la fase di macerazione, il cadavere viene poi esposto ad una fonte di
calore, o addirittura lasciato in una sorta di stufa36. Dall’analisi delle
fonti letterarie di evo moderno concernenti l’imbalsamazione si può
dedurre che questa tecnica rappresenti l’evoluzione della procedura
di imbalsamazione di tradizione araba, diffusasi in Europa nell’Alto
Medioevo e ancora descritta da diversi autori del XVI e del XVII secolo, che prescrivono lavaggi endocavitali e bagni in acqua condita
con acquavite e altri distillati alcolici. Certamente, lo sviluppo della
chimica permette l’elaborazione di nuovi liquori antiputrefattivi e
disseccanti che rendono il sistema della purgazione e della macerazione del cadavere più efficace.
La seconda, la sicca balsamatio, si ottiene con iniezioni intravascolari di liquidi conservativi, mediante appositi sifoni, come in anatomia. Quando il corpo è stato purgato dei suoi liquidi organici, i vasi
sanguigni vengono riempiti di cera colorata, e le parti esposte, in
particolare viso e mani, vengono dipinte, in modo da ridare al corpo
i suoi colori naturali. Gli autori sottolineano l’importanza dei trattamenti estetici, come la tintura dei capelli, l’applicazione di occhi di
vetro, vernici per colorare la pelle, per restituire alla salma l’aspetto
che aveva intra vitam37.
Con l’espansione dell’impero napoleonico, i chirurghi francesi
apprendono ed applicano questa tecnica, anche in abbinamento
all’imbalsamazione chirurgica.
Testimonianza di ciò è l’esempio di J. D. Larrey (1766-1842),
Primo Chirurgo della Grande Armata Napoleonica, che, nelle sue
Mémoires de chirurgie militaire et campagnes (1812-1817), afferma
che l’affinamento dell’arte dell’imbalsamazione si deve al progresso
dell’anatomia e della chimica, con espliciti riferimenti ai corpi
conservati nei gabinetti anatomici in Germania:
187
Silvia Marinozzi
Les progrès que l’anatomie et la chimie on faits depuis le milieu du dernier
siècle, ont porté l’art d’embaumer les corps au plus haut degré de perfection. J’ai vu des sujets de tout age dans différens cabinet d’anatomie,
surtout en Allemagne, préparés sans bitume, de manieére à conserver les
formes, l’attitude naturelle, et même la couleur de la peau38.
Riferisce poi di aver seguito questo esempio per imbalsamare il corpo del Generale Morland, deceduto nella battaglia di Austerliz: il suo
metodo prevede l’eviscerazione del cranio, mediante craniotomia
posteriore, ed estrazione degli altri organi solo se necessario, o per le
cattive condizioni del cadavere, o per fattori ambientali, come il clima caldo; si eseguono poi lavaggi endocavitali e vascolari e si procede a riempire le cavità e i vasi con “materia bituminosa” rossa, per
restituire forma e colore al corpo; il cadavere viene poi fatto macerare per circa tre mesi in una soluzione di muriato di mercurio, e fatto
essiccare. Larrey ha conservato la mummia di Morland in una teca
di vetro, nella sua biblioteca. Secondo Pierre Pelletan (1782-1845),
autore della voce “Embaumement” nel Dictionnaire encyclopedique
des sciences medicales, Larrey ha usato una soluzione a base di sublimato corrosivo, utilizzato dagli imbalsamatori francesi di primo
‘800, che utilizzano la tecnica anatomica di iniezioni endocavitali ed
intravascolari di dissoluzioni alcoliche ed alcaline39.
Si diffonde infatti il costume di custodire i corpi mummificati, soprattutto quelli dei bambini, in teche di vetro, vestiti, adornati e disposti in modo da riprodurre sembianze e movenze che li facciano
sembrare vivi40. Le tecniche delle preparazioni anatomiche trovano
così larga applicazione nell’imbalsamazione funebre, garantendo sia
una più duratura conservazione che una maggiore integrità dei corpi.
La letteratura secondaria ha infatti spesso sottolineato il grande incremento che la pratica dell’imbalsamazione funeraria ha avuto a
cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo. Nel pensiero medico, la concezione vitalistica della materia organica considera ogni fenomeno
vitale come proprio del corpo stesso. La morte, privata della sua va188
L’imbalsamazione funebre in Italia
lenza di sacralità, viene analizzata come un naturale processo fisiologico, nelle sue manifestazioni di putrefazione e decomposizione
della materia organica, in concomitanza con lo sviluppo delle politiche cimiteriali, che portano alla costruzione di cimiteri extraurbani.
Le politiche cimiteriali che si sviluppano a fine Settecento presentano la costruzione dei cimiteri extra-urbani come misura igienica,
per la tutela della salute pubblica, attraverso l’allontanamento dei
cadaveri, fonti di esalazioni morbifere prodotte dalla putrefazione,
dalla società civile41. Adibire un luogo di sepoltura unico per tutti,
vietando i fasti funerari, i monumenti funebri e le inumazioni nelle terre sante delle chiese, assume un significato civile e politico
molto forte, rappresentativo delle trasformazioni culturali e sociali
dell’epoca, che spingono verso una secolarizzazione della società,
ed all’equiparazione ed all’uguaglianza civile. La morte, soprattutto
nella sua accezione religiosa di passaggio alla vita eterna, era finora
stata dominio assoluto della Chiesa, attraverso l’istituzionalizzazione di riti e pratiche funerarie che aveva garantito un controllo sia
spirituale che sociale e politico sulle comunità cristiane.
Evento naturale ed imprescindibile per tutti, la morte non può più
contemplare differenziazioni di ceto e di classe e i cadaveri, materia corruttibile e, quindi, morbifera, devono esser allontanati dalla
società civile o opportunamente trattati perché non inquinino l’aria
e non compromettano la salute dei cittadini. In tal senso, l’imbalsamazione funeraria rappresenta una manifestazione concreta del processo culturale di secolarizzazione del corpo, considerato nel suo
aspetto prettamente materiale, che riflette una politica di laicizzazione di un intero sistema sociale e culturale. Al significato religioso va
quindi sempre più sovrapponendosi il valore dell’imbalsamazione
come misura igienica e di prevenzione medica, che impedisce l’esalazione di quei miasmi patogeni che causano l’insorgenza delle
malattie epidemiche. L’allontanamento dei morti dalla società civile
comporta l’affermarsi di una sorta di “culto laico” della morte, che
189
Silvia Marinozzi
si esprime attraverso una nuova ritualità funebre, con tributi sulle
tombe che divengono il simbolo della continuità degli affetti espressi
con l’attaccamento ai resti mortali.
L’imbalsamazione funeraria risponde quindi alle nuove esigenze culturali, perdendo il vecchio statuto di una ritualità riservata solo ai Re,
agli esponenti delle istituzioni governative ed ecclesiastiche e, più in
generale, alla nobiltà, e divenendo, invece, una pratica accessibile a
chiunque possa pagarla, come intervento atto ad impedire, o almeno
arrestare, i processi putrefattivi. Non è quindi un caso che, a partire
dai primi dell’Ottocento, proliferi una trattatistica specifica su tale tematica, soprattutto in considerazione tanto della laicizzazione e secolarizzazione delle pratiche funerarie e delle politiche di igiene e sanità
pubblica, che contemplano il controllo e l’allontanamento dagli agglomerati urbani dei luoghi di concentrazione di sostanze organiche
putride, dai mercati ai laboratori e alle botteghe tessili e di lavorazione di carni e pelli animali, alle discariche e ai cimiteri, considerati,
in coerenza con il pensiero medico dell’epoca, causa principale di
insorgenza delle malattie epidemiche, per via delle esalazioni patogene derivanti dalla putrefazione della materia animale. Impedire, o
almeno allontanare, i rischi indotti dai processi putrefattivi diviene
pertanto il presupposto fondamentale delle regolamentazioni igieniche e sanitarie che si adottano già a partire dalla fine del XVIII secolo,
e che trovano definitiva attuazione nell’impero napoleonico. Le nuove conoscenze sulla composizione della struttura e sulle dinamiche
chimiche del vivente consente di agire direttamente e manipolare i
meccanismi naturali, sino a poterli modificare e gestire. Gli sviluppi
della chimica organica permettono infatti di individuare ed applicare i
nuovi derivati minerali e metallici per arrestare i processi putrefattivi,
fissare e conservare i tessuti organici: il corpo morto viene epurato
dei fenomeni vitali che si sviluppano con la morte, divenendo materia
asettica, ed innocua per i vivi, tanto da poter continuare a restare tra
loro42. Si diffonde infatti l’usanza di conservare mummie artificiali in
190
L’imbalsamazione funebre in Italia
teche di vetro o cristallo, esposte in luoghi pubblici come in abitazioni
private, trattate, rivestite e truccate in modo da sembrare corpi vivi43.
Pierre Pelletan (1782-1845), nel ripercorrere la storia dell’arte
dell’imbalsamazione dei corpi umani, fornisce un quadro delle tecniche e delle sostanze utilizzate nell’esercizio di questa pratica all’inizio del XIX secolo in Francia.
Così apprendiamo che Jean-Pierre Boudet (1778-1849), farmacista
a Parigi e membro dell’Accademia Reale di Medicina, incaricato di
imbalsamare i corpi dei senatori del primo impero44 procede nella
sua arte incidendo in profondità le carni e le viscere, spremendole
finché non sia uscito tutto il sangue; ogni organo viene allora lavato
con aceto e alcol canforato, e cosparso di una miscela di polveri
di tanno, di sale decrepito, di china, di cannella e di altre sostanze
astringenti ed aromatiche, di bitume di Giudea, di benzoino. Si applica poi con un pennello una soluzione di sublimato di mercurio
sulle pareti delle cavità, su tutte le incisioni e sugli organi, su cui si
asperge poi la suddetta polvere che, ricollocate le viscere al loro posto, andrà a colmare i vuoti. Il corpo imbalsamato viene poi bendato
in ogni sua parte e deposto in un sarcofago di piombo riempito della
stessa polvere usata per riempire le cavità.
Analizzando il metodo di Boudet, Pelletan constata che tale processo
si basa essenzialmente sul tener lontani i cadaveri dall’aria libera
e rimprovera il fatto che i corpi così trattati non abbiano subito un
reale processo di essiccazione, e che le droghe impiegate assorbono
le umidità del corpo rimandone cariche a loro volta. Propone così di
eviscerare il corpo e lasciarlo immerso in una dissoluzione sub-carbonato di sodio per qualche settimana, e poi metterlo a bagno in un
liquore alluminoso per eliminare residui alcalini. Riempite le cavità
di stoppe, aromi e sostanze resinose, si pone il corpo in una stufa per
operare la disseccazione.
In considerazione degli studi di Chaussier sulle proprietà conservative del sublimato corrosivo di mercurio, sottolinea l’efficacia del
191
Silvia Marinozzi
bicloruro di mercurio nella conservazione di interi cadaveri, e riporta
il sistema di conservazione dei cadaveri adottato da Pierre Béclard
(1785-1825), Capo dei lavori anatomici nella Scuola di Medicina:
praticando un foro nell’addome, altri due all’altezza delle ascelle
ed un’apertura nel cranio, ha potuto accedere agli organi interni, tagliarli, spremerli e lavarli; ha poi iniettato una soluzione mercuriale
nell’arteria-trachea ed immerso l’intero corpo in un bagno saturato
di sublimato. Dopo circa un mese, per fermare il processo putrefattivo, Béclard ha nuovamente praticato altri fori nel peritoneo attraverso un foro praticato nell’addome, e rigirato il cadavere perché il
sublimato coprisse e penetrasse tutte le parti. Al termine di due mesi
di immersione, il corpo, disseccatosi rapidamente all’aria, è stato
conservato in una teca di vetro perché potesse esser esposto. .
Pelletan prosegue poi riportando il metodo adottato da Boudet,
Farmacista a Parigi, per l’imbalsamazione di una bambina di dieci
anni, che la madre voleva conservare in casa dentro una teca. Il corpo è stato immerso in un bagno di alcol puro, in cui è stato successivamente versato del sublimato, per tutta la durata delle operazioni
di eviscerazione e riempimento delle cavità con stoppe secche. Il
cadavere è poi stato lasciato a bagno in acqua distillata satura di
sublimato e sale per tre mesi, durante i quali si è versato del muriato
dolce. Una volta che il corpo si è disseccato all’aria, sono stati messi
occhi di vetro nelle orbite oculari, il viso è stato truccato in modo da
tornare al colore naturale e la bambina, vestita dei suoi abiti, è stata
chiusa e conservata in una teca vitrea45.
Esempio di tale sistema, sono le mummie di Caroline, Letizia e Joachim
Napoleon Agar, figli di Jean Michel Antoine Agar, Ministro delle
Finanze del Regno di Napoli di Joachim Murat, deceduti tra il 1811
ed il 1813 e conservate, anche loro, nella sacrestia di San Domenico
Maggiore a Napoli. Queste sono le sole mummie che non sono state
analizzate dal punto di visto medico, e solo quella di Joachim Agar è
stata sbendata ed esaminata. Pertanto, il sistema di imbalsamazione
192
L’imbalsamazione funebre in Italia
è stato ricavato solo dall’esame obiettivo e dalle lastre RX. Tutte e
tre presentano esiti di craniotomia (orizzontale circolare per Letizia e
Joachim Napoleon, e posteriore per Caroline), eviscerazione della cavità toraco-addominale, che sembra esser stata praticata con un’unica
incisione giugulo-pubica, e riempimento delle cavità. Le radiografie
mostrano presenza di materiale radiopaco, riferibile a mercurio o suoi
derivati, tra le sostanze che riempiono le cavità del corpo.
Il sistema di imbalsamazione usato per i tre bambini Agar sembra
quindi analogo a quello descritto dai chirurghi francesi di quel periodo, che prevede l’eviscerazione dei corpi nei paesi con clima caldoumido, come a Napoli, e l’uso di iniezioni e bagni con soluzioni
mercuriali.
Fig. 8. Particolare del volto della mummia
di Joachim Napoleon Agar
Fig. 9. Rx della mummia di Joachim Napoleon Agar
193
Silvia Marinozzi
la mummia di Joachim Napoleon aveva il volto scoperto e le orbite
oculari completamente svuotate; le radiografie evidenziano un decubito del materiale d’imbalsamazione nelle parti inferiori delle cavità
cranica ed addominale; questo significa che il corpo è stato conservato, almeno nei primi tempi, in posizione eretta.
È quindi probabile che la mummia di Joachim Napoleon, unico figlio maschio del Ministro delle Finanze, sia stata esposta, forse in
una teca vitrea, e che le cavità orbitali contenessero occhi artificiali,
e solo in un secondo momento (probabilmente con la fine del Regno
murattiano) sia stata deposta nell’attuale sarcofago.
Possiamo pensare che il metodo di imbalsamazione utilizzato per
i corpi dei tre bambini Agar fosse lo stesso che veniva praticato in
Francia in quegli anni, basato su un connubio tra l’antica pratica di
eviscerazione e riempimento delle cavità con sostanze naturali aromatiche ed i nuovi sistemi di conservazione della materia organica
con bagni ed imbibizioni di soluzioni mercuriali. Ancora nel 1824 il
corpo del re di Francia Luigi XVIII (1755-1824), dopo esser stato
eviscerato e scarnificato, viene lavato prima con una soluzione di
cloruro d’ossido di sodio, poi con un’altra alcolica di deuto-cloruro
di mercurio, e le cavità riempite di polveri composte di spezie aromatiche e resine. Il cadavere imbalsamato è poi stato fasciato tre
volte, alternando bende di diachilon gommoso e bende di taffetà46.
Una particolarità delle tre mummie è il tipo di bendaggio che è stato
usato: in genere, ogni parte del corpo viene fasciata singolarmente,
mentre per queste tre gli arti sono stati fasciati dapprima singolarmente e poi riuniti al tronco con un secondo bendaggio, che avvolge l’intero corpo, come le mummie egiziane. Inoltre, le tre salme non sono
state rivestite dei loro abiti, come invece era tradizione fare.
Sappiamo che in seguito alla Campagna di Egitto, si era sviluppato
in Francia un rinnovato interesse per la storia e la cultura egiziana e si avvia anche uno studio scientifico e sistematico sulle mummie, sulle tecniche e sugli strumenti chirurgici, e soprattutto sulle
194
L’imbalsamazione funebre in Italia
sostanze utilizzate per la mummificazione nell’antico Egitto. Le
mummie, considerate nella loro
valenza antropologica e culturale,
e non più come oggetti sacri dai
poteri occulti, vengono analizzate
per individuarne la composizione
e scoprire le metodologie con cui
vennero preparate: si studiano le
tecniche e gli strumenti usati per
l’imbalsamazione, come le diverse tipologie di incisione per l’eviscerazione delle cavità toracoaddominali e craniche; i sistemi di
fasciatura; le sostanze impiegate
per essiccare e conservare i corpi.
In particolare, si analizzano le sostanze utilizzate dagli antichi egizi Fig. 10. Le mummie di Carolina, Letizia
e Joachim Napoleon Agar
nella preparazione delle mummie,
in particolare il natron47, il liquore
di “cedria” ed il bitume di Giudea, identificati come gli ingredienti
fondamentali dei processi di mummificazione48.
Le mummie egiziane costituiscono ancora, dunque, un paradigma di
riferimento, anche come riscontro dell’efficacia delle nuove tecniche
e delle nuove sostanze chimiche usate per imbalsamare i corpi.
Il tipo di bendaggio usato per i bambini Agar rappresenta quindi la
riproposizione di un sistema antico, un gusto dell’epoca, la suggestione e l’influenza che le mummie egiziane esercitarono nei costumi funebri francesi.
Più in generale, queste tre mummie costituiscono un esempio concreto delle permanenze e delle evoluzioni dell’arte dell’imbalsamazione nel periodo napoleonico, che usa ancora l’antico metodo
195
Silvia Marinozzi
chirurgico ma si avvale anche delle tecniche anatomiche di conservazione dei corpi. Infatti, già nella metà dell’Ottocento, scompare
l’imbalsamazione chirurgica, e si afferma definitivamente il sistema
dell’imbibizione dei corpi e delle iniezioni intravascolari di liquori
conservativi.
Oltre alla ritualità funeraria dell’imbalsamazione, queste tecniche
trovano larga applicazione per la conservazione di interi cadaveri e
per le preparazioni anatomiche a scopo didattico.
Il valore scientifico e didattico dell’anatomia e dell’anatomia patologica come discipline fondamentali nei curricula delle professioni mediche, e come settore di ricerca per la clinica e la patologia,
rende sempre più necessario l’impiego di corpi da notomizzare,
nonché di un numero sempre maggiore di reperti dimostrativi della morfologia o dei segni patologici degli organi. Diviene quindi
indispensabile trovare sistemi di conservazione dei cadaveri, che
permettano di mantenere inalterati meati e tessuti delle parti, e che
vengono, conseguentemente, adottati anche per l’imbalsamazione
funeraria: arrestando la formazione e l’esalazione dei effluvi cadaverici, l’imbalsamazione diviene presupposto essenziale sia per
le dimostrazioni anatomiche che per l’esposizione del corpo nelle
esequie funebri.
La conservazione temporaria non invoca ragioni metafisiche; essa si propone di utilizzare i residui dell’uomo e degli animali in un interesse scientifico, oppure di prevenire, nell’interesse dell’igiene, le emanazioni putride
prima dell’inumazione. Queste due maniere di imbalsamazione, di cui i
processi sono distinti, devono esser studiati separatamente49.
In Italia, in particolare in Sicilia, a partire dagli anni Venti, si utilizza
un distillato di arsenico, la cui efficacia viene definitivamente attestata
con la diffusione del metodo di Giuseppe Tranchina (1797-1837),
reso pubblico con gli articoli comparsi su La Cerere, nel 1834 e
sull’Osservatore Medico del 1835, che consiste in una semplice
196
L’imbalsamazione funebre in Italia
iniezione, attraverso la carotide, di una soluzione ottenuta disciogliendo
2 libbre di polvere di arsenico, con un po’ di cinabro per colorare il
fluido, in ventiquattro libbre di acqua distillata o di spirito di vino50.
Un esempio concreto di mummia ottenuta con il sistema tranchiniano è quella di Gaetano Arrighi, prigioniero politico nella fortezza di
Livorno deceduto il 10 marzo 1836, rinvenuta nei sotterranei dell’Ospedale di Livorno.
Le radiografie effettuate mostrano radiopacità dei vasi sanguigni,
in particolare del sistema arterioso, riconducibile, verosimilmente,
alla presenza di mercurio nella soluzione iniettata. Sulla base delle
testimonianze storiche, sappiamo infatti che tale sistema d’imbalsamazione dei corpi prevedeva l’impiego di dissoluzioni mercuriali,
in particolare di deutoclorulo di mercurio. L’incisione sopracaveale sinistra indica che il liquore conservativo è stato iniettato nella
carotide51, secondo le indicazioni
dell’epoca. Anche gli esami radiologici recentemente condotti su dieci mummie databili alla
metà dell’Ottocento conservate
nelle catacombe dei Cappuccini
di Palermo hanno mostrato tracce
di materiale radiopaco riferibile
a componenti mercuriali e/o arsenicali nelle cavità nasali, anali
e in alcuni casi anche in quella
addominale, cosa che fa riecheggiare l’antico sistema dell’uso di
clisteri ed iniezioni di composti
alcolici e marcuriali propugnato da Rhazes. Su due individui è
invece stato riscontrato materiale
radiopaco intra-arteriale, riferibi- Fig. 10. Mummia di Gaetano Arrighi
197
Silvia Marinozzi
le al sistema delle iniezioni vascolari propugnato da G. Tranchina,
che praticava proprio in quel periodo l’imbalsamazione dei corpi di
esponenti nobiliari e borghesi a Palermo52.
Lo stesso sistema viene adottato da altri autori siciliani, come Placido
Bugliarelli, Giuseppe Salmi e Gioacchino Romeo di Palermo e
Giuseppe Genovese di Messina, ma il nome di Tranchina diviene celebre anche nei paesi d’oltralpe, soprattutto in Francia dove viene elogiato ed emulato da altri autori53. I suoi preparati vengono addirittura
paragonati a quelli di Girolamo Segato (1792-1836), conservati nel
Museo della Facoltà Medica di Firenze, considerati, ancora sino alla
metà dell’Ottocento, oggetti inimitabili, per la loro consistenza, per il
mantenimento dei colori naturali dei tessuti e per l’elasticità intrinseca che conservano. Il metodo di G. Tranchina si presenta immediatamente come un sistema efficace e facilmente eseguibuile, poco costoso e veloce, ma i cadaveri preparati con l’arsenico, pur conservando
forme, volume e colori, non risultano idonei alla pratica settoria, poiché il fluido utilizzato resta sempre liquido, e la tossicità dell’arsenico
rende comunque nociva la manipolazione dei cadaveri54.
Nel 1846 in Francia viene infatti proibito l’impiego dell’arsenico per
conservare i corpi, sia per motivi medico-legali, poiché impedisce il
riconoscimento di un’eventuale causa di morte da avvelenamento,
che per i rischi tossici cui sono esposti tanto docenti e tirocinanti
durante le esercitazioni anatomiche e chirurgiche, tanto i partecipanti alle esequie funebri nel caso di salme imbalsamate con soluzioni
arsenicali; allo stesso modo, viene riconosciuta anche la nocività del
sublimato corrosivo, e medici e anatomisti si trovano a dover sperimentare altre sostanze che diano gli stessi risultati antiputrefattivi.
Ciò nonostante, arsenico e bicloruro di mercurio continuano ad esser
utilizzati in Italia come componenti delle soluzioni usate nell’imbalsamazione funebre sino a fine Ottocento, come dimostrano i testi
di medici ed imbalsamatori, che distinguono ormai la procedura da
usare nella conservazione dei corpi a scopo anatomico e didattico
198
L’imbalsamazione funebre in Italia
da quella impiegata per l’imbalsamazione indefinita dei corpi, da
destinarsi ai riti funerari delle persone “eccellenti”, ossia a quegli
esponenti dell’ideologia e della lotta risorgimentale che più rappresentano la nuova Italia unita. Dalle fonti letterarie sappiamo infatti
che nel 1876 una soluzione alcolica a base di arsenico cristallizzato
venne composta dal celebre anatomo-patologo Ludovico Brunetti
(1813-1899) per imbalsamare il corpo di Vittorio Emanuele II, e
che ancora nel 1882 Enrico Albanese (1834-1889) effettuò un’iniezione di una soluzione di bicloruro di mercurio nell’arteria femorale destra per mummificare la salma di Giuseppe Garibaldi55.
Malgrado la testata tossicità di queste sostanze, la deposizione in
sarcofagi debitamente sigillati rende le salme di questi personaggi
innocue, mentre altre soluzioni metalliche vengono sperimentate e
utilizzate per le preparazioni anatomiche, sino alla scoperta della
formaldeide e alla dimostrazione dell’efficacia della formalina nella conservazione dei corpi. L’imbalsamazione funebre continua ad
esser praticata in Italia ancora nei primi decenni del XX secolo,
almeno nelle regioni in cui più radicata era questa usanza, come in
Sicilia, il cui massimo esempio è rappresentato dalla famosa mummia di Rosalia Lombardo, imbalsamata dal celebre Salafia, e ancora
oggi oggetto di interesse scientifico e di culto; ma diviene comunque sempre meno frequente, sia per il grande impulso ideologico
dato alla promozione della cremazione durante il Risorgimento e
dai primi governi unitari, che per quel processo di laicizzazione della morte che segna le politiche dello stato italiano. Ciò malgrado,
quando la rivoluzione microbiologica pasteuriana dimostra la causa
microbica della putrefazione, l’uso di soluzioni battericide, insieme alla formaldeide, incrementa lo sviluppo di una tanatoprassia
efficace nell’esposizione funebre del defunto, come dimostra l’uso
diffuso di tale pratica soprattutto nelle Americhe. A partire dalla fine
dell’Ottocento, anatomisti italiani ed europei vengono chiamati a
fondare scuole anatomiche nelle facoltà mediche del sud e del nord
199
Silvia Marinozzi
America, con la conseguenza di un trasferendo anche di preparati e
artefatti anatomici e anatomo-patologici per la costruzione di gabinetti e musei scientifici, e soprattutto delle tecniche di conservazione dei corpi, ivi incluse le procedure dell’imbalsamazione funebre.
BIBLIOGRAFIA E NOTE
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Lancet 1989; 8663: 614; FORNACIARI G. et al., Treponematosis (venereal
syphilis?) in an Italian mummy of the XVI century. Rivista di Antropologia
1989; 67: 97-104; Fornaciari G., Marchetti A., Intact Smallpox
virus particles in an Italian mummy of sixteenth century. The Lancet 1986;
8507: 625; Fornaciari G., Marchetti A., Des particles intactes du
virus de la variole dans une momie italienne du XVI siècle. Journal International de Médicine 1986; 79: 53; Fornaciari G., Marchetti A.,
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pre-Industrial Era: the cancer of King Ferrante I of Aragon (1431-1494).
Human Pathology 2011; 42(3): 332-9.
3. MARINOZZI S. e FORNACIARI G., Le mummie e l’arte medica nell’evo
moderno. (Supplemento Medicina nei Secoli,1). Roma, Ed. “Sapienza”,
2006.
4. Rāzī, Liber ad Almansorem. [s.l.], [s.e.], 1506, lib. V, De Decoratione, Cap.
55, p. 76.
5. ERLANDE-BRANDENBOURG A., Le roi est mort. Étude sur les funérailles,
les sepultures et les tombeaux des rois de France jusq’à la fin de XIII e siècle.
(Bibliothèque de la Sociéte Française d’archéologie 7). Genève, Droz, 1975,
pp.27-36.
6. Per il testo della bolla papale vedi WALSH J.J., The Popes and Science: the
history of the papal relations to Science during the Middle Ages and down to
our Own time. N.Y., Fordham University press, 1908, pp. 31-38 e appendice
200
L’imbalsamazione funebre in Italia
7. HUIZINGA J., Le Décline du Moyen-Age, Traduit par J. Bastin. Paris, éditions Payot, 1948, p. 130.
8. LEGRAND D’AUSSY P. J. B., Mémoire sur les anciennes sépultures nationales et les ornaments extérieurs qui en divers temps y furent employés, sue
les embaumements,sur les tombaux des rois francs dans la ci-devant église de
Saint-Germain de Prés, et sur un projet de fouilles à faire dans nos départements … Paris, impr. J. Esneaux, 1824, pp. 124-126.
9. COZZI A., Ricerche sui metodi moderni fino ad ora adottati per effettuare
l’imbalsamazione dei cadaveri e sulla riduzione delle sostanze organiche a
solidità lapidea … Firenze, tip. Pagani, 1840, pp. 7-8.
10. DANIELL C., Funeral and Burial in Medieval England, 1066-1550. London: New York, Routledge, 1997; GIESEY R. E., Le roi ne meurt jamais.
Les obsèques royales dans la France de la Renaissance. Paris, Flammarion,
1987; KANTOROWICZ E. H., The Kings Two Bodies: A Study in Mediaeval
Political Theology. Princeton, Princeton University Press, 1957.
11. Chauliac g., de, La grande chirurgie de Guy de Chauliac. Paris, F. Alcan,
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12. Mondeville H. de, Chirurgie de maitre Henri de Mondeville…., traduction française... par E. Nicaise. Paris, F. Alcan, 1893, pp. 569-573.
13. PARÉ A., Les Oeuvres d’Ambroise Paré. Lion, chez la veuve de Claude
Rigaud et Claude Obert, 1633, XXVIII Lib., pp. 891-893.
14. PIGRAY P., Epitome des préceptes de médecine et chirurgie. A Rouen, chez
Iean Berthelin, 1625, lib. III, pp. 399-400.
15. GUILLEMEAU J., Les Oeuvres de Chirurgie… A Rouen, chez Iean Viret,
Franḉois Vaultier, clement Malabris, 1649, pp. 853-863.
16. LANZONI G., Tractatus de balsamatione cadaverum…. Genevae, apud J.A.
Chouët et D. Ritter, 1696 ; SANTORELLI A., Postpraxis medica, seu de
medicando defuncto… Neapoli, apud Lazarum Scorigium, 1629.
17. ARGELATA P. da, Chirurgiae libri sex. Venetiis, B. Genuensis, 1480, Liber
V “De Decoratione”, tract. XII, cap.3, [p. 151].
18. VICO G. di, La prattica universale in cirugia. In Venetia, appresso D. Imbwerti, 1588, p. 583.
19. FORNACIARI G. et al., Autopsy and embalming of the Medici Grand Dukes
of Florence (16th-18th centuries). In: Peña P. A., Martin C. R., Rodriguez A. R. (eds.), Mummies and Science. World Mummies Research: Proceedings of the VI World Congress on Mummy Studies. Santa Cruz de Tenerife, Academia Canaria de la Historia 2008, pp.325-331.
201
Silvia Marinozzi
20. GALLUZZI R., Istoria del Granducato di Toscana. Firenze, Cambiagi, 1781,
Tomo 2, lib.3, p.179.
21. Le informazioni sui funerali dei membri della famiglia medicea riesumeti ed
analizzati sono state prese da: GALLUZZI R., Ibidem; SALTINI G.B., Tragedie medicee domestiche. Firenze, G. Barbera editore, 1898.
22. VITALE G., Pratiche funerarie nella Napoli aragonese. In: La morte e i suoi
riti in Italia tra medioevo e prima età moderna. Firenze, University Press,
2007: 377-440.
23. D’AMATO C., Prattica Nuova ed Utilissima di tutto quello ch’al diligente
Barbiere s’appartiene: cioè di cavar sangue, medicar ferite e balsamar
corpi humani (…). In Venetia, appresso Gio: Battista Brigna, 1669 [carte 6,7
e 8 nell’esemplare conservato nella Biblioteca della Sezione di Storia della
Medicina della “Sapienza” Università di Roma].
24. SEVERINO M.A., Modo d’imbalsamare. Ms. 37 LXXIV.2.15, Biblioteca
Lancisiana, c. 85r-86r.
25. DONZELLI G., Petitorio napolitano… nel quale si contiene quanto deve
per obbligo tenere ciascheduno spetiale di questa città nella sua spetieria ….
Napoli, per N. de Bonis, 1663.
26. PEZZINI F., Doppie esequie e scolatura dei corpi nell’Italia meridionale
d’età moderna. Medicina nei Secoli 2006; 18,3: 897-924.
27. Piombino-Mascali D., Aufderheide A. C., Panzer S., Zink A.
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Mummies of the World. The Dream of Eternal Life. New York, Prestel, 2010,
pp. 357-361; FORNACIARI A., GIUFFRA V., PEZZINI F., Processi di tanatometamorfosi: pratiche di scolatura dei corpi e mummificazione nel Regno
delle Due Sicilie. Archeologia Postmedievale 2007; 11: 11-49.
28. Per la ritualità della doppia sepoltura nel Regno di Napoli e per le mummie
siciliane si veda il contributo di FORNACIARI A., Scheletrizzare o mummificare: pratiche e strutture per la sepoltura secondaria nell’Italia del Sud
durante l’età moderna e contemporanea, sul presente fascicolo di Medicina
nei Secoli.
29. SANTORELLI A., Postpraxis medica, seu de medicando defuncto. Neapoli,
apus Lazarum Scorigium, 1629.
30. LANZONI G., Tractatus de balsamatione cadaverum, … . Genevae, apud
J.A. Chouët et D. Ritter, 1696.
31. GUYBERT P., Le Medecin Charitable. IN: Toutes les oeuvres charitables de
Philebert Guibert .... A Tolose, par Arnaud Coloniez, 1660.
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L’imbalsamazione funebre in Italia
32. RIVINUS A.B., Quaestionum philologicarum et philosophicarum pleias
De Pollinctura, sive cadaverum humanorum curatione… Lipsiae, apud
C.Tauscherum, 1655..
33. RAYNAUD T., De incorruptione cadaverum, occasione demortui foeminei
corporis, post aliquot secula incorrupti…. Avenione, ex typ. J. Bramereau,
1645.
34. HORST G., De naturali conservatione et cruentatione cadaverum. Wittebergae, typis M. G. Mulleri,1608.
35. PENICHER L., Traité des embaumements selon les anciens et les modernes.
Paris, chez Barthelemy Girin, 1699.
36. CLAUDER G., Methodus Balsamandi Corpora Humana, aliaque mayora
sine evisceratione et sectione hucusque solida. Altenburgi, Apud Godofredum Richterum, 1679; Journal de Médecine, de Chirurgie et de Pharmacie,
Paris, Ve. Thiboust, 1780, t. 53, pp. 31-37.
37. BLANKART S., Anatomia Reformata, sive Concinna corporis humani dissectio. Lugduni Batavorum, apud Cornelium Boutesteyn, 1695, pp. 749-758;
RUYSCH F., Frederici Ruyschii … Opera Omnia anatomico-medico-chirurgica, huc usque edita quorum elenchis pagina sequenti exhibetur…. Amstelodam,: apud Janssonio-Waesbergios, 1737.
38. LARREY J. D., Mémoires de chirurgie militaire et campagnes. Paris, chez J.
Smith, 1812, Tome II, pp. 235-236.
39. PELLETAN P., Embaumement, in Dictionnaire des Sciences Médicales.
Paris, Panckoucke, 1815, Vol. II, pp. 505-528.
40. SUCQUET J.P., De la Conservation des traits du visage dans l’embaumement.... Paris, A. Delahaye, 1862.
41. TOMASI G., Per salvare i viventi. Le origini settecentesche del cimitero
extraurbano. Bologna, Il Mulino, 2001.
42. CINTOLESI F., L’imbalsamazione e le scoperte di Girolamo Segato e Paolo
Gorini. Firenze, Tipografia Fioretti, 1873
43. ARIÉS P., Storia della morte in occidente, Trad. a cura di S. Vigezzi. Milano,
BUR, 1998.
44. BOUDET F. H., Notice historique sur Jean-Pierre Boudet, ancien pharmacien en chef aux armées… . Paris, impr. De Fain, 1829.
45. PELLETAN P., Embaumement. In: Dictionnaire encyclopedique des sciences medicales. Parigi, 1812-15.
46. RIBES F., Histoire de l’ouverture et de l’embaumement du corps de Louis
XVIII, fondateur de l’Académie royale de médecine, par F. Ribes père... Paris,
impr. de Plassan, 1834.
203
Silvia Marinozzi
47. PARISET M., Quelques vues sur les embaumemens des Anciens. Revue
médicale française et étrangèere, 1827, vol. II, pp.409-415.
48. Cfr. SUCQUET J.-P., L’embaumement chez les Anciens et chez les modernes
et des conservations d’anatomie normale et pathologique. Aurillac, impr.de
A. Pinard, 1872.
49. Annali di chimica applicata alla medicina cioè alla farmacia, alla tossicologia, all’igiene, alla fisiologia, alla patologia e alla terapeutica 1870; Vol. 51,
fasc. 3, p.193.
50. TRANCHINA G., Annali Universali di Medicina 1835; vol. 75, fasc. 223 e
224: 370-379.
51. MAIO V., Ciranni R., Caramella D., Fornaciari G., The Livorno
mummy: paleopatology and embalming of an early 19th century man. 13th
European Meeting of the Paleopathology Association, Chieti 18-23 settembre 2000. Journal of Paleopathology 1999; 11, 2: 73.
52. Nota….; Panzer S., Zink A. R., Piombino-Mascali D., Scenes from
the past: radiologic evidence of anthropogenic mummification in the Capuchin Catacombs of Palermo, Sicily. Radiographics 30; 4: 1123-32.
53. GANNAL J.-N., Histoire des embaumemens et de la préparation des pièces
d’anatomie normale, d’anatomie pathologique et d’histoire naturelle, suivie de procédés nouveaux. Paris, l’auteur, 1841; SUCQUET J.-P., De l’embaumement chez les anciens et chez le modernes et des conservations pour
l’étude de l’anatomie… Paris, A. Delahaye, 1872.
54. ROSSI G., Sulla artificiale riduzione lapidea degli animali di Gerolamo
Segato e sui metodi di imbalsamazione dei dottori Tranchina e Passeri.
Annali universali di Medicina 1836; Vol. 78, fasc. 235: 169-179.
55. MARINOZZI S., Le reliquie della Patria. In: GAZZANIGA V., A un piede
fu ferito… medicina e chirurgia risorgimentale. Roma – Bologna, Casa Editrice Sapienza – CLUEB, 2011, pp. 91-122.
Correspondence should be addressed to:
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204
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 205-238
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
Scheletrizzare o mummificare: pratiche e
strutture per la sepoltura secondaria nell’Italia
del Sud durante l’età moderna e contemporanea
Antonio Fornaciari
Divisione di Paleopatologia, Università di Pisa, I
SUMMARY
SKELETON OR MUMMY: PRACTICES AND STRUCTURES FOR
SECONDARY BURIAL IN SOUTHERN ITALY IN MODERN AND
CONTEMPORARY AGE
The ancient concepts of death as duration and the practices of secondary
burial, first analysed by Robert Hertz, still survive in many areas of southern
Italy. According to these beliefs death was perceived not as a sudden
event, but as a long-lasting process, during which the deceased person
had to go through a transitory phase, passing from one state of existence
to another. Recent archeological research documents the persistence of
secondary burial rites in Southern Italy during the Modern Age. A survey
conducted in the province of Messina in Eastern Sicily has identified
two surviving architectural structures appointed for the treatment of the
bodies: the ʻsitting colatoioʼ aimed at favoring the skeletonisation and the
ʻhorizontal colatoioʼ used to obtain mummification by dehydration. Both
these structures controlled the corpse’s decay and transformed the body in
a stable and durable simulacra of the dead.
La doppia sepoltura e la durata del processo di morte
Robert Hertz nel celebre Contributo del 19071 ci ha rivelato che la
morte, avvertita ormai nel mondo occidentale come un evento istanKey words: Secondary burial – Mummification – Skeletonisation - Southern Italy
205
Antonio Fornaciari
taneo, in altre aree geografiche ed in altre epoche storiche è ed era
percepita come un fenomeno prolungato, come un processo di transizione, spesso lento, verso un diverso stato di esistenza. Hertz ci
ha anche mostrato come studiando dei casi geograficamente lontani
dall’occidente, e delimitati geograficamente – egli si dedicò in particolare all’esame dei dati raccolti da etnografi ed esploratori sulle popolazioni del Borneo – , sia possibile giungere ad alcune conclusioni
interpretative generali estremamente feconde per l’analisi delle società europee. L’analisi di Hertz che è stata compiuta da Huntington
e Metcalf ha palesato le valenze di una sua fondamentale intuizione
sul simbolismo del corpo, vale a dire che “l’attenzione per i contesti simbolici e sociologici del cadavere consente di formulare le più
profonde spiegazioni sul significato della morte e della vita quasi in
ogni società”2. I fenomeni biologici e corporei possono diventare
metaforicamente immagini significanti di realtà altre3; così il cadavere, con le sue progressive trasformazioni ed i suoi cambiamenti di
stato, diventa simbolo del cammino e del destino dell’anima, mentre
lo svolgimento del processo di cambiamento coinvolge lo stato dei
viventi in lutto. Il cadavere, l’anima e i superstiti sono i tre protagonisti, strettamente legati, del dramma che si consuma sul palcoscenico
della morte. Nella sua analisi Hertz offre una spiegazione accettabile
e generalizzata delle pratiche di doppia sepoltura: le manipolazioni
del cadavere, il far avvenire la decomposizione in un determinato
luogo e quindi lo spostamento dei resti, ormai trasformati e fissati,
in altra collocazione, sono azioni rituali funzionali ad assicurare il
compimento del passaggio del defunto ad una condizione di stabilità
nell’al di là, una ubicazione opportuna nei confronti dei viventi, che
garantisca una pacificazione dell’ anima approdata alla sua naturale collocazione altra. La fase liminale assume quindi un’importanza
fondamentale e raggiunge il proprio periodo critico durante il processo biologico di trasformazione del corpo in putrefazione. Nella
lettura della trasformazione del cadavere come metafora del viaggio
206
Scheletrizzare o mummificare
dell’anima Hertz è stato influenzato dagli studi di Hubert e Mauss
sul sacrificio: per approdare nell’altro mondo un bene, un oggetto
o un animale devono essere distrutti in questo mondo4. Se seguissimo quest’intuizione dovremmo postulare che è proprio la carne del
defunto, l’involucro che riveste l’impalcatura scheletrica e che ha la
capacità di degradarsi e di mutare, ad essere assimilata all’anima. Il
risultato del degrado è infatti uno scheletro inerte, non più capace di
trasformazioni, osso disseccato e stabile. Il termine invalso nell’uso
archeoantropologico di “sepoltura secondaria”, cioè di sepoltura ricostituita dopo l’avvenuta putrefazione del cadavere in altro luogo,
troverebbe una immediata generalizzata sponda interpretativa nella
decrittazione Hertziana delle doppie esequie. Ma quanto sia feconda
una lettura in questa luce dei moltissimi fenomeni di rideposizione
di resti scheletrici e degli stessi numerosissimi ossari che sono rinvenuti, ad esempio, nelle stratificazioni cimiteriali medievali e postmedievali europee, è ancora lontano dall’essere valutata in tutta la sua
pienezza. La concezione della morte come accadimento istantaneo
è un’acquisizione non molto antica anche per l’Occidente– ormai
dal XX secolo supportata dalle moderne cognizioni biologiche – che
trova affermazione nel corso dell’Età Moderna grazie soprattutto
alla rinnovata religiosità riformata e ai dettami della chiesa romana controriformata. Se osserviamo gli sforzi esercitati dalla chiesa
cattolica della Controriforma per disciplinare, attraverso una rigida concezione dei sacramenti, la durata dei riti, ci accorgiamo della
volontà di delimitarli temporalmente e di contrarli fino a farli coincidere con la stessa amministrazione del sacramento da parte del sacerdote investito dell’autorità ecclesiastica5. Non più quindi una fase
di separazione, di margine e di aggregazione, secondo il modello
illustrato da Van Gennep6, ma un unico momento fondato sul sacramento religioso. Tra questi riti rientra naturalmente il rito di passaggio per eccellenza: il rito funebre. Si voleva eliminare l’idea di una
fase di passaggio prolungata, liminale, caratterizzata da pericolosità
207
Antonio Fornaciari
e instabilità, tra la morte corporale ed il definitivo arrivo del defunto nell’al di là. Tutto il bagaglio di credenze folkloriche legato alla
liminarità veniva così ridotto, depotenziato, e ricondotto sotto l’ordine ed il controllo dell’autorità religiosa. Un processo simile, anzi
ancora più estremo, si era verificato pure nel mondo protestante,
dove la Riforma aveva soppresso quasi completamente le differenti
configurazioni rituali e sacramentali. La chiesa di Roma aveva invece perseguito una strada meno esacerbante nel porsi in conflitto con
i rituali tradizionali, spesso conservatisi a livello popolare, mirando
alla concentrazione ed alla puntualità del mutamento sancito dal sacramento. Il rapporto con i defunti non fu negato come nell’Europa riformata, non fu combattuta la possibilità di intercedere per i
morti attraverso i suffragi, ma si cercò di eliminare la visione della
morte come passaggio prolungato e viaggio tormentato dell’anima.
In questo senso il potenziamento dell’immagine del purgatorio, già
individuato da Hertz come una forma dell’elaborazione storica della doppia sepoltura7, divenne un mezzo per inquadrare, sotto una
visione teologicamente accettabile, una concezione che vedeva il
cammino dell’anima verso la salvezza come qualcosa di prolungato.
Tuttavia, rappresentazioni collettive come quelle descritte da Hertz
continuarono a sopravvivere, per esempio nelle immagini folkloriche dei morti senza pace, la cui mancata cerimonia funebre, e quindi
il mancato raggiungimento di una condizione pacificata nell’al di là,
aveva condannato a vagare pericolosamente nel mondo dei vivi8. E
accanto a queste credenze, estremamente diffuse, continuarono a sopravvivere nel cuore dell’Europa cristiana pratiche rituali di seconda
sepoltura. Ne sono la prova le testimonianze riportate da missionari
gesuiti intenti a rievangelizzare le campagne europee tra ‘500 e ‘600,
oppure le descrizioni lasciate da scrittori del ‘700 e ‘800 che stupivano di fronte alla realtà di ritualità per loro poco comprensibili9.
Pratiche di seconda sepoltura, ancora nel XX secolo e fino ai nostri
giorni, sono seguite ai margini del mondo cattolico, nell’area slava
208
Scheletrizzare o mummificare
meridionale10, ma pure si mantengono, a livello popolare, nei cimiteri urbani di Napoli11.
Strutture per il trattamento dei corpi nell’Italia del Sud
In Italia meridionale si conservano numerosi esempi di strutture
funerarie, destinate al trattamento dei cadaveri, che rispondono ai
bisogni di un universo rituale caratterizzato dalla concezione della morte come passaggio prolungato. Questi ambienti, funzionali
all’esercizio di un “controllo” effettivo sulla decomposizione cadaverica, forniscono la prova materiale della diffusione e del perdurare, fino alle soglie dell’età contemporanea, di pratiche legate
Fig. 1 – Fiumedinisi (ME), ambiente dotato di colatoi “a seduta” nei sotterranei della
Chiesa Madre
209
Antonio Fornaciari
alla “seconda sepoltura”. Nel corso di un’indagine archeologica
effettuata prevalentemente nella Sicilia orientale, ma che ha coinvolto anche parti cospicue dell’Italia meridionale continentale,
sono state documentate due tipologie principali di ambienti destinati al trattamento dei corpi: quelli dotati di colatoi “a seduta”, noti
a Napoli come “cantarelle”12, diffusi in tutto il meridione d’Italia, e
quelli caratterizzati da colatoi orizzontali, diffusi prevalentemente
in Sicilia. Queste strutture non sono state costruite ed utilizzate con
identiche finalità. Le differenze funzionali e strutturali sono evidenti e le descriveremo di seguito facendo riferimento ad una serie
di siti che si prestano ad essere considerati come esemplificativi
delle possibilità esistenti.
Il colatoio “a seduta”
La prima tipologia d’ambiente funerario, contenente quello che abbiamo definito “colatoio a seduta”, è un vano sotterraneo, solitamente ricavato sotto il pavimento delle chiese, che mostra lungo le pareti
una serie di nicchie provviste di sedili in muratura ciascuno dotato
di un foro centrale.
Il cadavere del defunto era collocato in posizione seduta in modo
da far confluire i liquami prodotti dalla putrefazione direttamente
all’interno del foro collegato ad una canaletta di scolo. Nello stesso
ambiente sono presenti generalmente almeno altri due elementi caratteristici: l’ossario e alcune mensole in muratura. Una volta che il
processo di scolatura fosse terminato, che la decomposizione avesse
fatto il proprio corso lasciando le ossa libere dalla parte putrescibile,
i resti scheletrici del post craniale erano spostati nell’ossario, mentre il cranio, simbolo dell’individualità del defunto, era posizionato
sulla mensola. Spesso nello stesso ambiente è presente un altare,
che testimonia come occasionalmente vi fossero celebrate funzioni
religiose. Il ciclo funerario, iniziato con la morte dell’individuo, si
concludeva con la sua scheletrizzazione, ed aveva una durata che
210
Scheletrizzare o mummificare
poteva variare sensibilmente da un minimo di pochi mesi ad un anno
e più, in conseguenza delle condizioni climatiche dell’ambiente sepolcrale e della stagione della morte. Le caratteristiche architettoniche si ripetono nei diversi siti con poche variazioni, anche se si registrano differenze nella disposizione dei vari elementi e soprattutto
nel grado di raffinatezza dei sepolcri che, nei casi più ricercati, sono
decorati con stucchi e pitture.
Il primo complesso funerario analizzato è situato in Sicilia, a San
Marco d’Alunzio (ME), antico centro dei Nebrodi d’origine greca.
Nella chiesa di Santa Maria dell’Aracoeli, sotto la cappella dedicata
all’arcangelo Michele, in corrispondenza del transetto occidentale,
si trova un piccolo ambiente ipogeo di 3,50 x 2 m, voltato a botte, a
cui si accede attraverso una ripida scala di dodici gradini in marmo
rosso aluntino. All’interno della camera sepolcrale si hanno otto nicchie, sei delle quali dotate di sedile con foro centrale per la scolatura
dei cadaveri e collegate ad una canalizzazione che permetteva la raccolta dei liquami cadaverici e la loro fuoriuscita all’esterno dell’edificio religioso.
Fig. 2 – San Marco d’Alunzio (ME), cripta della famiglia Greco, pianta (A) e prospetto
orientale (B)
211
Antonio Fornaciari
Fig. 3 – San Marco d’Alunzio (ME), cripta della famiglia Greco, particolare delle
mensole per la posa dei crani
Sulla parete opposta all’ingresso una sorta di vasca, larga 88 cm e
alta 68, costituisce l’ossario in cui erano accumulati i resti scheletrici
degli individui dopo la scolatura. Sopra le nicchie, lungo le pareti
longitudinali, si trovano due cornicioni per la posa dei crani.
Una finestra, aperta nella parete di fondo al di sopra dell’ossario, è
l’unica fonte di luce dell’ambiente. La piccola camera sepolcrale è
stata edificata dalla famiglia Greco, come si evince dalla lastra pavimentale che originariamente copriva l’accesso al sepolcro e che
si conserva attualmente dietro il coro della chiesa. La lastra, divisa
in due pezzi, porta lo stemma della famiglia Greco raffigurante due
leoni rampanti affrontati sopra tre melograni e la seguente iscrizione13:
212
Scheletrizzare o mummificare
GRÆCORVˇ, HVCPO
SVIT, RADIX, BENEDOC
TASEPVLCVˇSIHICARA
ESTCÆLIPROXI§ÆTHER
ADEST 1722
La famiglia Greco aveva il patronato della cappella di San Michele
sotto la quale, nel 1722, aveva edificato la propria sepoltura14.
Il secondo caso di studio proviene dalla Campania. Il convento
di Pucara, monastero femminile dell’ordine carmelitano di Santa
Teresa, a cui era annesso un conservatorio per le giovani, si trova
sulle alture che sovrastano la costiera amalfitana, nel comune di
Tramonti (SA)15. L’istituzione monastica e l’educandato femminile ebbero notevole importanza religiosa tra XVIII e XIX secolo,
fino alla soppressione avvenuta nell’anno 1900. Tra i confessori e
le guide spirituali delle monache si ricorda, nel ‘700, la figura di S.
Alfonso Maria de’ Liguori16. Al centro del pavimento della chiesa
del monastero, dedicato ai santi Giuseppe e Teresa, si trova una
botola coperta da una lastra di marmo con la seguente iscrizione:
D.
O. M.
FRANCISCUS ANTONIUS ET JOSEPH RICCA
POST EXCITATUM
SACRIS VIRGINIBUS
MONASTERIUM, TEMPLUMQUE
QUIETIS ETIAM HUNC LOCUM PARAVERUNT
UT
QUARUM VIVENTIUM ANIMOS
CHARITAS, ET DISCIPLINA CLAUSTRALIS
COADUNASSET
DEFUNCTARUM OSSA
SEPULCHRUM IDEM
CONCLUDERET
HAEREDES A.D. CIDDCCXXIV17
213
Antonio Fornaciari
Fig. 4 – Pucara (SA), cripta del monastero di SS. Giuseppe e Teresa, pianta e prospetto ovest
Sollevata la botola si accede, attraverso sette ripidi gradini, ad un
locale ipogeo voltato. Lungo le pareti sono ricavate venti nicchie,
cinque per ogni lato, dotate ciascuna di sedile in muratura con foro
centrale circolare. Il piano di seduta è posto a cinquanta centimetri
dal pavimento e l’apertura per la raccolta dei liquidi di decomposizione trova sfogo ai piedi del sedile, attraverso un pertugio rettangolare che versava i liquami direttamente sul pavimento in battuto.
Un bastoncino, incastrato in fori laterali interni alle nicchie, era posizionato all’altezza delle braccia per evitare che i cadaveri seduti
potessero cadere in avanti. L’eccezionalità del sito è data dalla conservazione negli stalli dei resti scheletrici delle monache sottoposte
alla scolatura. Le ossa sono parzialmente o totalmente collassate su
se stesse per effetto della forza di gravità, dopo il cedimento dei
legamenti. L’apparato funerario delle defunte, che è possibile rico214
Scheletrizzare o mummificare
struire in base ad alcuni reperti metallici e frammenti di stoffa, è costituito dall’abito monacale, fornito di una cinta in cuoio borchiata,
da una coroncina metallica di rame, originariamente posta sul capo
delle religiose, e dalla corona del rosario, che è stata posta tra le mani
delle suore al momento della loro sistemazione sui colatoi. Sulle pareti intonacate a calce sono graffiti a carboncino i nomi e le date di
morte di alcune delle monache; possediamo così un elenco suggestivo di nomi monacali: Grazia, Gaudiosa, Golendida, Letizia, Punita,
Maria, Illuminata, Gemma Panico del Paradiso, di nuovo Gemma,
Maria Illuminata, Maria Dilta Irace, e la possibilità di ricostruire la
cronologia d’uso dell’ambiente, compresa tra il 1724, data riportata sulla lastra di chiusura, e il 1888, la data più recente tra quelle
presenti internamente al sepolcro. Il complesso funebre di Pucara si
distingue per la mancanza di alcuni elementi, quali l’ossario e l’altare, che invece si rinvengono con costanza negli altri siti. Si può
ritenere che i corpi delle monache rimanessero sul colatoio fino alla
completa scheletrizzazione, ed il notevole divario cronologico tra le
date graffite a carboncino sopra le singole nicchie (anni 1763, 1790,
1848, 1857, 1888) fa pensare che questa potesse verificarsi con tempi anche molto diversi da individuo a individuo. Non sappiamo dove
fossero deposti i resti una volta divenuti ossa disseccate, ma è probabile che i crani, come accade in altre località, fossero sistemati sulla mensola soprastante i colatoi. La struttura del complesso funebre
richiama quella di un coro, un coro del tutto particolare formato dai
resti mortali delle suore di Santa Teresa. In occasione di particolari
celebrazioni, o durante una nuova tumulazione, lo spettacolo che si
offriva ai visitatori dell’ambiente era quello di un coro di cadaveri in
progressivo disfacimento, a gradi diversi di conservazione. Una visione che doveva assurgere nella mentalità del tempo, e ancor di più
in quella delle religiose, ad un significato preciso, che trasfigurava
l’arcaica concezione della doppia sepoltura in una più “cristianizzata” e controriformata riflessione sulla caducità del corpo mortale,
215
Antonio Fornaciari
e che rispondeva al bisogno, proclamato per il buon cristiano dallo stesso Alfonso Maria de’ Liguori, di riflettere costantemente sul
tema della morte18.
Un altro esempio rilevante d’ambiente funerario dotato di sedili colatoio ci viene nuovamente dalla Sicilia orientale. Sulla collina di
Pentefur nei monti Peloritani, affacciata in splendida posizione in vista del mar di Sicilia, si erge l’abitato di Savoca (ME). Nella Chiesa
Madre si conserva un complesso architettonico funerario dalle forme
che non esiteremo a definire monumentali: un’ampia aula è ricavata
sotto il presbiterio della chiesa sfruttando lo spazio dell’emiciclo absidale ed è dotata di un’imponente scalinata d’accesso bipartita. Un
altare è situato dirimpetto alla scala, in corrispondenza del culmine
dell’abside. Ricavate nelle pareti ricurve sono dieci nicchie fornite
di sedile colatoio, cinque a destra e cinque a sinistra dell’altare. A
quest’ambiente più vasto è connesso, tramite un breve corridoio, un
più piccolo locale quadrangolare dove trovano posto sei colatoi a sedile sistemati nelle consuete nicchie e collegati ad una piccola vasca
centrale per la raccolta dei liquidi di scolatura.
Sopra l’ingresso è graffita, sulla parete rozzamente scialbata, la data
1732, a cui risale probabilmente la costruzione del vano. La presenza
di questi due ambienti, collegati ma distinti, fa ipotizzare un processo
di scolatura diviso in due fasi: in un primo tempo il corpo, chiuso nel
piccolo colatoio opportunamente sigillato, perdeva la maggior parte
dei liquidi; in un secondo momento il cadavere, ormai in buona parte
asciutto, era posto nella sala più ampia dove potevano essere celebrate funzioni in suffragio dei defunti. Non si conservano purtroppo documenti attendibili sull’identità degli usufruttuari dei locali funerari
della Chiesa Madre di Savoca, ma è molto probabile che il loro uso
fosse riservato ai membri di una delle confraternite cittadine.
Un interessante modello di sepolcro confraternale, che differisce
leggermente nell’impianto dai tipi più comuni a pianta centrale, è
stato documentato a Tusa (ME). Sotto la porzione terminale della
216
Scheletrizzare o mummificare
Fig. 5 – Savoca (ME), cripta della Chiesa Madre, planimetria e prospetto ovest del vano
settentrionale
navata sinistra della Chiesa Madre, dedicata alla SS. Annunziata, la
confraternita del SS. Sacramento possedeva il proprio sepolcro, eretto nel XVIII secolo con l’unione di un nuovo ambiente, sviluppato
in senso E-W e voltato a botte, ad un vano rettangolare preesistente
con copertura a crociera, risalente al XV-XVI secolo, già facente
parte della cripta della chiesa d’età aragonese19. Ai lati dell’ingresso
due file di dodici sedili colatoio, con tanto di foro centrale e tappo
in terracotta (Fig. 6), convergono in leggera pendenza verso il fon217
Antonio Fornaciari
do dell’ambiente dove, con le
rispettive canalizzazioni, si
collegano a due piccoli vani
in forma di parallelepipedo
atti ad ospitare i cadaveri in
posizione eretta.
Da sotto questi vani rettangolari procedono due canalette, costruite con embrici
di terracotta, che, riunendosi
in un unico condotto a livello
dell’altare, avevano la funzione di convogliare i liquami cadaverici verso l’esterno
dell’edificio.
Sul fondo è situato l’altare della confraternita, mentre nella parete meridionale Fig. 6 – Tusa (ME), cripta della Confraternita
SS. Sacramento, particolare di un sedile
dell’area presbiterale una del
colatoio
piccola apertura immette nell’ambiente utilizzato
come ossario, ricavato nell’intercapedine esistente tra l’abside della navata centrale e l’ambiente di colatura. Sono quindi presenti in
questo complesso funerario tutti gli elementi caratteristici: i sedili colatoio, sormontati dalla mensola per la deposizione dei crani,
l’altare, l’ossario, ma in più vi sono attestati due ambienti diversi,
collegati ai colatoi a seduta, la cui funzione era quella di ospitare
i corpi dei defunti per favorirne una prima scolatura e far perdere
ai cadaveri il grosso dei liquidi prodotti dalla fase iniziale della
decomposizione; solo in un secondo momento i corpi erano spostati sui sedili, dove continuava il loro processo di degrado per un
periodo più lungo di tempo.
218
Scheletrizzare o mummificare
Fig. 7 – Tusa (ME), cripta della Confraternita del SS. Sacramento, planimetria
Le Terresante napoletane: una variante strutturale
Dalle tipologie fin qui descritte differiscono, offrendo ancora una
volta l’immagine della varietà delle pratiche e delle strutture adibite
al trattamento dei cadaveri orientate dai modi della doppia sepoltura,
le “terresante” napoletane. Si tratta di ambienti sotterranei, in genere
gestiti dalle confraternite laicali, dotati di spazi chiamati “giardinetti” costituiti da grandi vasche, quasi aiuole rialzate, riempite di terra,
in cui erano sepolti superficialmente i corpi per una prima scolatura.
Dopo un periodo di tempo insufficiente a scheletrizzarli completamente, i resti erano spostati entro nicchie ricavate nelle pareti, spesso
strutturate come sedili-colatoio, dove i cadaveri continuavano il loro
percorso di decomposizione. A scheletrizzazione completata, i resti
ossei venivano raccolti nell’ossario, mentre i crani erano conservati
a parte, in genere esposti sopra mensole e cornicioni. Un esempio
ancora visitabile di terrasanta ben conservata - molte strutture infatti,
da quando persero la loro funzione nel corso dell’800, non hanno
219
Antonio Fornaciari
Fig. 8 – Napoli, Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, la Terrasanta
più mantenuto ben leggibili le originarie caratteristiche strutturali
- è quella presente sotto la chiesa di Santa Maria delle Anime del
Purgatorio ad Arco in via dei Tribunali.
Il colatoio orizzontale
La seconda tipologia d’ambiente funerario, dotato di colatoi orizzontali, è diffusa in Sicilia, mentre non ne sono al momento noti
esempi nel resto del meridione o in altre parti d’Italia. Come vedremo da alcune testimonianze materiali, e sulla scorta di alcuni
documenti dell’epoca, la funzione di queste strutture era quella di
favorire la mummificazione del defunto. I colatoi erano piccoli am220
Scheletrizzare o mummificare
bienti dotati d’una griglia orizzontale, realizzata in legno o in tubuli
di ceramica, sulla quale era posto il cadavere. Il corpo, disteso sulla
griglia, perdeva lentamente i propri liquidi per semplice scollamento attraverso il derma. La ventilazione, assicurata da prese d’aria e la
temperatura costante, mantenuta grazie alle caratteristiche dell’ambiente, ricavato nel sottosuolo dell’edificio religioso e talvolta direttamente nella roccia di base, garantivano l’essiccazione dei tessuti. Il corpo mummificato era quindi rivestito ed esposto in cripte
o cappelle funerarie, dove poteva essere “visitato” da familiari e
conoscenti. La struttura del colatoio orizzontale è sempre collocata nei pressi degli ambienti destinati all’esposizione, ed è integrata
come piccolo annesso del medesimo complesso architettonico. Gli
esempi che porteremo provengono dalla provincia di Messina dove
è stato possibile documentare una serie di ambienti particolarmente
Fig. 9 – Piraino (ME), Chiesa Madre, Sepolcro dei sacerdoti, planimetria
221
Antonio Fornaciari
ben conservati. Notevole ai fini della nostra indagine si è rivelata la
località di Piraino. Questo piccolo centro della Sicilia nord orientale, collocato in posizione dominante su uno sprone collinare che dal
sistema montuoso dei Nebrodi si spinge verso il Tirreno, conserva
nelle adiacenze della Chiesa Madre un sepolcro destinato ai sacerdoti articolato in tre ambienti diversi.
Da una scala, il cui ingresso è posizionato all’interno della Chiesa
Madre in corrispondenza dell’altare di Santa Bruna Vergine e
Martire, si raggiunge un primo ripiano dal quale si accede alla camera di mummificazione: uno stretto ambiente dal discreto sviluppo verticale, a pianta rettangolare, dotato di una vasca ed una
condotta per la raccolta ed il deflusso dei liquami cadaverici.
Due protuberanze in muratura
sui lati brevi del piccolo vano
servivano da sostegno per la griglia di legno, ancora straordinariamente conservata in loco, su
cui era adagiato il corpo del defunto. Tramite un breve corridoio il colatoio è collegato ad una
prima camera sepolcrale rettangolare, con orientamento nordsud, dotata d’altare, e fornita alle
pareti di cinque soppalchi lignei
su cui sono deposti orizzontalmente, nella loro originaria
collocazione, quattordici corpi
mummificati di ecclesiastici che
indossano le canoniche vesti talari, hanno la testa poggiante su
di un coppo in terracotta, sono
Fig. 10 – Piraino (ME), Chiesa Madre, Sepolin prevalenza privi di calzature.
cro dei sacerdoti, camera di mummificazione
222
Scheletrizzare o mummificare
Fig. 11 – Piraino (ME), Chiesa Madre, Sepolcro dei sacerdoti
Un’ altra camera sepolcrale, simile alla precedente e collegata ad
essa da un breve corridoio, ha orientamento est-ovest. Oltre che
sui soppalchi lignei, due corpi sono posti verticalmente entro nicchie situate a metà dell’ambiente. La ventilazione e la luce sono
assicurate da una finestra per stanza. Complessivamente nelle due
camere sepolcrali sono alloggiati 26 corpi mummificati. Un prezioso documento proveniente dall’archivio parrocchiale della Chiesa
Madre ci aiuta non solo a datare con precisione la costruzione dei
locali, ma anche a comprenderne l’utilizzo ed il funzionamento20.
L’edificazione del sepolcro, avviata col consenso di Vincenzo Denti
Colonna, principe di Castellazzo, Duca di Piraino e Alagona, data al
1771. Si fece promotore dell’iniziativa l’Arciprete Abate Giovanni
223
Antonio Fornaciari
Antonio Maria Scalenza, principale autorità ecclesiastica di Piraino,
seguito e sostenuto dal clero sacerdotale del paese. La carta di fondazione è accompagnata da una serie di articoli che regolano la
gestione del sepolcro, destinato ad accogliere esclusivamente sacerdoti, diaconi e suddiaconi pirainesi21, ed inoltre da una serie di
istruzioni per la manutenzione della sepoltura che devono essere
eseguite scrupolosamente dal Procuratore della Chiesa Madre. Tra
queste ultime è particolarmente interessante la nota n. 6, che qui
citiamo integralmente:
La diligenza particolare deve essere quando si seppellirà qualche nuovo
cadavere, in tal caso dovrà curare suddetto Rev. Procuratore che nel colatore si mettesse il cadavere solamente in tela e colle sole calsette, scoperto
dabbasso per calarsi tutto; e doppo due mesi, quando si giudicherà il cadavere ben purgato, deve estraersi dal suddetto colatore e rivestito delle sue
proprie vesti, che saran solamente il collare, la tonica nera, l’amitto, il
camice, il cingolo e la berretta parrinesca, ad esclusione di scarpe e d’ogni
altra veste di sotto, si dovrà situare nella sua scaffa, ben accomodato e rassettato colla sua propria iscrizione, e poi ciò fatto deve scoparsi, e pulirsi
suddetto colatore e gradiglia d’ogni immondezza e lasciarlo aperto per
svaporare ogni puzza e fetore; servendo tutto ciò per la decenza e polizia
di detta sepoltura….
Il documento fornisce inoltre, alla nota 4, disposizioni sull’apertura
del sepolcro in occasione del Giorno dei Morti, quando la comunità
aveva libero accesso agli ambienti sotterranei e poteva visitare le
salme dei congiunti ed assistere alle funzioni religiose celebrate di
fronte agli altari interni:
Nel giorno dei defonti (il Rev. Procuratore) deve curare di far aprire detta
sepoltura dalli primi vesperi fin alli secondi, con farvi trovare apparecchiati e ben addobbati li due altaretti che vi sono dentro con suoi candelieri e candele ed altri paramenti propri di quel luogo, con suoi profumi
d’incenso o di altre cose odorifere, specialmente quando si dovrà entrare il
celebrante col clero a farvi il soprafosso.
224
Scheletrizzare o mummificare
Fig. 12 – Novara di Sicilia (ME), Chiesa Madre, planimetria della cripta
Particolarmente esplicativa è l’iscrizione posta in corrispondenza
dell’individuo che occupa la terza nicchia ad oriente dell’altare, la
quale fa riferimento apertamente alla salma esposta:
SACERDOTIS MARIANI FONTANA
AETATIS ANNORUM L. &. DIER XXX
QUI E VITA MIGRAVIT
SEXTO CALENDAS INNUARII. MDCCCLXXII
CORPUS QUOD ASPICIS.24
225
Antonio Fornaciari
Fig. 13 – Novara di Sicilia (ME), Chiesa Madre, particolare della cripta
Dalle date riportate si desume che l’ambiente è stato utilizzato, con la
finalità per la quale era stato progettato e costruito, almeno fino agli
anni ’70 del XIX secolo. Notevoli sono le due camere di mummificazione, o colatoi orizzontali, situate ai lati dell’ingresso. Si tratta di
due vani simili, ricavati a contatto della roccia di base, con soffitto
alto oltre due metri e prese d’aria che garantiscono la ventilazione;
al loro interno la temperatura resta costante, anche nei mesi estivi,
grazie all’azione refrigerante generata dalla roccia. Vi si conservano
ancora le griglie lignee di sostegno dei cadaveri e le tavole che servivano a sigillare l’ambiente durante la scolatura.
Un terzo sito che desideriamo menzionare in questa breve rassegna
è Galati Mamertino (ME), antico paese posto nel cuore dei Nebrodi
226
Scheletrizzare o mummificare
Fig. 14 – Novara di Sicilia (ME), Chiesa Madre, colatoio orizzontale
a 800 m s.l.m. Una piccola cripta è posizionata centralmente sotto il
presbiterio della chiesa di S. Maria Assunta. Si tratta di un ambiente
a pianta rettangolare, dotato d’altare; nei perimetrali sono ricavate
dodici nicchie verticali. Dieci casse lignee, contenenti altrettanti individui, sono posizionate su mensole metalliche che sporgono dalle
pareti, coprendo e rendendo inutilizzabili le edicole, originariamente
destinate ad accogliere corpi mummificati in posa stante (Fig. 15).
Le iniziali presenti sui fianchi delle casse, realizzate con piccoli
chiodi dalla testa rotonda, testimoniano l’appartenenza dei defunti a
un’unica famiglia25. La sistemazione di questa cripta è emblematica
di un cambiamento: vi si nota una stratificazione tra caratteristiche
architettoniche residuali e un nuovo utilizzo che fa a meno dell’e227
Antonio Fornaciari
sposizione continuata dei cadaveri, ora racchiusi entro “tabbuti”. La
tipologia delle casse, così come le guarnizioni e le decorazioni in
stoffa rimandano alla seconda metà dell’Ottocento. Tutto il complesso funerario segna un momento di passaggio che precede l’espulsione definitiva delle sepolture dalla chiesa, ma in cui è già in atto
una modifica sostanziale dell’ambiente ipogeo, ridotto a semplice
cappella funeraria, senza più quella funzione espositiva che ne aveva
determinato la costruzione e l’organizzazione degli spazi interni.
Strutture espositive simili a quelle descritte sono riscontrabili in numerosi conventi cappuccini siciliani, a cominciare da quello celebre
di Palermo, dove si conservano gli apparati per la scolatura orizzontale dei corpi, e non sono destinate solamente a religiosi ma anche
Fig. 15 – Galati Mamertino (ME), Chiesa Madre, cripta
228
Scheletrizzare o mummificare
a laici appartenenti alla classe media e medio alta, spesso generosi
benefattori dei conventi stessi. Proprio il convento palermitano sembra essere, dal punto di vista della documentazione esistente, la più
antica istituzione conventuale ad aver praticato la mummificazione, come dimostrerebbe tra l’altro una mummia risalente al 159926.
Nella stessa Palermo numerose istituzioni confraternali utilizzavano
tra XVIII e XIX secolo la scolatura orizzontale e l’esposizione su
soppalchi dei corpi mummificati dei confrati27.
Conclusioni
La mummificazione o la scheletrizzazione, ottenute con il metodo
della scolatura, erano il frutto di una comune concezione della morte
che aveva come obiettivo di risolvere il momento incerto del cambiamento, quella fase liminale tanto temuta dai viventi in cui il corpo
del defunto subiva una trasformazione irreversibile. Nel caso della
mummificazione il problema era risolto bloccando il processo di degrado, e la fase liminale era circoscritta al periodo della giacitura
sul colatoio orizzontale, a cui seguiva la reintegrazione con l’esposizione del corpo. Nell’altro caso il processo era più lungo, poteva
attraversare diversi stadi in cui il corpo era sottoposto a successive
fasi di colatura, ma terminava invariabilmente sui colatoi a seduta e
con la scheletrizzazione. Una volta privato della parte putrescibile,
il defunto era stabilizzato e per così dire neutralizzato. Dal punto di
vista geografico, sempre sulla base delle attestazioni materiali e di
alcune fonti documentarie, mentre la mummificazione risulta essere
stata praticata soprattutto in Sicilia e sporadicamente in alcuni altri
centri dell’Italia meridionale28, la scolatura sui sedili appare massicciamente diffusa in tutto il meridione d’Italia, ed addirittura in alcune aree del nord della penisola29. Una ricerca effettuata per redigere
una prima mappatura delle strutture esistenti, per quanto necessariamente parziale, ha permesso già di censire oltre una sessantina di
siti, restituendoci l’immagine di una pratica tutt’altro che inconsue229
Antonio Fornaciari
ta30. Inoltre, mentre si può ritenere che il processo di mummificazione sia stato, per così dire, messo a punto dall’ordine dei cappuccini
verso la fine del XVI secolo31, e solo in un secondo momento si sia
esteso ad altre componenti del clero siciliano e ad alcune organizzazioni confraternali32, le origini della pratica della colatura su sedili sono molto più evanescenti33. Nel XVII-XVIII secolo, periodo al
quale risale la documentazione materiale dei colatoi a seduta, ormai
il processo funerario si mostra ben caratterizzato e definito nei suoi
vari elementi. Possiamo quindi ipotizzare la sua esistenza prima del
‘600, ma non siamo in grado, almeno per il momento ed in base ai
dati in nostro possesso, di definirne una precisa cronologia iniziale
o di conoscerne i mutamenti e l’evoluzione materiale nel corso del
tempo34, mentre è piuttosto evidente che la fine della pratica, almeno
negli ambienti più conservativi, vada collocata nella seconda metà
del XIX secolo. Due aspetti restano ancora da rilevare e da esaminare, peraltro strettamente legati: la dimensione comunitaria, esaltata
dai sepolcri comuni, e la valenza di privilegio che un trattamento
del genere comportava. In effetti, a parte alcuni sepolcri destinati
ad un uso “familiare”, la maggior parte degli ipogei apparteneva a
confraternite laicali o era pertinente a conventi (o istituzioni monastiche). La dimensione comunitaria dell’associazionismo religioso
secolare andava di pari passo con la forza di privilegio emanata da
istituzioni che godevano di notevole prestigio tra la popolazione. Le
confraternite, fossero create con precise finalità assistenziali, fossero associazioni puramente devozionali o di mestiere, formavano
di per sé un elemento di distinzione all’interno del più vasto corpo
sociale paesano o cittadino; la disciplina comune della morte, attuata attraverso i sepolcri collettivi, aveva pure lo scopo di rimarcare
questa differenziazione dal resto della comunità. Stesso valore di
distinzione acquisivano i sepolcri di frati e suore, il cui stile di vita
comunitario aveva continuità nella pratica funeraria con l’utilizzo di
un unico sepolcro comune. A questa scelta non erano probabilmente
230
Scheletrizzare o mummificare
estranee le suggestioni che derivavano da un sentimento religioso di
cui restano abbondanti testimonianze nella letteratura devozionale
del tempo35. E’ inoltre necessario rimarcare come la pratica funeraria
dei sepolcri comuni dotati di colatoi a sedile non fosse appannaggio
di un ordine religioso particolare, ma venisse usata indiscriminatamente da tutte le congregazioni con la sola importante eccezione dei
cappuccini, vero e proprio ordine di frati mummificatori. Gli esempi
materiali descritti in questo lavoro evidenziano che le pratiche di
scolatura dei corpi erano connotate come trattamenti privilegiati ed
elitari. Abbiamo cercato di quantificare statisticamente, sulla base di
un campione geograficamente omogeneo di cinquanta siti siciliani,
le varie istituzioni religiose o para-religiose che ebbero in uso queste
due forme di manipolazione dei cadaveri (Fig. 16).
Il dato che emerge suggerisce una gerarchia che sembra collocare
la scheletrizzazione sui colatoi a seduta ad un livello leggermente
inferiore rispetto alla mummificazione sui colatoi orizzontali. Le
confraternite (ad eccezione forse di quelle palermitane) così come le
comunità conventuali, specialmente femminili, preferiscono la scolatura sui sedili, mentre il clero sacerdotale ed i frati cappuccini, veri
specialisti nella mummificazione ed abituati ad offrire i loro servizi
ai ricchi benefattori dell’ordine, privilegiano invece l’altro tipo di
trattamento che realizza la conservazione del corpo. Hertz stesso ci ha suggerito le coordinate per inquadrare all’interno del fenomeno della doppia sepoltura il significato dei processi di
tanatometamorfosi36 seguiti nei colatoi. Egli, sempre nel suo saggio/contributo sulle rappresentazioni collettive della morte, assimila
scarnificazione e mummificazione ed addirittura riconduce la cremazione allo stesso modello teorico, sostenendo che “l’imbalsamazione
ha specificatamente la funzione di evitare la corruzione delle carni e
la trasformazione del corpo in scheletro; e così la cremazione impedisce l’alterazione spontanea del cadavere riducendolo, tramite una
rapida distruzione, in cenere. A nostro parere tali modi di seppelli231
Antonio Fornaciari
mento artificiale non differiscono nella sostanza da quelle forme di
sepoltura provvisoria già esaminate”37. Mummificazione e cremazione avrebbero cioè lo scopo di limitare, controllare o accelerare il processo di trasformazione del cadavere che costituisce il momento più
pericoloso della fase liminale. Jane Buikstra e Gordon Rakita, alla
luce di analisi sul significato della mummificazione e della cremazione presso popolazioni precolombiane del sud e del nord America,
muovono una critica a queste considerazioni Hertziane così totalizzanti, sostenendo che sarebbe invece opportuno considerare la mummificazione e la cremazione come “eccezioni alla regola”38.
In particolare questi studiosi vedono nella mummificazione qualche cosa di non immediatamente assimilabile ad un processo volto
alla stabilizzazione del defunto nella dimensione ultraterrena, ma vi
scorgono la volontà di bloccare il processo di trasmutazione dell’estinto fissandolo in una posizione intermedia e liminare. Mentre la
scheletrizzazione segnerebbe quindi per il defunto il passaggio ad
un’altra dimensione, la mummia permetterebbe il mantenimento
dell’individuo deceduto a metà percorso. Una sorta di perenne oggetto di soglia, la cui funzione sarebbe quella di legittimare status
e potere dei sopravvissuti. In questo senso una pratica che garantirebbe la conservazione dei ruoli sociali, non il loro dissolvimento e
la ricostituzione dopo il periodo del lutto, ma la possibilità di fermare, insieme alla decomposizione della carne, anche il mutamento
determinato dalla morte dell’individuo. In questa chiave potremmo
vedere nella mummificazione l’esplicitarsi di una volontà conservatrice. Il cadavere mummificato esposto manterrebbe una sua identità
sociale e simbolica, mentre lo scheletro terminerebbe la fase finale
della doppia sepoltura nel riassorbimento collettivo dell’ossario.
Resta comunque il fatto notevole che nel meridione d’Italia si siano conservate queste pratiche di manipolazione dei corpi inserite
all’interno di una cornice religiosa ufficiale, addirittura fino all’elaborazione di ambienti strutturali complessi adibiti a tale scopo. La
232
Scheletrizzare o mummificare
Fig. 16 – Percentuali di distribuzione delle due forme di trattamento dei corpi tra le istituzioni religiose siciliane sulla base di un campione di cinquanta siti
conservazione all’interno del mondo cattolico, nonostante gli indirizzi post tridentini, di spazi concessi a pratiche rituali strettamente
connesse alla seconda sepoltura, se da un lato possiamo postulare sia
stata velata da significati altri: meditazione sulla morte, pratiche ascetiche monastiche, collettivizzazione dello spazio funebre in funzione
del gruppo religioso e sociale, dall’altro dimostra quanto la chiesa
controriformata sia scesa a patti con istanze arcaiche estremamente
persistenti. In Sicilia, ed in altre aree del Sud, la nascita dei cimiteri
pubblici suburbani ha segnato la fine di queste strutture ecclesiastiche, per quanto, come è possibile constatare ancora oggi nel mondo
napoletano, molte pratiche abbiano seguito lo spostamento dei cadaveri e continuino ad accompagnare, in sacche di resistenza popolare,
il periodo prolungato del lutto familiare nei moderni camposanti39.
233
Antonio Fornaciari
Bibliografia e note
Si riprendono in questo articolo alcune riflessioni e alcuni dati frutto delle ricerche
condotte da Francesco Pezzini, Valentina Giuffra e dal sottoscritto, che hanno trovato già pubblicazione nei seguenti contributi:
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Fornaciari A., Giuffra V., La mummificazione nella Sicilia della tarda Età
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Fornaciari A., Giuffra V., Pezzini F., Processi di tanatometamorfosi:
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Fornaciari A., Giuffra V., Pezzini F., Momification y descarnacion en la
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3. A questo proposito ha fatto scuola l’altro fondamentale celebre saggio di
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preminenza della destra e altri saggi. Torino, Einaudi, 1994.
4. Hubert H., Mauss M., Essai sur la nature et la fonction du sacrifice.
Année Sociologique 1899; 2: 29-138. Huntington R., Metcalf P., op.
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5. Prosperi A., Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari.
Torino, Einaudi, 1996, pp. 661-662. Pezzini F., Doppie esequie e scolatura
dei corpi. Med. Secoli 2006; 18/3: 897-924.
6. Van Gennep A., Les Rites de passage. Paris, 1909. (trad. it. I riti di passaggio. Torino, Boringhieri, 1981).
7. Hertz R., La preminenza della destra e altri saggi. Torino, Einaudi, 1994,
pp. 133-134.
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Scheletrizzare o mummificare
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Thomas L. V., Le cadavre. De la biologie à l’anthropologie. Bruxelles,
1980; Pardo I., L’elaborazione del lutto in un quartiere tradizionale di
Napoli. Rassegna italiana di Sociologia 1982, 4: 335-369. Fornaciari
A., Giuffra V., Pezzini F., op. cit. nota 8, p. 15.
Galante G.A., Guida Sacra della città di Napoli. Napoli 1985, p. 309.
Si propone questa lettura dell’epigrafe: “Qui pose la radice benedetta dei
Greco il (proprio) sepolcro, se qui l’ara del cielo è vicina anche il paradiso
è imminente 1722”. Santa Maria dell’Aracoeli è effettivamente la titolazione
della chiesa in cui si trova il sepolcro.
Bruno O. (a cura di), Istoria antica e moderna della città di S. Marco di
Antonino Meli. Ms. (sec. XVIII) della Biblioteca dell’Assemblea Regionale
Siciliana. Messina 1991.
Per la conoscenza, l’esplorazione e la documentazione di questo sito è stato
fondamentale l’aiuto prestatomi da Marielva Torino, che colgo qui l’occasione per ringraziare.
Imparato G., La vita religiosa nella costa di Amalfi. Monasteri, conventi
e confraternite. Salerno, 1981.
Traduzione “A Dio Ottimo Massimo. Francesco Antonio e Giuseppe Ricca
dopo aver innalzato il monastero per le sacre vergini, e il tempio di quiete,
prepararono anche questo luogo affinché lo stesso sepolcro accogliesse le
ossa di coloro le cui anime da vive aveva accomunato la carità e la disciplina
claustrale. Gli eredi Anno del Signore 1724”.
L’insistita immagine della contemplazione di un corpo in disfacimento e la
descrizione delle varie fasi del degrado sono temi che ricorrono con frequenza
nell’opera di Alfonso Maria de’ Liguori, in particolare nel secondo paragrafo
(punto II) della considerazione “Ritratto d’un uomo da poco tempo passato
all’altra vita” del suo “Apparecchio alla morte”, di cui riporto questo breve
ma efficace frammento: “…Mira come quel cadavere prima diventa giallo
e poi nero. Dopo si fa vedere su tutto il corpo una lanugine bianca e schifosa. Indi scaturisce un marciume viscoso e puzzolente, che cola per terra. In
quella marcia si genera poi una gran turba di vermi, che si nutriscono delle
235
Antonio Fornaciari
19.
20.
21.
22.
23.
24.
25.
26.
27.
28.
stesse carni. S’aggiungono i topi a far pasto su quel corpo, altri girando da
fuori, altri entrando nella bocca e nelle viscere. Cadono a pezzi le guance, le
labbra e i capelli; le coste son le prime a spolparsi, poi le braccia e le gambe.
I vermi dopo aversi consumato tutte le carni, si consumano da loro stessi; e
finalmente di quel corpo non resta che un fetente scheletro, che col tempo si
divide, separandosi l’ossa, e cadendo il capo dal busto…”. E’ difficile sottrarsi alla suggestione che Alfonso, mentre scriveva questo passo, non avesse
in mente un ambiente simile al sepolcro di Pucara; lo proverebbero il riferimento al liquido della putrefazione “…che cola per terra…” e la menzione
della caduta delle ossa e del cranio.
Alcuni saggi di scavo, praticati ai piedi dei pilastri che sorreggono la volta a
crociera, mostrano come il livello pavimentale in fase con la costruzione del
XVI secolo si situasse circa 25-30 cm sotto la pavimentazione settecentesca.
Si tratta del “Libro della Nuova Sepoltura dei Preti fondata nella Matrice
Chiesa di Piraino l’anno del Signore 1771 per opera e diligenza del preg. mo
Signor Arciprete Abbate D.D. Giovanni Antonio Maria Scalenza”, conservato
nell’Archivio della Chiesa Madre di Piraino. Si ringrazia Don Salvatore Miracola, parroco di San Marco D’Alunzio, per la segnalazione del documento.
La possibilità di accedere al sepolcro era riservata ai sacerdoti, diaconi e suddiaconi che avevano partecipato alle spese per l’edificazione della sepoltura.
Per i sacerdoti che in futuro vorranno godere dello stesso diritto è prescritto di
celebrare o far celebrare sette messe “…per le anime di tutti quei singoli preti
che fecero de proprio le spese per detta nuova sepoltura…”.
Mancuso N. P., Una storia per Piraino. Messina, 2002, p. 77.
I corpi datati dalle iscrizioni risalgono al 1872, 1872 e 1873. E’ inoltre presente una mummia deposta all’interno di una cassa lignea posizionata di
fronte all’altare e datata da un epigrafe al 1868.
“Il corpo che vedi appartiene al sacerdote Mariano Fontana, di anni 50 e
giorni 30, che lasciò la vita il sesto giorno delle Calende di Gennaio 1872.”
Secondo la testimonianza del parroco di Galati, Giuseppe Pichilli, la famiglia
a cui apparterrebbero le inumazioni è quella dei Marchiolo.
Aufderheide A. C., The scientific study of mummies. Cambridge, 2002,
p. 195.
Rocca L., Raia E., Palermo. Luoghi del sottosuolo. Palermo, Edizioni
Scientific Books, 2006.
Ad esempio in Puglia nel convento dei cappuccini di Oria (BR), ed a Napoli,
vero centro addensatore di molteplici costumi funebri. Fornaciari A.,
Giuffra V., Pezzini F., op. cit. nota 8, p. 21.
236
Scheletrizzare o mummificare
29. Nell’Italia padana siamo a conoscenza dell’esistenza di strutture funerarie
con colatoio a sedile a Milano, rinvenute recentemente durante i lavori d’ampliamento dell’Archivio di Stato ed appartenenti all’ex convento di S. Primo,
che risalirebbero alla prima metà del XVII secolo. Ancora a Milano esiste un
altro ambiente con colatoi a seduta nei sotterranei del santuario arcivescovile di San Bernardino alle Ossa. In Valtellina strutture simili sono presenti
a Ponte e a Mazzo. In Piemonte, a Valenza Po (AL), nella chiesa della SS.
Annunziata, già chiesa del convento di S.Agostino, si trova un sepolcro settecentesco destinato alle suore di clausura con le medesime caratteristiche
ed infine, sempre in Piemonte, un sepolcro rispondente alla stessa tipologia
è attestato a Novara, nei sotterranei del tribunale di Palazzo Fossati, già convento di monache.
30. La grande diffusione che la pratica funeraria aveva nel mondo napoletano è
testimoniata dell’espressione popolare partenopea “puozze sculà!”, dal trasparente significato malaugurale. Sorge M., A murì e a pavà…ovvero la
“morte” nei detti napoletani. Napoli 2001, p. 74.
31. Cfr. op. cit. nota 26.
32. La pratica di mummificare su colatoi orizzontali è particolarmente diffusa tra
le confraternite palermitane. Forte in questo caso deve essere stata l’influenza
diretta del modello offerto dal grande Convento dei Cappuccini di Palermo.
33. Pratiche di “seconda sepoltura” con riesumazione e pulitura delle ossa sono
già attestate in un sinodo diocesano messinese del 1588 che proibisce nel capitolo “De non exhumandis cadaveribus” di “… a sepulturis fidelium cadavera
extruere, exenterare, dilacerare, et vestes eorum exuere, ac acquis immersa
ignibus saepe exponere decoquenda”. Corrain C., Zampin P. L., Documento etnografici e folkloristici nei sinodi diocesani. Rovigo 1967, p. 31.
34. Strutture funerarie che hanno qualche consonanza con i nostri sedili-colatoio
sono le cosiddette tombe “a caditoio” o “a colatoio” – come vengono anche
chiamate –, diffuse in Puglia ed in Lucania nel XV-XVI secolo. Si tratta
di strutture rettangolari profonde 1-1,5 m spartite in due settori sovrapposti
da un setto discontinuo di lastre litiche. Il corpo del defunto era adagiato
sopra le lastre, lì avveniva la putrefazione e la scheletrizzazione del corpo; al
momento di una nuova inumazione i resti scheletrizzati erano lasciati cadere
nella parte inferiore della tomba. Si tratta di strutture a carattere privilegiato,
solitamente all’interno delle chiese e destinate ad accogliere più individui. Il
loro uso sembra però rispondere essenzialmente ad esigenze pratiche di ottimizzazione dello spazio, più che essere il frutto di una ritualizzazione complessa, anche se spesso i confini tra esigenze pratiche e ritualità sono sfumati
237
Antonio Fornaciari
35.
36.
37.
38.
39.
e non facilmente distinguibili. Un interessante lavoro di Fabbri su questa
tipologia di tombe, prodotto dallo scavo accurato di tre strutture sepolcrali a
Roca Vecchia (Melendugno, LE), ne spiega e rivela il preciso funzionamento
sulla base dell’osservazione accurata della dislocazione delle ossa all’interno
del deposito stratigrafico interno. Fabbri F., Sepolture primarie, secondarie
e ossari: esempi dal cimitero medievale di Roca Vecchia (Lecce). Rivista di
Antropologia 2001; 79: 113-136.
Mi riferisco in particolare agli scritti del già citato Alfonso Maria de’ Liguori
(1696-1787). Cfr. op. cit. nota 18.
Il termine “tanatometamòrfosi” è stato proposto da Adriano Favole e Francesco Remotti per indicare la trasformazione intenzionale dei cadaveri messa in
pratica dalle società umane. Favole A., Resti di Umanità. Vita sociale del
corpo dopo la morte. Laterza 2003. Remotti F., Tanato-metamòrfosi. In:
Remotti F. (a cura di), Morte e Trasformazione dei Corpi. Milano, Mondadori, 2006, pp. 1-34.
Hertz R., op. cit. nota 7, p. 65.
Rakita G.F.M., Buikstra J. E., Corrupting Flesh. Reexamining Hertz’s
Perspective on Mummification and Cremation. In: Interacting with the Dead.
Gordon F. M Rakita, Jane E. Buikstra, Lane A. Beck and
Sloan R. Williams (edited by), Perspectives on Mortuary Archaeology
for the New Millenium. University Press of Florida 2005, pp. 97-106.
Pardo I., L’elaborazione del lutto in un quartiere tradizionale di Napoli.
Rassegna italiana di Sociologia 1982, 4: 335-369.
Correspondence should be addressed to:
Antonio Fornaciari, via Dell’Aquila 8, 55049 Torre del Lago Puccini (LU), I.
e-mail: [email protected]
238
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 239-250
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
LE MUMMIE EGIZIE COME MANUFATTI ANTROPOLOGICI
Giovanni Bergamini
Soprintendenza ai Beni Archeologici del Piemonte
e del Museo Egizio di Torino, Torino, I.
SUMMARY
EGYPTIAN MUMMIES AS ANTHROPOLOGICAL ARTIFACTS
Ancient human remains like Egyptian mummified bodies cannot be
considered on a physical anthropological perspective only. So severe
and invasive were the operations on the body, so various were the
materials involved in the preservation techniques, so complicated was the
embalming and wrapping procedure according to specific rituals, that the
final result, the mummy, is to be considered a highly composite product.
The human remains are a relevant part of it indeed, but a very wide set
of information can be taken also from the other components, relating
to environment, resources, technology, religious beliefs, cultural and
technical traditions, skills and arts at the time of the individual’s life. That
a plain anthropological approach could not be exhaustive on cataloguing
such a kind of archaeological finds emerged during the sessions of the
scientific board charged by the Italian ICCD of defining a data track for
filing anthropological remains as a special kind of cultural heritage.
Quando, agli inizi degli anni 2000, l’ICCD decise di redigere il
tracciato per una nuova scheda AT- Reperti Antropologici, chiamò
a collaborare – tra le altre istituzioni – anche l’allora Soprintendenza
Speciale al Museo delle Antichità Egizie di Torino. Questo non soltanto per via dell’attività già svolta1 e in corso2 da parte dell’istituzione torinese nell’ambito della conservazione e della diagnostica
Key words: mummies - anthropology - ICCD
239
Giovanni Bergamini
sui reperti mummificati, umani ed animali, ma anche perché la collezione del Museo Egizio poteva costituire un banco di prova ottimale
per una nuova sperimentazione catalografica nel settore.
Chi scrive era all’epoca responsabile dell’Ufficio Catalogo della
Soprintendenza, e fu designato a far parte del gruppo di lavoro che
avrebbe redatto il nuovo tracciato e la normativa di compilazione della scheda3.
Tra antropologia e archeologia
Gli orientamenti iniziali del gruppo di lavoro – suggeriti soprattutto
dai colleghi antropologi, naturali promotori dell’iniziativa di concerto con l’ICCD – prevedevano un tipo di scheda, corredata da osservazioni tafonomiche di base, in cui il bene antropologico doveva essere
descritto secondo variabili riconducibili in massima parte ai principi
dell’antropologia fisica. L’interesse prevalente era quello di creare
una base dati in cui avessero particolare rilievo le informazioni derivate da ricerche paleopatologiche e fisiche sulle popolazioni antiche.
Eventuali più complesse relazioni con il contesto archeologico dovevano essere espresse tramite i classici riferimenti (verticali e orizzontali, ROV e ROZ) già presenti in altri tracciati delle schede ICCD.
Questo tipo di approccio era comunque condiviso dai colleghi delle
Soprintendenze sul territorio, in quanto risultava pienamente funzionale a una schedatura di beni antropologici afferenti al territorio
italiano, anche di provenienza di scavo.
Tuttavia, man mano che il gruppo di lavoro procedeva nella disamina
delle varie problematiche e nella definizione delle variabili descrittive, il metodo non si rivelò totalmente adeguato ed esaustivo, soprattutto nel caso di situazioni documentarie particolari e più complesse.
Le mummie egizie: oltre l’antropologia fisica
I reperti antropologici mummificati artificialmente, soprattutto quelli
egizi, rappresentano una vera e propria borderline, in cui man mano
240
Le mummie egizie come manufatti antropologici
che si procede all’analisi delle informazioni e alla loro descrizione
risulta sempre più difficile distinguere in modo netto tra dato antropologico e dato archeologico.
In un’ottica prettamente catalografica, ci troviamo in realtà di fronte
a una tipologia di beni simile a quella che le norme ICCD in ambito
artistico (OA) e archeologico (RA) definiscono “oggetti complessi”.
Si tratta di veri e propri manufatti a sé stanti e in sé conclusi, in cui il
resto umano non è che uno dei materiali componenti il prodotto finito.
Nei “normali” contesti dell’archeologia funeraria molto di ciò che
può essere documentato circa la manipolazione post-mortem sembra
limitarsi in genere al tipo di posizionamento del corpo all’atto dell’inumazione, costituendo così uno dei principali marcatori tafonomici.
Gli interventi sugli inumati nel mondo egizio sono invece ben più
variati e consistenti; alcuni di essi sono fortemente invasivi e distruttivi, e tutti seguono modalità di volta in volta diverse, che a loro
volta rispecchiano ritualità e tecniche evolutesi nei secoli4. Il bene
antropologico diventa a sua volta un prodotto culturale composito,
ben identificabile e tracciabile nel proprio orizzonte storico.
I contesti: oltre il corredo
Mentre nell’ambito di una situazione tafonomica consueta ai contesti territoriali italiani un trattamento dei dati distinto tra reperto
antropologico e corredo archeologico non nuoce di massima alla generale comprensione dell’insieme, in contesti egizi è problematico
definire un preciso confine concettuale tra le due categorie documentarie, e di conseguenza è più difficile attuare una esatta correlazione
tra classi di informazioni che nel caso risultano invece non contigue
ma strettamente interconnesse tra loro.
Data la particolare natura composita del manufatto-mummia, che
cosa s’intende per ciò che normalmente verrebbe definito abbigliamento del defunto, e corredo funerario? Qual è il confine tra tali
differenti realtà documentarie?
241
Giovanni Bergamini
Per esempio, non vi è dubbio che il complesso sistema di fasciatura
con bende di lino non può essere ovviamente assimilato a tutto ciò
che è riconducibile al termine abbigliamento in altri contesti. Nulla a
che vedere con ciò che il defunto poteva aver indossato in vita, anche
come simbolo di rango o di funzione sociale.
La finalità -esclusivamente antisettica- della fasciatura risponde a istanze del tutto diverse, e attiene strettamente alla preparazione del corpo.
La stessa eventuale presenza di piccoli oggetti tra le bende o perfino
a diretto contatto della salma – per esempio l’occhio ujat poggiato di
norma sull’incisione addominale, oppure il noto “scarabeo del cuore” frequente a partire dalla XVIII dinastia – attiene all’aspetto più
strettamente magico-rituale di un procedimento conservativo assai
complesso, nell’ambito di una pratica in sé conclusa ma soprattutto
separata dal rito, susseguente, della sepoltura. Quest’ultima prevede invece l’apposizione di ciò che nella prassi catalografica abituale
può essere definito correttamente come il corredo vero e proprio.
Il fatto che gli egittologi odierni siano sempre più restii a consentire
la sfasciatura delle mummie, prassi che talvolta è stata seguita ancora nel secolo scorso5, non è dovuto soltanto alla disponibilità di
nuove tecnologie che permettono indagini non invasive impensabili
sino a pochi decenni fa, ma anche alla consapevolezza che la mummia dev’essere conservata nella sua integrità in quanto manufatto
complesso, polimaterico e polimorfico.
Il tracciato della scheda
Proprio per tutte queste ragioni, nella redazione del tracciato catalografico si è fatto in modo di tenere organicamente correlate le serie
di informazioni relative al complesso procedimento di preparazione
e manipolazione. Come si può vedere dall’estratto dal tracciato della
scheda ICCD che segue, è stato previsto un percorso informativo
particolare per quanto attiene ai reperti mummificati/imbalsamati:
il campo “preparazione”, e i sottocampi “manipolazione”, “inter242
Le mummie egizie come manufatti antropologici
venti”, “fasciatura”, “elementi di corredo individuati nell’analisi
antropologica”, tutti ripetitivi, permettono infatti di rendere immediatamente evidenti al redattore e al fruitore della scheda una serie
di informazioni di tipo archeologico che, nel caso, potranno essere
approfondite tramite la redazione di apposite scheda RA, ma che
rimangono richiamate in tali paragrafi in modo non dispersivo.
Dal tracciato ICCD:
DA
NIA
DATI ANALITICI
NUMERO INDIVIDUI ATTESTATI
NIAN
Numero
DES
DESO
DRS
NSC
DRZ
SRC
DESCRIZIONE
Descrizione analitica
Sintesi interpretativa
Notizie storico-critiche
Specifiche sulle relazioni
REPERTI COMBUSTI/
PARZIALMENTE COMBUSTI
NIAC
SRCN
SRCP
SRCC
SRCS
SRM
SRMT
SRMC
SRMS
Lung
10
Criteri
Stato dei frammenti
1000
5000
5000
5000
5000
Rip
Obbl.
*
(*)
(*)
*
*
10
Peso
Cromatismo dominante
Specifiche
REPERTI MUMMIFICATI/
IMBALSAMATI
Tipo di conservazione
20
250
1000
50
Specifiche
1000
Contesto ambientale conservativo
si
250
si
STS
STIMA DEL SESSO
Sesso
20
(*)
STSC
SEM
SEME
SEMC
Criteri
STIMA DELL’ETÀ ALLA MORTE
Età
Criteri
1000
(*)
10
1000
(*)
(*)
STSS
Voc
243
si
Giovanni Bergamini
PR
PREPARAZIONE
PRME
PRMP
PRMN
PRR
Elemento
Posizione
Note
Apposizione oggetti rituali a contatto
100
100
5000
5000
PRIP
PRIT
PRIS
PRIN
Posizione
Tipo intervento
Specifiche
Note
PRA
PRT
Trattamenti anomali
Trattamenti cosmetici
100
100
5000
5000
1000
1000
1000
PRM
PRI
PRP
PRF
PRFP
PRFT
PRFL
PRFA
PRFI
PRFM
PRFC
PRFN
PRO
PROD
PROP
PROS
PRON
MANIPOLAZIONE
INTERVENTI
Trattamenti parti esterne
FASCIATURA
Posizione
Tipo
Lunghezza
Larghezza
Inclusi
Disposizione
Condizioni di conservazione
Note
ELEMENTI DI CORREDO
INDIVIDUATI
NELL’ANALISI ANTROPOLOGICA
Definizione
Posizione
Specifiche
Note
100
100
10
10
150
100
1000
5000
si
si
si
si
si
si
si
si
si
si
si
si
100
100
1000
5000
La preparazione
Non a caso, nella normativa per la compilazione della scheda è
specificato che “la puntuale descrizione delle procedure di preparazione è fondamentale per l’inquadramento storico-culturale del
bene”. Come già accennato, tecniche e modalità di preparazione
nell’antico Egitto variano di epoca in epoca, secondo quanto sarà
244
Le mummie egizie come manufatti antropologici
descritto dai brevi cenni che seguono. Ovviamente, varianti ed eccezioni alle consuetudini dominanti nel singolo periodo sono ampiamente contemplate, e dipendono da situazioni locali e specificità
culturali e sociali.
Il posizionamento
Per quanto concerne il posizionamento del corpo, la giacitura rannicchiata, già attestata in epoca predinastica, si mantiene di norma
fino alla fine dell’Antico Regno e perdura, soprattutto in zone periferiche, sino al Primo periodo intermedio. Con l’avvento del Nuovo
Regno prevale il decubito dorsale che si manterrà sino ad età greco-romana, con varianti nella posizione delle braccia e delle mani:
fino alla XVIII dinastia prevalentemente lungo i fianchi, palmi verso
l’interno, per gli inumati femminili, incrociate sul pube per quelli
maschili. A partire dalla XVIII dinastia, fino alla XX s’impone la
tradizionale posizione osiriaca, che per ambo i sessi prevede braccia
incrociate sul petto, con mani presso le spalle. Dalla XXI dinastia si
ritorna alla tradizione precedente6.
Interventi distruttivi, ricostruttivi, conservativi, cosmetici
La XVIII dinastia (quella, gloriosa, dei Thutmosidi e degli Amenofi,
della prima metà del II millennio a.C.) si rivela innovativa anche in
questo settore: l’ablazione dell’encefalo tramite sfondamento della
lamina cribrosa dell’etmoide, rottura della lamina perpendicolare etmoidea e smembramento del tentorio cerebellare, diventa ormai la
norma. L’operazione ha uno scopo assolutamente pratico: il cervello
non era ritenuto organo vitale, era però tassativo estrarlo per accelerare la disidratazione del capo, ma avendo cura di mantenere il
più possibile inalterata la fisionomia dell’individuo; la cavità cranica
viene talvolta riempita con frustuli di lino. La prima mummia regale
trattata a questo modo è quella di Ahmose I, non a caso il primo regnante della dinastia.
245
Giovanni Bergamini
In questa stessa epoca, probabilmente grazie allo sviluppo di strumenti chirurgici più sofisticati7, all’incisione sul lato sinistro dell’addome si va sostituendo quella inguinale, attraverso la quale si riesce
ora ad estrarre gli organi interni e, tramite il taglio del diaframma, i
polmoni e i grossi vasi. L’organo cardiaco viene disidratato e mummificato separatamente per poi essere ricollocato nella cavità toracica. I vasi canopi, rappresentanti i quattro figli di Horus (simbolo
di vita e di protezione divina), custodiscono gli altri organi ablati: il
fegato (Amset), i polmoni (Hapi), lo stomaco (Duamutef) e gli altri
visceri (Kebehsenuef). Soltanto a partire dalla fine del II millennio
tali organi, sottoposti a trattamento analogo a quello del cuore, cominciarono ad esser ricollocati nella cavità toracica e addominale;
nei tempi tardi, cioè nel pieno I millennio a.C., secondo nuove varianti del rituale funerario, poterono anche essere accostati agli arti
inferiori, tra le bende della prima e la seconda fasciatura.
Al termine del lungo procedimento di disidratazione, condotto probabilmente a secco con natron8, una miscela naturale di sali di carbonato, bicarbonato, cloruro e solfato di sodio, s’imponevano interventi di parziale reidratazione dei tessuti, effettuati con olii vegetali
e animali, e resine9; il trattamento delle cavità prevedeva, tra l’altro,
anche l’inoculazione di sostanze viscose calde nel cranio, oltre al
riempimento di torace e addome con materiali vari, tessili e vegetali10, per ricostituire le originarie volumetrie. Gli stessi materiali furono spesso usati per ridare dignità morfologica a fianchi, seni, glutei
e altre parti anatomiche. In alcuni casi, per le stesse ragioni e sempre
a partire dalla XVIII dinastia, furono inserite tamponature di natron
sotto la cute nel caso di un’eccessiva riduzione delle masse muscolari degli arti (Amenhotep II): la pratica ebbe seguito poi nelle dinastie
XXI-XXII. Tra gli interventi integrativi più curiosi si segnala l’apposizione di bulbi di Allium cepa nelle cavità orbitali della mummia
di Ramesse IV, al posto degli usuali dischi di faïence11: il fatto che
sezioni di tuniche di Allium cepa fossero inserite anche nelle cavità
246
Le mummie egizie come manufatti antropologici
nasali è pertinente probabilmente alla conoscenza delle particolari
proprietà chimiche e organolettiche di questo bulbo.
Tra i trattamenti più specificatamente cosmetici, era frequente la colorazione di viso e mani con ocra rossa per i maschi, gialla per le
femmine. L’henné (un pigmento fulvo-brunastro estratto dalle foglie
disseccate di Lawsonia inermis), come in vita, era applicato ai capelli; infine, molte mummie regali e di dignitari presentano unghie
ricoperte di vernice dorata.
Tali trattamenti estetici sono in qualche modo assimilabili a ciò che
normalmente attiene alla volontà di conferire all’individuo l’aspetto e
la dignità che lo contrassegnava in vita. Ma la complessa operazione
di preparazione del corpo, dettata da regole molto precise, giunte fino
a noi in redazione scritta su alcuni papiri12, può comprendere oggetti
rituali specifici dell’imbalsamazione, come particolari tipi di amuleti apposti tra le bende, e insieme elementi dell’abbigliamento come
anelli, bracciali, collane o pettorali, simili a quelli rappresentati nelle
arti figurative, e che erano indossati in vita. Questa ulteriore frammistione di elementi di diversa origine e funzione non fa che accentuare
il carattere composito di questa particolare classe di beni culturali. La
confezione della mummia, dal Nuovo Regno in poi, si concludeva,
dopo l’ultima fasciatura, con la sistemazione della “corazza magica”,
la classica reticella di tubuli in faïence e pasta vitrea, in funzione apotropaica, e della maschera funeraria, quando prevista13.
Conclusioni
Il corpo, chimicamente sterilizzato e sacralmente purificato, era ormai pronto per il viaggio verso l’eterno; uno o più sarcofagi avrebbero difeso ulteriormente la sua integrità, mentre il corredo di oggetti,
cibi e bevande ne avrebbe reso possibile la vita oltre la morte.
Ma ciò che l’Egitto avrebbe consegnato alla nostra memoria e alla
nostra scienza non sarebbe stato solo un mero reperto antropologico,
ma un autentico microcosmo che comprende non soltanto l’indivi247
Giovanni Bergamini
duo inumato, le sue caratteristiche fisiche, le sue eventuali patologie,
il suo ruolo sociale, ma anche l’ambiente naturale, le risorse, le tecniche di produzione, le concezioni magico-religiose, le tradizioni e il
gusto del tempo in cui visse. In sostanza, uno straordinario insieme
di dati da correlare tra loro in un organico contesto catalografico,
ineludibile punto di partenza per ricerche interdisciplinari, finalizzate ad una conoscenza sempre più approfondita di questo particolare
“oggetto complesso”, che si rivela un vero e proprio spaccato del
mondo in cui ha vissuto e che l’ha prodotto.
Bibliografia e note
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BIFAO Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, Le Caire.
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JNES
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248
Le mummie egizie come manufatti antropologici
3.
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5.
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250
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 251-266
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
I reperti umani antichi nei musei: ricerca,
conservazione e comunicazione. Le esperienze
del Museo di Antropologia ed Etnografia
dell’Università di Torino.
Rosa Boano°, Renato Grilletto*, Emma Rabino Massa° *
°Università di Torino, Dipartimento di Scienza della Vita e Biologia dei Sistemi.
Laboratorio di Antropologia, Torino, I.
*
Museo di Antropologia ed Etnografia, Università di Torino, Torino, I.
Summary
HUMAN REMAINS IN MUSEUMS: RESEARCH, PRESERVATION AND
COMMUNICATION. THE EXPERIENCE OF TURIN UNIVERSITY MUSEUM
OF ANTHROPOLOGY AND ETNOGRAPHY
The creation of large scientific collections has been an important
development for anthropological and paleopathological research. Indeed the
biological collections are irreplaceable reference systems for the biological
reconstruction of past population. They also assume the important role of
anthropological archives and, in the global description of man, permit the
integration of historical data with those from bio-anthropolgical research.
Thinking about the role of mummies and bones as scientific resources, best
practice of preservation of ancient specimens should be of high priority for
institution and researchers.
By way of example, the authors mention their experience regarding ancient
human remains preserved in the Museum of Anthropology and Ethnography
at the University of Turin.
Key words: Paleopathology - Human remains - Museum collection
251
Rosa Boano et al.
I reperti umani antichi nei Musei: Archivio Antropologico e Beni
Culturali
In antropologia fisica la diffusione del concetto di “collezione” si
colloca tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando
Johan Friedric Blumenbach (1753-1840), medico e naturalista tedesco, autore di importanti testi che segnarono lo sviluppo dell’antropologia naturalistica, fu tra i primi a raccogliere dati antropometrici
e morfologici del cranio per classificare l’umanità.
Per giungere alla formulazione di considerazioni generali, occorreva
studiare raccolte di grandi dimensioni e, tra esse, quelle craniologiche occupavano un posto di primaria importanza; per più di un
secolo, il cervello, sede del pensiero, ed il cranio, suo contenitore,
furono gli “oggetti” privilegiati per l’analisi scientifica dell’uomo e
per lo studio comparativo dei diversi gruppi etnici, che all’epoca venivano spesso suddivisi in categorie gerarchiche. Negli anni si sono
accumulati numerosi reperti antropologici provenienti dalle dissezioni anatomiche eseguite soprattutto sui cadaveri non reclamati di
individui che morivano presso strutture ospedaliere o penali (malati
mentali, suicidi, carcerati). Risalgono ai primi decenni dell’Ottocento importanti collezioni craniologiche come quelle allestite da
Franz Joseph Gall (1758-1828), medico austriaco pioniere della
frenologia, da Samuel George Morton (1799-1851) professore di
anatomia americano, noto soprattutto per gli studi di craniometria e
da Paul Broca (1824-1880), medico e antropologo francese1. Tra gli
esempi italiani, vogliamo citare la collezione craniologica di Cesare
Lombroso (1835-1909), custodita presso l’omonimo Museo dell’Università di Torino, messa insieme nella seconda metà dell’Ottocento; Lombroso, medico dedito agli studi di antropologia criminale,
nelle sue ricerche affrontò argomenti delicati, ancora oggi oggetto di
dibattito, come l’eugenetica, il razzismo, la malattia mentale, il concetto di devianza2. Continuando con i riferimenti torinesi, il Museo
252
I reperti umani antichi nei musei
di Antropologia ed Etnografia custodisce un’interessante collezione
cranio-cerebrologica di alienati mentali raccolta tra il XIX e il XX
secolo da Antonio Marro (1840-1913), medico psichiatra, e Giovanni
Marro (1875-1952), medico psichiatra ed antropologo, fondatore e
primo direttore del Museo. In particolare, Giovanni Marro, direttore
del Laboratorio neuro-patologico e di quello anatomico del Regio
Manicomio di Torino, libero docente di clinica psichiatrica nella
Regia Università, Senatore del Regno per meriti accademici, compì
numerosi studi psichiatrici su individui affetti dalle varie forme di
alienazione mentale dei quali conservò il cranio e, in alcuni casi,
l’encefalo. Le problematiche proposte dal Marro rivestono ancora
oggi caratteri di attualità, anche se poste in maniera differente.
Queste raccolte selettive rispecchiano l’interesse e le competenze
scientifiche dei loro collezionisti e non di rado il contesto ideologico del periodo di appartenenza legava molti scienziati a presupposti
che inducevano ad una visione degli aspetti antropologici diversa da
quella che oggi consideriamo corretta.
Agli inizi del Novecento, viene ulteriormente sviluppato il collezionismo di reperti secondo modelli di raccolta sistematica, consentendo, così, studi più approfonditi grazie alla maggiore completezza del
materiale. Appartengono a questo periodo le grandi collezioni, soprattutto americane, costituite da migliaia di scheletri completi la cui
importanza risiede non solo nella quantità dei reperti ma anche nella
qualità e nella tipologia della documentazione associata: i dati anagrafici completi dell’individuo, le informazioni mediche ante mortem, le analisi cliniche, i dati provenienti dall’autopsia, i trattamenti
subìti durante la preparazione delle ossa. Dall’analisi di questo materiale si sono dedotti i principi scientifici oggi alla base dei metodi
utilizzati dagli antropologi forensi per l’identificazione di scheletri
sconosciuti. Tra queste collezioni ricordiamo quelle che ancora oggi
sono un riferimento negli studi antropologici come la collezione di
Carl August Hamann e T. Wingate Todd, quella di Robert J. Terry.
253
Rosa Boano et al.
Sotto la spinta di questi rinnovati interessi verso l’osservazione,
la misura, la statistica, la demografia, lo studio delle malattie e
del rapporto con l’ambiente, le raccolte disseminate negli Istituti e
Laboratori scientifici vengono rese disponibili in strutture attrezzate
per la loro conservazione e fruizione.
A seguito di queste premesse si afferma e si sviluppa sempre di più
l’interesse verso i reperti umani antichi e le collezioni archeologiche.
In questo periodo, sotto la direzione del Prof. Giovanni Marro, il
Museo di Antropologia ed Etnografia di Torino si arricchisce di collezioni antropologiche complete provenienti da diversi contesti archeologici, in particolare, dall’Egitto. Nel 1912, su richiesta dell’egittologo Ernesto Schiaparelli (1856-1928), Marro si unisce alla
Missione Archeologica Italiana in Egitto. La sua partecipazione agli
scavi si inserisce bene in una nuova concezione dell’antropologia,
che si basa sia sul concetto di “serie” sia sulla relazione tra l’uomo
e il suo ambiente. E’ dunque in questa nuova prospettiva di classificazione dell’antica popolazione egiziana ma anche con l’intento di
interpretarne la variabilità fisica, che Marro ha intrapreso l’opera di
raccolta di scheletri completi: le misure dei distretti ossei non rappresentano più elementi di classificazione ma diventano buoni indicatori
dei processi di adattamento. Egli riuscì a mettere insieme una cospicua collezione di resti umani scheletrici e mummificati, realizzando
diversi studi antropologici che lo portarono a comparare le popolazioni egiziane antiche con le attuali, non solo relativamente alla sfera
morfologica ma anche a quella etnologica e comportamentale. Sulla
base di questa esperienza, nella seconda metà del Novecento, nasce
a Torino una scuola di antropologia e paleopatologia in grado di richiamare studiosi di fama internazionale. La possibilità di analizzare
reperti umani antichi eccezionalmente ben conservati negli aspetti
strutturali, ultrastrutturali, genetici e molecolari, ha reso possibile
la messa in opera di un ampio programma di ricerche antropologiche, paleobiologiche e paleopatologiche che indirizzarono la scuola
254
I reperti umani antichi nei musei
torinese verso gli studi sulla biologia delle popolazioni antiche, con
particolare interesse per gli egiziani antichi. Nel 1969 a Torino venne organizzato il primo Simposio Internazionale “Population biology of the ancient Egyptian”3. Nel 1978 il ruolo importante della
scuola torinese è ulteriormente sottolineato dall’organizzazione del
II Simposio della European Paleopathological Association4. In questi anni furono avviati diversi progetti di ricerca internazionali che
aumentarono il valore storico e scientifico della collezione ed incentivarono lo sviluppo delle discipline correlate.
Le raccolte anatomiche ed archeologiche realizzate tra l’Ottocento ed
il Novecento nascono, quindi, come insostituibili strumenti di didattica e di ricerca che hanno contribuito, nel corso degli anni, a stimolare il dialogo interculturale sul tema dell’uomo, la sua natura, il suo
adattamento. Non di rado esse rappresentano il nucleo storico attorno
al quale si sono organizzati i gabinetti scientifici, gli Istituti e i musei universitari dell’epoca. Grazie a queste collezioni, alcune materie
come l’osteologia umana, l’antropologia forense e la paleopatologia,
hanno avuto grandi opportunità di crescita e di affermazione nell’ambito delle più tradizionali discipline scientifiche.
Ormai da diversi decenni, i resti biologici umani antichi sono a tutti
gli effetti considerati archivio biologico di informazioni indispensabili ai fini dello studio “naturalistico” dell’uomo; essi non esprimono
solo un’eredità del passato da custodire e mostrare ma rappresentano
un elemento chiave per il presente e il futuro della ricerca antropologica e paleopatologica, ora sempre più indirizzata allo studio delle
popolazioni in senso diacronico.
A partire dal 2004 le collezioni scientifiche, tra cui anche quelle di
interesse antropologico come le collezioni anatomiche, paleontologiche ed etnografiche, hanno assunto il ruolo di “Beni Culturali”
e le istituzioni consegnatarie, in virtù del loro mandato di custodi
delle collezioni, hanno obblighi di tutela regolamentati dal Codice
dei Beni Culturali e del Paesaggio (Decreto Legislativo 22 gennaio
255
Rosa Boano et al.
2004, n.42), anche noto come “Codice Urbani”. Il documento contiene indicazioni specifiche su temi di legislazione, gestione, ricerca,
fruizione e salvaguardia delle raccolte. Il Codice dei Beni Culturali
costituisce, quindi, un autorevole strumento atto alla tutela e alla valorizzazione dei reperti e dei Musei che li custodiscono.
Nel 2005, in sintonia con le indicazioni fornite dagli standard minimi
di funzionamento e di sviluppo dei musei della Regione Piemonte,
il Museo di Antropologia ed Etnografia ha attivato il Laboratorio
per la “Gestione dell’Archivio Antropologico” le cui attività hanno
lo scopo di coordinare, facilitare e condurre la ricerca scientifica e
le operazioni di conservazione e tutela sui reperti museali e sulle
raccolte osteologiche provenienti da recenti scavi archeologici piemontesi, qui in deposito.
Ricerca, conservazione e comunicazione
L’introduzione del Codice dei Beni Culturali, preceduta nel 2002
dall’emanazione dall’ “Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici
e sugli standard minimi di funzionamento e di sviluppo dei musei”,
ha diffuso una maggiore considerazione e presa di coscienza nei
confronti del valore intrinseco ed estrinseco delle collezioni antropologiche. Nella prospettiva di una più ampia e articolata visione di tutela del bene antropologico, il Museo di Antropologia ed Etnografia,
come molti musei scientifici, opera in tre principali ambiti: ricerca,
conservazione e comunicazione.
La ricerca
Si è detto come l’arrivo della raccolta antropologica egizia a Torino
abbia fornito un’opportunità di affermazione per la Paleopatologia torinese. La disciplina si stava diffondendo proprio in questi primi anni
del Novecento grazie agli studi di Sir Marc Armand Ruffer (18591917) medico inglese che partecipò anch’egli a campagne di scavo
in Egitto. A lui si deve l’idea di dimostrare le malattie del passato, un
256
I reperti umani antichi nei musei
concetto rigorosamente da anatomo-patologo, perché è proprio nella
necessità di documentare aspetti morfologici e dimostrare la natura
patologica che consiste l’essenza del procedimento diagnostico5. Con
gli stessi intenti, Marro, fin da subito mise in atto un programma di
studi paleobiologici e a lui si devono le prime descrizioni mediche,
antropologiche e paleopatologiche sulla collezione6. Nell’arco di circa quarant’anni di ricerca sui reperti antichi, Marro passa dall’esame
descrittivo e documentaristico del singolo individuo ad uno studio dinamico dell’evoluzione delle malattie nella popolazione, precorrendo
le tematiche che saranno proprie della Paleopatologia delle seconda metà del Novecento7. Nel tempo, infatti, gli studi paleopatologici
assumono sempre più una caratteristica di multidisciplinarietà dove
l’interesse medico-antropologico si sposta dal caso studio descritto
sul singolo individuo alla malattia, alla sua evoluzione nel tempo, al
suo rapporto con la popolazione e con l’ambiente8.
L’ottimo stato di conservazione del materiale biologico e la presenza
oltre alle ossa anche di tessuti mummificati naturalmente ed imbalsamati9,10, ha dato avvio ad una serie di indagini istologiche che
permisero non solo di identificare gli elementi figurati del sangue e
giungere alla caratterizzazione dei diversi gruppi sanguigni11,12, ma
anche di effettuare lo studio della biochimica delle globine, contribuendo a risolvere il problema della presenza o meno di emoglobinopatie, del tipo di quelle responsabili della talassemia e della falcemia, presso le antiche popolazioni egiziane13. La presenza di tessuti
con caratteristiche strutturali ben conservate, motivò ulteriori studi
istologici che portarono, tra l’altro, all’identificazione di patologie
degenerative come l’arteriosclerosi14 .
Alle indagini microscopiche e molecolari si sono da sempre affiancati studi più tradizionali di antropologia, antropometria e patologia con particolare attenzione verso le malformazioni congenite e le
patologie dello sviluppo, tematiche di grande rilevanza sociale che
necessitano di un archivio di dati biologici per essere comprese pie257
Rosa Boano et al.
namente15,16,17,18,19. Oggi, la ricerca paleopatologica utilizza sofisticate strumentazioni diagnostiche non invasive, come la tomografia
computerizzata, che garantiscono l’accesso a numerosi dati biologici20,21,22,23, in passato acquisibili solo tramite autopsie distruttive.
Questa nuova tendenza dimostra come stia diventando sempre più
importante un approccio “etico” allo studio dei reperti antichi che
tenga in considerazione prima di tutto l’integrità del reperto poiché
nessun risultato scientifico può compensare la perdita di un unicum
biologico.
Attualmente, le aree di investigazione e di intervento sulle collezioni
del museo di Antropologia ed Etnografia sono molto varie e contemplano aspetti di tutela e conservazione, indagini bio-naturalistiche e
approfondimenti storico-culturali. Sempre più frequentemente, secondo una più moderna concezione di Museo, ciascun reperto viene
studiato e conservato come parte di un complesso inscindibile di Beni
Culturali rappresentato anche dai documenti associati (manoscritti,
carteggi, cartelle mediche, fondi archivistici, fotografici e librari),
dagli strumenti utilizzati per l’attività di studio e di didattica, dagli
arredi e quant’altro possa contribuire a contestualizzare le raccolte
in ambito non solo scientifico ma anche storico24. Pertanto, in questa
tendenza generalizzata volta a valorizzare l’”oggetto” unitamente al
suo contesto, il significato culturale offerto dai reperti antropologici
va oltre ai dati strettamente bio-naturalistici per includere anche nozioni di storia della disciplina e dei personaggi, informazioni relative
all’evoluzione delle tecniche di raccolta e conservazione, di ricerca
e di archiviazione, per giungere ad interessanti intersezioni con la
storia e la politica locale, in una visione più estesa ed inclusiva del
sapere scientifico ed umanistico.
La conservazione
Le collezioni museali oltre a rappresentare un archivio biologico
unico per le informazioni contenute, conservano anche campioni di
258
I reperti umani antichi nei musei
notevole valore storico, che attualmente sono impossibili da ricostituire. L’indagine di questi reperti può risultare molto importante
soprattutto se condotta con i metodi e le tecniche di ricerca più innovative come quelli dell’antropologia molecolare. Ciò ha evidenziato
la necessità di tener conto di nuove esigenze di conservazione in
grado di garantire il mantenimento delle caratteristiche biologiche.
In questa prospettiva, e in considerazione delle eccezionali possibilità di studio offerte dalla collezione egizia, a partire dagli anni
Ottanta del secolo scorso, il Museo di Antropologia ed Etnografia ha
avviato un programma di ricerca volto alla valutazione dello stato di
conservazione delle mummie e allo studio degli aspetti di degrado
che possono presentarsi in ambito museale. Lo scopo finale è quello di giungere a una pianificata e programmata gestione del reperto
che preveda processi primari, per rilevare e valutare le caratteristiche
biologiche, e processi secondari, che mirino a mettere in atto sistemi
di tutela per l’adeguata conservazione nel tempo.
I processi primari prevedono valutazioni macroscopiche e microscopiche delle superfici esposte, la realizzazione di eventuali biopsie,
minimamente invasive, in punti di frattura preesistenti, indagini istologiche e microbiologiche atte a verificare non solo la presenza e
l’estensione di eventuali contaminazioni da parte di colonie fungine
o batteriche ma anche la vitalità delle stesse, oltre alla presenza di
particolato atmosferico e altri elementi inquinanti25, 26, 27, 28. Lo studio
puntuale di agenti infestanti assume poi un significato rilevante per
la scelta di appropriati interventi secondari sui reperti o sull’ambiente confinato. Per quanto riguarda gli interventi sui reperti, ricordiamo
l’idonea pulitura delle superfici, la disinfestazione e il consolidamento, in relazione alle singole necessità, alle caratteristiche biologiche
del reperto, alle esigenze espositive e di ricerca. Per gli interventi
sull’ambiente confinato è bene ricordare l’uso di adeguate coperture
a protezione dalle polveri e dai raggi ultravioletti (dall’impiego di
fogli di carta velina alla collocazione del reperto all’interno di teche
259
Rosa Boano et al.
e armadi idonei) e la predisposizione di impianti di condizionamento
dell’aria per il controllo della temperatura e dell’umidità29. La definizione di protocolli operativi per la verifica delle attività di conservazione del “bene antropologico” nel Museo può rappresentare un
requisito di garanzia e promozione della qualità della ricerca oltre
che uno strumento di auto-valutazione utilizzabile per strutturare e
gestire al meglio le risorse.
La comunicazione
Negli anni, i musei scientifici sono passati da luoghi di conservazione
e celebrazione della scienza e del progresso a strutture con un ruolo
sociale, intese a promuovere la comunicazione tra scienza e società,
attraverso una divulgazione coinvolgente, critica e storicamente neutrale. Oggi, essi rappresentano luoghi privilegiati sia per la diffusione
della cultura scientifica agli specialisti e al pubblico e sia per la promozione del rispetto e della comprensione tra le differenti culture.
In questa prospettiva di dialogo vogliamo qui soffermarci brevemente
sul tema particolarmente sensibile dell’esposizione dei corpi nei Musei,
argomento in grado di scatenare tra il pubblico reazioni molto diverse
come la paura, la repulsione o l’attrazione. Come già detto precedentemente, il reperto umano antico, se correttamente indagato, è portatore
di informazioni molto utili per capire la natura biologica e culturale
dell’Uomo; queste conoscenze, trasmesse con messaggi oggettivi e rispettosi del corpo e della memoria dell’individuo, possono diventare
un elemento peculiare della moderna comunicazione museale. La letteratura fornisce alcuni esempi sui criteri più idonei per un’esposizione
eticamente corretta dei reperti umani nei musei. L’elemento caratterizzante è rappresentato dal fatto che non esiste la scelta giusta ma esistono tante soluzioni in rapporto al tipo di reperto e al luogo di esposizione. Si può decidere di coprire completamente i corpi o di mostrare
solo alcune parti (cranio, mani, piedi); si può creare una separazione,
più o meno netta, tra il corpo e il pubblico (utilizzo di teche o barriere);
260
I reperti umani antichi nei musei
possono essere realizzati spazi idonei ad accogliere i reperti secondo
modalità che richiamano aspetti di sacralità (spazi ristretti, uso della
penombra, invito al raccoglimento, assenza di testi scritti) ma anche di
purificazione e/o sterilizzazione, quasi a ricordare i luoghi ospedalieri e
di ricerca (ambienti ampi, uso ragionato dell’illuminazione, disposizione regolare dei corpi). Infine, molti musei scelgono di “accompagnare”
i reperti, soprattutto quelli mummificati, con immagini di diagnostica
medica come le radiografie o più frequentemente le tomografie computerizzate, presentando il reperto come un “soggetto” e non un oggetto
museale. Far vedere al pubblico l’uso di metodiche di studio non distruttive lo rassicura sul fatto che la scienza non è “invasiva” e che gli
scienziati hanno rispetto dei corpi e della morte30; contestualmente, le
immagini radiologiche, così familiari per molti di noi, sono in grado
di fornire quel “distacco emotivo” che rende accettabili visioni a volte
difficili da sopportare: esse possono quindi contribuire a far avvicinare
il pubblico al reperto umano senza che esso venga temuto o, peggio
ancora, considerato un diverso o un estraneo da temere.
Conclusioni
A partire dal XVIII secolo musei e altre istituzioni di ricerca raccolgono, mostrano e studiano i reperti umani antichi. Ancora oggi
essi sono oggetto di analisi multidisciplinare in cui l’archeologia,
la storia, la biologia, le scienze naturali, le scienze mediche e forensi, collaborano per affrontare problematiche molto complesse quali la variabilità, la microevoluzione, i meccanismi di adattamento
ambientale, la patocenosi. Recentemente, studi in campo istochimico, immunoistochimico e biomolecolare hanno dato ulteriore dimostrazione delle molteplici possibilità di analisi dei reperti in ambito
paleogenetico. In ultimo, la diagnostica per immagini ha aperto un
nuovo settore di studio rappresentato dalle “autopsie virtuali” che
permettono esplorazioni dettagliate dei corpi antichi senza arrecare
il minimo danno al reperto.
261
Rosa Boano et al.
Da queste premesse si evince che i resti umani hanno un inestimabile
valore scientifico e che le nostre conoscenze sul passato possono venire
continuamente riconsiderate alla luce delle nuove tecniche di indagine
applicate allo studio dei resti fisici. Tuttavia, affinché i reperti umani
continuino ad essere una risorsa scientifica per la comunità, essi richiedono una considerazione “speciale” nella fase dello studio in laboratorio, di deposito nei magazzini e di esposizione nei musei. In questa
prospettiva di rivalorizzazione delle collezioni antropologiche, i musei
di antropologia oltre a rivestire il ruolo di enti preposti alla salvaguardia
e alla tutela dell’archivio antropologico devono assumere una funzione
più dinamica diventando sedi di studio, di divulgazione culturale e luoghi preposti alla raccolta dei reperti provenienti dal territorio.
Se le collezioni antropologiche rappresentano uno stimolo per la ricerca scientifica e per lo sviluppo di un dialogo tra gli scienziati e
il pubblico è altrettanto vero che è l’interesse dei ricercatori e dei
visitatori che contribuisce a mantenere viva l’attività di studio e di
conservazione dei reperti umani.
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Correspondence should be addressed to:
Rosa Boano, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Scienza della Vita
e Biologia dei Sistemi. Laboratorio di Antropologia. Via Accademia Albertina 13,
10123 Torino [email protected]
265
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 267-294
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
LA RICERCA MEDICA ATTRAVERSO LA RICERCA
STORICA: MOSTRI E MOSTRUOSITÀ.
DI UNA MOSTRUOSITÀ PARASSITARIA FELICEMENTE
RISOLTA CON OPERAZIONE CHIRURGICA
Laura Ottini*, Annarita Franza^, Piera Rizzolo*
Mario Falchetti*, Raffaella Santi^, Gabriella Nesi^
*
Department of Molecular Medicine, “Sapienza” University of Rome, Rome, I
^
Division of Pathological Anatomy, University of Florence; Florence, I
SUMMARY
MEDICAL RESEARCH THROUGH HISTORICAL RESOURCES.
TALKING OBJECTS: A CASE OF A PARASITIC PERINEAL MONSTROSITY
A case of a parasitic perineal monstrosity from the collection of the
Pathology Museum of the University of Florence, is described on the basis
of the original medical records and illustrations.
The surgeon Giorgio Pellizzari (1814-1894) first reported this extraordinary
case of sacrococcygeal teratoma containing a rudimentary inferior limb.
Reader of Descriptive Anatomy, Pellizzari was a well-known Anatomy
Dissector and Curator of the Physiological Museum of the Regio Arcispedale
di Santa Maria Nuova in Florence.
This report underlines the importance of studying the archive material
in order to thoroughly comprehend a single museum talking object. This
handling of matters will help to turn anatomical collections into a unique
teaching tool for modern medical practice and a noteworthy documentation
of scientific, artistic and historical value. Through analysis of the original
catalogue and investigation by means of modern scientific techniques,
discovering the story behind the object becomes a feasible challenge.
Key words: Paleopathology - Pathological anatomy – Teratology - Historical
collections
267
Laura Ottini et al.
I “mostri” tra mito e storia nell’antica Grecia
Le anomalie corporee hanno sempre destato l’ammirazione degli uomini, fornendo materia a intendimenti diversi.
Nella tradizione greca la comparsa dei mostri viene per lo più interpretata come un evento nefasto. Il kosmos greco, infatti, esprime l’ordine dell’universo come bello e perfetto nello stesso tempo. Analogamente, l’idea del bello è inscindibilmente connessa
con l’idea del buono (kalòs kagathòs)1. In quest’ottica meglio si
comprende la consuetudine spartana di gettare dalla rupe i neonati
imperfetti, usanza che si riscontra anche in molte società primitive
e che sarà perpetrata fino al XVII secolo2.
Oltre ai mostri mitologici ed alle creature deformi, i Greci ne annoverano molte altre alle quali attribuiscono una reale esistenza
nelle regioni dell’India e nelle meravigliose terre d’Oriente. Tra
il V ed il IV secolo, Ctesia di Cnido, medico alla corte del re
di Persia Artaserse Memnone, compone una Storia dell’India, ad
oggi quasi interamente perduta. Ciò nonostante nei frammenti
pervenutici si ritrovano le descrizioni di popoli mostruosi come
i pigmei che combattono contro le gru; gli sciapodi, che possiedono un unico grande piede che permette loro sia di ripararsi dai
raggi del sole sia di saltellare agilmente (altri autori, successori
di Ctesia, li considerano Etiopi); i cinocefali, uomini semi-ferini
dalla testa di cane che abbaiano invece di parlare ed infine gli uomini senza testa con occhi posti sulle spalle, naso e bocca sul petto (di essi ancora parlerà un compagno di Magellano, sulle orme
dello spagnolo Pomponio Mela, identificandoli con i Blemmyes
dell’Alto Egitto)3. A dispetto del maggior rigore e precisione sul
piano geografico nella Storia dell’India di Megastene le credenze
già attestate da Ctesia si ritrovano nelle descrizioni di individui
mostruosi con i piedi rivolti verso la schiena (antipodi) oppure
privi della bocca (astomi)4.
268
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
I “mostri” di Aristotele
Nel 326 a.C. la conquista dell’India da parte di Alessandro Magno
contribuisce a fare chiarezza sulla fantasmagoria di creature portentose che ivi dimora. Nelle cronache degli storici a seguito della spedizione, infatti, si descrivono con precisione tanto gli ambienti naturali
quanto le popolazioni che in questi abitano. Dalle campagne d’Oriente, Aristotele commissiona l’invio di un gran numero di animali
presentanti anomalie strutturali per studiarne l’eziologia da un punto
di vista anatomico5. Questo approccio “scientifico” al problema dei
mostri riecheggerà in modo manifesto nel XVIII secolo nelle opere
di naturalisti del calibro di Georges-Louis Leclerc de Buffon (17071788)6. Come Empedocle, Democrito ed Ippocrate, anche Aristotele
considera gli individui mostruosi alla stregua di fenomeni perfettamente naturali, la cui generazione è risolvibile all’interno di una teoria biologica ed embriologica che vede nel seme maschile la capacità
di imprimere la forma del nascituro, deputando al corpo femminile
l’esclusivo apporto della materia per la crescita e lo sviluppo del
feto. Le creature mostruose vengono, quindi, dallo Stagirita suddivise in tre categorie: i mostri per difetto (focomelici etc.) generati per
scarsità della semenza al momento del concepimento; i mostri per
eccesso (bicefali etc.) originati da una sovrabbondanza di seme ed i
mostri per ibridazione, esseri bigeneri nati dall’unione di animali di
specie diversa, ma simili per dimensione e tempi di gestazione7.
I “mostri” nell’epoca romana
Le credenze degli antichi autori greci vengono riproposte nella nascente letteratura latina8. Oltre alla Naturalis Historia di Plinio il
Vecchio9 è d’obbligo ricordare la Collectanea rerum memorabilium
di Gaio Giulio Solino, scrittore romano vissuto fra la prima metà e
la fine del III secolo, dove i mostri vengono descritti come creature
mitologiche, bizzarre e curiose10. Le stesse leggende si riscontrano,
269
Laura Ottini et al.
fino al V secolo d. C., nelle opere di Ambrogio Teodosio Macrobio
(390-430) e Marciano Cappella11.
Nella tarda epoca romana le storie meravigliose sulla generazione
delle creature mostruose si conciliano con le interpretazioni cristiane. A questo riguardo è interessante la speculazione sull’origine dei
mostri proposta da S. Agostino (354-430) il quale, muovendo da
istanze schiettamente teologiche più che naturalistiche, attesta la naturalità dell’evento mostruoso all’interno dell’imperscrutabilità del
disegno divino12. Le generazioni mostruose divengono quindi corollario per un quesito di ben più ampio respiro: unde Malum? Se
in campo teologico, secondo l’Autore, non esiste il male, ma solo il
peccato dell’uomo, la nascita dei monstra non deve essere interpretata come un evento contra naturam, bensì come una manifestazione
particolare della Creazione e della Volontà Divina13.
Bizzarre creature medievali
In epoca medievale il termine portento descrive i fenomeni mostruosi a cui viene attribuita una reale esistenza, intrisa di significati allegorici, magici e religiosi14.
Nel IX secolo un’ampia trattazione sull’aspetto e la generazione
delle creature mostruose è compendiata nel De Universo di Rabano
Mauro (780/784-856), erudito abate carolingio ed arcivescovo di
Magonza15.
Tra il 622 ed il 633 nelle Etymologiae, Isidoro di Siviglia (560-636)
ripropone la teoria agostiniana della naturalità del fenomeno mostruoso, la cui manifestazione è risolvibile all’interno del disegno
divino16. Dopo aver affrontato la problematica della sua generazione,
Isidoro passa alla circostanziata enumerazione delle possibili degenerazioni mostruose delle razze e degli animali portentosi (unicorno
etc.), spesso interpretabili come segni premonitori, sulla cui natura
fausta o infausta non vengono forniti ulteriori ragguagli17.
270
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
I mostri nell’Umanesimo e nel Rinascimento
La scoperta del Nuovo Mondo e il proliferare delle esplorazioni
scientifiche favoriscono la composizione di racconti meravigliosi,
in cui il mostruoso è spesso sinonimo di esotico18. Marco Polo19 e
Cristoforo Colombo20, ad esempio, narrano di popolazioni mostruose come i cinocefali, mentre Magellano descrive amazzoni, pigmei e
popoli che dormono nelle proprie orecchie21.
Nella sua Cronaca del mondo, Hartmann Schedel (1440-1514) enumera le razze favolose che discendono da Adamo all’interno di una
speculazione cristiana di agostiniana memoria22.
Nel corso del XVI secolo le leggende di derivazione pliniana si
arricchiscono di pseudo-testimonianze sulla veridicità degli eventi narrati oltre che di dettagliate illustrazioni a supporto del testo,
allo scopo di meglio evidenziare agli occhi del lettore le fattezze
delle creature mostruose. In questo modo l’iconografia mostruosa
diventa un luogo letterario alternativo alla pagina stampata, fissandone la raccapricciante rappresentazione nell’immaginario collettivo del Rinascimento23. Tra le opere all’epoca più note si ricorda la
Cosmographia Universalis di Sebastian Münster (1488-1552), ove
la teoria medievale circa la generazione delle creature mostruose e
favolose non viene in toto confutata per non limitare l’infinita potenza di Dio. Nel testo, inoltre, trova posto l’illustrazione xilografica
della storia dei grifoni e delle popolazioni mostruose come gli sciapodi, i ciclopi, i cinocefali o gli uomini con il volto sul petto24.
Con l’Umanesimo si registra un ritorno della concezione del mostruoso come prodigio contra naturam carico di infausti rimandi simbolici, religiosi, astrologici e superstiziosi. Il ricorso alla punizione
divina è uno dei temi più ricorrenti, espresso, ad esempio, dall’idea
che le popolazioni mostruose vengano generate da Dio dopo l’episodio della torre di Babele25. In questo contesto si colloca l’opera di
Licostene (Conrad Wolfhart, 1518-1561), che nel Prodigiorum ac
271
Laura Ottini et al.
ostentorum chronicon compendia assieme ai mostri, i fenomeni celesti ed i cataclismi terreni26.
Nell’opera De monstruorum natura, caussis, natura, et differentiis
libri duo, Fortunio Liceti (1577-1657) riprende le soluzioni aristoteliche riguardanti le generazioni mostruose, proponendo, tuttavia, un
apparato iconografico in chiave mitica e favolosa27.
Conrad Gessner (1516-1565), autore di una vasta Historia animalium, riportando le antiche leggende, classifica le sfingi, i satiri ed i
cinocefali tra le scimmie28.
Dello stesso parare è anche l’anatomista Caspar Bauhin (1560-1624)
che nel Pinax Theatri Botanici (1623) include i satiri tra le scimmie.
Notabile è la considerazione circa la generazione di tali creature risolvibile, oltre che nell’ira divina e nell’influenza astrale e meteorologica avversa, anche nelle speculazioni biologiche ed embriologiche di matrice aristotelica29.
I parti mostruosi: Lemnio e Parè
Autore del De miraculis occultis naturae, Levino Lemnio (Lievin
Lemnes, 1505-1568) sottolinea l’influsso infausto dell’immaginazione materna che può imprimere al feto, durante il concepimento
e/o la gravidanza, forme mostruose. Nella trattazione trovano spazio anche le credenze ebraiche e bibliche sull’attività corruttrice del
mestruo che, qualora presente all’atto del coito, facilita la generazione degli individui mostruosi30.
Analoghe posizioni sono sostenute da Ambroise Paré (1510-1590) nel
Des monstres et prodiges in cui una donna, osservando durante il concepimento un’icona di S. Giovanni Battista, partorì una bambina simile ad un orso. A ragione considerata una pietra miliare sull’argomento,
l’opera di Paré è infarcita di racconti favolosi mutuati dalla tradizione
popolare tra cui celebre è la narrazione della nascita, nel 1567, di un
agnello a tre teste presso il “villaggio chiamato Blandy, distante una
272
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
lega e mezza da Melun. La testa di mezzo era più grande delle altre e
quando una delle tre prendeva a belare, anche le altre la imitavano”31. La “monstrorum historia” di Ulisse Aldrovandi
Nella Monstrorum historia cum Paralipomenis historiae omnium
animalium, il naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605)
sostiene la realtà delle creature mostruose, screditandone l’immagine tramandata dalle leggende e dalle cronache letterarie. Il saggio prende le mosse da una particolareggiata ricognizione circa la
corretta confermazione dell’uomo “per rendere più appariscenti gli
errori commessi dalla natura e per non difettare nell’esposizione di
tutte le umane prerogative”. Segue l’elenco delle vere mostruosità
secondo le cause che possono produrle, precisando l’epoca ed il
luogo dove l’individuo è stato osservato ed il nome di chi l’ha reso
notorio. Infine, l’esemplare viene descritto con singolare accuratezza, pur difettando di una esaustiva indagine anatomica32.
L’ipotesi eziologica sostenuta da Aldrovandi combina le teorie biologiche ed embriologiche di Aristotele alle speculazioni
di Liceto dando particolare risalto all’analisi da questi proposta
che vede la generazione delle creature mostruose come “un impedimento sorto nei primordi della loro conformazione”, le cui
cause (dall’Autore definite intrinseche), fanno capo alla cattiva
influenza del seme (in più modi interpretata), alla corruzione dei
mestrui, all’immaginazione dei genitori, ai vizi del ricettacolo del
feto (utero, bacino), ad una scorretta posizione assunta ed a lungo
mantenuta dalla donna incinta, alle vesti strette ed ad avvenimenti
di origine traumatica. Il ricco e variegato apparato iconografico a
corredo del testo spazia dall’Homo pedibus adversis al monstrum
acephalon con gli occhi ed il naso sulla schiena, ai draghi ed altri
animali fantastici (manucodiata etc.), mescolati ad alcuni generici
casi di malformazioni strutturali33.
273
Laura Ottini et al.
La teoria dell’incastro dei germi
Negli anni settanta del XVII secolo, Francesco Redi (1626-1697)
mostra come gli insetti si riproducono mediante uova, aprendo le
porte alla teoria dell’ovismo, secondo cui tutti gli animali si riproducono mediante uova, come gli animali ovipari34.
Nel contempo dalla microscopica osservazione del liquido seminale,
Antoni Van Leeuwenhoek (1632-1723) si fa portavoce della contrapposta dottrina dello spermatismo, ovvero la sostenuta presenza
dell’embrione nello spermatozoo, la cui nutrizione è garantita all’interno dell’uovo35.
Seguendo le analisi dell’ottico e naturalista olandese, Nicolas
Hartsoeker (1656-1725) ipotizza che l’intero feto si presenti come
un omuncolo, ovvero una replica dell’essere in gestazione, alloggiando nello spermatozoo con l’estremità cefalica nella testa dello
spermatozoo stesso36.
Sia l’ovismo sia lo spermatismo, sottolineano l’importanza dello studio dei meccanismi riproduttivi per la corretta comprensione
della struttura anatomica degli esseri viventi, condividendo l’ipotesi
secondo cui l’animale adulto si presenti preformato nelle cellule germinali37. La teoria preformista è sostenuta dal biologo ed entomologo Jan Swammerdam (1606-1678) che nel Miraculum naturae sive
uteri muliebris fabrica nega una progressivo sviluppo nella crescita
degli insetti: la farfalla, ad esempio, è presente interamente, con i
suoi organi distinti, nelle uova del bruco. Lo sviluppo degli esseri viventi e il loro svolgimento (evolutio) è quindi contenuto nel germe in
successive mutazioni quantitative (accrescimento e allungamento).
Tutti i germi, infine, preesistono fin dalla Creazione, essendo questa
sola manifestazione di un unico atto della volontà di Dio 38.
La polemica tra i fautori dell’epigenesi e quelli del preformismo sarà
feroce per tutto il XVIII secolo e si concluderà solo nel XIX secolo
con l’affermazione definitiva della teoria cellulare39.
274
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
Leibniz e Malbranche
Le creature mostruose pongono ai sostenitori del preformismo dei
quesiti di ordine teologico: conciliare la loro esistenza con la non
ammissibilità della creazione divina di germi mostruosi.
Non è quindi un caso se nel migliore dei mondi possibili, governato dalla Provvidenza, Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716)
identifichi i mostri come manifestazioni disordinate all’interno della perfezione naturale. Le sue teorie supportano la grande catena
dell’essere che, partendo dalle analogie riscontrate dall’anatomia
comparata tra animali di specie diversa, vede compendiate nell’unico atto della Creazione tutte le sfaccettature del possibile, rendendo ragione, ad esempio, dell’omologia degli arti dei mammiferi. In
questo paradigma esplicativo, gli individui mostruosi rientrano nelle infinite sfumature della Natura, riflesso dell’infinita insondabilità
della potenza divina40.
Sulle posizioni di Leibniz si attesta anche Nicolas Malebranche (16381715): pur lasciando spazio a possibili disordini, le leggi naturali stabilite da Dio non ne mettono in gioco il disegno provvidenziale. Il filosofo e scienziato pone così l’accento sulle cause esterne che portano
alla generazione dei mostri, tra cui l’immaginazione della donna. Noto
è il caso di quella madre che, avendo assisto durante la gestazione al
supplizio di un condannato alla rota, partorì un figlio rotato41.
XVIII secolo: le cause dei mostri, metafisica e anatomia
Insistendo sull’onnipotenza di Dio e sull’imperscrutabilità dei
suoi progetti, il teologo, filosofo e matematico francese Antoine
Arnauld (1612-1694) esclude il concorso di accidenti causali nella
generazione degli individui mostruosi42. Dello stesso parere è l’anatomista Joseph Guichard Duverney (1648-1730) che narra di un
mostro, nato a Vitry il 20 settembre 1706, formato da due gemelli
uniti per il bacino, la cui origine, dopo un attento esame necro-
275
Laura Ottini et al.
scopico, è risolta come una particolare manifestazione dell’infinita
potenza e libertà di Dio43.
Il dibattito sull’eziologia delle creature mostruose vede, quindi, contrapposti i sostenitori degli eventi casuali che interferiscono con il
disegno divino a quanti preferiscono considerare questi fenomeni il
risultato di germi mostruosi.
Nel 1721, Antonio Vallisnieri (1661-1730) ripropone la teoria della fusione dei germi per spiegare la nascita di mostri per eccesso e
della mancanza di materia per quelli per difetto, in piena tradizione
aristotelica44.
Dopo la morte di Durverney, le sue ricerche vengono portate avanti dall’anatomista olandese Jacob Benignus Winslow (1669-1760),
allievo dello stesso Durverney, che nega aspramente la concomitanza di cause accidentali nell’origine delle creature mostruose in una
lunga polemica con Nicolas Lémery (1645-1715): questi non può
accettare l’idea che Dio abbia creato dei germi mostruosi, mentre il
primo nega la possibilità che i semi siano passibili di corruzione45.
Con la pubblicazione della Dissertazione sul negro bianco, saggio
imperniato sulla discussione di un caso di albinismo riscontrato in un
bambino di colore, Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759)
si schiera a sfavore della teoria del preformismo: se la vita è preformata in un germe, come è possibile che la progenie abbia i caratteri
di entrambi i genitori? La risposta, compendiata nella Venere fisica,
è che la vita si origini dal miscuglio di due semenze che partecipano
in egual misura alla creazione di un nuovo individuo. In questo contesto l’origine dei mostri, come quella degli ibridi, è risolta grazie
a spiegazioni puramente meccaniche: lo studio del negro bianco,
come quello di un caso di esadigitismo, mostrano l’ereditarietà di
tali anomalie che, di conseguenza, non possono né essere imputate
né a germi difettosi né a loro eventuali danneggiamenti46.
Nei Saggi di cosmologia, sotto l’influenza delle speculazioni filosofiche di Denis Diderot (1713-1784), Maupertuis rovescia la conce276
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
zione finalistica e provvidenziale della natura: i primi individui sono
stati generati casualmente e solo un piccolo gruppo di essi era costituito in modo che ogni loro parte potesse assolvere con correttezza
ai propri bisogni. Vi erano, quindi, innumerevoli mostri, individui
incoerenti che si sono, col tempo, estinti. L’ipotesi embriologica
viene dallo scienziato circostanziata grazie alla forza attrattiva delle particelle organiche (esattamente come quelle inorganiche sono
sottoposte all’attrazione gravitazionale newtoniana) che permettono
loro di aggregarsi seguendo precise leggi biologiche47.
Le posizioni di Maupertuis sono le stesse che in quegli anni assume
il ben più noto naturalista Buffon, autore di una monumentale Storia
Naturale in trentasei volumi48.
Per il filosofo Denis Diderot (1713-1784), al contrario, la natura
genera spontaneamente una grande quantità di mostri e non ha in sé
alcun elemento provvidenziale. Come Maupertuis, Diderot risolve
tali considerazioni in senso evoluzionistico sino a concepire l’idea di
un prototipo di tutti gli animali49. Buffon, al contrario, è più cauto e
moderato, limitandosi ad un certo numero di specie originarie degeneratesi col tempo, ovvero localmente modificate a causa del clima
e dell’ambiente50.
La nascita della teratologia
Nel XIX secolo si assiste alla nascita di una “scienza dei mostri”
a opera di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844) e Isidore
Geoffroy Saint-Hilaire (1805-1861)51.
Il programma anatomico di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire individua, grazie al principio della prudente analogia tra animali appartenenti a specie diverse e tra esseri normali e mostruosi, una morfologia strutturale capace di formare dall’interno qualsiasi essere
vivente. I complessi fenomeni che regolano la vita sono infatti riconducibili a un piano generale, la cui logica è ricercata attraverso
un approccio conoscitivo di tipo morfologico che vuole evidenziare
277
Laura Ottini et al.
rapporti costanti di struttura tra le varie forme animali. Il nucleo della
teoria biologica ed embriologica di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire
è rappresentato da una struttura costante, comune a tutti gli esseri organizzati, evidenziata da un principio analogico, presentandosi
come un comune ed unico piano di composizione, fornente lo schema delle possibili trasformazioni di ciascun organo di tutti gli esseri
viventi. Il confronto delle forme normali ed anomale si rivela, in
questo registro, un valido procedimento conoscitivo per individuare
gli elementi invariabili che sottostanno alla formazione di qualsiasi
specie animale52.
Lo studio delle mostruosità nasce così come esigenza intrinseca al
programma di ricerca di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, continuato
poi dall’attività scientifica del figlio Isidore53. Per i due Geoffroy
non solo le anomalie fanno capo al principio unitario che regola la
formazione degli organismi normali, ma rappresentano esse stesse
la prova che la natura si è servita di un solo principio organizzatore
valevole per qualsiasi essere vivente. Perciò lo studio delle mostruosità, chiamato per la prima volta teratologia da Isodore, diviene uno
strumento atto a fornire una considerevole quantità di esempi a conferma dell’uniformità della natura54. La nascita di un mostro non è
più collocata tra i fatti miracolosi, sconcertanti o meravigliosi, ma è
inserita, come qualsiasi altro evento che implica una metamorfosi,
all’interno di una logica che lega a un sistema unitario qualsiasi manifestazione della realtà55.
Di una mostruosità parassitaria felicemente risolta con operazione
chirurgica
Maria Conti in Fornarini, originaria di Jesi, di anni 22, di regolari e
belle forme, il 20 agosto 1864 porta a termine la prima gravidanza.
La gestazione è fisiologica e nessuna anomalia si riscontra nell’asse
ereditario femminile e maschile. La donna conduce, però, una vita
sedentaria essendo di professione tessitrice56.
278
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
Entrata la Conti in sovrapparto, viene riscontrata dalla levatrice la
presentazione del vertice ed in breve tempo naturalmente si compie
l’espulsione del feto. Il puerperio ha corso normale come spontanea
ed abbondante si compie la mondata lattea57.
Il nascituro non presenta aderenze con alcun punto della placenta né
è avvolto dal funicolo: è una bambina nel più completo e rigoglioso
sviluppo (50 cm di lunghezza per circa 5 Kg di peso). Eppure la neonata presenta un’assai rara e grave mostruosità, essendo provvista di
tre arti inferiori. Scende l’arto accidentale tra l’una e l’altra coscia a
guisa di una lunga e grossa coda, presentando all’estremità libera un
piede sinistro ben conformato, munito di cinque dita. Diversa dagli
altri due è la direzione del piede accidentale: in forzata estensione
sulla gamba come una zampa equina, presenta il dorso rivolto a sinistra ed in avanti, la pianta a destra ed indietro. Anche la gamba
è bene sviluppata ed è lunga e larga quanto le altre due. L’estremo
superiore dell’arto accidentale è ricoperto da un manicotto cutaneo,
originatosi dallo stiramento dell’epidermide della regione sacrale,
alla cui base trovasi l’orifizio anale. L’arto accidentale è mobile e
non ha nessun legame né col sacro né con altro punto della pelvi:
si impegna nello stretto inferiore, scaturendo dalla escavazione pelvica fra l’intestino retto anteriormente, il sacro posteriormente ed i
due ischi lateralmente. Con l’esplorazione rettale si percepisce l’arto
prolungarsi entro la escavazione pelvica di circa due centimetri, terminando con un rigonfiamento osseo. La palpazione e la percussione
del ventre danno risultati negativi. L’arto accidentale non sembra
essere dotato di alcuna funzione oltre gli atti nutritivi, non avendo
alcun movimento spontaneo ed essendo insensibile agli stimoli58.
L’operazione chirurgica
La grande mobilità della massa accidentale sia extra che intra
pelvica e la posizione favorevole fra il sacro ed il retto intestino, ovvero fuori dal cavo perineale, risolvono Giorgio Pellizzari
279
Laura Ottini et al.
(1814-1894)59, lettore di anatomia descritta, dissettore di anatomia sublime nonché conservatore del Museo Patologio del Regio
Arcispedale di S. Maria Nuova, e Giuseppe Corradi (1830-1907)60,
Aiuto alla Clinica Chirurgica presso il nosocomio fiorentino, all’atto eliminatorio (Figure 1-4).
Fig. 1 - Busto di marmo di Giorgio Pellizzari (1874-1894) conservato presso il
Museo di Anatomia Patologica dell’Università di Firenze
Fig. 2 - Catologo originale contenente la
descrizione (n. 1873) delle ossa del rudimentale arto inferiore
280
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
Considerata la presenza dell’apertura anale alla base del manicotto
cutaneo, i clinici scelgono l’eliminazione della regione avventizia
mediante sezione cruenta, incidendo alla maggiore distanza da questa61. La rimozione tramite lento processo di cancrenazione da effettuarsi con la legatura o col caustico alla maniera di Louis Manoury62
e l’incisione con l’écraseur di Edouard Pierre Marie Chassaignac
(1804-1879)63, adoperato da Jacques Gilles Thomas Maisonneuve
(1809-1897) per amputare negli adulti gambe e cosce, si dimostrano
non praticabili vista la probabile suppurazione della piaga ad opera
della frequente evacuazione degli escrementi in età neonatale64.
La mattina del 19 settembre 1864 viene eseguita la rimozione chirurgica dell’arto soprannumerario: dopo aver messo a profitto la porzione di pelle del manicotto corrispondente all’apertura anale per crearvi un lembo, viene praticata un’incisione molto arcuata avente per
centro l’ano, per raggio un pollice, per tangente l’orlo del manicotto.
Fig. 3 - Disegni di Giorgio Pellizzari che illustrano l’infante prima del trattamento chirurgico (A), la proiezione anteriore (B) e la proiezione posteriore (C) delle ossa del rudimentale arto inferiore
281
Laura Ottini et al.
Alla base di questo sporge così il
retto intestino, il retto viene disteso, praticando l’incisione sopra un
cellulare adiposo compatto e resistente. Disseccato l’arto sopra l’intestino per due centimetri circa e
legate due arterie di grosso calibro,
si guadagna l’apice della formazione avventizia dalla parte rettale
dove viene praticata una seconda
incisione arcuata a convessità con
la prima. Rialzato il lembo viene
praticata una sutura attortigliata
con cinque spilli e viene completata in modo ordinario la medicatura.
L’operazione viene così portata a
termine senza complicazioni, in un
breve lasso di tempo e con la perdita di una sola oncia di sangue65.
Fig. 4 - Campione chirurgico del rudimentale arto inferiore conservato presso il Museo di Anatomia Patologica
dell’Università di Firenze
Decorso post-operatorio
Nei giorni seguenti l’amputazione, i clinici tengono la piccola paziente in posizione prona per evitare la penetrazione della materia
fecale all’interno della ferita. Durante il processo di cicatrizzazione,
svoltosi regolarmente eccezion fatta per la manifestazione di una
febbre effimera in seconda giornata, mirabile è constatare la progressiva divisione delle natiche e la scomparsa della cicatrice semilunata e trasversa all’interno di quest’ultima66.
Studio anatomico della mostruosità
L’epidermide che riveste l’arto avventizio presenta caratteri macroscopici normali. Studiandone la ripiegatura a forma di manicotto
282
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
appare evidente la contiguità anziché la continuità dei tegumenti.
Sulla superficie esterna sono, inoltre, chiaramente tracciati i segni
dell’innesto nella regione sacrale.
L’interna conformazione dell’arto soprannumerario mostra una calza aponevrotica intimamente legata al derma. Gli stessi caratteri si
riscontrano nell’analisi dell’epidermide del manicotto; le due aponevrosi risultano separate da uno strato cellulo-adiposo. Inoltre si
vedono serpeggianti dei grossi vasi sanguigni sulla piega cutanea
che si propagano lungo un solco creato dalle due ricordate aponevrosi. L’epidermide che si innesta su quella dell’autosita e le tramezze
fibrose che si perdono nel cellulare vicino costituiscono i principali legami fra l’intera formazione accidentale e l’individuo ceppo.
Disseccato e rimosso il comune integumento tutto l’arto appare
come una massa informe di lardo bianco e compatto. Le glebe ipertrofiche sono separate da fitte tramezze in province e regioni ceche.
Sulla parte superiore l’arto termina in un grosso orlo osseo foggiato
a guisa di una cresta che, spogliato dalle glebe grassose, vedesi appartenere a un osso piano. Sulla sua faccia anteriore si distinguono
tre organi facilmente isolabili che esaminati presentano gli stessi caratteri anatomici. Si diversificano, invece, per la forma ed i volume:
uno è globoso come un cece, il secondo conformato come un fagiolo
ed il terzo è multiplo degli altri due per lunghezza. Sezionati, rassomigliano a tre cisti a cavità unitaria, ripiena di una sostanza bianca
come siero depurato. Esaminata al microscopio, questa risulta costituita da cellule epiteliali pavimentose67.
Proseguendo nella sezione dell’arto soprannumerario si scorgono i
prodromi del sistema muscolare, sanguigno e nervoso68.
Il sistema osseo sembra, invece, quello maggiormente sviluppato.
Eliminati i tendini ed i legamenti si riconosce un osso innominato
di forma ovalare, recante ai poli due larghe placche di ossificazione; la parte media ed il corpo risultano cartilaginei. L’orlo inferiore
verso il polo esterno è sormontato da un’eminenza ossea, rigonfiata
283
Laura Ottini et al.
sull’estremità libera (forse un osso pubico rudimentale) che dà attacco alle masse muscolari. Al centro della faccia posteriore pende
un grosso e robusto legamento che sorregge un lungo osso di forma
cilindrica. L’arto misura 6 centimetri ed ha un diametro trasverso di 1 centimetro. La sua conformazione rammenta quella di un
femore: il corpo è schiacciato ed arcuato lateralmente, mentre l’estremità superiore presenta tre rigonfiamenti, il mediano dei quali
molto rassomiglia al gran trocantere. L’estremità inferiore accenna
una conformazione condiloidea ove il femore forma col resto dello
scheletro un angolo di 135°, unendosi ad esso tramite un’articolazione ginglimoidale. Le dita dell’arto rudimentale sono ben conformate, eccezion fatta per il secondo dito formato da una sola e lunga
falange, impiantata sopra due ossa metatarsiche che divergendo si
fissano in due punti diversi del tarso. Esaminando la sezione dorsale
vedesi, infine, un dito soprannumerario, munito di tre falangi e del
più lungo osso metatarsico69.
Considerazioni cliniche
Completata l’esposizione dell’inquadramento clinico, dell’operazione chirurgica, del decorso post-operatorio e delle analisi anatomopatologiche condotte sull’arto soprannumerario asportato, Pellizzari
e Corradi passano alla valutazione del caso clinico, studiandolo analiticamente secondo l’ordine etiologico, semiologico e terapeutico.
Cause
Nel caso teratologico preso in esame, i clinici riconoscono nella formazione dell’arto soprannumerario l’azione nefasta di cause traumatiche quali la posizione sedentaria e molto curvata in avanti della
Conti, di professione tessitrice, durante la gestazione e le continue
scosse prodotte dal battere la tela. Non da ultimo sono da rilevarsi i
traumi causati sul prodotto del concepimento dagli abusi della venere
visto che gli sposi hanno avuto lunga luna di miele ed operosa assai70.
284
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
Criterio etiologico
Confrontati i dati clinici raccolti tramite l’osservazione diretta
dell’arto avventizio con la letteratura medica dell’epoca, Pellizzari e
Corradi convengono non poter risolvere il caso oggetto di studio né
nella classe delle anomalie unitarie71, perché l’individuo si presenta ben conformato in ogni sua parte, né all’interno della teoria dei
doppi feti, riconoscendo in quest’arto soprannumerario, seguendo la
speculazione di Isidore Geoffroy Saint-Hilaire, il resto di un secondo
feto, il cui sviluppo si è arrestato, per cagione traumatica, all’interno
del grembo materno72. Quest’ultima ipotesi mal si concilia, secondo
i clinici, con la buona conformazione del piede avventizio, terminante in un arto inferiore unico in tutti i suoi organi componenti. Le ossa
che lo costituiscono, poi, sono in tali rapporti col sistema scheletrico
da non potersi in alcun modo riconoscere, ad esempio, nei due metatarsi del grosso dito, quale dei due sia proprio del dito e quale dei
due sarebbe appartenuto all’altro piede73.
Segni
Il soggetto mostra tre estremità inferiori, separate, distinte e tra loro indipendenti. Gli arti normali si presentano regolari così come il bacino
e la colonna vertebrale. L’accidentale ha sede sulla regione perineale
e differisce per forma e per volume dagli altri due. Mobile in tutte le
direzioni, non ha moti attivi né è sede di sensazioni. La pelle che lo
riveste si innesta e non si continua con quella delle regioni limitrofe.
Notomizzato si riscontrano in esso i prodromi di tutti i sistemi a differenti stadi di sviluppo. L’esame anatomico mostra più apertamente la
sua indipendenza dalle parti vicine, presentando rapporti di continuità
che appartengono a qualunque tessuto accidentale. Il soggetto ceppo è
vitabile e perfettamente conformato in ogni sua parte74.
Definito secondo queste caratteristiche il caso di studio, la classe di
anomalie teratologiche entro cui sussumere l’arto avventizio sembra essere, ad un primo esame, quella delle polimelie75. Ciò nono285
Laura Ottini et al.
stante, come osservato da Michael Föster (1836-1907), vi sono dei
fenomeni che non possono con sicurezza essere risolti né all’interno
delle polimelie né all’interno dei dipygus dibrachius o toradelphus
di Saint-Hilaire, poiché, come da gradazioni non valutabili, dalle polimelie si scende alle dite soprannumerarie, così si può risalire al
completo raddoppiamento di tutta la parte di un soggetto76.
Nelle polimelie e nei dipygus dibrachius, sottolineano Pellizzari e
Corradi, si verifica il raddoppiamento delle estremità inferiori, ma
l’accidentale o si diparte da una delle normali (polimelie) o s’impianta sopra una regione comune che, successivamente, si biforca dalla
prima (dipygus). Nel caso particolare la sede dell’arto accidentale è
la regione perineale e l’anomalia ivi sorge come una qualunque altra
massa avventizia (tumore etc.). Nel polimele l’arto normale, che fornisce l’impianto all’accidentale, ha alquanto impediti i movimenti
e questo carattere è ancora più sensibile nel dipygus. Il soggetto,
al contrario, ha liberissimi i suoi arti come tutta la persona. Nel
polimele e nel dipygus gli arti avventizi sono conformati come i normali per sviluppo e lunghezza, sono dotati di movimenti attivi così
come di sensibilità, l’epidermide è continua con quella delle regioni
vicine. Nel nostro caso l’arto soprannumerario è molto più corto e
deformato tanto da riconoscersi come un arto inferiore soltanto per
la conformazione apparentemente regolare del piede, non presenta
moti attivi, non è sede di alcuna sensazione e l’epidermide mostra
una linea d’innesto marcatissima con l’individuo ceppo, tanto da poter essere definita contigua. Nel polimele e nel dipygus, inoltre, la
massa accidentale è formata da tutti i sistemi organici ben sviluppati
e comunicanti con quelli dell’individuo normale. Nell’arto parassitario oggetto di indagine, invece, si rinvengono solo i prodromi dei
sistemi e la massa avventizia presenta soltanto i normali legami di
un tessuto accidentale che vive a spese delle parti vicine. Il soggetto,
infine, è vitabile come il tipo normale a termine della gravidanza
intrauterina, mentre l’osservazione ha più volte mostrato che i poli286
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
meli e i dipygus o muoiono avanti il termine gestionale o poco dopo
l’inizio della vita extrauterina. Risulta dunque come il caso preso in
esame non possa appartenere né alla classe del dipygus (toradelphus
del Saint-Hilaire) né a quella delle polimelie77.
Ugualmente non è possibile ascriverlo all’interno della categoria dei
pigopaghi che, secondo la classificazione del Förster, rappresenta un
raddoppiamento quasi perfetto di due individui egualmente conformati e uniti per la regione sacrale78.
Criterio semiologico
Da quanto esposto è possibile individuare due quadri semiologici
per tradurli in criteri. Il primo mostra come la massa accidentale nei
polimeli, nei dipygus e nei pigopaghi sia una copia più o meno fedele
della massa che le sta accanto, gode delle stesse facoltà, le sono affidate le medesime funzioni ed è con questa comunicante. Il secondo
invece, sussunto dal caso di studio, rappresenta una massa inerte,
dotata di alcuna funzione, vegetativa, mal conformata, accessoria e
non comunicante col soggetto che la porta.
Considerando l’anomalia particolare all’interno di quest’ultimo criterio semiologico, essa viene dai clinici ascritta ad una formazione
neoplastica originatasi per traumatismo79.
Criterio terapeutico
L’operabilità dell’arto avventizio è stabilita seguendo le regole generali che si applicano alla rimozione di qualsiasi tumore omologo.
L’asportazione, poi, non presenta complicazioni ed è coronata da felice successo.
La disamina dei tre criteri diagnostici mostra come l’arto avventizio
non sia ascrivibile alle classi dei polimeli, dei dipygus e dei pigopaghi poiché esso è semplicemente accidentale ed è simile ad un
neoplasma sviluppatosi in un individuo già formato durante la vita
intra o extra uterina.
287
Laura Ottini et al.
Questa distinzione è di fondamentale utilità alla pratica medica perché addita la possibilità o impossibilità di una rimozione chirurgica
ed l’esito clinico che l’operatore può legittimamente aspettarsi80.
Le mostruosità parassitarie
La teratologia è foriera di diversi casi patologici simili al caso studio, per lo più osservati su animali selvatici. Nell’uomo un caso è
circostanziatamente descritto da José Gregorio Texeiria81. Questa
particolare anomalia non interessa solo gli arti inferiori, ma anche
la regione epigastrica e tutte quelle masse rappresentanti organo o
regione di altro feto pendenti dalla bocca di un individuo ben conformato e vitabile (Polignatieni del Saint Hilaire)82. Notabili sono
infine tre casi osservati sul cranio, di cui il primo fu riscontrato da
Saint-Hilaire (un canario la cui testa è sormontata da un’estremità
inferiore soprannumeraria)83, il secondo da Everard Home (17561832)84 e il terzo dal Professor Vottem, rappresentante una testa soprannumeraria inserita, per il suo vertice, sul cranio di un individuo
autosita (epicomi)85.
Il breve excursus all’interno della casistica teratologica mostra come
alla grande classe in cui sono inclusi i polimeli, i dipygus e i pipopaghi, sia possibile affiancare una ulteriore suddivisione dal Pellizzari
e dal Corradi identificata come Mostruosità parassitaria86. La nuova
classificazione consente la distinzione dei casi in cui le anomalie
sono parte integranti dell’individuo, da quelli in cui la regione soprannumeraria è avventizia e di origine neoplastica, permettendo
una corretta valutazione del rischio terapeutico nell’ambito di una
eventuale rimozione chirurgica87.
Conclusione
Lo studio delle fonti storiche e archivistiche per la museologia scientifica contribuisce alla diffusione di una cultura biomedica umanistica, promuovendo una ricerca interdisciplinare volta a ricostruire la
288
La ricerca medica attraverso la ricerca storica
storia naturale delle malattie ed il ruolo che esse rivestono nella storia
delle società umane.
Sotto il profilo educativo, in particolare nell’ambito della Facoltà di
Medicina, un percorso museale che includa le testimonianze oggettive della patocenosi del passato rappresenta un importante stimolo
per la formazione culturale del medico moderno. Dalle osservazioni
cliniche presentate, ad esempio, è possibile intraprendere uno studio
metodologico che comprenda gli inquadramenti nosologici, i criteri
tassonomici, i dati anamnestici e le ipotesi interpretative, consentendo
la riflessione sul riconoscimento di determinate patologie e sulla loro
possibilità di trattamento alla luce di una pratica medica che, in taluni
casi di anomalie, oggi come in passato, si è mostrata essere un’arte.
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56. CORRADI G., Di una mostruosità parassitaria perineale felicemente risolta
con operazione chirurgica. In: PELLIZZARI G., Bullettino del museo e
della scuola d’anatomia patologica di Firenze. Firenze, a spese del compilatore, 1869, p. 176.
57. CORRADI G., op. cit. nota 56, p. 177.
58. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 178-179.
59. LAZZERI C., Un carteggio di fine secolo: Renato Fucini-Emilia Peruzzi
(1871-1899). Firenze, Firenze University Press, 2006, p. 130, n.1.
60. ARMOCIDA G., Corradi, Giuseppe. In: Dizionario biografico degli Italiani.
Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1983, Vol. 29, pp. 318-319.
61. CORRADI G., op. cit. nota 56, p. 180.
62. FERRO G., Sguardo comparativo su certi punti di pratica chirurgica inglese,
francese ed italiana. Il Morgagni 1860; 3: 594.
63. O’DOHERTY L. K., CHASSAIGNAC E. M. C., Observations on the practice of écrasement linéaire in the Parisian hospitals by m. Chassaignac, and
an incidental notice of the views of that surgeon on the employment of chloroform. Dublin, McGlashan & Gill, 1857, pp. 11-12.
64. SIMS M. J., Clinical Notes on uterine surgery with special management of
the sterile condition. New York, William Wood & Co, 1871, p. 77.
65. CORRADI G., op. cit. nota 56, p. 182.
66. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 182-183.
67. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 183-184.
68. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 185-186.
69. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 186-188.
70. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 195-200.
71. TARUFFI C., Storia della Teratologia. Bologna, Regia Tipografia, 1881, Vol.
I, p. 369.
293
Laura Ottini et al.
72. TARUFFI C., op. cit. nota 71, Vol. 3, p. 248. Vedi anche HILMY A. W.,
Geschichte des Foetus in Foetu. Hannover, Isis, 1831.
73. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 200-201.
74. CORRADI G., op. cit. nota 56, 201-202.
75. CORRADI G., op. cit. nota 56, p. 202.
76. FÖRSTER A., Die Missbildungen des Menschen. Jena, Druck und Verlag
von Friedrich Mauke, 1861, pp. 30-31.
77. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 202-205.
78. CORRADI G., op. cit. nota 56, p. 205. Vedi anche FÖRSTER A., op. cit.,
pp. 26-29.
79. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 205-206.
80. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 206-209.
81. Teixeira G. j., Descrizione di un mostro umano, appartenente alla classe
dei mostri doppi eterotipiani. Gazzetta Medica Italiana Stati Sardi 1894; 1:
337-338.
82. Memorie del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. Classe di Scienze
matematiche e naturali. Milano, Bernardoni, 1891, Voll. 16-17, pp. 152-153.
83. TARUFFI C., op. cit. nota 71, Vol. 3, pp. 103ss.
84. PUCCINOTTI F., Lezioni di medicina legale. Milano, Per Borroni e Scotti,
1856, p. 53.
85. VOTTERN F., Description de deux foetus réunis per la tête. Liége, P. J. Collardin, Imprimeur de l’Université et Libraire, 1828.
86. CORRADI G., op. cit. nota 56, p. 209.
87. CORRADI G., op. cit. nota 56, p. 218.
Correspondence should be addressed to:
Laura Ottini, Department of Molecular Medicine, “Sapienza” University of
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294
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 295-306
Journal of History of Medicine
Articoli/Articles
collezioni ANATOMICHE antiche per musei moderni:
il museo patologico dell’università di firenze
Gabriella Nesi, Raffaella Santi
Sezione di Anatomia Patologica, Università di Firenze, I
summary
antique anatomical collections for contemporary museums
Anatomy and Pathology Museum collections display a great biological
value and offer unique samples for research purposes. Pathological
specimens may be investigated by means of modern radiological and
molecular biology techniques in order to provide the etiological background
of disease, with relevance to present-day knowledge. Meanwhile, historical
resources provide epidemiologic data regarding the socio-economic
conditions of the resident populations, the more frequently encountered
illnesses and dietary habits. These multidisciplinary approaches lead to
more accurate diagnoses also allowing new strategies in cataloguing
and musealization of anatomical specimens. Further, once these data are
gathered, they may constitute the basis of riedited Museum catalogues
feasible to be digitalized and displayed via the Web.
Introduzione
I Musei di Anatomia Patologica, conservando non solo quanto vi
sia di eccezionale, ovvero di mostruoso, nella patologia umana, ma
anche il materiale chirurgico ed autoptico della pratica medica quotidiana, hanno svolto un insostituibile ruolo didattico per generazioni
di medici in formazione e al tempo stesso costituiscono una testimonianza tangibile della ricerca medica che, fino a non molto tempo fa
Key words: Pathology museum - Anatomical collections - Biological archive
295
Gabriella Nesi, Raffaella Santi
e, sicuramente nel XIX secolo, quando molte di queste Istituzioni
sono sorte, era strettamente legata all’osservazione macroscopica
anatomo-patologica1.
Il museo è dunque da considerarsi a tutti gli effetti un archivio biologico, suscettibile di essere indagato mediante le moderne tecniche
radiologiche, istopatologiche e biomolecolari2. I reperti anatomici
del passato documentano un’epoca profondamente diversa dalla nostra e consentono di studiare malattie le cui caratteristiche epidemiologiche o la cui storia naturale sono state notevolmente modificate
dai progressi diagnostici e terapeutici3,4.
Ancora, molte delle collezioni anatomiche italiane comprendono reperti di indubbio valore artistico, quali le riproduzioni in cera, in legno o in gesso di distretti anatomici o di quadri anatomo-patologici.
Tali opere rappresentano strumenti educativi per il giovane medico,
non solo degli aspetti tecnico-scientifici ma anche di quelli culturali
ed umanistici della professione che si accinge ad esercitare.
Fugata l’idea che i Musei di Anatomia Patologica siano luoghi stantii, insensibili al passare del tempo, la fotografia e la videoregistrazione in formato digitale, i media interattivi, le risorse World Wide
Web possono essere impiegati per migliorare ed accrescere l’offerta
museale e per stabilire innovative linee di ricerca e cooperazione
didattica. Tale approccio consentirà ai Musei di Anatomia Patologica
di essere qualcosa di diverso e di più dell’esposizione di reperti considerevoli per rarità o singolarità, ovvero di rappresentare innanzitutto luoghi vitali ed appassionanti per attività di studio e di ricerca.
Il Museo Patologico dell’Università di Firenze
La collezione del Museo Patologico dell’Università di Firenze, fondato nel 1824, comprende più di un centinaio di modelli in cera ed
un ampio numero di preparazioni anatomiche osteologiche, essiccate o conservate in mezzo liquido fissativo, tra le quali malformazioni
congenite, disordini genetici e neoplasie5.
296
Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca
Fig. 1. Una veduta d’insieme del Museo Patologico afferente alla Sezione Biomedica del
Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze
Inoltre, il Museo conserva il Catalogo originale, in cui le preparazioni anatomiche ed i modelli in cera sono catalogati ed esaurientemente descritti, il Registro delle Autopsie, istituito nel 1839, e i volumi
concernenti 1469 storie cliniche relative ai casi autoptici esaminati
tra il 1839 ed il 1881.
Recentemente, le collezioni del Museo Patologico sono state riportate al loro antico splendore e sono nuovamente accessibili sia per scopi didattici sia per ricerca. Per gli studenti della Facoltà di Medicina,
la visita al Museo Patologico rappresenta un momento di istruzione
scientifica e di accrescimento culturale in ambito storico-umanistico.
Del resto, la formazione del medico fu uno dei presupposti alla base
della costituzione del Museo, la cui storia è, non a caso, intimamente
legata a quella dell’istituzione, presso l’Ateneo Fiorentino, della pri297
Gabriella Nesi, Raffaella Santi
ma cattedra di Anatomia Patologica in Italia (1840)6. Attualmente,
il Museo Patologico afferisce alla Sezione Biomedica del Museo di
Storia Naturale dell’Università di Firenze.
Il Museo Patologico di Firenze comprende dunque un insieme di
collezioni diverse, ciascuna parte integrante e necessaria all’altra
nel delineare un percorso conoscitivo: il preparato anatomico, dimostrativo di un particolare caso clinico-patologico, le notizie cliniche, i rilievi autoptici, il relativo manufatto in cera. Tali informazioni, interpretate sulla base delle conoscenze scientifiche attuali e
implementate dai risultati ottenuti dall’utilizzo delle moderne tecniche radiologiche, istologiche e biomolecolari, consentono una più
precisa definizione diagnostica degli antichi preparati anatomici e
lo sviluppo di nuove strategie di catalogazione e musealizzazione
delle collezioni7.
Infine, le collezioni del Museo Patologico rappresentano un’importante traccia della storia dell’insegnamento anatomico, chirurgico e
della ceroplastica scientifica a Firenze.
Le cere patologiche
I modelli in cera di anatomia normale e patologica rappresentano
spesso tesori nascosti all’interno dei musei scientifici. La ceroplastica medica nasce dalla difficoltà di garantire un’adeguata conservazione dei materiali patologici, dall’altra dalla necessità di far
conoscere ai giovani medici importanti quadri anatomo-patologici
senza ricorrere alla dissezione di cadaveri. Realizzati sulla base delle
scoperte anatomiche compiute nell’età dell’illuminismo scientifico,
i modelli in cera consentivano agli studenti di medicina l’esperienza
tattile dei processi normali quanto di quelli morbosi, considerando
anche il fatto che, oltre alla tridimensionalità, questi preparati permettevano di esperire la “dimensione” del colore, elemento essenziale per una corretta diagnosi clinica. Nel contempo, essi sono un
meraviglioso esempio del connubio tra Arte e Scienza8,9.
298
Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca
L’arte ceraiola vanta una lunga e consolidata tradizione italiana e
fiorentina in particolare: indirizzata verso gli studi anatomici dall’opera di Paolo Mascagni (1755-1815), essa aveva trovato forse la
sua più alta espressione nelle collezioni di cere, ancora oggi oggetto
di meraviglia e ammirazione, del Museo della Specola di Firenze,
già Imperiale e Regio Museo di Fisica e Storia Naturale, primo fra i
musei di questo genere ad essere fondato in Italia ed inaugurato dal
Granduca Pietro Leopoldo nel 175510,11.
La collezione comprende 116 riproduzioni in cera, opera in gran parte di Giuseppe Ricci, nominato Aiuto del Professore di Anatomia
Patologica al momento in cui la cattedra di Anatomia Patologica
venne istituita ed affidata a Carlo Burci e, in minor misura, di due
talentuosi artisti afferenti al laboratorio della Specola, Luigi Calamai
(1796-1851)e il suo allievo Egisto Tortori (1829-1893) il quale può
essere considerato l’ultimo dei modellatori di questa prestigiosa
istituzione12.
I preparati anatomici
Le collezioni di preparati anatomici e anatomo-patologici hanno rappresentato per migliaia di studenti, medici e ricercatori la prima opportunità loro concessa di osservare da vicino e in dettaglio la morfologia e la patomorfologia di un organo o un apparato. Oggigiorno
è sempre più difficile ottenere nuovi campioni da avviare alla musealizzazione e, di conseguenza, l’arricchimento di molte collezioni è stato interrotto. Allo stesso tempo, l’integrità delle collezioni
esistenti è minacciata dall’intrinseca fragilità dei preparati anatomici13. L’impegno dei curatori dei Musei di Anatomia e Anatomia
Patologica è rivolto all’individuazione di strategie atte alla conservazione degli antichi preparati anatomici, con la finalità di mantenere
gli stessi suscettibili di indagini morfologiche e molecolari.
Recentemente, alcuni Autori hanno enfatizzato il ruolo che tecniche
di diagnostica per immagini, quali la Risonanza Magnetica Nucleare
299
Gabriella Nesi, Raffaella Santi
(RMN) e la Tomografia Computerizzata (TC) possono avere nello
studio tanto dei preparati osteologici quanto di quelli conservati in
mezzo liquido fissativo senza la necessità, per questi ultimi, di essere
estratti dagli antichi vasi di vetro14,15. Oltre che una efficace soluzione
conservativa, la creazione di una libreria digitale di immagini radiologiche rappresenta un utile strumento nella definizione diagnostica
dei reperti musealizzati e, più in generale, nell’insegnamento della
correlazione anatomo-radiologica.
La collezione di preparati anatomici (osteologici, essiccati o conservati
in mezzo liquido fissativo) del Museo
Patologico di Firenze abbraccia tutti i
campi di studio dell’anatomia patologica, comprendendo quadri malformativi,
flogistici e tumorali. Tra i preparati che
più suscitano stupore nel visitatore vi è
un caso di idrocefalia di straordinaria
gravità, osservato in un bambino deceduto nel 1831 e del quale il Museo conserva lo scheletro intero. Allo scopo di
mantenere testimonianza iconografica
di tanta singolarità Luigi Calamai, il già
citato famoso maestro ceraiolo afferente
al laboratorio della Specola, fu chiamato
ad allestire un modello in cera che riproducesse a grandezza naturale la testa, il
collo e la porzione superiore del torace
del piccolo paziente così come si presentò ai dissettori. Tale opera consente
ancora oggi di apprezzare le profonde
2. Scheletro intero del
modificazioni cranio-facciali che le “30 Fig.
“bambino nato colla fabbrica
libbre di fluido”, raccolte negli spazi idrocefalica”.
300
Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca
Fig. 3. La pagina del Catalogo del Museo
Patologico di Firenze dove è riportata la
descrizione dei risultati dell’autopsia eseguita sul corpo del piccolo paziente
Fig. 4. Preparato n. 293 della collezione
museale, corrispondente al modello in cera
della testa del bambino, opera di Luigi
Calamai.
ventricolari, provocarono nel corso dei 18 mesi di vita extrauterina
del bambino nato “colla fabbrica idrocefalica”.
Nonostante le notizie cliniche e l’iconografia disponibili, così come
la documentazione radiologica (radiografia tradizionale, tomografia
computerizzata, risonanza magnetica nucleare), non abbiano consentito di escludere nessuna delle molteplici cause di idrocefalo
congenito, la prevenzione della patologia infettiva nella donna in
gravidanza (in particolar modo da Toxoplasma Gondii, Virus della
Rosolia, Virus Citomegalico) ha drasticamente ridotto l’incidenza
di questa patologia ai giorni nostri.
L’avvento della metodica di polymerase chain reaction (PCR) ha
aumentato l’interesse per gli antichi preparati conservati nei musei
301
Gabriella Nesi, Raffaella Santi
Figg. 5 e 6. Scansioni TC del cranio: a livello della base e a livello del terzo medio.
anatomici quali potenziali fonti di materiale genetico per lo studio
di malformazioni congenite, neoplasie, malattie infettive o parassitarie16,17. Non sempre è possibile ottenere DNA da reperti anatomici
musealizzati, dal momento che essi sono conservati in liquidi fissativi che non hanno la proprietà di preservare il DNA. Tuttavia, l’estrazione di DNA da tessuto mantenuto per lungo tempo in etanolo o in
formalina è stata ampiamente descritta18,19.
Tra gli aspetti più rilevanti concernenti le collezioni di preparati anatomici vi è lo studio dell’eziologia e della patomorfosi delle malattie
in relazione alla profonda modificazione delle condizioni socio-economiche della popolazione tra il XIX ed il XX secolo. Infatti, i preparati conservati nei Musei di Anatomia e di Anatomia Patologica
si riferiscono all’epoca pre-Industriale o al periodo precedente l’introduzione degli antibiotici. Oggigiorno è inoltre ben provato che
le interazioni genoma-ambiente giocano un ruolo importante nella
carcinogenesi umana. Le indagini molecolari sui tumori antichi possono offrire un aiuto prezioso per far luce sulla storia delle neoplasie
e sulle relazioni tra le alterazioni genetiche, lo stile di vita, ed i fattori
di rischio ambientale attraverso i secoli20.
302
Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca
Fig. 7. Ricostruzione multiplanare (MPR) del cranio.
Le antiche collezioni anatomiche sono pertanto molto preziose da
un punto di vista scientifico, non solo per le finalità didattiche -per
le quali erano state originariamente istituite- ma anche perché documentano patologie ormai debellate o rese estremamente infrequenti
dai miglioramenti nella loro diagnosi e cura21,22.
Conclusioni
Negli ultimi anni il Museo Patologico dell’Università di Firenze è
stato oggetto di molteplici interventi di restauro tali per cui la colle303
Gabriella Nesi, Raffaella Santi
zione è oggi per gran parte restituita all’originale bellezza e fruibilità
ai fini sia di didattica che di ricerca. La valorizzazione di questa antica istituzione museale è fondata tanto su approcci standardizzati inerenti la conservazione, la catalogazione e la musealizzazione, quanto
sull’introduzione di sistemi multimediali ed interattivi. Questo approccio permetterà la creazione di archivi digitali permanenti delle
collezioni anatomiche e potrà favorire l’istituzione di network di ricerca e cooperazione tra i musei di anatomia e di anatomia patologica, nazionali ed internazionali.
bibliografia e note
Ringraziamenti
Si ringrazia l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze per la generosa disponibilità dimostrata nella conservazione e valorizzazione di questa storica istituzione museale.
1. Ferrari L., Coda R., Fulcheri E., Bussolati G., Ruolo del Museo
di Anatomia Patologica: glorie passate, crisi attuale e prospettive future.
Pathologica 2001; 93: 196-200.
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della museologia scientifica, degno di riconsiderazione. Pathologica 1996;
88: 291-296.
3. Turk J.L., The medical museum and its relevance to modern medicine. J R
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4. Barbian L.T., Sledzik P.S., Nelson A.M., Case studies in pathology
from the National Museum of Health and Medicine, Armed Forces Institute
of Pathology. Ann Diagn Pathol 2000; 4: 170-173.
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Pathological Anatomy in Florence. Med Secoli 2007; 19: 295-303.
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anatomy at the University of Florence since the nineteenth century. Virchow’s Arch 2009; 455: 15-19.
7. Fulcheri E., op. cit. nota 2, p. 2.
304
Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca
8. Nesi G., Santi R., Taddei G.L., op. cit. nota 6, p. 3.
9. Cooke R.A., A moulage museum is not just a museum. Virchow’s Arch
2010; 457: 513-520.
10. Lanza B., Azzaroli Puccetti M.L., Poggesi M., Martelli A.,
Le cere anatomiche della Specola. Firenze, Arnaud. 1979.
11. During M.V., Poggesi M., Didi-Huberman G., Bambi S., Encyclopaedia Anatomica. Cologne, Taschen. 1999.
12. Nesi G., Santi R., Taddei G.L., op. cit. nota 6, p. 3.
13. Jutras L.C., Magnetic resonance of hearts in a jar: breathing new life into
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how to build a “virtual museum” for radiopathological correlation teaching.
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15. Jutras L.C., op. cit. nota 13, p. 5.
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paraffin-embedded tissue sections of human fetuses fixed and stored in formalin for long periods. Pathol Res Pract 2008; 204: 633-636.
17. Tonnies H., Gerlach A., Klunker R., Schultka R., Gobbel L.,
First systematic CGH-based analyses of ancient DNA samples of malformed
fetuses preserved in the Meckel-Anatomical Collection in Halle/Saale (Germany). J Histochem Cytochem 2005; 53: 381-384.
18. Santos M.C., Saito C.P., Line S.R., op. cit. nota 16, p. 6.
19. Gobbel L., Schultka R., Klunker R, Stock K., Helm J., Olsson L., Opitz J.M., Gerlach A., Tonnies H., Nuchal Cystic Hygroma
in five fetuses from 1819 to 1826 in the Meckel-Anatomical Collections at the
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20. Ottini L., Falchetti M., Marinozzi S., Angeletti L.R., Fornaciari G., Gene-environment interactions in the pre-Industrial Era: the
cancer of King Ferrante I of Aragon (1431-1494). Hum Pathol 2011; 42:
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21. Ferrari L., Coda R., Fulcheri E., Bussolati G., op. cit. nota 1, p. 2.
22. Fulcheri E., op. cit. nota 2, p. 2.
Correspondence should be addressed to:
Gabriella Nesi, Viale G.B. Morgagni 85 - 50134 Florence, Italy
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305
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 307-318
Journal of History of Medicine
Recensioni/Essay Reviews
CSEPREGI I. and BURNETT C. (eds.), Ritual Healing. Magic, Ritual
and medical Therapy from Antiquity until the Early Modern Period.
Micrologus’ Library, Firenze, Sismel, Edizioni del Galluzzo, 2012.
Il volume raccoglie gli atti di un colloquio di studio organizzato
nel 2006 presso il Warburg Institute; esso è caratterizzato da un
approccio fortemente connotato in senso multidisciplinare e dallo
sforzo di individuare percorsi di ‘lunga durata’ attorno ai quali si
articola una riflessione sui legami intercorrenti tra ritualità e pratiche di guarigione nel bacino del Mediterraneo e nel mondo occidentale, dall’antichità al primo evo moderno. I contributi proposti
selezionano, evidentemente, solo alcuni tra gli aspetti che possono caratterizzare una ricerca su temi complessi, con l’intenzione
esplicita di non arrestarsi alla discussione delle relazioni intercorrenti tra religione e pratiche terapeutiche teurgiche o sacre, ma di
estendersi fino ad affrontare l’analisi di tutta una serie di nessi che
connettono la dimensione del mito e del rito alla cura e al tentativo
di guarigione. Nonostante le limitazioni ‘forzatÈ imposte al lavoro
da intenzioni di studio ampie ed articolate (limitazioni peraltro riconosciute dai curatori nella prefazione), il testo si presenta come
un’indagine esaustiva e ad ampio raggio, che riesce a ricomprendere, ad armonizzare e a collegare aspetti tipici della cultura ebraica,
del mondo mesopotamico, delle pratiche di guarigione egizie e del
primo mondo cristiano; interessante e ‘warburghiano’ è l’utilizzo di
fonti eterogenee, che vanno dai contributi dell’epigrafia, ai materiali archeologici, iconografici, sino alle leggende ed alle vite di santi
cristiani orientali ed occidentali che ripropongono e rielaborano l’esperienza antica delle sanationes attraverso interventi miracolosi o,
semplicemente, sogni terapeutici.
307
Recensioni
Altrettanto interessante è lo sforzo di non leggere le pratiche rituali
come semplici gesti isolati, ma di riconnetterle, secondo le indicazioni più volte citate di Vivian Nutton, alla ricostruzione dei contesti,
del tessuto sociale in cui esse vengono, consapevolmente o inconsapevolmente, strutturate, al vissuto psicologico della malattia, inquadrato spesso – in modo innovativo – nella prospettiva e nella visuale
del paziente, che offre spunti nuovi rispetto a quanto la storiografia,
soprattutto antichistica, ha prodotto – per evidente maggiore facilità
di reperimento e consultazione delle fonti – esaminando in passato
le figure dei guaritori più che quelle degli ammalati.
Questo sforzo consente di confermare e sottolineare, attraverso i vari
contributi, ciò che era già noto, per esempio, per quanto riguarda
la sfera delle guarigione templare in Grecia, dopo l’affermazione
della medicina ippocratica e fino alla sua ridefinizione con Galeno
in epoca imperiale; che, cioè, i sacerdoti di Asclepio ‘apprendono
la medicina razionalÈ nel corso del tempo (Edelstein) ed inglobano
nelle cerimonie sacre della guarigione all’interno del tempio tutta
una serie di elementi terapeutici che si ritrovano nelle prescrizioni farmacologiche dei testi ippocratici; che questo percorso non è
unidirezionale, perché allo stesso modo la medicina razionale da un
lato accoglie ed include nella sua farmacopea esperienze che vengono dalla guarigione empirica (per esempio, i saperi tipicamente
femminili) e dalla sfera della guarigione rituale (si pensi, tra l’altro,
alle modalità di accertamento della gravidanza ed al loro accertato
legame con le tradizioni divinatorie egiziane), dall’altro fa propria e
trasmette in ‘lunga durata’ la gestualità e l’ambientazione ‘teatralÈ
del sacro. Secondo una precisa strategia – che peraltro l’antropologia
medica descrive anche nel contemporaneo sotto il nome di ‘startegia dello sciamano’ – la medicina razionale riconosce come maggiormente efficaci strategie di guarigione che prevedano lo sforzo e
la partecipazione del paziente. Sono, dunque, più efficaci le terapie
sgradevoli o con farmaci di difficile reperibilità ed alto costo; i far308
Essay Reviews
maci migliori vengono da terre lontane; più lontano è il luogo in cui
la guarigione viene promessa e più difficile è il suo accesso - come
accade per le partorienti greche, per le quali Artemide è più attiva a
Brauron che in qualsiasi altro tempio sul territorio- maggiori sono le
possibilità di uscire guariti e soddisfatti; più solenne è l’officina del
medico e più consono il suo abito ed il suo atteggiamento, maggiori
le possibilità di riuscire nella cura….. è difficile non proiettare questi suggerimenti antichi in contesti di riflessione come quelli indotti
dalla lettura del Cervello del paziente di Fabrizio Benedetti, in cui la
ricerca neurofisiologica dimostra oggi come i gesti, le posture, le parole e gli atteggiamenti dei curanti siano in grado da soli di attivare
aree corticali e sistemi sensoriali e di generare una risposta positiva,
un vero e proprio placebo con effetti attivi e positivi sulla salute del
paziente, al pari delle strategie terapeutiche vere e proprie.
Il testo di Fernando Salomon, che chiude questo libro, è interamenete dedicato proprio a questi aspetti del comportamento ritualizzato
del medico nel Medioevo e all’illustrazione di come essi, lungi dal
derivare da una casuale ‘offerta di empatia’, siano invece da considerare il frutto di un training specifico, che dimostra una consapevolezza interna della medicina dell’alta efficacia di gesti che i pazienti
si attendono come ‘parte integrante’ della cura.
Altri contributi sottolineano aspetti e strumenti ‘marginali’ ma estremamente interessanti dei processi di guarigione, come l’uso di anelli
e pietre incise, cui si attribuisce valore di farmaci (al punto che in alcuni casi essi risultano scalfiti da un uso che pare indicare la direzione
del consumo delle parti polverizzate del simbolo come veri e propri
farmaci), o come il culto delle statue di eroi o di atleti cui si attribuiscono, principalmente in Asia Minore, esplici poteri taumaturgici;
anche se, nel caso specifico, il tentativo di connettere l’idea che la
statua possa essere efficace come strumento terapeutico al suo utilizzo in fase di remissione di febbri malariche terzane e quartane (allo
stesso modo in cui il culto dei re taumaturghi serve a curare la scrofo309
Recensioni
la) sembra un riduzionismo inutile e anche piuttosto dimentico della
complessità di approccio alla dimensione mitica della guarigione.
Segnaliamo anche lo studio dotto e ‘trasversale’ di Vivian Nutton, incentrato sulle vicende di una vita di Ippocrate in un testo del XIV
secolo e su una traduzione della prefazione del testo di Asaph in cui
si stabilisce una genealogia ‘nobile’ che connette direttamente la tradizione ebraica agli antecedenti greci; nonché una serie di lavori sulle
modalità in cui il sogno, inteso come strumento terapeutico all’interno
dei templi di Asclepio (il dio fa da sfondo silenzioso in molti dei contributi presentati, anche quando essi non fanno riferimento immediato alle pratiche di guarigione legate al suo culto in Grecia prima e a
Roma poi), si rimodella nel percorso cronologico che connette l’antichità classica al mondo bizantino e all’occidente cristiano. I pazienti
non sono più soli; spesso si muovono assieme ad altri ammalati, in paesaggi dell’anima che si modellano sulle nuove esperienze di una medicina che cambia e si adatta ai contesti sociali e culturali; spesso sono
curati ‘a domicilio’, mentre dormono tranquilli nei loro letti; il dio o
i santi suggeriscono terapie rinnovate, che risentono dei cambiamenti
concettuali in corso nella pratica medica; Cosma e Damiano, immagine raddoppiata del dio greco guaritore, collezionano vittorie ben testimoniate nel Cosmedion di Costantinopoli, come accadeva molti secoli
prima nelle liste conservate dai sacerdoti sul territorio greco e delle
provincie orientali ed occidentali.
Anche le streghe hanno un posto centrale nei riti connessi alla salute
ed alla malattia, alla metà del XVI secolo, nel testo di Bartholomeus
Carrichter presentato dallo studio di C. Rider; induttrici di malattia
attraverso rituali ‘inaccettabili’, debbono essere affrontate con analoghi rituali che portino via il male per liberare i pazienti dalla malattia, dall’impotenza, dalla sterilità. Il concetto ontologico di malattia
è ancora ben vivo in primo evo moderno, alla corte dell’imperatore
Massimiliano II….
Valentina Gazzaniga
310
Essay Reviews
Betta E., L’altra genesi. Storia della fecondazione artificiale.
Roma, Carocci, pp. 267.
Poche storie, come quella che riguarda la fecondazione artificiale,
riescono a intercettare la poliedrica qualità dei cambiamenti antropologici e delle sfide culturali e psicologiche determinate dall’impatto
delle tecnologie e scienze mediche su una delle dimensioni della vita
umana più intime e, allo stesso tempo, socialmente più sentite e più
facilmente oggetto di giudizi di valore. Il libro di Betta racconta in
modo documentato e con le ‘giustÈ scansioni l’evoluzione di una
tecnica che si sviluppò negli ultimi decenni del Settecento, da un lato
con gli studi dell’abate Lazzaro Spallanzani negli anni Settanta
dell’Ottocento, che miravano a stabilire le basi fisiologiche della riproduzione, e dall’altro con la narrazione della nascita ottenuta, forse alcuni anno dopo, dal noto chirurgo inglese John Hunter iniettando lo sperma del marito nell’apparato genitale della moglie. Nel
1803 un medico francese, Michel-Augustin Thouret, dà alle stampe
un testo in cui racconto in dettaglio come nel 1780 fosse riuscito a
far nascere un bambino in perfetta salute sempre facendo iniettare il
seme con una siringa dal marito. Partendo da queste vicende, che
diventeranno l’entroterra storico delle successive esperienze, il libro
mette a fuoco nitidamente le discussioni e le decisioni che la prospettiva progressivamente in miglioramento e in espansione sul piano delle possibilità di intervento della tecnologia hanno provocato
nell’ambito comunità medica, rispetto alla relazione tra medico e
paziente, per quanto riguarda l’atteggiamento della religione e l’evoluzione dei diritto di famiglia.Nel ricostruire le origini delle pratiche
di fecondazione assistita, Betta si concentra soprattutto sulla Francia,
dove sull’onda dei timori neomalthusiani per il declino demografico,
la nuova modalità di supplire a ridotto tasso di fertilità suscitava interesse in un mondo medico in cui, benché ancora con scarsa uniformità e senza casistiche attendibili, si precisavano indicazioni e pro311
Recensioni
tocolli clinici. Nel contempo, l’immaginario letterario iniziava a
ricamare scenari al tempo apparentemente fantastici, ma di lì a un
secolo in via di attuazione da parte di operatori in carne e ossa. Di
fecondazione artificiale si interessò in Italia anche Paolo Mantegazza,
che immaginò l’avvento della crioconservazione e discusse l’uso di
seme di donatore, suscitando naturalmente sia l’interesse della comunità internazionale per le sue esperienza, sia la censura religiosa
su questa come su altre sue posizioni divulgate al largo pubblico.
Mentre i fisiologi scoprivano le basi cellulari e in seguito anche quelle endocrinologiche dei processi riproduttivi, nella stagione del positivismo tardo ottocentesco si coniugavano, nella definizione delle
funzioni che poteva svolgere questa tecnica, sia un processo di medicalizzazione del rapporto sessuale, reso possibile in primo luogo
dalla scomponibilità e sostituibilità e manipolabilità di alcuni procedimenti e costituenti del processo fecondativo, sia l’idea diffusa che
la civilizzazione causava fenomeni degenerativi sul piano della qualità biologica della specie, a cui si sarebbe potuto far fronte con l’innovazione scientifica e tecnologica. Ma, mentre la comunità medica
sperimentava e talvolta creava l’occasione per clamorosi abusi, insuccessi e scandali, ovvero cominciava a confrontarsi con il controllo dell’efficienza e con le prime controversie legali, la religione cattolica giungeva, di fronte a insistenti interpellanze per una presa di
posizione ufficiale, non senza una interna e contrastata discussione a
denunciare come illecita la fecondazione artificiale. In buona sostanza, nel corso della seconda metà dell’Ottocento, la fecondazione assistita si è affacciata come opzione nell’ambito della clinica ginecologica, ma le procedure necessarie per realizzarla (masturbazione
per la raccolta del seme e intervento di una terza persona estranea
alla coppia), nonché gli scenari possibili, a cominciare dall’uso di
gameti da donatori estranei alla coppia, sono state ritenute inconciliabili (turpi, immorali e lesive della legge divina) da parte della
chiesa cattolica con i dogmi che identificano proprio nelle modalità
312
Essay Reviews
naturali di compiersi, il valore sacrale dell’atto riproduttivo. E questo pur di fronte agli argomenti di alcuni teologi che lo scopo per cui
la tecnica veniva usata, ovvero consentire la legittima aspettativa di
genitorialità, avrebbe dovuto essere giudicata in modo moralmente
favorevole. Betta ricostruisce nei dettagli il dibattito e mostra come,
per l’ennesima volta, ma non sarà l’ultima, le gerarchie teologiche,
di fronte a diversi documenti, tra cui quello redatto dal gesuita
Domeni Palmieri nel 1897, che metteva a confronto gli aspetti che
rendevano sia incompatibile e sia compatibile la tecnologia con la
morale riproduttiva, optava per il non licet. Una posizione, che sarà
ribadita nel secolo successivo, anche con il sostegno attivo dello
scienziato di riferimento per le materia biologiche, cioè Padre
Agostino Gemelli, di fronte a nuove interpellanze e pressioni della
società civile e rispetto a tutte le novità che si apriranno grazie agli
avanzamenti della ricerca. Anche in occasione della discussione e
approvazione della legge 40 sulla fecondazione assistita del 2004,
così come durante la campagna referendaria per modificarla nel
2005, la posizione della chiesa fu di contrarietà alla legge, che decise
di difendere quale “male minore”. Anche di fronte alla sentenza della Corte di Strasburgo che nel 2012 ha stabilito che la legge 40 viola
la Convenzione europea sui diritti umani. Il libro di Betta mette opportunamente in luce che la possibilità stessa per la fecondazione
assistita di diventare una pratica di interesse clinico, da offrire quindi
con delle chances interessanti alle coppie, ha tratto impulso dalla ricerca veterinaria. Sulla scia delle innovazioni tecniche e dei risultati
ottenuti dal russo Ivanow in ambito veterinario, riprese anche in
Italia, in un contesto dove non esistevano regole chiare che tutelassero i paziente contro sperimentazioni selvagge, le innovazioni e risultati realizzati sugli animali venivano provati sulle donne senza
troppi scrupoli bioetici. La relazione tra l’interesse per l’uso della
fecondazione artificiale nell’ambito del miglioramento zootecnico e
l’uso della procedura manipolativa in ambito umano trovava peraltro
313
Recensioni
un naturale collegamento nella diffusione delle idee eugeniche.
L’eugenica, non andrebbe mai dimenticato, non era una novità sul
piano dalla concezione politica della società, nel senso che da sempre alcune istanze politico-culturali nelle società umane si fanno carico del problema di come evitare che le scelte riproduttive avvengano sulla base di impulsi irrazionali. Con gli avanzamenti scientifici e
tecnologici, quindi sulla base di idee via via empiricamente provate
su come si trasmettono i tratti ereditari, le élites politiche, economiche e culturali cercavano di condizionare, anche con leggi eugeniche, le scelte riproduttive per fare in modo che coloro che possedevano tratti ritenuti migliori facessero più figli, o che chi invece
appariva difettoso o socialmente meno valido non si riproducesse.
Betta ricorda come alcune riviste di riferimento per il mondo medico
enfatizzassero la portata eugenica della nuova tecnologia, ma allo
stesso tempo una parte del mondo medico faceva anche qualche calcolo statisto e metteva in discussione l’ottimismo generalizzato,
nonché quindi la correttezza deontologica di sottoporre le donne ad
atti medici invasivi. In quel contesto, anche per prevenire denunce e
quindi processi ai medici, si cominciò a istruire procedure per il consenso informato.Un ulteriore aspetto importante che viene preso in
esame nel libro di Betta è come il diritto ha gestito l’uso di tecniche,
che sfidavano le basi tradizionali della disciplina legale dei rapporti
familiari. Betta esamina i tempi e i modi attraverso cui nei paesi europei e negli Stati Uniti è stata superata la difficoltà di ripensare da
parte dei giudici in modo così discriminatorio la fattispecie della denuncia di adulterio da parte del coniuge maschio nel caso del ricorso
alla fecondazione artificiale con seme eterologo. È interessante osservare che si sono dovuti attendere gli anni Sessanta e Settanta, cioè
una sorta di transizione generazionale per registrare un superamento
della percezione, nel diritto occidentale, della fecondazione eterologa quale equivalente dell’adulterio. L’ultimo capitolo del libro si
concentra sulla storia della fecondazione artificiale in Italia. Una vi314
Essay Reviews
cenda peraltro ancora aperta. Betta si dilunga in particolare sulla vicenda del medico bolognese Daniele Petrucci, il quale sosteneva nel
1961 di avere fecondato in vitro embrioni umani, sopravvissuti per
29 giorni. Nel 1964 Petrucci dichiarava di aver fatto nascere 28 persone con la sua tecnica di fecondazione artificiale, ma la storia rimane a livello di resoconti orali e le uniche cose documentabili sono il
clamore mediatico e la condanna della chiesa cattolica. Il processo e
gli sviluppi politici che hanno portato l’Italia a dotarsi in ritardo di
una legge che la comunità medica internazionale ha giudicato non
fondata sulle metodologie di buona pratica clinica e che, in seguito,
è anche risultata in contrasto con i diritti costituzionali, per cui è ormai stata svuotata di validità per quanto riguarda il divieto di diagnosi preimpianto e crioconservazione degli embrioni, viene ricostruito
abbastanza dettagliatamente nel libro. Anche se mancano i passaggi
che videro arrivare e circolare in Italia le tecnologie della fecondazione artificiale dopo la nascita in Gran Bretagna, nel 1978, della
prima bambina concepita in provetta. Betta è uno storico contemporaneo, e quindi lascia abbastanza in ombra passaggi scientifici importanti, o discussioni accese e politicamente influenti che hanno
avuto luogo soprattutto negli anni Settanta, nell’ambito della comunità scientifica sulle ricadute sociali della fecondazione artificiale. In
modo particolare, il cortocircuito che si produsse tra gli esperimenti
di John Gurdon sulla clonazione e le ricerca volte a realizzare la fecondazione in vitro. Nell’insieme però il libro fa comprendere che i
problemi e le sfide tecnologiche, nonché le controversie culturali che
sollevano gli avanzamenti nella manipolazione dei meccanismi e
processi della vita, evolvono. E trovano risposte in parte rigide e in
parte flessibili, che si devono confrontare con aspettative di cui troppo facilmente, e al prezzo di errori e danni, si tende a ignorare le
costanti della psicologia umana che, prevalentemente su basi emotive, guidano le scelte e i giudizi. Un confronto più diretto con queste
costanti, che le ricerche antropologiche evoluzionistiche e le neuro315
Recensioni
scienze sociali stanno mettendo a fuoco, arricchirà forse l’approccio
storico di nuovi strumenti di lettura di fenomeni sociali che a volte
sembrano contraddittori, mentre sono sempre troppo umani.
Gilberto Corbellini
CLARK C. Z., CLARK, O., The Remarkables. Endocrine
Abnormalities in Art. University of California Medical Humanities
Consortium, 2011 (series: Perspectives in medical Humanities)
In many ways, this is a remarkable book. While placing itself in a rather overexplored field – the relationship between art and medicine and
science, or, artistic and figurative representations of illnesses and maladies – it manages to keep abreast from the most obvious pitfalls of the
genre. In fact, while avoiding some of the jargon and many of the niceties of art and cultural historians’ disciplinary discussions, it provides
a very useful confrontation between medical history, in its ‘internalist’
sense, and accurate analysis of paintings (‘art’ is here used to mean
mainly painting, while sculptures are not taken into account). These
are taken mainly from the early modern period, from the Renaissance
onwards, with some exceptions for ancient and contemporary art.
In the author’s words, the bridge between medicine and art is to be
found in a common fascination with, and interest into, “the structure
and functions of the human body, [that] led to recognition of physical
abnormalities in human anatomy and physiology, among them those related to endocrine glands” (p. 3). This was to be expected in the
Renaissance and beyond, when anatomy was among the first preoccupations of medicine, and when science was developing along a strictly
observational stance. The authors base their account on a progressively ‘scientific’ view of the phisiology and pathology of the human
body on the celebrated book by Katherine Park and Lorraine Daston,
316
Essay Reviews
Wonders and the order of Nature (2001). They also seemingly endorse
a refreshing, if at times naif, belief in the sheer power of representation
– that is, they seem to imply that every representation is to be taken at
face value. It may well be that in some of their examples, e.g. the innumerable swelling female necks and throats of the late Renaissance and
Mannerism, this is not exactly the case, and that they can not be taken
directly as goiters (despite the reference to goiter epidemiology in the
artists’ areas of activity). However, the authors are too well aware of the
social and symbolic implications of iconographic elements to push this
game too far. They are thus promptly referring this element to a whole
range of social and cultural factors – fertility beliefs, the connection
between lost virginity and the swelling of the thyroid gland, etc.
Clark and Clark also take into account artists’ fascination with ‘the
other’ – the deviant or the irregular, not to say the monstrous, and for
its realistic or grotesque representation. Normality and its shifts are a
recurrent topic in the book. Here again, more than quoting again the
rich and ever growing bibliography on teratology, they proceed to
examine the way scientific discoveries on aetiology and treatment of
endocrine disorders where developed, mainly by surgeons. The discussion of portaits and depictions of sufferers form the goiter, mentioned above, is substantiated by a very useful digression on how
these were treated, in a chronology spanning from the Renaissance
to the 19th century, from Ambroise Paré to John Hunter to Theodor
Kocher. Equally valuable is the history of treatment (surgical and
not) for thyroid glands (pp. 65-71). Undeterred by the risk of anachronism, these chapters on medical progress are a very interesting
match for the observation of the paintings. The book also examines
dwarfs, with many references to Véronique Dasen’s seminal work,
arriving as far as Pablo Picasso and Toulouse-Lautrec.
While dwarfs have been many times examined, giants are a less
well-known topic. Giants are present in almost all ancient narratives
and mythologies, including the Bible, and as such they have been
317
Recensioni
subject to ‘a broad spectrum of positive and negative associations’
(p. 129). Primitive giants have been associated with bestiality and
ferocity, but in the course of time thay have been ‘tamed’, culturally
speaking, and have become heroic (as in the case of Prometheus,
in fact a Titan) and even serviceable and gentle, as in the case of st.
Christophorus. The concluding chapter, on sex disorders and their
representation, addresses a somewhat difficult subject, both because it displays little iconography, and because it questions disorders
whose diagnosis and treatment are evry far (in time) from representations. In fact, Ribera’s bearded woman, ancient hermaphrodites, despite the advances and changes in Renaissance and especially
early modern medicine, share the destiny of having been ‘wonders’
more than scientific phenomena. The book closes on a much needed
ethical discussion, on the necessity for art (and medicine!) to deal
respectfully and tactfully with human beings whose perceived ‘anormality’ is often but a matter of disease (p. 175). The book has magnificent illustrations and may be recommended to the art historian and
the physician alike, but can also prove useful for classroom use with
medical students following a history of medicine course.
Maria Conforti
318
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 319-324
Journal of History of Medicine
Libri ricevuti/Received Books
a cura di Valentina Generoso
MONTINARI M. R., Clonazione e cellule staminali. Ricerca ed etica. Lecce, Edizioni Grifo, 2012.
Clonazione e cellule staminali sono due grandi temi di dibattito sollevati oggi dalla scienza, soprattutto perché se ne prevede, o se ne
teme, come imminente l’applicazione all’uomo. Non c’è dubbio che
la medicina e la società si trovino di fronte ad una svolta importante
che richiede decisioni gravi per le loro implicazioni; decisioni che non
dovrebbero essere viziate da conoscenze carenti o errate. Questo libro,
ampiamente aggiornato ai più recenti progressi compiuti dalla ricerca
biotecnologica in questo campo, si colloca nella prospettiva più adatta a fornire un contributo personale concreto dell’Autrice sui dibattiti
in corso e rappresenta uno strumento pratico e completo per studenti
universitari e ricercatori. Sono trattati sia gli aspetti etico-scientifici
che i risvolti applicativi delle cellule staminali e della clonazione.
Ripercorrere la storia di queste tecniche aiuterà a mettere ordine nelle
nostre idee e a capire se i rischi che corriamo oggi siano realmente
diversi e più preoccupanti di quelli che abbiamo corso in passato.
ZURLINI F., Il Collegio Medico di Fermo. Formazione scientifica
e cultura professionale nella Marca fermana in Età moderna (secoli
XVII – XVIII). Fermo, Andrea Livi Editore, 2012.
Il volume è il risultato della collaborazione dell’Autrice e dello
Studio firmano per la storia dell’arte medica e della scienza con
l’Ordine dei Medici, Chirurghi e d Odontoiatri della Provincia di
Fermo, per riscoprire e valorizzare la secolare e prestigiosa tradizioKey words: Phantasma - Dream - Oniric image - Greece
319
Libri ricevuti
ne storico-medica di questo territorio. L’intervallo cronologico preso
in esame – i secoli XVII-XVIII – risponde ad una scelta scientifica
ben precisa: è questo il periodo che gli storici definiscono “Età dei
Collegi” e che vede sorgere nella penisola italiana ben quattordici
collegi, in cui possiamo annoverare anche quello fermano, contestualizzabile entro il territorio dello Stato Ecclesiastico. Il Collegio
Medico Fermano, quindi, si inserisce in un processo di professionalizzazione che coinvolge in quel momento gli Stati dell’intera penisola e di molte regioni europee.
La ricerca è stata condotta in gran parte su materiale archivistico e
manoscritto inedito, conservato presso archivi e biblioteche fermane
e della capitale romana ed ha consentito di ricostruire la storia del
Collegio Medico, la sua struttura e l’operato, i soggetti che ne furono
protagonisti. Sono state inserite schede di approfondimento ed il testo è corredato da un ricco apparato iconografico con la riproduzione
di alcuni documenti rinvenuti nella ricerca.
CENTRO STUDI PROSPERO ALPINI, Alpiniana. Studi e testi.
Marostica, Edizioni Antilia sas, 2011.
In questo volume sono raccolti dieci studi dedicati alla figura e all’opera del famoso medico e botanico Prospero Alpini. Alcuni sono lavori comparsi in precedenza, in qualche caso riveduti e aggiornati,
ma che è sembrato opportuno ripubblicare per renderli facilmente
disponibili a chi vorrà riprendere e approfondire lo studio (“I manoscritti di Prospero Alpini”, di Giuseppe Ongaro; “Contributo all’iconografia di Prospero Alpini”, di Giuseppe Ongaro e Antonio Gamba;
“Prospero Alpini e l’introduzione di piante esotiche nell’Orto botanico di Padova: Rheum Rhaponticum e Oenothera biennis”, di Elsa
M. Cappelletti; “Semina Horti Medici (1614), manoscritto ineditodi Prospero Alpini e primo catalogo dei semi dell’Orto botanico di
320
Received Books
Padova”, di Elsa M. Cappelletti e Giuseppe Ongaro; “Mélancolie
et méthodisme: traduction originale et commenatire d’un texte de
Prosper Alpin (1553-1616), di Caroline Petit).
Gli altri cinque contributi invece sono completamente inediti e sono
la dimostrazione pratica di quanto ancora ci sia da lavorare nell’approfondimento dell’opera alpiniana (“Della inedita traduzione di
Prospero Alpini del De animalibus di Averroè: note introduttive e
trascrizione del testo”, di Giulio F. Pappagallo; “La balneoterapia
nel De medicina Aegyptiorum di Prospero Alpini”, di Maurizio Rippa
Bonati; “Sulla fortuna settecentesca di Prospero Alpini. Robert
James e la traduzione inglese del De praesagienda vita et morte
aegrotantium (1746)”, di Massimo Rinaldi; “Ottaviano Rovereti e
prospero Alpini” e “I rapporti tra Gaspard Bauhin e prospero Alpini
(con quattordici lettere di Prospero Alpini a Gaspard Bauhin)”, di
Giuseppe Ongaro.
SALERNO A. et. al. (a cura di), INGRASSIA G.F., Informatione del
Pestifero et contagioso morbo. Palermo, per conto dell’Accademia
delle Scienza Mediche, Edizioni Plumelia, 2012.
Gianfilippo Ingrassia, medico e anatomista di epoca rinascimentale,
grande conoscitore dell’anatomia, è considerato il fondatore della
Medina Legale e della Teratologia. Nominato nel 1575 da Filippo
II, Protomedico generale di Sicilia, riuscì con grande competenza
e valore umano, mentre infieriva la peste su Palermo, ad arginare
l’avanzata del morbo, intuendo il preminente ruolo del contagio e
innovando, così i criteri epidemiologici. Il grande successo dell’intervento sanitario dell’Ingrassia si consolida nella prevenzione
(“barreggiamento”), vale a dire in tutte quelle misure atte a ridurre
il contagio, in quelle insindacabili decisioni d’intervenire su quanti
non eseguivano le direttive del protomedicato dov’era considerata
321
Libri ricevuti
anche, in maniera brutale ma necessaria, l’applicazione della “forca”. Ma si assistette altresì alla profonda disponibilità dell’Ingrassia a rivolgere attenzioni e amorevolezza verso quel volgo disperato
e piagato, consegnando, senza cedimenti sulle regole, tanta umana
comprensione. Così l’appellativo di “don Filippello” traduce il senso
di rispetto che il medico seppe conquistarsi dalla popolazione afflitta
dal morbo. Quest’opera riconsegnata alla lettura è rivolta alla classe medica (ma non soltanto), per sollecitare, fin quanto possibile,
nonostante un linguaggio difficoltoso, la conoscenza di quel tempo,
di quell’uomo, di quello scienziato il cui operato si produsse nella
coscienza terapeutica, scientifica e politica degli anni successivi.
SALERNO A. e MALTA R. (a cura di), Corso di formazione in
Medicina, individuo, società. Accademia delle Scienze Mediche
dell’Università degli Studi di Palermo, 2011.
Questa presentazione riassume obiettivi e contenuti del Corso di
formazione, rende noti docenti e corsisti e illustra le ragioni della
proposta formativa, tramite l’intervento e il contributo diretto dei
docenti nei loro rispettivi campi di interesse.
RIGO G.S., Non recare ingiustizia e danno. Una discussione sulla storia degli uomini obbedienti alle leggi del castigo. Villasanta
(MB), Casa Editrice Limina Mentis, 2012.
Questo saggio si richiama nel titolo al Giuramento di Ippocrate (“mi
asterrò dal recar danno e offesa”) che, ancora oggi, sancisce in
un rituale saldo nella tradizione l’ingresso dei laureati in medicina
e chirurgia nella vita professionale. Nonostante la chiarezza delle
affermazioni ed il valore dei principi trasmessi con il Giuramento,
322
Received Books
da alcuni anni si è avvertita l’esigenza di insegnare la bioetica in
una prospettiva di educazione alla professione medica. L’attualità
presenta molteplici occasioni per affrontare l’argomento da diversi
punti di vista, ma qui interessa la descrizione di situazioni passate,
laddove gli attori e gli interessi sul campo erano assai meno numerosi e confusi ed emerge quindi con sufficiente nitore anche il ruolo del
medico. In particolare, si porta alla luce un argomento che sembra
scomodo alla medicina di oggi. La storia, anche quella molto lontana
da noi, appare ricca di fatti e di documenti sul tema e si presta bene
ad essere interrogata sul ruolo del medico e del chirurgo sulla scena
della tortura. non sono soltanto le questioni morali del presente a
lasciare ampi margini alla discussione pubblica ed alla riflessione
individuale.
FAPPANNI S. et. al. (a cura di), Adolfo Ferrata (1880 – 1946), un
grande maestro della Medicina. Modica, Cannizzaro Arti Grafiche,
2012.
L’Amministrazione Comunale di Monte Isola ha dato alle stampe
questo volume in memoria del prof. Dott. Adolfo Ferrata, in occasione dell’intitolazione di una piazza e di una lapide celebrativa, in
località Porto di Siviano, all’illustre patologo ed ematologo che trascorse significativi periodi della sua vita nel territorio montisolano,
dov’è tumulato. Oltre a essere stato un celebre medico, capace di
formulare teorie scientifiche estremamente rilevanti, di pubblicare
studi di alto profilo e interesse, tanto da conseguire importanti consensi a livello internazionale, il prof. Ferrata era una persona dotata
di grande umanità. Lo dimostra l’affetto dei suoi tanti allievi che
all’ateneo pavese, dove ha insegnato per parecchi anni, lo consideravano un vero e proprio “Maestro”, nel senso più alto e nobile del
termine. Da non dimenticare sono anche i gesti di grande altruismo
323
Libri ricevuti
e generosità che egli ha posto in essere, anche verso i Montisolani,
senza mai dimenticare le persone meno abbienti. Il libro si propone
di ripercorrere, seppure in maniera sinottica, la vita del prof. Adolfo
Ferrata e di illustrarne, attraverso autorevoli contributi, l’importante
attività scientifica.
SANTAMARIA HERNANDEZ-CUENCA M. T. (a cura di), Textos
médicos grecolatinos antiguos y medievales: Estudios sobre composiciòn y fuentes. Servicio de Publicaciones de la Universidad de
Castilla-La Mancha.
Il presente volume comprende dieci studi su testi medici dell’Antichità e del Medioevo scritti in greco o in latino. È stata rivolta particolare attenzione ai procedimenti e alle tecniche di composizione di
questi testi (compilazione, traduzione, uso linguistico, lessico tecnico, genere letterario) e alle fonti utilizzate, entrambi aspetti fondamentali che devono essere presi in considerazione quando si intraprendono la ricostruzione, lo studio e l’edizione dei suddetti testi.
Questa prospettiva è stata applicata agli scritti antichi e medievali
dedicati alla conoscenza e alla pratica della Medicina, a traduzioni di
opere mediche dal greco al latino, così come a scritti relativi alla ginecologia, alla medicina magica e alla preparazione di medicine con
sostanze provenienti da animali. In relazione a questo, nell’insieme
degli studi è stata rivolta attenzione anche all’edizione e alla modifica dei testi, da cui si ricavano informazioni sulla trasmissione dei
manoscritti, sulla dottrina esposta in essi e sulla loro conservazione.
324
MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 325-334
Journal of History of Medicine
Notiziario/News
9 April - 9 June 2013 - Modern Records Centre, University of
Warwick, Irradiating the Sun-Starved: Light Therapies in Britain, c.1900-1940
Curated by: Dr Tania Woloshyn
http://www2.warwick.ac.uk/fac/arts/history/chm/outreach/soakinguptherays/
As part of the Wellcome Trust-funded project, ‘Soaking Up the
Rays: The Reception of Light Therapeutics in Britain, c.1899-1938’,
this exhibition features important light therapy textbooks, advertisements, user manuals, popular articles, ultraviolet (UV) and infrared lamps, and UV-protective goggles. These images, objects and
texts were vital to disseminating and defining natural and artificial
light therapy. Heliotherapy (natural sun therapy) and phototherapy
(artificial light therapy) developed as progressive therapies during
the late nineteenth and early twentieth centuries for the treatment
of a variety of conditions, especially types of tuberculosis (of the
lungs, skin, glands, bones and joints, etc.). Sunlight, whether natural
or artificially-produced, could be used locally, that is directly onto
wounds or lesions, or generally as a ‘bath’ for the whole body, and
was understood to possess bactericidal and analgesic properties. As
such light became a powerful, natural regenerative agent in the treatment of acute and chronic diseases. The exhibition concentrates on
the early development of heliotherapy and phototherapy in Britain,
highlighting their use in hospitals, sanatoria, and within the home
with a fascinating range of material dating to c.1900-1940.
This Exhibition runs in conjunction with the Wellcome Trust-funded
invitee interdisciplinary workshop, ‘Light Technologies: the Materialisation of Light Therapeutics, c.1890 to the Present’, at the Modern
Records Centre on Wednesday 10 April 2013.
10/04/2013 - 9.30am to 5.00pm - Seminar Room, Modern Re325
Notiziario
cords Centre, Warwick, Light Technologies: the Materialisation
of Light Therapeutics, c.1890 to the Present
Convened by Dr Tania Woloshyn
http://www2.warwick.ac.uk/fac/arts/history/chm/outreach/
soakinguptherays/
This interdisciplinary workshop brings together scholars in the histories of medicine and visual culture with specialisms in light therapeutics, radiation and radiology, photography, and medical technologies.
Drawn by a shared interest in perceptions - both historic and contemporary - of light as curative and transformative, speakers and delegates will meet for a focused session exploring the historic development
of heliotherapy (sun therapy), phototherapy (artificial light therapy),
and radiotherapy (X-ray therapy). Particular emphasis will be placed
on the visual and material cultures that defined and disseminated understandings of these therapies, especially images produced through
photography (itself a light technology), as well as the diverse range of
lamps, textbooks, pamphlets and advertisements that packaged light
as a valuable commodity, for the individual and the nation.
Speakers Include: Roberta Bivins (Warwick), Simon Carter (Open
University), Anne Jamieson (Leeds), Melissa Miles (Monash), James Stark (Leeds), Sophia Zweifel (Independent scholar).
18/04/2012 - 20/04/2012 - University of Warwick (UK), Scientiae
2013: Disciplines of Knowing in the Early Modern World
http://www2.warwick.ac.uk/fac/arts/history/chm/events/conferences_workshops/
The second annual Scientiae conference took place on the 18-20th ofApril
2013 at Warwick University in the UK, building on the success of the first
Scientiae conference in April 2012 (hosted at Simon Fraser University,
Vancouver) which brought together over 100 scholars from across the
globe to explore the interdisciplinary nature of early modern knowledge.
326
News
The premise of this conference has been that the Scientific Revolution
can be considered an interdisciplinary process involving Biblical exegesis, art theory, and literary humanism, as well as natural philosophy,
alchemy, occult practices, and trade knowledge.
26/04/2013 – 27/04/ 2013 - Brussels, University of Birmingham’s
Brussels Office and the Free University of Brussels (VUB), Food
and Hospitals: an historical perspective. Sponsored by the Society For Social History of Medicine
Food and drink were crucial to hospital and asylum expenditure from
medieval to modern times, not unusually comprising one half of medical institutions’ annual budgets. Drink and diet naturally varied with
country, region and locality. The organizers of this conference are interested in exploring broad geographical perspectives and associated
fads, prejudices and phobias. The acquisition, preparation and use of
foodstuffs were also managed by diverse groups, sometimes lay or clerical, as well as medical, including doctors, nurses and dieticians. Dietary
needs and preferences of patients also varied with age, gender, race and
religion, while meals were often augmented or restricted in line with
diagnosis and discipline. Views concerning the role of food and drink
in recovery also shifted significantly, both in earlier centuries, and more
recently with the rise of the nutritional sciences. While contemporary
grumblings about hospital food have become the quintessential hospital
complaint, it is undeniable that a clean, warm bed, rest and the provision of food and drink, rather than medicines and therapies have always
greatly increased hospital patients’ chances of recovery. Indeed diet has
from the time of Galen been a central part of medical therapy. However, even if central to the day-to-day routine of hospitals, workhouses
and asylums, food and drink continue to be overlooked in historical accounts of hospitalisation. This conference aims to foreground the role of
food and drink in health care institutions in the past.
327
Notiziario
29/05/2013 – 1/06/2013 – House of Science and Letters (Kirkkokatu 6) and Helsinki University Museum (in the picture, Snellmaninkatu 3), Helsinki, the Finnish Medico-Historical Society
presents the XXIV Nordic Medical History Congress
Timetable
29/05/2013 - The Meeting for Medical History Museum, Helsinki
University Museum, Auditorium. Theme of the meeting: Cooperation
12.00-12.20 Words of welcome by Director Sten Björkman, Helsinki University Museum
12.20-13.00 Keynote speaker: Associate Professor Kerstin Hulter
Åsberg, Uppsala University: How can medical history museums benefit from each other?
13.00-13.15 Curator Henna Sinisalo, Helsinki University Museum:
Cooperation between the Finnish medical history museums
13.15-14.45 Discussion
14.45-15.30 Coffee break
15.30-16.30 Project planner Susanna Hakkarainen, Helsinki University Museum: A walking tour of some (previously) medical buildings in the City Center Campus.
29/05/2013
9.00–15.00 - Workshop, House of Science and Letters, Room 505. Theme of the workshop: Reburial or curation: human remains and ethics
Modern scientific methods provide new information on human remains recovered in archaeological excavations. The workshop focuses on three topics: 1) What are the possibilities and challenges that
the new methods bring to the study of curated skeletal collections
and newly found human remains. 2) The novel ethical issues arising
for curation and reburial. 3) Ethical guidelines of human remains
from archaeological excavations have not been given in Finland.
The workshop will discuss the need of such guidelines in relation
to national legislation and international human rights conventions.
328
News
30/05/2013
9.00–9.15 Opening of the congress 9.15-10.00 Helsinki University Museum, Keynote lecture, “Protection of privacy in research
on archival documents and museum collections” (Director General,
Docent Jussi Nuorteva, National Archives of Finland)10.15-11.00
Helsinki University Museum, Keynote lecture, “Palaeopathology
and medical history: is there divergence or convergence in the use
of different sources of data in understanding the health of our ancestors?” (Professor Charlotte Roberts, University of Durham, UK)
11.00-12.30 Lunch
12.30-14.15 2–6 parallel sessions, House of Science and Letters
14.15-14.45 Coffee break
14.45-16.30 2–6 parallel sessions, House of Science and Letters
16.45-17.45 Meeting of Nordisk Medicinhistorisk Förening, for
members of the Nordic Medical History societies, House of Science
and Letters
16.30-19.00 Possibility to visit the exhibition on the history of medicine in the Helsinki University Museum
31/05/2013
9.15-10.00 Helsinki University Museum Keynote lecture, ‘A most raging pestilential fever’: cattle plague through the centuries (Dr Louise
Hill Curth, Reader in Medical History, University of Winchester, UK)
10.15-11.00 Helsinki University Museum, Keynote lecture, Global
child health and the issue of anthropometry 1950s – 2006.(Professor
Astri Andresen, University of Bergen, Norway)
11.00-12.30 Lunch
12.30-14.15 2–6 parallel sessions, House of Science and Letters
14.15-14.45 Coffee break
14.45-16.30 2–6 parallel sessions, House of Science and Letters
16.45–17.00 Closing Ceremony of the congress, House of Science
and Letters
329
Notiziario
19.00-22.00 Congress banquet, New Clinic
(http://www.suomenlhs.fi/banquet.html)
18/06/2013 – 22/06/2013 – University of Sydney, Sydney, Australia, The International Society for the History of the Neurosciences (ISHN) 18th Annual Meeting
ISHN was founded in Montreal on May 14, 1995. Its mission is to
improve communication between individuals and groups interested
in the history of neuroscience, promote research in the history of
neuroscience and promote education in and stimulate interest for the
history of neuroscience.
The full programme outline of this year’s meeting will include 3
days of general history of neurology and related fields. As the meeting will be held at the University of Sydney, many activities are
planned around the campus, including museum visits, a display of
rare medical books, as well as walks around historical precincts. An
excursion to the old Quarantine Station on Sydney Harbour is planned for Thursday 21st June 2013 where presentations will focus on
the history of infectious diseases of the nervous system. A celebration of Australasian neuroscience is planned for one of the days; this
being the 50—year anniversary of the awarding of the Noble Prize
to Sir John Eccles for his work on neurotransmission.
26/06/2013 – 27/06/2013 - St Anne’s College, Oxford, Historical
perspectives on work and occupational therapy - Theory and
empowerment-coercion and punishment
This conference aims to provide a platform for exchange to scholars
who are working on varied aspects of labour and occupation in relation
to the history of health and medicine broadly conceived. The idea is
to encourage critical engagement with the various medical, social and
political factors implicated in how work and occupational therapy deve330
News
loped within specific national and clinical contexts and at different periods. Comparative approaches and contributions focusing on transnational exchanges are particularly welcome, as are those concerned with
pre-modern and non-European developments. Rigorously contextualised case studies of specific institutions and approaches are also sought.
Address for inquiries: Ms Emma Hallet [email protected]
or Professor Waltraud Ernst [email protected]
Conference website: http://www.history.brookes.ac.uk/conferences/2013/therapy-empowerment/
22/07/2013 – 28/07/2013 – Manchester, 24th International Congress of History of Science, Technology and Medicine
The International Congress is the largest event in the field, and takes
place every four years. Recent meetings have been held in Mexico City (2001), Beijing (2005) and Budapest (2009). In 2013, the
Congress will take place in Manchester, the chief city of Northwest
England, and the original “shock city” of the Industrial Revolution.
Congress facilities will be provided by The University of Manchester, with tours and displays on local scientific, technological and
medical heritage co-ordinated by members of the University’s Centre for the History of Science, Technology and Medicine.
24/07/2013 – 26/07/2013 – University of Münster, Germany, Crimes of Passion: Representing Sexual Pathology in the Early 20th
Century
The discourse on sexual pathology claimed a central position in modern European culture almost as quickly as it began to establish itself
as a scientific discipline. The bonds between science and culture seem
all the more visible when it comes to the science of sexual deviance,
as many sexual scientists were quick to point out in their works.
Without empirical or statistical material at hand, the scientists turned to
331
Notiziario
other sources of knowledge in order to legitimize and systematize sexual
pathology. Their earliest case studies came from literature. Indeed, certain authors found themselves under examination, as sexual themes in
their books were treated as evidence of pathological fantasies. These
literary perversions became the basis for sexual pathologists’ scientific
interpretations and psychological analyses. As part of the formation and
development of the discipline, the connection between sex and crime
also played a central role in the scandals, injustices, and power struggles
associated with sexual pathology in the early 20th century.
The popular reception of works by Richard Krafft-Ebing, Magnus
Hirschfeld, or Erich Wulffen, in addition to their contested scientific
reception, attest to a wide interest in social deviation with sexual deviants being just one particularly scandalous branch of alterity.
Indeed, deviation is the Other to that which is socially accepted, legitimate, and institutionalized. Social deviance by definition breaks course
from what is construed as “normal.” The deviant breaks with the social order and, depending on the particular historical and political configuration, might be dealt with as a criminal. The debate surrounding
Paragraph 175 of the German penal code that made sexual relations
between people of the same sex illegal highlights the virulent history of
how sexual deviance and crime were yoked together. Paragraph 175—
enacted in the 19th century, but which was not completely repealed until
1994—brought certain sexual relations with their own specific social
and cultural sanctions into the juridical realm of penal codes and state
regulation. A significant part of this new institutionalization of sexual
deviance (both academically and in terms of the law) involved thematizing gender roles, especially questions of “the female.” The pathologization of femininity was famously and scandalously presented by Otto
Weininger in his Geschlecht und Charakter, a work that marks another
controversial episode in the history of sexual pathology and modernism.
The conference Crimes of Passion focuses on the triad of sexuality,
criminology and literature during the early decades of the 20th century.
332
News
4/09/2013 – 5/09/2013 - Bern, Switzerland, Medical expertise in
the 20th and 21st century
Annual conference of the Swiss Society for the History of Medicine
and Sciences.
Currently we experience a crisis of expertise. It is true, experts are
called for in all areas of life and on all levels of knowledge, their judgements and advice fill our talk shows, newspapers and bookshelves.
But they do not provide the clarity, unambiguity and safety we long
for. The statements of the acknowledged or self-proclaimed experts
are to contradictory, our own standards of expertise to blurred, our
desire for a democratization of expertise to strong. Does this diagnosis hold true for medicine, too? And if so, how did this happen? Some
attention has been paid to the “birth” of the medical expert in the 18th
century, the establishment of his professional status in the 19th century as well as to the sociology and epistemology of today’s medical
expertise, but the change of the medical expert system in the 20th
century has rarely been addressed.
The conference is linked to the Workshop for young scholars “Expertise in Medicine and Natural Sciences” (see www.sggmn.ch/forum-e.html).
Keynote speakers: Thomas Broman, Wisconsin
Organization: Hubert Steinke, Institute for the History of Medicine,
University of Bern
Conference languages are English, German, and French.
4/09/2013 – 7/09/2013 – Lisbon, Portugal, EAHMH (European
Association for the History of Medicine and Health) Biennial
conference on Risk and Disaster in Medicine and Health, co-organised by the Universities of Evora and the Faculty of Medicine
Risks and disasters have always been central issues in health and
medicine. They illuminate the interfaces between science, medicine,
333
Notiziario
environment, economy, society, culture and politics. Responses to
preventive measures have often reflected tensions between the perceived wider social and economic benefits of interventions and the
short-term costs imposed on individuals, specific social groups or
society at large. One issue raised by such tensions has been whether
individual freedom is deemed less important than the health of the
community. Threats of epidemics have provoked local, national and
international agencies to adopt drastic measures, consciously balancing the risk of disease against the economic risks posed by the
disruption of trade or the implementation of expensive sanitary or
environmental-protection measures whose cost effectiveness
was difficult to foresee. The strategies developed to cope with risk
and disaster form the core of public health and medical philosophy,
ranging from quarantines and vaccinations to screening programs and
high-tech medical monitoring. Yet there are distinct national and chronological differences in definitions, perceptions and representation of
risks and dangers. They also vary according to the decision makers and
broader publics: governments, medical professionals and other agencies, and different social classes, ethnic and gender groups. The debate
will focus on all aspects of risk and disaster in the history of health and
medicine, including its changing definition and the movement towards
its quantification, covering epidemics, infectious and chronic disease,
injuries and mental health, national and chronological differences and
shifts in the definitions, perceptions and representation of risks and
dangers, considered globally and according to race and ethnicity, gender, class, and professional status. The articulation between personal
risk, diagnosis and prognosis throughout history and health risks affecting communities of all sizes is a key issue. The Lisbon Conference
will have special sessions on the ‘History of Medicine on Display’,
covering museology and the history of medicine and health as well
as other practices of displaying the history of medicine to the public.
For more information go to http://www.eahmh.net/
334
MEDICINA nei SECOLI
Arte e Scienza
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hominis nell’edizione del Littre, voI. 6, pag. 64).
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Esempio:
a) Riviste (abbreviate secondo le indicazioni dei periodici scientifici, come
pubblicate in ciascun numero di gennaio dell’lndex Medicus) :
ROSSI A., NERI O., Claude Bernard ed i nosologisti. Med. Secoli 1993; 5: 75-87.
Per le citazioni successive, usare una versione abbreviata, indicando l’Autore/i e la prima nota di referenza.
Esempio:
ROSSI A., NERI O., nota 12, p. 18.
b) Libri: ROSSI A., Storia della Medicina. Roma, Delfino. 1990, (eventualmente) pp. 12-25.
c) Capitoli nei libri:
NERI O., lppocrate. In: ROSSI A., Storia della Medicina. Roma, Delfino, 1990, pp. 12-25.
I testi classici debbono essere citati in una edizione critica, dopo la bibliografia generale, prima delle note.
Alla fine della Bibliografia e Note: Correspondence should be addressed to:
seguito dal nome dell’ Autore e da un indirizzo privato o istituzionale.
Esempio:
Correspondence should be addressed to:
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Medicina nei Secoli Arte e Scienza - Dipartimento di Medicina Molecolare, Storia della Medicina, Viale dell’Università 34/a, 00185 Roma, I, telefono (06) 4451721, fax (06) 4451721 e-mail [email protected]
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paleopathology, social medicine, public health history, history of pharmacy, etc.). Manuscripts are submitted with
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SHORT TITLE.
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5. Running title (in the same language of the paper)
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be given in the endnotes. In the text, only shorter references to critical editions or to manuscript may be included
(i.e., Nat. Hom., Li. 6.64 as a reference to the Hippocratic treatise De natura hominis, edited by Littré, vol. 6, p.64).
Tables and images may be included, with text and legends on a separate page. Images are usually published
in b/w. Copyright and/or publishing permission for the images must be provided by the Author(s). The Editorial
Office have the right to modify the text according to the Journal’s style.
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Notes must be numbered by Arabic numbers, following the order in the text.
Examples:
a) Journal article: ROSSI A., NERI O., Claude Bernard ed i nosologisti. Med. Secoli 1993; 5: 75-87. Journal
titles may be abbreviated according to the World list of scientific periodicals as published in each January issue of
Index Medicus.
For subsequent quotations, please use a shorter form, including Authors and the first citing note. Example:
ROSSI A., NERI O., nota 12, p. 18.
b) Books: ROSSI A., History of medicine. Roma, Delfino, 1990, (when needed) pp. 12-25.
c) Chapters in Books NERI G., Hippocrates. In: ROSSI A., History of medicine. Roma, Delfino, 1990, pp. 12-25.
d) Classical works should be quoted in a critical edition, after the general bibliography and before the notes
and references.
At the end of the References and Notes, a corresponding address must be provided with the following text:
“Correspondence should be addressed to: Author’s Name, private or institutional address, email address.”
PEER REVIEW: Articles submitted for publication will be sent (omitting the Author(s) names) to two independent and anonymous referees. The Editorial Board will forward the referees’ opinion (accepted, not accepted,
accepted with revisions) to the Author(s).
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Medicina nei Secoli Arte e Scienza - Dipartimento di Medicina Molecolare, Storia della Medicina, Viale
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SPELLING, DATES, NUMBERS, ETC
Spelling
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Use -ise not -ize; ie. analyse.
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Use capitals for First World War, Second World War.
Use per cent in text, % with digits (see numbers below).
Dates
15 May 1840; May 1840; 1840–1903; 1843/4 (use for a term or period overlapping the
years). Do not abbreviate months.
mid-1940s; late 1960s, mid-sixth century; mid-sixth-century Bible; mid-century; AD; BC;
May 1940; inter-war.
Times: 7.30 or 8.00; 22.00.
Sixth century, sixth-century Bible; late sixth-century Bible.
Numbers
One to a hundred in words, 101 onwards in figures, except for round numbers, e.g. a
thousand, a million, etc. There are exceptions to this, namely statistics – such as when the
text is making a series of comparisons (e.g. ‘the numbers were 42, 58 and 64 respectively’) ,
ages (‘80-year-old’, but not ‘aged eighty’), and decimal places (8.25).
Use hyphens – forty-four, sixty-five, eighty-nine.
For statistics, use figures when an abbreviated quantity is used: 5cl, 98mg, 45mph, etc.
If the statistic is a one-off (or at the beginning of a sentence), then use written number and
the do not abbreviate quantity. Example: ‘Five centilitres of alcohol would be enough to
make the man drunk.’
Use as few figures as possible: 1252–4, 113–24, 24–5, 20–1, 500–1, 1850–1903 (but do not
interrupt 11–19 as eleven to nineteen are whole words).
Always write the number out in full at the start of the sentence.
Hyphens and dashes
Use where grammatically appropriate. Examples: ‘30-year-old man’ but do not use hyphens
for ‘male, 30 years old’, ‘good-looking’ but not in ‘good looks’, etc.
Use to breaking up vowels in compound words, e.g. anti-alcoholism; micro-organism; coordination.
See also Dates above.
For a parenthesis, use two en-dashes to separate the clause – like this – rather than a normal
hyphen.
Use closed up en-dash between words of equal weight, e.g. doctor–patient relationship, and
in dates e.g. 1721–35.
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Ricette senza glutine
Pane, pasta, pizza e torte salate
ISBN 978-88-95814-73-5
2012, prima edizione, italiano, f.to 20 × 28, pp. 96
Materia: Chirurgia. Prezzo: € 28,00
ISBN 978-88-95814-88-9
2012, prima edizione, italiano, f.to 15 × 21, pp. 95
Argomento: Medicina. Materia: Ricettario
Prezzo: € 15,00
Nadia Peragine
Silvia Castorina
Caratterizzazione di funzioni cellulari
nelle leucemie
Aspetti della comunicazione
medica
ISBN 978-88-95814-80-3
2012, prima edizione, italiano, f.to 16 × 23, pp. 266
Collana Studi e Ricerche, n. 4. Materia: Biologia
Prezzo: € 22,00
ISBN 978-88-95814-81-0
2013, prima edizione, italiano, inglese
f.to 21 × 29,7, pp. 241
Materia: Dizionario medico. Prezzo: € 18,00
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www.editricesapienza.it
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Finito di stampare nel mese di luglio 2013
Centro Stampa Università
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Piazzale Aldo Moro 5 – 00185 Roma
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