A chi conosce la narrazione occidentale sionista del

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A chi conosce la narrazione occidentale sionista del
A chi conosce la narrazione occidentale sionista del conflitto arabo-israeliano può sembrare strano
che sia un palestinese a presentare una raccolta di saggi sulla condizione dei mizrachi, gli ebrei
israeliani di origine araba. Di norma si tratta di una condizione che, oscurata dalla storiografia
occidentale, vuole che gli israeliani, tutti, siano vittime sopravvissute all’Olocausto e ai pogrom
subiti in Europa e che, al loro legittimo “ritorno” nella “terra dei padri”, siano aggrediti dagli arabi,
più o meno selvaggi e qui, in una terra che occupano per diritto divino, ancora più in generale, siano
vittime dell’odio degli “islamici”, fanatici e stragisti. Chi scrive invece pensa che la questione debba
essere inserita nel dibattito storiografico relativo al rapporto tra “cristianità” – oggi si dice
“Occidente – e i mondi connotati dalla civiltà arabo-islamica.
Fino alla contemporaneità, in una pratica che affonda nei secoli passati, le élite al potere delle
potenze europee emergenti hanno formulato le loro politiche nei confronti del mondo arabo
ottomano secondo una concezione coloniale dei rapporti internazionali per cui ogni azione politica,
diplomatica, militare, commerciale o culturale, è stata tesa a indebolire l’avversario con l’obiettivo
di acquisire vantaggi nel contesto di una ideologia nata e sviluppatasi nella logica della pirateria e
del saccheggio. Si tratta di una concezione coloniale che, ancora oggi dominante nei rapporti tra le
élite euro-americane e i paesi ex coloniali, nel caso del mondo islamico ha a proprio vantaggio
motivazioni ideologiche ancora maggiori perché fondate facendo risalire al medio evo la lotta
contro l’espansionismo dell’islam. Sono motivazioni che trovano una veste attuale nelle
teorizzazioni sullo “scontro di civiltà” e la loro più chiara concretizzazione nella “guerra al
terrorismo”, un terrorismo che a volte è sottinteso ma che spesso è esplicitamente attribuito agli
arabi, ai cosiddetti “islamici”, e annoverato in un fenomeno ormai lessicalizzato: “terrorismo
islamico”, appunto.
È soprattutto nel corso dell’Ottocento che la strategia della demolizione del nemico trova
applicazione negli sforzi che le potenze europee, in particolare l’Inghilterra, la Francia e la Russia,
compiono per uccidere “l’uomo malato d’Europa”, cioè l’impero ottomano, e per spartirsene le
spoglie. In questa prospettiva le potenze coloniali individuavano il gruppo a cui far svolgere il ruolo
di collaborazionisti, specie di lobby locali all’interno dei territori dell’impero ottomano. Per ottenere
i risultati attesi, nelle fila delle minoranze ebraiche e cristiane reclutavano adepti e a questi offrivano
vantaggi economici e di status sociale. Ed è per questo che offrivano la cittadinanza francese o
britannica ai collaboratori locali i quali diventando cittadini stranieri, usufruivano dei vantaggi del
regime seicentesco delle “Capitolazioni”. Un regime che era applicato agli europei in territorio
ottomano e in base al quale l’impero offriva protezione, diritti e privilegi, ai sudditi dei paesi
contraenti. Nati come trattati per la protezione dei pellegrini, le “Capitolazioni” divennero uno
strumento di penetrazione disgregativo non solo dello stato ottomano ma anche della
multiconfessionalità, ovvero di quella convivenza solidale delle diverse religioni che rappresentava
la caratteristica delle civiltà arabo-islamiche.
Costruzione delle lobby e intervento militare vanno di pari passo e sono due strumenti funzionali
l’uno all’altro. Il lavoro svolto per attrarre le comunità cristiane ed ebraiche dei paesi arabi
d’Oriente cominciò a dare frutti in seguito alla spedizione napoleonica in “Oriente”: alle truppe in
ritirata si aggregarono eminenti membri della comunità cristiana di Galilea come è il caso dei
fratelli Mikhail e Abbud Sabbagh, che andarono in Francia e acquisirono la cittadinanza francese.
Questo avveniva nei primi anni dell’Ottocento e già tra il 1840 e 1860 si scatenava nel Monte
Libano lo scontro tra la comunità drusa (di derivazione musulmano-sciita) e la comunità maronita
(cristiana legata alla Chiesa romana) che offriva alla Francia l’occasione di fare un primo intervento
militare sulle coste siriane e di proclamarsi “protettrice dei cattolici d’Oriente”.
Anche la Russia zarista cercò di costituire la propria lobby e per questo si proclamò protettrice dei
“cristiani ortodossi”, mentre all’Inghilterra non restava altro che proclamarsi protettrice degli “ebrei
d’Oriente”!
Nel Maghreb le comunità ebraiche furono trattate dai francesi come corpo separato, diverso, non
parte integrante del tessuto sociale locale, al fine di indurle al collaborazionismo con l’occupante,
farne una sorta di quinta colonna da usare contro il resto della popolazione. Un esempio eloquente
di come la creazione di simili lobby indigene separate dal resto della popolazione sia uno strumento
indispensabile del controllo coloniale è dato dall’occupazione militare dell’Algeria nel 1831 da
parte della Francia. Per molti anni la resistenza della popolazione ha impedito alla potenza
occupante di avere il pieno controllo dell’intero territorio. Spezzare l’unità della popolazione
algerina era diventato un imperativo senza il quale risultava impossibile continuare l’occupazione.
Nel 1870 Adolphe Isaac Moïse Crémieux, ministro della giustizia francese, impose la cittadinanza
francese a tutti gli algerini di religione ebraica, ed è del 1881 il “Code de l’indigénat” che distingue
tra i cittadini “metropolitani” d’Algeria (francesi ed ebrei algerini) e la popolazione maggioritaria
musulmana priva di diritti. In altre parole il potere coloniale si serve di una comunità autoctona per
rendere effettiva la propria occupazione. Nonostante questo non tutta la comunità di culto ebraico si
aggregò all’occupante: non mancano gli esempi di ebrei algerini, tunisini e marocchini che si
rifiutarono di francesizzarsi e anzi si unirono alle fila della resistenza contro l’occupazione. Alcuni,
come il tunisino George Adda o il marocchino Abraham Serfati, emergeranno come leader
nazionali delle lotte d’indipendenza; per non parlare dei molti ebrei egiziani e iracheni impegnati
nelle lotte di liberazione e nelle lotte sociali dei loro paesi. Tuttavia resta il fatto che l’intervento
coloniale, per assicurare i propri interessi, si servì di minoranze che in molti casi erano costituite
dalle comunità religiose – ebraiche o cristiane – o da gruppi sociali come i pastori nomadi, e li usò
come un grimaldello per disarticolare, destrutturare e indebolire la resistenza delle società arabe.
Per altro verso è alla formazione degli stati europei post-medievali costituiti intorno a istituzioni
centrali – le case regnanti, la cui legittimità derivava da un mandato di origine divina e implicava
un’unica, “vera religione” – che dobbiamo far risalire il modello dello Stato-nazione per principio
monolinguistico, monoconfessionale e fondato su un’unica “etnia”. Il modello della società islamica
invece che era pluriconfessionale, plurilinguistico e multietnico tanto che spesso i componenti della
stessa famiglia potevano seguire culti diversi, dagli europei era visto come una minaccia all’unico
modello di organizzazione sociale accettabile: il proprio.
Le potenze neocoloniali ancora oggi fanno tutto ciò che possono per imporre il modello dello Statonazione monolitico o monocultuale come avviene nel caso dei paesi a maggioranza musulmana. In
altre parole le comunità cristiane ed ebraiche nei paesi arabi sono incoraggiate in tutti i modi a
staccarsi dagli “indigeni” e, laddove la presenza coloniale è persistente e attiva, sono indotte a
collaborare o ad andarsene.
Conseguenza del complesso di questa politica è che tutto ciò avviene col consenso della
popolazione dei paesi colonizzatori. Un consenso che, saldamente ancorato alle ragioni già
sperimentate dell’eurocentrismo per il quale l’unico modello di società accettabile è quello forgiato
su basi etnico-religiose, è motivato con la necessità di preservare gli interessi “nazionali” e più in
generale è rafforzato dalle logiche del capitalismo globalizzato.
Il sionismo è nato in Europa con dichiarati intenti coloniali e di derivazione coloniale sono le idee
delle quali si alimenta: non può che immaginare una società in cui i cittadini “metropolitani”
godano di diritti da cui gli indigeni sono esclusi. Sono le idee coloniali interpretate attraverso griglie
mitologiche a riproporre, legittimandole, le antiche credenze relative alla superiorità del dio della
propria tribù, colui che può sottomettere e sterminare le altre. Si presuppone così una scala
gerarchica in cui i “quasi indigeni” assimilati, i mizrachi nel caso israeliano, occupano
necessariamente gli ultimi gradini assieme ai resti degli indigeni di tribù “altre”, da eliminare
appena possibile.
Dopo la fase più drammatica della grande pulizia etnica del territorio palestinese avvenuta negli
anni intorno al 1948, i sionisti dovevano ripopolare con abitanti di religione ebraica i territori già
conquistati e ripuliti e per ottenere questo risultato usarono impunemente qualsiasi mezzo per
costringere gli ebrei arabi a emigrare nel nuovo stato d’Israele. Con loro non era necessario
spolverare la mitologia della “terra promessa”: l’avevano sempre avuta a portata di mano, o di
treno. Perciò, nonostante che non avessero nessun interesse a lasciare i propri paesi d’origine, la
situazione di tensione permanente inaugurata nella regione con la creazione del nuovo stato li spinse
a emigrare. I metodi di convinzione usati dai sionisti sono sempre stati i più spicci: le bombe
piazzate nelle sinagoghe di Baghdad, di Alessandria e del Cairo, ne sono esempio. Ma gli arabi
ebrei sono stati anche merce di scambio tra il governo israeliano e quello iracheno o yemenita. Sono
merce e come tale vengono trattati: ne è testimone l’ebreo iracheno Naim Giladi che racconta il suo
arrivo in Israele insieme a una ventina di giovani coppie. Riporto tale testimonianza da un saggio di
Vera Pegna che la riprende dal n. 6 di «Perspectives judéo-arabes»: “La partenza era stata fissata per
il 14 maggio 1950. Quel giorno, avevamo indossato i nostri abiti più belli, di foggia europea, e le
donne del gruppo si erano addobbate come spose per festeggiare l’evento”. Ma, una volte sbarcati
dall’aereo, ecco che tra stupore e umiliazione: “Vedemmo arrivare due grosse braccia che portavano
una pompa enorme montata su ruote. Si avvicinarono rapidamente e, prima che potessimo reagire,
ci alzarono le vesti e cominciarono a cospargerci di una sostanza polverosa… Le donne incinte
furono colte da vomiti violenti…ne seguì un parapiglia furioso e un impiegato dell’Agenzia ebraica
disse: ma che cosa vi prende, perché vi arrabbiate? Venite da un paese arretrato e pieno di
epidemie!... Il DDT fu la prima bruciatura e la prima umiliazione inflittaci nella nostra patria”. E
non si contano le falsità sul luogo dove sarebbero andati ad abitare: doveva essere poco distante e
invece finirono, dopo ore di viaggio nel deserto senza cibo e senza acqua, in un sito dove c’erano
solo tende. “Rifiutammo di scendere… l’autista allora fece ribaltare il fondo del camion… e
cascammo tutti uno sopra l’altro su letti e bagagli, con le donne incinte, i bambini e i vecchi…”.
Nella scala gerarchica del razzismo di marca sionista gli arabi di religione ebraica sono denominati
come “selvaggi” da Ben Gurion e continuano comunque a occupare un posto privilegiato rispetto
agli indigeni di altri religioni. Ecco alcuni degli appellativi con cui sono apostrofati i palestinesi:
“bestie a due gambe”, da Begin, “scarafaggi”, da Eytan e Sharon, “coccodrilli”, da Barak...
Wasim Dahmash